Vedi TERRA SIGILLATA dell'anno: 1966 - 1973
TERRA SIGILLATA (v. vol. vii, p. 726-729)
Sommario: I. T. S. ellenistica: A) "pergamena", B) "samia", C) "megarese maggiore", D) Coppe a rilievo "pergamene", E) Coppe "italo-megaresi". II. T. s. italica: A) Aco e Sarius, B) Successorig allici, C) Ceramica Aretina, D) T. s. puteolana, E) Industria "megarese" in Sicilia, F) T. s. italo-settentrionale di Montegrotto, G) T. s. tardo-italica. III. T. s. provinciale occidentale: A) "Aretina provinciale", B) Gallomeridionale, C) Gallo-centrale, D) Vasi con decorazione applicata, E) T. s. a decorazione incisa, F) T. s. con decorazione alla barbotine, G) T. s. galloorientale e renana, H) T. S. pannonica, I) T. s. britannica, J) T. s. ispanica. - IV. Ceramiche mediterranee posteriori.
La presente voce è stata aggiornata bibliograficamente rispetto all'articolo inserito nell'estratto Terra Sigillata, pubblicato nel 1967.
I. -Ceramiche ellenistiche e romano-orientali. - Non esiste ancora uno studio complessivo, e persino una nomenclatura stabile, sostenibile e ragionevolmente descrittiva, delle ceramiche ellenistiche e romano-orientali. Per il momento è forse prematuro tentare una tale compilazione. Nel frattempo studî recenti dovuti a singoli scavi hanno apportato notevole contributo all'organizzazione e all'interpretazione dei dati esistenti.
V. specialmente: R. Zahn, in Priene, 1904; R. Heberdey, Forsch. in Ephesos, 1906; S. Loeschcke, in Ath. Mitt., XXXVII, 1912, per Tschandarli; A. Conze, Altert. von Pergamon, I, pt. 2, 1913; R. Pagenstecher, Exp. v. Sieglin, II, pt. 3, 1913, per Alessandia; A. Oxé, in Ath. Mitt., LII, 1927, per il Ceramico ateniese; W. Technau, in Ath. Mitt., LIV, 1929, per l'Heraion samio; T. Knipowitsch, Untersuchungen, ecc., I, Die Keramik röm. Zeit aus Olbia, ecc. [Materialien, ecc. IV], 1929; F. O. Waagé, in Hesperia, 2, 1933, per l'Agorà ateniese; H. A. Thompson, in Hesperia, 3, 1934, per la medesima; F. O. Waagé, Antioch-on-the Orontes, I, 1934; 3. H. Holwerda, Laat-Grieksche en Romeinsche Gebruiksaardewerk... te Leiden, 1936; A. Westholm, Temples of Soli, 1936; J. H. Iliffe, Quart. of the Dept. 0f Antiq. of Palestine, VI, 1936; F. O. Waagè, Antioch-on-the-Orontes, IV, pt. 1, 1948, con riepilogo della ricerca antecedente; F. F. Jones, in Excav. at Gözlü Kule, Tarsus, I, 1950; T Knipowitsch, La ceramica a vernice rossa, in Bosporskie Goroda I [Materialy i Jssledovaija po Archeologii SSSR, XXV], 1952, pp. 289-326 (in russo); Kenyon e G. Crowfoot, Samaria-Sebaste Reports, No. 3, The Objects from Samaria, 1958; 3. Schäfer, Terra sigillata aus Pergamon, in Jahrbuch (Arch. Anz.), 1962 (1963), c. 777 s.; H. S. Robinson, Athenian Agora, Pottery of the Roman Period, Typology, Princeton 1971.
A) Ceramica "pergamena". - Waagé, seguito dalla Jones, ha suddiviso la cosiddetta ceramica "pergamena" in ceramica rossa tardo-ellenistica ("pergamena" ellenistica) e "pergamena" del primo periodo romano. Se una valida distinzione tra questi due tipi di ceramica "pergamena" esiste (e Kenyon lo nega nella sua formulazione della Sigillata orientale A), essa si basa sull'intrusione di una nuova serie di forme influenzate dal vasellame aretino all'inizio del I sec. d. C. Altrimenti tale ceramica rimase più o meno invariata dalle sue origini intorno al 150 a. C. (Waagé, Jones) o all'86 a. C. (Kenyon, ma v. la recensione della Jones in Am. Journ. Arch., lxiii, 1959, pp. 301-2) fino alla sua scomparsa verso l'inizio del II sec. d. C. (Waagé). La sua zona di maggior diffusione, ma non per questo l'unica, si estende tra la Cilicia e l'Egitto; i vasi venivano presumibilmente fabbricati lungo tale costa in uno (secondo Waagé) o più centri (Kenyon) o in una koinè di centri non identificati (Jones, Crowfoot), le cui variazioni sono implicite nel termine "famiglia ‛pergamena' maggiore". Certamente la ceramica "pergamena" non era fabbricata a Pergamo, ma il suo originario centro di sviluppo e d'esportazione può forse localizzarsi a Samo (Crowfoot), il che complica ulteriormente il problema terminologico. La grande maggioranza della ceramica "pergamena" è rappresentata da piatti e tazze lisci; anteriormente al primo periodo romano (augusteo) i piatti venivano decorati con palmette e simboli isiaci disposti radialmente tra cerchi incisi mediante punzoni o rotelle (Charleston, tav. 1; studio dettagliato del Crowfoot, pp. 316-324), ma con l'introduzione delle nuove forme tale schema decorativo fu sostituito dall'applicazione di un unico punzone nel centro del fondo, sia di piatti che di tazze. Tali punzoni, oltre a quadrati e rettangoli privi o dotati d'incorniciatura, comprendono rettangoli a coda di rondine, quadrati a lati concavi, la planta pedis, ed altre forme che ricordano in genere i timbri della t. s. italica, ma il punzone a mezzaluna della t. s. tardo-italica manca. In tali contorni venivano comunemente inscritte espressioni di saluto e di augurio quali χάρις e κέδρος, ma sono anche frequenti nomi proprî di fabbricanti, sia greci che latini (esempi passim; la più vasta selezione è pubblicata in Antioch, iv, 1, pp. 33-36, figg. 19-21). Le coppe a rilievo "pergamene" saranno trattate più oltre.
