TERRANOVA, Giovanni Aragona Tagliavia,
marchese di. – Nacque nel 1503 a Castelvetrano dal barone Giovanni Vincenzo Tagliavia e da Beatrice Aragona dei baroni di Avola e Terranova.
Terzogenito di cinque maschi, fu destinato alla carriera militare insieme ai fratelli minori, mentre il secondogenito Francesco divenne erede del casato per la scelta del primogenito Pietro di intraprendere la vita religiosa. Nondimeno, il suo destino fu drasticamente mutato dalla morte di Francesco, il quale nel 1512 aveva sposato la cugina Antonia Concessa, figlia dello zio materno Carlo Aragona, in conformità a un accordo prematrimoniale che, oltre a qualificare e quantificare gli aspetti materiali della dote, precisava che i futuri eredi avrebbero dovuto premettere il cognome Aragona a imperitura memoria della primazia del casato materno. Una condizione approvata dai Tagliavia che guardarono ai benefici di un’unione che consentiva loro di creare una vasta struttura di potere composta da titoli e possedimenti nella parte occidentale e in quella orientale dell’isola – da Castelvetrano ad Avola, a Terranova, a numerosi feudi e territori, agli uffici di gran conestabile e grande almirante di Sicilia degli Aragona, in altri termini comandante delle truppe di terra e di mare del Regno.
Di conseguenza, nel 1516, così come regolato dall’accordo in caso di morte del fratello, il tredicenne Giovanni sposò la cugina assumendo il ruolo di erede di due casati destinati ad assurgere ai vertici della scena del Regno in un decennio contrassegnato dalle rivolte, dai processi e dalle condanne contro alcune antiche famiglie minate dalla competizione per l’irrompere di una diversa cultura politica nel governo della cosa pubblica. Un’ascesa consolidatasi anche grazie al fatto che entrambi i casati, avvezzi al continuo formarsi di nuovi schieramenti e alle ricorrenti inversioni politiche, preferirono adottare strategie in linea con la difesa degli interessi materiali e dei rapporti con i maggiori personaggi della corte sovrana dove, in particolare, Giovanni guadagnò la protezione del segretario regio Francisco de los Cobos e la simpatia di Carlo V, grazie a una sapiente concatenazione di servigi e familiarità. Le cronache narrano, infatti, di come la sua partecipazione alle guerre condotte al fianco dell’imperatore – in Germania, in Africa, in Italia e nei Paesi Bassi – fosse stata provvida di mercedi e uffici, o ancora, di come la pratica del dono fosse tra gli elementi che favorirono la sua nomina a marchese di Terranova nel 1530.
Coerentemente con questo disegno, egli antepose costantemente il campo di battaglia alla cura dei possedimenti, affidati al padre e alla moglie, confortato dal saldo sodalizio con i fratelli: innanzitutto con Pietro, destinato a raggiungere i vertici della Chiesa palermitana, dopo il quasi doveroso passaggio da una sede minore, nello specifico il vescovato di Agrigento. La loro intesa fu, infatti, duratura e fruttuosa grazie ai vicendevoli rapporti con le gerarchie ecclesiastiche e con la Corona che ascrisse Pietro tra i maggiori esponenti del partito spagnolo presso la corte romana. Pur nondimeno, con il trascorrere del tempo, Giovanni iniziò a emanciparsi dalla tutela dei familiari, come testimoniato dall’acquisto da don Gaspare Montaperto, nel settembre del 1526, di un’ampia dimora, la cui vastità e qualità parvero in linea con il crescente ruolo del casato nel proscenio palermitano, dove si trasferì con la moglie e con i figli Carlo (v. la voce in questo Dizionario), Giuseppe e Olivia, concepiti nei ritorni nel Regno, rassicurando così i familiari sui destini del casato. Dodici anni dopo, infine, nel febbraio del 1538, la morte di Giovanni Vincenzo e la rinuncia di Pietro ai titoli e ai beni feudali lo resero titolare di tutti i possedimenti feudali dei Tagliavia.
Al tempo, era oramai un trentenne maturato dalla lunga esperienza di armi e dalla pratica del potere, pronto a occuparsi dei beni del casato e a collaborare con Ferrante Gonzaga, dal 1535 viceré di Sicilia; a seguire le direttive di Cobos che lo aveva introdotto presso Nicolas Perrenot de Granvelle e il figlio Antoine, e presso i segretari Juan Vázquez e Juan Idíaquez; a rafforzare le relazioni con Andrea Doria, con i ministri imperiali e con le gerarchie romane. Uno scenario di contatti formali e informali cui ascrivere la nomina del fratello Pietro ad arcivescovo di Palermo e la successiva candidatura al cardinalato.
