TERRAGLIA (fr. faïence fine, terre de pipe, cailloutage; sp. loza; ted. Steingut; ingl. earthenware)
Genere di ceramica a corpo bianco, d'impasto fine, leggiero, denso e sonoro, ricoperto d'una vernice trasparente a base di borosilicati piombiferi o no. È a frattura più o meno porosa e quindi alquanto permeabile all'acqua e scalfibile all'acciaio. Si produce con una pasta artificiale a varie proporzioni d'argilla (50 a 60%), di quarzo (28 a 40%) e di feldspato (8 a 12%); l'eccesso di un elemento o l'aggiunta di calcare (che fa abbassare il punto di cottura) distingue la terraglia "tenera" (o calcare o francese: terre de pipe) che cuoce in "biscotta" da 1140° a 1200° da quella "media" (o silicea: earthenware) e dalla "forte" (o feldspatica: iron stone) che cuoce da 1230° a 1300°.
La plasticità dell'impasto e la sicurezza di contorno che possono assumere gli oggetti, ne rendono possibile una produzione meccanica assai spedita. Ha un impiego grandissimo specialmente negli usi domestici quale surrogato economico della porcellana ed è suscettibile delle più svariate specie di decorazione anche meccanica. V. anche ceramica.
Per quanto non sia rigorosamente fissata l'epoca della sua definitiva formazione, la terraglia si può dire invenzione moderna. La sua produzione è originaria del settentrione: Francia del nord, Olanda, Paesi del Reno, Inghilterra; alla quale ultima si debbono i successivi perfezionamenti tecnici, che ne fecero un'industria d'importanza mondiale. Benché la tradizione ceramistica britannica, a torto o a ragione, assegni la paternità della terraglia a un John Dwight, possessore (1671) di un'officina vasaria a Fulham (Londra), si deve dire che, per i notevoli miglioramenti tecnici nella produzione ceramica del luogo - in particolare del gres - introdotti da due olandesi, i fratelli Elers, che impiantarono una fabbrica nel 1690 presso Burslem, e per l'impiego della silice calcinata dovuta al vasaio Thomas Atsbury nei primi del '700, la scoperta della terraglia fu propriamente opera dei ceramisti della contea di Stafford, dove l'abbondanza di materie prime e di combustibile anche fossile e la comodità delle vie acquee offrirono al genio pratico e commerciale isolano la possibilità di sviluppare intensamente una nuova e lucrosa tecnica di lavorazione. Essa, lungi da preoccupazioni di natura estetica, si fondava soprattutto sull'impiego di un'argilla bianca, o resa tale per addizione di silice calcinata e macinata. Il prodotto, che non vetrificava in cottura, benché sottoposto a un grado più alto che la maiolica, per il suo colore stesso non richiedeva il costoso bagno di smalto stannifero necessario per questa, essendo sufficiente il semplice rivestimento di una vetrina trasparente e incolore a base di piombo. La scoperta in Cornovaglia verso il 1775 di giacimenti di caolino, suggerì l'impiego di una certa quantità di queste terre che unite a feldspati, aumentarono la durezza e la resistenza al fuoco della terraglia, e per queste doti pratiche essa si impose definitivamente ai consumatori per gli usi domestici quotidiani. A Th. Whieldon, e più ancora a J. Wedgwood (1730-1795) che dal 1754 al 1759 fu suo socio, si deve riconoscere questo successo, per l'avveduto e costante miglioramento dei prodotti sia dal lato tecnico sia da quello economico mediante la sostituzione della vernice piombifera con una coperta feldspatica, la colorazione degl'impasti, l'invenzione di non più veduti aspetti esteriori delle ceramiche, l'adesione delle forme degli oggetti al gusto estetico, neoclassico, del tempo, l'applicazione su larga scala di mezzi meccanici anche nella decorazione.
Fu così che la cream-coloured ware (detta Queen's ware in omaggio alla Regina Carlotta, che ne diede patenti nel 1762), le "agate" (marmorizzazioni ottenute in corpo mediante miscele di terre di diversi colori), le "tartarughe" (o colorazioni variegate in superficie mediante colpi di spugne imbevute di varî pigmenti), la "vernice verde" (con cui si imitavano i prodotti orticoli al naturale), i "basalti", i "diaspri" (1775) resero celebre e universale il nome del Wedgwood, che, in omaggio all'arte classica, alla quale faceva ispirare a mezzo del suo socio Bentley i soggetti delle decorazioni, chiamò "Etruria" l'immenso stabilimento presso Stoke-on-Trent, ancora in piena attività, il cui motto fu "Artes Etruriae renascuntur". La sua opera fu largamente imitata in più luoghi e in specie a Leeds, con prodotti fini ed eleganti che ebbero fama anche a Burslem (fabbriche dei Davenport e di Wood), a Hanley (Spode e Copeland), ecc., mentre dal 1750 a Liverpool per opera di Sadler e poi di Green veniva attuata su larga scala la tecnica dell'applicazione dell'incisione alla decorazione in serie della ceramica.