B) Ceramica "samia". - Per la tipologia dei vasi del periodo romano provenienti dall'Agorà ateniese, si rimanda alla recente pubblicazione del Robinson. Questa classe comunque non è di primaria importanza ai nostri fini, poiché non comprende vasi decorati a rilievo da matrice o à la barbotine. È un vasellame di piatti e tazze a basso piede, in genere fabbricati con argilla ad alto contenuto micaceo, secondo le descrizioni di numerosi autori a partire dalla sua prima identificazione ad opera del Dragendorff (Bonn. Jahrb., ci, 1897) e dello Zahn (Priene); un riepilogo della ceramica e la sua bibliografia sono pubblicati dalla Jones (pp. 186-7). Robinson divide la ceramica "samia" in Classi A e B; questa ultima comprende vasi "più fini e più antichi", e comincia sul volgere dell'èra cristiana, in imitazione e competizione con la ceramica aretina liscia; "le marche di fabbrica, che appaiono invariabilmente al centro del fondo, recano il nome del vasaio o un saluto conviviale. La ceramica samia A è meno dura e di colore più chiaro sia d'impasto che di vernice; le forme sono in genere più semplici di quelle della ceramica samia B e le marche di fabbrica sono costituite da simboli" (Robinson, Agora, v, Pottery of the Roman Period: Chronology, p. 12, n. 9). Jones pone a contrasto la ceramica "samia", che "fu prevalente nella zona dell'Egeo e del Mar Nero", con la ceramica "romano-pergamena" che "fu predominante all'estremità orientale del Mediterraneo; lungo la costa anatolica, in centri che sono stati oggetto di scavi quali Efeso e Priene, entrambe venivano apparentemente usate in proporzioni più eguali. La ceramica samia A, più caratteristica, continuò anche dopo la cessazione della breve esistenza della samia B, e fu più largamente esportata". Tuttavia la ceramica "samia B" è comune in Egitto, e penetrò persino fino a Timnă e Khor Rori (antica Sumhuram) completamente al di fuori dei confini dell'Impero (Comfort in Bowen, Albright et al., Archaeological Discoveries in South Arabia, 1958, pp. 204-5, con commenti del Robinson, e Comfort, in Bull. Amer. Sch. Orient. Research, clx, 1960, 15-20). In Occidente, Waagé "ha contato oltre due dozzine di vasi samî di forme diverse nel museo di Spalato, ed in Italia ha trovato che piccole tazze samie appaiono piuttosto di frequente a Pompei ed Ercolano" (Hesperia, ii, 1933, p. 292), ma egli non fa alcuna distinzione tra "A" e "B". Soltanto la ceramica "samia A" appare a Tarso, dove rappresenta materiale d'importazione. Sia che i vasi "samî A e B" fossero o meno prodotti a Samo o in altro centro unico, è chiaro che essi non hanno alcun rapporto con i vasa Samia citati da Plauto ed altri scrittori antichi (testimonia in Waagé, Antiquity, ii, 1937, pp. 46 ss.) o con la ceramica erroneamente chiamata "samia" dall'archeologia romano-britannica, che è invece t. s. gallica e germanica.
C) La "famiglia ‛megarese', maggiore " delle coppe ellenistiche a rilievo (v. anche megaresi, vasi, vol. iv, p. 970).
Bibl.: Da aggiungere allo Zahn, Conze, Thompson, Holwerda, Waagé 1948, Jones e Kenyon-Crowfoot, già citati, gli studi speciali di F. Courby, Les Vases grecs à reliefs, Parigi 1922, capp. XVIII-XXVI, pp. 277-495, quale indispensabile punto di partenza; W. Schwabacher, Hellenistische Reliefkeramik im Kerameikos, in Am. Journ. Arch., XLV, 1941, p. 182-228; P. V. C. Baur, ibid., pp. 229-248, tredici coppe "megaresi" miscellanee a Yale; Th. Kraus, Megarische Becher, Magonza 1951, diciotto coppe "megaresi" miscellanee complete e numerosi frammenti in Magonza, con supplemento alla bibliografia della Jones; G. R. Edwards, in Hesperia, Suppl. X, 1956, coppe e matrici "megaresi" dalla Pnice; L. Byvanck-Quarles van Ufford, Les bols mégariens, in Bull. v. d. Vereen. tot Bevord. d. Kennis v. d. Ant. Besch. te 'S-Gravenhage, XXVIII, 1953, 1-21, un eccellente riepilogo generale; K. Parlasca, Das Verhaltnis der Megarischen Becher zum Alexandrinischen Kunsthandwerk, in Jahrb. d. deutsch. arch. Inst., LXX, 1955, pp. 129-154; U. Hausmann, Hellenistische Relief-becher, Stoccarda 1959, e M. A. Del Chiaro, in E.A.A., IV, pp. 970-974, s. v. Megaresi, vasi. Oltre a questi lavori, si consulti l'estesa bibliografia sul vasellame argenteo ellenistico e le matrici da esso derivate; ultima G. M. A. Richter, Ancient Plaster Casts of Greek Metalware, in Am. Journ. Arch., LXII, 1958, pp. 369-377; id., Calenian Pottery and Greek Metalware, ibid., LXIII, 1959, pp. 241-249, con citazioni.
Il termine "megarese" è impropriamente applicato ad una vasta serie di piccole coppe ellenistiche, e persino italiche, più o meno emisferiche (che probabilmente venivano chiamate ἡμίτομος ad Atene; v. la discussione dell'Edwards, pp. 83-4), con orli di sagoma varia, prive di piede o di piedestallo, decorate a rilievo ottenuto mediante matrice, a superficie più o meno lucida e di colore che può variare dal tradizionale e basilare nero attico, attraverso tonalità di grigio e di marrone, fino al rosso della sigillata. I tentativi per giungere ad una locuzione più esatta sono stati vani. Alcuni autori limitano il termine "megarese" a ceramiche relativamente d'alta data con centro in Grecia, specialmente ad Atene, e che si differenziano dal vasellame "pergameno", che è tardoellenistico e romano con centro in Asia, e dai vasi di Popilius, che rappresentano la fase italica della ceramica "megarese". Gli studiosi che definiscono la t. s. nel senso etimologico lato di "ogni ceramica decorata mediante sigilla a rilievo" possono includere vaste quantità di vasi "megaresi" sotto il titolo di t. s., ma solo alcuni di essi possono essere accettati in base al criterio della Glanztonfilm sopra enunciato. Tale gruppo di ceramica ha linee proprie di suddivisione interna indipendentemente dal colore della superficie. Proponiamo qui il termine generico di "famiglia ‛megarese' maggiore" che può racchiudere tutte le categorie. La sua inclusione nel presente contesto si giustifica in termini di preparazione generale, in vista del suo ruolo di precorritrice della t. s. occidentale sia per tecnica di manifattura che per stile decorativo.