Oramai tra i maggiori protagonisti della scena politica del Regno, Giovanni divise così il suo tempo tra Palermo e Messina – ovunque fosse la corte viceregia – e sporadici ritorni presso l’imperatore, riunendo con successo la dimensione privata a quella pubblica, il governo politico a quello della casa, il progetto dello spazio urbano a quello privato, grazie a un palazzo che egli arricchì via via di case ‘terrane’, case ‘solerate’ e terreni per aumentare il corpo abitato, e al giardino nei pressi della Zisa, tra i maggiori della città. E dove nel 1538, dopo la morte di Antonia Concessa, portò la nuova sposa Beatrice Luna, vedova di Antonio Cardona dei conti di Reggio, dalla quale avrebbe avuto due figlie, Francesca e Caterina.
Va infatti rilevato come per l’intero periodo in cui Gonzaga governò l’isola, Giovanni fu al suo fianco. Eppure, i loro rapporti non furono sereni e non solo perché parteggiavano per fazioni diverse, ma per il preminente ruolo di Ferrante all’interno dell’aristocrazia imperiale che, assieme al suo eccezionale valore militare e diplomatico, lo indirizzava ai maggiori posti di governo della monarchia. Di ciò Giovanni era consapevole e cercò di trarne il maggior vantaggio possibile, anche se questo fu reso difficile dal suo temperamento dal tratto imperioso esercitato spesso con i suoi pari. Avvenne, per esempio, nel periodo della sua prima presidenza, nel 1540, in occasione della controversia con l’inquisitore generale del Regno, il vescovo di Patti Arnaldo Albertini, quando il viceré era lontano, occupato in una spedizione contro il turco, e nell’isola vi era tensione per via di alcune bande di soldati spagnoli ammutinatisi per assenza del soldo.
Per quanto l’effettiva causa dello scontro fosse la proroga della sospensione regia che vietava agli inquisitori di procedere contro gli imputati di reati per i quali era prevista la condanna capitale, la lite iniziata da un episodio marginale proseguì con l’arresto degli ufficiali regi, l’intervento del consultore Andrea Arduino, la fitta corrispondenza con i ministri imperiali, fino al suo esacerbarsi quando Giovanni minacciò Albertini in presenza della Gran Corte, iniziando poi una sorta di caccia all’uomo dei familiari del S. Uffizio. Dal canto suo il vescovo scomunicò i giudici della Gran Corte e procedette in onta alle disposizioni del potere civile. Uno scontro grave e prolungato, se ancora due anni dopo il principe Filippo ordinava a Terranova di compiere pubblica ammenda. Ma a risolvere definitivamente la questione giunse la decisione dell’imperatore di abolire il privilegio concesso al tempo del suo viaggio in Italia e inviare Pedro de Góngora con la carica di visitatore del S. Uffizio, relegando Albertini all’esclusiva cura della diocesi.
Altrettanto violento fu lo scontro con Messina, quando, nell’agosto del 1539, fece arrestare alcuni corsari messinesi provocando una sollevazione popolare che lo costrinse a fuggire a Milazzo. Dopo di che, per chiudere il caso, fu necessario l’invio di ambasciatori presso l’imperatore e una composizione pecuniaria abilmente patteggiata dal viceré Gonzaga, che però mostrò come la città godesse di relazioni a corte che le permettevano di mantenere immunità lesive per gli interessi del Regno. In ogni caso tali somme si unirono a quanto deliberato dal Parlamento del 1540, accuratamente preparato da Terranova che alla fine di maggio scriveva a Cobos di come la ragione della mancata partenza per la corte imperiale risiedesse nei lavori preparatori diretti a scongiurare eventuali resistenze al donativo per via della grave situazione economica dell’isola.
In realtà, Giovanni intendeva recarsi a corte per dirimere la vicenda delle nozze della figlia Olivia con il futuro conte di Caltabellotta, Pietro de Luna e Salviati – nozze mai avvenute per una competizione sul giovane erede dei Luna che portò quest’ultimo a sposare, qualche anno dopo, Isabel Luna y Vega. Pure fu un viaggio che rimandò a lungo se, ancora nel 1542, scriveva al ministro di essere costretto a rimanere nel Regno colpito dal terremoto, con oltre quaranta città e terre rovinate nel Val di Noto, e la popolazione dispersa nella campagna per via della paura delle scosse e delle case in rovina. Quel che non aggiungeva era invece il timore che, in sua assenza, il consultore Arduino potesse diminuire il suo prestigio proprio quando Gonzaga sembrava avere intenzione di nominarlo ancora presidente.