L'esportazione di questi prodotti suscitò entusiasmo in tutta Europa, tanto più f0rte in quanto la moda britannica cominciava allora a imporsi sul continente.
Così in Francia (nel nord-est: Lunéville, Bellevue, Saint-Clément sotto l'influenza del duca di Lorena, a Douai, a Sarreguemines; a Parigi e nella sua regione: Sèvres, Montéreau, Creil, Choisy-le-Roi, Chantilly; nel centro e nel sud: Orléans, Valentine, Tolosa, Bordeaux, ecc.; in Svizzera a Zurigo e a Carouge presso Ginevra, di dove vennero i Richard. La Germania con 50 fabbriche s'inserì presto nel movimento non solo con oggetti d'uso comune, ma con busti, stufe (per es. a Berlino). Le fabbriche di Mettlach presso Saarbrück e di Frauenberg ci offrono l'esempio raro per un'impresa privata (Villeroy & Boch) di durare da quasi due secoli. Ma si debbono citare anche quelle di Aschaffenburg, di Dirmstein, di Hubertusberg, ecc., nonché quella di Altrohlau (Karlsbad), in Cecoslovacchia, di Rorstrand presso Stoccolma, ecc.
Anche in Italia la diffusione fu rapida, specialmente per la terraglia tenera, la prima ad esservi introdotta. Il più antico accenno (il cui valore merita accertamento) è di poco dopo la metà del sec. XVIII per Urbania (Casteldurante), al quale segue quello dell'anno 1776, in cui sembra che abbia chiesto invano d'introdurre il lavoro della terraglia in Sassuolo, sua patria, un Pietro Lei, tornatovi da Pesaro, dove, con i due lodigiani Casali e Callegari, aveva riattivato l'industria della maiolica. La sua iniziativa non ebbe seguito, né quella di un Giovanni Oxan, di Franconia, che nel 1782 tentò pure in Sassuolo d'impiantare simile lavoro. Invece nel 1780 alle Nove di Bassano un Pietro Poatto, reduce da una fabbrica di Trieste, ne annetteva una alla manifattura di maioliche e porcellane degli Antonibon; e del 1783 è citata la terraglia a uso inglese decorata a piccolo fuoco dalle officine dei conti Ferniani di Faenza, ai cui lavori d'arte accudiscono il Benini, il Sangiorgi, il Tomba; nello stesso tempo a Napoli due imprenditori già concorrenti per la porcellana, il Giustiniani e il Del Vecchio, si uniscono per eseguire una terraglia bianchissima, chiamata "porcellana opaca". Un po' più tardi a Roma l'incisore veneto Antonio Volpato intraprende con le terre di Civita Castellana la modellazione di statuette e di gruppi in "biscotto" di terraglia; a Este il lavoro, iniziato nel 1781, prende piede e si rafforza; nel 1797 a Torino Pier Maria Rossetti ottiene regie patenti per l'impiego della terra del Canavese e del Biellese, e così via a Lodi con le terre di Vicenza, a Bologna con l'Aldrovandi (circa l'800), a Vicenza con i Sebellin (1800) e poi con i Luzzato (1816), a Mondovì col Musso (1811), a Treviso con i Fontebasso, a Pesaro ad opera di Pietro Latti, che (1814) fondò la ditta Bennucci e Latti, a Pordenone (1823) col Galvani, a Brescia, a Pisa, a Fabriano, a Sassuolo, ecc.
Ma non dobbiamo omettere che già nel 1824 Dortù, Prelaz e Richard avevano portato a Torino la loro fabbrica di Carouge (Ginevra). Nel 1841 ne usciva Giulio di Luigi Richard per rilevare presso Milano la fabbrica di San Cristoforo già dei Tinelli (1833); mentre il padre, rimasto solo a Torino, si univa a Carlo Imoda, i cui eredi lavoravano ancora nel 1873. Da Mondovì il Musso aveva portato l'opera alla sua Savona, dove venne imitato dai Folco, dai Ricci, dai Mercenaro, mentre lo stabilimento di San Cristoforo sotto l'impulso dei Richard, in continua ascesa, assorbiva nel 1873 la fabbrica pisana del Palme, nel 1897 quella di Mondovì del Musso e sotto la ragione sociale Richard Ginori (1896) divenne la più grande fabbrica italiana di ceramiche.
Altre lavorazioni si erano nel frattempo impiantate in più luoghi d'Italia: a Fabriano, a Padova, a Lodi, a Castellamonte, e in Lombardia a Ghirla e a Laveno, dove la Società Ceramica Italiana tiene alto, essa pure, il nome dell'arte e dell'industria italiana; più recentemente è sorta a Torino la Manifattura Lenci.
V. tavv. XCV e XCVI; e v. anche maiolica.
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