Tenendo presente la terminologia del Courby possiamo notare i seguenti schemi decorativi: 1) le coppe omeriche e 2) le coppe a soggetto letterario e realistico che in passato venivano attribuite ad Atene e alla Beozia del III e II sec., ma vengono ora datate intorno al 200-125 a. C. (Hausmann, op. cit., p. 50) o nella seconda metà del II sec. e nel I sec. (Byvanck-Quarles van Ufford, Bulletin, xxix, 35-40), e che non ci riguardano; 3) quelle à calice végétal, ossia con petali di loto, acanto, tralci di vite, ecc. diramantisi dal centro fino a ricoprire l'intera superficie, che ebbero origine ad Atene intorno al 275 e furono in voga anche a Pergamo, Antiochia e Delo; 4) quelle à bossettes, con file di bottoncini: una categoria approssimativamente contemporanea ad Atene; 5) à imbrications, dapprima con grandi foglie embricate, e quindi con punte di foglia più piccole, lievemente posteriore ad Atene e ad Antiochia; 6) à polygones, con reticolati poligonali: una piccola categoria rappresentata intorno al 200 a Corinto, intorno al 150 ad Atene, e nel I sec. a. C. ad Antiochia; 7) à décor varié, comprendente una varietà di figure umane ed animali, "il tipo favorito e pressoché esclusivo della metà del III sec. a. C. fino al secondo venticinquennio del II sec." ad Atene, e in voga anche altrove, alla cui multiforme varietà non si può rendere giustizia con poche parole o persino con molte illustrazioni; 8) à ornamentation horizontale, in zone di meandro, motivi vegetali, figure, ecc., assai tipica di Delo e in voga anche nella Russia meridionale, a Priene, in Italia e altrove; 9) à godrons, il "tipo a lunghi petali" del Thompson, che succedette al tipo a décor varié ad Atene verso la metà del II sec.; 10) il tipo macédonien, il "tipo a semicerchi concentrici sospesi" del Thompson, degli inizî del I sec. a. C. ad Atene (cfr. vol. iv, fig. 1157, 3, 4).
La "famiglia ‛megarese' maggiore" sembra aver avuto origine ad Atene intorno al 275 a. C., donde si diffuse per l'Oriente ellenistico in luoghi quali Antiochia, poco dopo la fondazione della città, Tarso, intorno al 250, Pergamo, prima del 225 e da là a Sparta non anteriormente al 200; raggiunse Delo (cfr. vol. iv, figg. 1156, 1, 2 e 1160, sopra) intorno al 220, donde passò ad altre isole, in Asia, alla Crimea e all'Italia centrale; si spinse anche - direttamente da Atene o indirettamente attraverso altri centri - alla Macedonia, ad Alessandria, Myrina, Priene e indubbiamente altrove, in una koinè ceramica pari alla linguistica. Bisogna avvisare il lettore però che, nonostante tutte le datazioni precedenti siano sostenute dall'autorità di esperti studiosi, un inevitabile elemento di supposizione ed approssimazione è pur sempre inerente in esse; esse non sono sempre generalmente accettate, o persino compatibili con tutti i dati esistenti, compresi quelli citati nel presente articolo, e devono quindi essere considerate tentativi di datazione. Hausmann, op. cit., p. 105, nota 62, sottolinea la complessità dell'intero problema. Queste varie industrie locali ebbero ciascuna la loro storia interna d'evoluzione e di declino, com'è stato illustrato particolareggiatamente da Byvanck-Quarles van Ufford a proposito delle bols à calice végétal. La maggioranza di questi centri non sopravvisse a lungo dopo l'inizio del periodo romano imperiale.
Le coppe "megaresi", come la t. s. aretina imitano così fedelmente forme e decorazione delle coppe in argento che Wuilleumier succintamente afferma: "La ceramica a rilievo fornisce agli archeologi moderni, come alla classe povera d'un tempo, il miglior surrogato dell'oreficeria preziosa" (Trésor de Tarante, p. 81). Stampini in terracotta, copiati da originali argentei mediante i procedimenti tecnici discussi dalla Richter, op. cit., venivano liberamente usati per fabbricare matrici che possedevano naturalmente la stessa curvatura e le medesime dimensioni dei modelli metallici, a parte il restringimento dovuto all'asciugamento e la cottura dell'argilla. Il vasaio ellenistico non era quindi un artista originale nel senso del suo predecessore del V sec. o del toreuta suo contemporaneo; egli riuniva in sé caratteristiche d'entrambi, ed era forse più che altro simile al moderno "disegnatore commerciale".
Parlasca dimostra che la forma della coppa "megarese", e la decorazione che l'accompagna, erano egiziane di tradizione e proprie del primo periodo tolemaico. Thompson, del pari, analizza l'influenza egiziana sulle più antiche coppe "megaresi" ateniesi, - "un medaglione di base circondato da una raggiera d'elementi; le fronde di palma, i petali del vero loto e della nymphaea caerulea, e l'uccello appollaiato fra i rami". Ma nel posteriore décor varié "l'artigiano-artista ellenistico si è ora reso conto dell'opportunità ch'egli possiede e trova qui ampio scopo per il dispiego della miriade di motivi che formano il repertorio della sua arte: Cupidi che volano e cavalcano, satiri in tutte le pose satiresche, copie in miniatura di gruppi statuarî favoriti, uccelli e delfini, maschere, ghirlande, foglie e fiori, materiali decorativi che trovano i loro paralleli, e forse persino i loro diretti derivati nella t. s. decorata italica". Schreiber vorrebbe considerare Alessandria la capitale toreutica del mondo ellenistico (criticato dal Dragendorff, Bonn. Jahrb., ciii, 1898, pp. 104-108); Wuilleumier con pari zelo promuove la causa di Taranto (ma Byvanck-Quarles van Ufford vede un'origine alessandrina nell'argenteria tarentina, Bull., xxxiii, 1958, 43-52); ma nella maggioranza delle capitali e dei centri culturali maggiori certamente esistevano abili orefici i cui prodotti erano oggetto di agevole scambio tra luogo e luogo e venivano copiati dovunque (cfr. Byvanck-Quarles van Ufford, Bull., xxx, 1955, 42-43).
Come abbiamo già notato, il motivo principale della coppa "megarese" era un piccolo bottone centrale, a volte liscio in esemplari posteriori, ma più spesso rappresentato da un rosone, una maschera o altro simbolo circolare, con petali, foglie o embricazioni diramantisi da esso. Lo schema delle più antiche coppe ateniesi consiste nei lunghi petali sottili della nymphaea caerulea che si alternano a tralci verticali di vite o felce; in altre fabbriche troviamo i petali più larghi della nymphaea lotos e quelli pendenti della nymphaea nelumbo. L'acanto diventa straordinariamente comune in argento, argilla e marmo; viene specialmente impiegato a Delo (Courby, fig. 81) e, nonostante la sua apparizione su coppe egiziane, deriva probabilmente la sua ispirazione da un centro più settentrionale. Un'interessante evoluzione della nymphaea nelumbo consiste nella soppressione delle venature interne e nella sua trasformazione in un contorno per figure (Courby, fig. 82; Byvanck-Quarles van Ufford); ed è sotto questa forma che il motivo si trasferisce ai vasi italo-"megaresi" di Popilius in Italia. Persino in coppe che non appartengono al tipo a calice la disposizione a raggiera di foglie più corte, embricazioni e godrons (strigilature) rappresenta una caratteristica regolare dell'organizzazione spaziale.