Nomina che in effetti gli fu conferita nel 1544, e in ordine alla quale iniziò la corrispondenza con il sovrano e con il principe Filippo per illustrare come attuasse le loro istruzioni rimediando alle questioni più urgenti – la gestione del debito pubblico, le fortificazioni, le esportazioni granarie – e rendendo effettivo il donativo decretato dal Parlamento convocato ai primi di marzo: 100.000 ducati per la corte e 50.000 scudi da ricavarsi con la vendita di grani sulle esportazioni dei frumenti per rafforzare le difese del Regno. Ma al di là dell’operosa azione del marchese e del suo costante dialogo con la corte, pure il suo governo non fu immune da critiche e da compromessi, oltre al fatto che dovette fare i conti con la necessità di non far venire meno la liquidità necessaria alla regia corte rispetto alla quale i mercanti minacciavano di non investire sul debito pubblico e di chiedere lo stringente pagamento dei prestiti concessi, e fronteggiare lo scontro con l’autorità municipale messinese, da lui accusata di un’eccessiva estensione dei privilegi, di un cattivo uso della giustizia, di una pessima gestione della Zecca.
In ogni caso, il Parlamento straordinario del 26 gennaio 1545 che, tra mille difficoltà, statuì un donativo di 100.000 scudi da corrispondere mediante l’imposizione di gabelle, mostrò il suo forte ascendente personale sulle classi dirigenti del Regno. Nondimeno, si trattava dei suoi ultimi mesi di governo prima dell’arrivo del religioso Diego Córdoba, incaricato di verificare le accuse a ufficiali e organi del Regno, indagando le azioni delle magistrature e dei singoli. Soluzione scaturita dall’acuirsi dello scontro politico e dalle sue ricadute presso la corte imperiale, la visita inaugurò una nuova prassi di controllo – reiterata più volte nel susseguirsi del tempo con risultati che offuscarono la fama di alcuni personaggi fino allora protagonisti del governo.
Così, quando da lì a poco Gonzaga, nominato nuovo governatore di Milano, designò reggente del Regno Ambrogio Santapau marchese di Licodia nonostante lo sdegno di Terranova per un’investitura avvenuta senza alcun rispetto delle prammatiche del Regno, quest’ultimo comprese che era giunto il momento di recarsi a corte, da cui mancava da troppo tempo, per incontrare il sovrano, stare alla sua presenza, rafforzare le reti a livello centrale. Dal settembre del 1546 all’agosto del 1547, prima e dopo la battaglia di Mühlberg, fu quindi presso la corte imperiale, viaggiando tra Austria e Germania, e occupandosi anche delle complicate trame diplomatiche tra le dinastie italiane e il Papato. Solo nel settembre del 1547 rientrò nell’isola, da cui chiese a Carlo V di concedere al figlio Carlo l’ufficio di maestro giustiziere per il quale era disposto a pagare con denaro depositato a Genova, a rinunciare alle cariche di gran conestabile e almirante, ad assicurare che il fratello Pietro era pronto a rinunciare alla carica di cardinale.
Tuttavia, la richiesta non ebbe successo. Nonostante la diligenza mostrata alla causa imperiale, le accuse mosse alla sua attività, unite all’acceso antagonismo con Licodia, avevano infastidito il sovrano, a conoscenza delle denunce del Fisco e di alcuni memoriali del visitatore su accordi sospetti sul traffico dei grani. Meno sensibile alle pressioni dei protettori di Terranova, Carlo V diminuì quindi i rapporti con il marchese che presto si ritrovò quasi isolato per via della morte di Cobos, occorsa nel maggio del 1547, e dell’uccisione in Germania di Alonso de Idiáquez. Così improvvisamente morti naturali e morti violente modificarono gli equilibri della corte imperiale, divisa adesso tra i Granvelle, il duca d’Alba, gli eredi di Cobos – tra cui primeggiavano Juan Vásquez de Molina e Francisco de Eraso – e il gruppo di sodali capeggiati dal portoghese Ruy Gómez de Silva.
Ma Terranova non fece in tempo a elaborare nuove strategie perché la morte lo colpì, non ancora cinquantenne, nel settembre, probabilmente il 13, del 1548, dopo aver dettato al fidato notaio Giacomo Scavuzzo le ultime volontà che consegnavano a Carlo, l’erede universale, il vastissimo patrimonio degli Aragona e dei Tagliavia.
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