All'orlo superiore l'area decorativa veniva di regola definita da una o più fasce di ovoli, meandri o simili, e naturalmente la decorazione di alcune coppe consisteva soprattutto in tali zone orizzontali, che potevano includere figure umane ed animali, girali vegetali, ecc.
Stretti rapporti di varia specie esistono tra le ceramiche "megaresi" e la t. s. italica e gallica, ma degni di speciale rilievo sono i vasi à imbrications che hanno i loro discendenti nella t. s. gallo-meridionale, e à godrons, che sono i più vicini nel tempo alle fabbriche occidentali. A proposito di quest'ultimo gruppo Thompson afferma: "La varietà di decorazioni è limitata. Vi sono lunghi petali a punta ricurva intramezzati o meno da linee di perle; vi sono petali a punta aguzza e vi sono petali a girali separati da linee di perle. È da notare che, a prescindere completamente dalla sobrietà della decorazione parietale stessa, una marcata semplicità esiste anche nella decorazione supplementare: la zona superiore di solito manca o è ridotta ad una fila di ovoli (con o senza ‛frecce' intermedie) [cfr. l'esemplare lievemente più elaborato, vol. iv, fig. 1156, 4, sopra]. A volte tale zona sembra pallidamente rappresentata dalle minuscole foglie che coronano le linee di perle". Schwabacher divide queste coppe "decorate a lingue" in due gruppi, quelle in cui le "lingue" (ossia, lunghi petali o strigilature) sono separate solo dalla costolatura ch'esse hanno in comune (cfr. vol. Iv, fig. 1156, 3), e quelle in cui le "lingue" sono completamente separate l'una dall'altra mediante infrapposte linee a rilievo, file di perle o semplicemente spazi vuoti. Thompson sospetta che la strigilatura originariamente venne a far parte del repertorio "megarese" proprio ad Atene, donde passò ai vasai delî e ad altri. Quando queste ultime coppe attiche abbiano cessato d'essere fabbricate non è chiaro, ma sembra che esse non siano arrivate ad essere contemporanee alla ceramica aretina sotto il principato d'Augusto (Thompson, pp. 458-9).
Le firme di vasaio su coppe "megaresi" attiche non sono comuni. Courby elenca Aphroditos, Apollodoros, Dionysios e Polemon su vasi à godrons; Dionysios ed Ariston produssero anche altri tipi di coppe (per altre firme attiche, v. Thompson, pp. 451-2). A Delo egli enumera Athenaios, Demetrios, Gorgias, Menemachos e Philo, insieme ad un numero di monogrammi che forse vogliono indicare Parios, Daos ed altri; dalla Crimea o dall'Asia Minore kipbeic e ΠΟCCIΔΟC o ΠΑCΙΔΕΟC; da altri luoghi in Oriente Arkesilas, Asklepiades, Eubanor, Μαρώ (= Maro), ΟΥΙΛΙC (= Vilis); e finalmente L. Atinius, Calonus, Lapius, C. Popilius e L. Quintius in Italia. Le firme sono evidentemente una caratteristica tarda della "famiglia ‛megarese' maggiore", un ritorno ad una pratica abbandonata da circa due secoli, dal tempo in cui i ceramisti attici usavano firmare vasi dipinti. I primi vasai "megaresi" forse si considerarono soltanto degli anonimi artigiani la cui principale qualifica professionale consisteva in un abile plagio degli orefici, mentre i vasai di coppe à godrons e i fabbricanti italici giunsero a ritenersi, sia pure con limitata giustificazione, artisti indipendenti ed originali. Wuilleumier nota che tra la metà del IV sec. e la fine del III a. C. gli orefici stessi tendevano a non firmare i loro lavori (op. cit., pp. 131-2).
D) Coppe a rilievo "pergamene". Sono la risposta dei vasai ellenistico-romani alla fase antecedente delle coppe "megaresi" oppure una loro versione di quella. A Tarso esse fanno la loro prima apparizione intorno al 150 a. C., e finiscono col soppiantare le "megaresi". Si distinguono dall'altra ceramica "megarese" non soltanto per datazione ed area generale di manifattura, ma anche per stile decorativo, tipo d'argilla, e per l'intenzione (spesso irrealizzata!) di produrre una bella superficie rossa. "L'argilla è color cuoio, bruno-rossa, rosso-arancione o rossa, la sua consistenza granulosa varia da fine a media, e contiene della mica. Le pareti sono relativamente spesse specialmente alla base... Gli ornamenti a rilievo seguono un certo schema. L'orlo liscio è separato dal resto del vaso mediante una singola linea in rilievo o mediante una stretta fascia bordata da linee rilevate. Tale fascia può essere lasciata vuota o venir riempita con un fregio o un motivo che si ripete. La decorazione principale, che consiste generalmente in un motivo vegetale, ma può comporsi di figure, copre l'intera area disponibile e viene raramente suddivisa. Alla base vi è di solito un rosone, o per lo meno uno o due anelli a rilievo. La varietà della decorazione è quasi illimitata..." (cfr. vol. iv, fig. 1159). Verso la fine del II sec. a. C. "i motivi che si trovano nella fascia sotto l'orlo sono l'ovolo, capre saltanti, cervi, delfini, rosoni. Il corpo del vaso è di solito ricoperto di foglie del tipo dell'acanto o semplicemente ovali, o dei due tipi alternati... Le coppe diventano sempre più di moda... la guilloche (treccia) fa la sua apparizione tra i motivi usati per decorare la stretta zona superiore... Gli esemplari del primo periodo imperiale sono in declino... La fabbrica è povera... La forma si è allentata in una sagoma allargata e poco profonda, e la decorazione è sparsa ed incoerente. La decorazione a costole, che appare per la prima volta [all'inizio del I sec. d. C.] è simile a quella su coppe vitree del tempo. Foglie stilizzate, viti e tralci orizzontali, od ornamenti vegetali sparsi formano il repertorio usuale, spesso impresso così male da essere quasi irriconoscibile". Differenze di fabbrica e stile entro il gruppo "pergameno" a rilievo corroborano l'ipotesi che questa fabbrica, come altre ceramiche "megaresi", veniva prodotta in una varietà di luoghi diversi. (Le precedenti citazioni dall'opera della Jones p. 177 e le sue numerose illustrazioni delle figg. 138-142, messe a confronto con la fig. 1157, 1, dell'articolo di Del Chiaro [v. vol. iv, p. 971] esemplificano chiaramente la confusione di terminologia, criteri ed attribuzioni che regolarmente s'incontra nelle discussioni sulla t. s. ellenistica). Le coppe "pergamene" a rilievo sono quindi vicine nel tempo alle coppe di Popilius e alla t. s. aretina d'Italia e devono senza dubbio aver influenzato il loro sviluppo.
E) "Coppe italo-‛megaresi'". Questo termine viene qui proposto per la classe di coppe del tipo "megarese" fabbricate in Italia, sinora note in genere col nome di coppe "di Popilius" o "di Lapius" dal nome dei due produttori più noti. Esse si devono classificare separatamente dalla ceramica "megarese" ellenistica perché: 1) venivano prodotte nell'Italia centrale ad Ocriculum (Otricoli), Mevania (Bevagna), Tibur (Tivoli), Cosa e probabilmente altrove, e perché 2) nonostante abbiano decorazione in comune coi vasi di Delo, tuttavia esse posseggono certi motivi decorativi caratteristici, e forme e stile generale che sono loro proprî (Courby, pp. 418, 420; Fraus, in Röm. Mitt., lx-lxi, 1953-4, p. 75-84).
In un più lontano futuro, lo studio delle coppe italo-"megaresi" dovrà cominciare dalla vastissima collezione di disegni eseguiti dal compianto L. Ohlenroth; ma per il momento il punto d'inizio è costituito dal lavoro di Frances F. Jones, Bowls by Popilius and Lapius, Record of the Princeton Art Museum, XVII, 1958, pp. 21-40, 54, che elenca 37 vasi del genere con illustrazioni e bibliografia principale; da aggiungere: E. Stefani, Not. Scav., CXL, 1942, figg. 4-5 (la fig. 5 è firmata l. qvincti), e A. De Agostino, in Stud. Etr., XXIV, 1955-56, p. 264-266; v. anche M. Siebourg, in Röm. Mitt., XII, 1897, pp. 40-55; A. Oxè, in Bonn. Jahrb., CXXXVIII, 1933, p. 81-86, e la critica negativa fattane da L. Ohlenroth, in Germania, XXXIII, 1955, p. 43-45; R. Paribeni, in Not. Scavi, 1927, pp. 374-8 (matrici di Tivoli); Th. Kraus, op. cit.; N. Lamboglia, in Arch. Glass., ii, 1959, p. 85-91 (Tindari); e citazioni nei lavori menzionati; v. anche l'imminente studio della ceramica trovata a Cosa, di M. T. Moevs-Marabini. Alcune coppe italo-"megaresi", in passato considerate genuine, devono ora certamente essere ritenute falsificazioni moderne.
Al pari delle coppe e della t. s. "megarese" ellenistica, le coppe italo-"megaresi" sono prodotte mediante matrice; a prescindere da pochi esemplari eccezionali, la parte decorata è emisferica con un caratteristico orlo liscio, concavo in senso verticale, senza manici (fig. 807). I ceramisti italo-"megaresi" apparentemente non produssero piatti lisci, come fecero gli aretini, né ricoprirono di solito i loro prodotti con Glanztonfilm o altra copertura di superficie; l'impasto assorbe acqua e forse non era adatto a contenere liquidi. Da un piccolo rosone, cerchio, o altra base instabile, di solito si diramano foglie rigide e schematiche, o altri disegni vegetali; motivi di riempitivo vengono usati liberamente per colmare gli spazi creati dall'allargarsi del contorno; le parti superiori sono delimitate da due o più fasce orizzontali di linee ondulate, meandri, ghirlande, festoni, ecc., ma, stranamente, non di ovoli. (Per la singolare coppa di Alessandro alla battaglia di Arbela, firmata da Popilius, cfr. Hartwig, in Röm. Mitt., xiii, 1898, pp. 399-408, e Chase, in Bull. Boston Mus. of Fine Arts, xlv, 1947, n. 260, pp. 38-42). Le ceramiche italo-"megaresi" e "megaresi ellenistiche" hanno in comune alcuni motivi favoriti, per esempio strigilature e girali vegetali, ma sostanzialmente i due stili differiscono in modo riconoscibile; Kraus nota in una predilezione italica per disposizioni assiali e per vividezza e forza di rilievo, "la differenza tra il genio italico e il greco".
Fino a poco tempo addietro matrici di fabbricanti erano state trovate solo a Tivoli, e le coppe provenivano dalla limitata regione di Populonia, Cosa, Tarquinia, Cerveteri, Toscanella, Viterbo, Civita Castellana, Sovana e Roma; a N degli Appennini ed a S di Roma esse erano rare o sconosciute, e soltanto due esemplari al di fuori dei confini d'Italia sono noti al Comfort (Vegas, Ampurias, xv-xvi, 1953-54, 345, fig. 2; ed un frammento proveniente da Alicante definito "megarese" da Lafuente, Mus. Arqueol. de Alicante, fig. 15; le due coppe dalla necropoli punica di Chullu, Numidia, citate da Gsell, Fouilles de Gourava, pp. 44-45, non appartengono necessariamente alla ceramica italo-"megarese"). Tuttavia di recente una matrice frammentaria è venuta alla luce a Cosa (170-75 a. C.), e Lamboglia ha trovato un frammento italo-"megarese" ed una matrice affine a Tindari in Sicilia. Dal punto di vista stilistico i ritrovamenti di Tindari non appartengono ai vasi italo-"megaresi", ma piuttosto ai "megaresi" ellenistici, e sembrano aver rapporti con un tipo di t. s., prodotto localmente. Essi sembrano datare dalla prima metà del I sec. d. C., ma studî ulteriori dovranno determinare la loro importanza nel quadro generale delle ceramiche imperiali romane. Sulla base della forma arcaica delle lettere e dell'ortografia (cfr. G.I.L., 12, 418-424) e delle somiglianze decorative con le coppe ellenistiche, Courby ha suggerito che il periodo di produzione del vasellame italo-"megarese" sia esteso approssimativamente dal 250 al 100 a. C. Dopo tentativi di datazione nel I sec., appare ora chiaro dalla stratificazione di Cosa - praticamente il solo contesto archeologico che ci informa su queste coppe - che esse ebbero inizio al principio del II sec., se non alla fine del III, e che esse terminarono contemporaneamente alla prima ceramica aretina e di Aco-Sarius. Questa datazione modificata della ceramica italo-"megarese" lascia insoluti molti problemi; anche a prescindere completamente dalla stratificazione, la somiglianza stilistica esistente tra essa e la ceramica aretina ci forza praticamente ad assumere qualche rapporto fra le due, e tuttavia il numero di coppe italo-"megaresi" pubblicate è troppo esiguo per essere ragionevolmente distribuito per un periodo di circa 175 anni; queste coppe non mostrano né l'evoluzione stilistica né la diffusione commerciale che ci aspetteremmo durante un tale periodo; i nomi greci sono notevolmente scarsi. La nuova datazione, tuttavia, rende l'origine della ceramica italo-"megarese" contemporanea agli inizî della commedia romana; Popilius di Ocriculum e Mevania introduceva sui mercati locali ceramiche italicizzate di stile greco allo stesso momento e nello stesso spirito in cui Plauto di Sarsina forniva l'italianizzata fabula palliata ai teatri. Non è qui il luogo di trattare in particolare l'ellenizzazione del "rustico Lazio" al principio del II sec. a. C., ma le vittorie romane a Cinoscefale (197 a. C.) e Pidna (168 a. C.) chiaramente stimolarono l'adattamento e la romanizzazione di modelli greci correnti in più di un campo artistico.
II. -Terra sigillata italica. - La t. s. italica fu largamente prodotta a S delle Alpi in tempi e luoghi diversi a partire dal principio del periodo augusteo fino ad un tempo indeterminato nel II secolo. Acquistò ben presto il nome generico di ceramica "aretina", che tuttora ritiene. Arezzo probabilmente godeva ancora della sua supremazia quale centro ceramico quando Plinio scrisse: Maior pars hominum terrenis utitur vasis. Retinent hanc nobilitatem et Arretium in Italia, et calicum tantum Surrentum, Hasta, Pollentia, in Hispania Saguntum, in Asia Pergamum. Habent et Trallis ibi opera sua et in Italia Mutina (Nat. hist., xxxv, 160-161); e forse anche quando Marziale compose: Sic Arretinae violant crystallina testae (1, 53) e Arretina nimis ne spernas vasa monemus (xvi, 98). Ma quando Isidoro di Siviglia (ob. 640 d. C.) scrisse Aretina vasa ex Aretio municipio Italiae dicuntur, ubi fiunt; sunt enim rubra (Etym., xx, 4, 5) non soltanto gli Arretina vasa in senso ristretto, ma persino la t. s. in senso lato, avevano da tempo cessato di esistere. Altri riferimenti a ceramiche romane imperiali da parte di autori antichi sono meno precisi di quanto si vorrebbe, sia per cronologia che per allusioni. Soltanto poche sottospecie della t. S. italica sono state identificate sulla scorta di evidenza archeologica; alcune di esse comprendono vasi sia lisci che decorati, mentre altre sembrano limitarsi agli uni o agli altri. Firme, sia su matrici che su vasi lisci, sono quasi universali. Per elenchi completi, v. il Catalogo di firme su t. s. italica dell'Oxé, ed. Comfort, in corso di stampa.
A) Aco e Sarius. La ceramica "di Aco", così chiamata dal suo principale produttore, non è t. s. vera e propria poiché, oltre ad altre differenze, non possiede la caratteristica Glanztonfilm o altro tipo di copertura applicata, tranne, occasionalmente, una vernice bruna; tuttavia i suoi rapporti cronologici, stilistici e tecnologici con certi gruppi di t. s. sono sufficientemente stretti da giustificarne una breve trattazione nel presente contesto. Fino alla pubblicazione del copiosissimo materiale raccolto dall'Ohlenroth, le migliori fonti per lo studio di questa ceramica e di gruppi affini sono: Déchelette, Vases céramiques, i, pp. 31-41, le relazioni degli scavi di Gergovia in Gallia, v, 1947 e ss., e del Magdalensberg in Carinthia I, cxlix, 1950 e ss.; per ulteriori citazioni v. anche Comfort in Bowen e Albright, Archaeol. Discoveries in South Arabia, p. 202. Durante la maggior parte del principato di Augusto e forse anche sotto Tiberio, la ceramica "di Aco" venne fabbricata a Cremona e forse in altre località dell'Italia settentrionale da artigiani sia italici che greci, per esempio Norbanus, Buccio, Acastus, Hilarus, C. Aco C. 1. Eros, Diophanes, Antiochus, ecc. Contrariamente alle coppe italo-"megaresi", essa fu prodotta in quantità considerevoli. Concentrata in Piemonte, fu esportata su vasta scala nella Gallia e nella Carinzia, e in proporzioni minori nell'Arabia sud-occidentale, Palestina, Spagna, Belgio, i castella del Reno (cfr. Hagen, Bonn. Jahrb., cxxii, 1912, pp. 376-9 e Lelmer, ibid., pp. 421-435, tutta da Xanten) e Württemberg.
La sua forma più caratteristica fu un alto bicchiere prodotto mediante matrice (che influenzò la forma del bicchiere aretino C. V.A., Metropolitan Mus., i, U.S.A., 9, tav. 29, 2, la cui zona principale esterna era di solito coperta da un motivo di piccoli triangoli aggettanti, lunghi da 1 a 3 mm, fittamente disposti e sistemati con cura, come un acquazzone di virgole (Oxé), o una grattugia (Loeschke) o una raspa (Labrousse), spesso con dei pannelli triangolari risparmiati al fondo. È difficile concepire in qual modo minuscoli triangoli di dimensioni uguali e graduate abbiano potuto essere impressi nella soffice argilla delle matrici con tale meccanica precisione di motivo, sia mediante rullini o a mano libera con una stecca; non esistono tracce di falsariga. Una o due fasce di motivi decorativi ripetuti, molto più semplici dei complicati meandri, ecc., della ceramica "megarese", possono dividere il campo decorato dall'alto bordo liscio che viene spesso aggiunto per aumentare la profondità del recipiente. Il nome c-aco o qualche altro nome, scritto con cura in lettere pronunciate e rotonde e talvolta fiancheggiato da teste umane, può interrompere questa zona o può essere iscritto altrove; troviamo anche delle iscrizioni conviviali più elaborate (Déchelette, op. cit., p. 34; Aschemeyer, Germania, xxxvii, 1959, 290). La forma e lo schema decorativo testé descritti, che paiono essere i più primitivi, sono diretti ed italici, o forse gallo-italici, poveri di raffinatezza ellenica nonostante i nomi greci degli artigiani e gli occasionali echi greci nelle fasce orizzontali, e la decorazione è miniaturistica nei suoi concetti di triangoli e motivi di bordura. Nonostante la sua fragilità, questo tipo di vaso piacque al gusto degli abitanti di Gergovia e del Magdalensberg più delle coppe aretine decorate (Labrousse, in Gallia, vi, 1948, 71), benché non vi fosse avversione per le tazze ed i piatti "aretini" lisci a superficie rossa importati in entrambe le località. Non si è riusciti ad identificare alcun precursore convincente di questa categoria ceramica; essa sembra essere emersa già totalmente sviluppata. Col tempo, tuttavia, elementi più cosmopoliti sia di forma che di decorazione penetrarono l'officina di Aco; l'evoluzione è illustrata da Déchelette, op. cit., figg. 13-15, 23, l'ultima delle quali si avvicina alla forma della fig. 24, un ampio boccale a due manici firmato l.sarivs.l.l.svrvs. Ma sebbene la ceramica "di Aco" non abbia immediati antecedenti apparenti, da essa discendono due gruppi di derivati, oltre al bicchiere aretino già citato.
Prima è la ceramica di Sarius con i suoi successori italosettentrionali (fig. 808). Sarius, è vero, produsse vasellame nel primitivo stile di Aco, ma persino i suoi primi tentativi erano ricoperti da una superficie rossa imitante l'aretina (Walters, Cat. Roman Pottery in the Brit. Mus., p. 44, fig. 37), ed apparentemente è a lui dovuta l'introduzione di figure umane di dimensioni maggiori (Déchelette, op. cit., fig. 24) le quali furono usate anche dai vasai italo-settentrionali che seguirono. Poiché i prodotti di Sarius ci sono molto meno noti di quelli di Aco, e poiché il suo vasellame non penetrò nelle province (sebbene la sua firma a Cortona si trovi nell'immediato territorio aretino), la sua datazione è meno ben documentata di quella di Aco. Egli ed Aco hanno molto in comune e vengono spesso trattati insieme, ma in verità vi sono fra di essi tangibili differenze che verranno chiarite da ulteriori studî. Per i successivi sviluppi di questa "famiglia", v. la sezione F.
B) La "famiglia" gallica, in due rami, è la seconda. Ohlenroth ha indubbiamente ragione nell'osservare che gran parte della cosiddetta ceramica di Aco a Bibracte e Gergovia (a cui possiamo aggiungere Xanten) non è affatto di fattura italica, ma è prodotta con argilla di Lezoux e mostra idiomi decorativi locali (Rei cret. Rom. Faut. Acta, ii, 1959, pp. 41-47); i motivi di vite ed acanto, come pure lo schema à godrons, sono di fatto adattati dalla "famiglia ‛megarese' maggiore" (fig. 809). Tuttavia la forma tipica del bicchiere, e l'uso di piccoli triangoli aggettanti quale decorazione, sono nello spirito italo-settentrionale. Lo è pure la convenzione delle firme degli artigiani, nonostante la maggioranza degli scarsissimi cocci recanti lettere frammentarie che provengono da Gergovia non suggeriscano nomi di lavoranti di Aco finora noti dall'Italia settentrionale. L'altro ramo della "famiglia" gallica appartiene alla sfera delle varie ceramiche "a spina" comuni nella Gallia e di alcune ceramiche decorate a rullo (Hatt, Gallia, v, 1947, pp. 279-280). Ma queste fabbriche sono tanto lontane dal tema di questo articolo da non richiedere ulteriore esame.
C) Ceramica aretina. V. vol. i, s. v. aretini, vasi (A. Stenico).
Da aggiungere alla sua bibliografia: A. Stenico, La Ceramica Arretina, I: Museo arch. di Arezzo: Rasinius, I, 1960, il primo fascicolo di una complessiva serie, e Revisione critica delle pubblicazioni sulla ceramica arretina (vasi decorati), Milano 1960.
D) Ceramica puteolana. Soltanto nel 1873 e nel 1874, quando Di Criscio nei suoi scavi rinvenne una grande quantità di vasellame liscio e decorato, si riconobbe che questa città era stata un centro della manifattura di terra sigillata. I ritrovamenti, che si erano già dispersi in Germania e Francia, furono descritti (ma non illustrati) particolareggiatamente da Bruzza, Bull. dell'Inst., 1875, 242-256. A prescindere da tale articolo, non esistono monografie sulla t. S. puteolana, sebbene Dragendorff, Bonn. Jahrb., xcvi, 1895, 54-55; 63-65, tavv. iv-vi e Oxé, Arret. Rel.-Gef. v. Rhein, xl, 110, tav. lxx, 311-323 e Comfort, Am. Journ. Arch., xlvii, 1943, 321, figg. 2-4, vi dedichino incidentali commenti ed illustrazioni. Il materiale illustrato dal Dragendorff e dall'Oxé è a Berlino e a Dresda; la collezione di frammenti lisci e decorati appartenente al Louvre (ex Museo Guimet) è illustrata dal Comfort in Rei cret. Rom. Faut. Acta, v-vi, 1963-4, p. 744. Esistono scarsi frammenti nel British Museum e nell'Ashmolean Museum come pure nei musei di Napoli e di Pompei (ma non di Pozzuoli). Sebbene gli antichi autori, da Varrone a Marziale, parlino occasionalmente di ceramiche sorrentine e piuttosto spesso di quelle aretine e cumane, essi ignorano la ceramica puteolana; evidentemente essa non era ritenuta sufficientemente caratteristica.
L'industria puteolana produsse principalmente piatti lisci, non coppe prodotte mediante matrice. Il catalogo di firme dell'Oxé elenca 56 vasai, più i loro schiavi, che, sicuramente o possibilmente, lavorarono in tal luogo; oltre al loro rinvenimento negli scavi originarî, secondo le liste del Bruzza, op. cit., e del C.I.L., x, 8056, tali marchi sono largamente, se non densamente, distribuiti per tutto il mondo romano augusteo. Queste firme, come le aretine, sono comprese in rettangoli di uno o due linee, ed in planta pedis, ma i fabbricanti puteolani contribuirono al repertorio con il loro caratteristico marchio rotondo col nome in linee orizzontali circondato da una ghirlanda. Oltre a questo tipo di marchio, agli artefici puteolani può anche essere dovuto lo sviluppo di nuove forme di coppe o pissidi, ma in generale la loro ceramica liscia assomiglia all'aretina in tutti i suoi aspetti esteriori. Se gli scavi originarî di Pozzuoli non avessero avuto luogo, la nostra conoscenza attuale della ceramica liscia puteolana sarebbe pur sempre considerevole (come del resto lo è quella di altri tipi di t. s. italica non aretina), ma la sua provenienza ci rimarrebbe ignota.
Nei confronti dei vasi a rilievo, tuttavia, la situazione è ben diversa. Oltre alla ceramica liscia, il maestro-vasaio N. Naevius Hilarus ed alcuni dei suoi schiavi produssero vasi a rilievo di cui tutti gli esemplari, tranne i pochi nei musei di Napoli e di Pompei e quelli illustrati dal Comfort, loc. cit., sembrano derivare dagli scavi originarî. Soltanto in grazia dei ritrovamenti del 1873-74 (pubblicati dal Dragendorff in misura sufficiente da giustificare il commento dello Stenico circa "un atmosfera comune di gusto che avvicina Puteoli ad Arezzo") non ci troviamo oggi quasi totalmente all'oscuro sulla t. s. puteolana decorata, che rimane un importante campo di ricerche per il futuro. In attesa di più approfondita conoscenza possiamo congetturare con Dragendorff-Watzinger, Arret. Reliefker., pp. 97-99 (nonostante l'aspetto della documentazione tenda a trarre in inganno), che la centauromachia, come pure diversi altri tipi figurati, vennero adottati da Naevius dal seriore repertorio perenniano di Arezzo, con alcune ovvie modifiche di dettagli, e forse che Pharnaces Rasini di Arezzo divenne Pharnaces Naevi di Pozzuoli (Stenico valde dubitante). Naevius usò per lo meno tre stili decorativi: 1) un programma unificato e complesso circondante l'intero vaso, completo d'alberi e d'altri motivi di riempitivo (centauromachia), 2) figure umane più o meno isolate, a volte alquanto povere di motivi di riempitivo ed a volte generosamente dotate di ghirlande, maschere, ecc. e, 3) foglie e fiori stilizzati, archi, aste puntate con spirali, ecc., ripetuti in schemi privi d'ispirazione fin troppo densi e ricchi mentre le figure umane sono completamente assenti o ridotte alla funzione di particolari decorativi. In spirito e tecnica questi vasi possono a stento distingnersi da alcuni dei prodotti di M. Perennius Bargathes, Rasinius, P. Cornelius ed altri maestri aretini, benché la superficie interna del pezzo British Museum L 81 mostri pronunziate tracce del tornio che sono insolite nelle vere coppe aretine da matrice, e sebbene la caratteristica firma di Naevius, N•N•H in una piccola tabella ansata, sia dissimile da qualunque altra rinvenuta altrove. Naevius si dimostrò originale anche nella sua scelta di molti particolari ornamentali, quali ovoli, fogliame in bordi e festoni, ecc., che possono servire da criteri per l'attribuzione dei vasi. Ma nessuna indagine approfondita è ancora stata tentata per stabilire la posizione di Naevius nella storia dell'arte, né tale indagine si può fare indipendentemente da un simile studio dell'arte aretina da cui Naevius in gran parte dipese.
La cronologia di Naevius, e dell'industria puteolana in generale, è abbastanza chiara. È stato suggerito, senza che ne esista prova, che le più antiche fabbriche puteolane antecedettero quelle di Arezzo; più probabilmente però, tale industria cominciò poco dopo l'aretina. Coppe coniche della Forma Haltern (Loeschcke) 8 con le firme puteolane di Antiochus (in ghirlanda) e Rufius sono presenti ad Oberaden intorno al 10 a. C. (Oxé, in Albrecht, Romerlager in Oberaden, p. 46); otto coppe simili prodotte da Naevius ed i suoi schiavi si trovano fra i ritrovamenti seriori ad Haltern, prima del 16 d. C. (Oxé, in Stieren, Bodenaltertümer Westfalens, vi, p. 26); inoltre, le firme gallomeridionali augustee imitarono il caratteristico stile puteolano. A giudicare dall'evidenza di diverse coppe intatte di Naevius a Pompei, è probabile che la sua attività abbia continuato per lo meno fin entro il terzo venticinquennio del I sec. d. C., se non fino al principato di Domiziano, e forse la ceramica liscia in uso a Pompei nel 79 d. C. era anche in parte d'origine puteolana. L'industria in generale, e l'officina di Naevius in particolare, continuarono quindi per almeno due generazioni e probabilmente più.
Fu Naevius l'unico fabbricante puteolano di coppe da matrice? Oxé (Catalogue of Signatures, n. 1491, nota) afferma che Rasinius di Arezzo "lavorò colà, e lo si può dimostrare", ed abbiamo notato che forse Pharnaces Naevi = Pharnaces Rasini. D'altra parte, nessuna firma di Rasinius viene elencata dal Bruzza. La questione della manifattura di coppe da matrice a Pozzuoli da parte di Rasinius deve rimanere in sospeso.
E) Industria "megarese" in Sicilia. Oltre alle prove di un'industria "megarese" locale a Tindari, Lamboglia trovò un frammento di t. s. a rilievo della stessa argilla granulosa locale e con punzoni decorativi disposti in un semplice schema ripetitivo simile a quelli della ceramica tardo-italica (Arch. Class., ii, 1959, pp. 87-91). L'industria di t. s. che se ne presume appartiene alla metà del I sec. e, al pari di quella ispanica sua contemporanea, resistette l'incursione della t. s. gallo-meridionale in Italia dopo il 50 d. C. circa. La scoperta di questa fabbrica può illuminare la cronologia dell'importazione della t. s. italica nella Bretagna (Comfort, Hommages... Grenier [Coll. Latomus, lviii, 1962], pp. 448-456).
F) Ceramiche italo-settentrionali (o della Valle del Po). Le ceramiche spesso chiamate genericamente t. s. italo-settentrionale o della Valle del Po non sono state studiate a fondo o sistematicamente e, a prescindere da Montegrotto, il luogo od i luoghi della loro fabbricazione non sono determinati in base a metodi archeologici. Il riferimento di Plinio a Modena quale centro ceramico non è ancora stato convalidato per quanto riguarda la t. s. decorata, sebbene certi nomi ivi trovati in concentrazione possano indicare un'industria in t. s. liscia. Tuttavia una considerevole produzione ceramica fu certamente localizzata nell'Italia settentrionale, e numerosi dati epigrafici vengono forniti da Gregorutti, in Archeografo Triestino, n. 5., vi, 1879-80, pp. 292-311; vii, 188o-81, pp. 115-136, pp. 221-234; v. anche Pais, C.I.L., v, Suppl. Ital., 1080. Ulteriori dati e commenti si trovano nell'articolo di Ohlenroth, Italische Sigillata mit Auflagen aus Rätien und dem römischen Germanien, in 24-25 Ber. d. Röm.-germ. Komm., 1934-35, pp. 234-254, che non si occupa di t. s. italo-settentrionale per sé ma degli esemplari che gli ornamenti appliqués spesso imposti agli orli verticali di piatti altrimenti privi di decorazione, quali originarono ad Arezzo (cfr. Dragendorff-Watzinger, Arret. Rel.-Ker., tavv. 39-42, e Stenico, Matrici a placca, ecc., in Arch. Class., vi, 1954, pp. 43-77) e furono abbondantemente impiegati in Italia settentrionale da L. Gellius, L. Mag( ) Vir( ) ed altri. L'industria, che derivò da Arezzo, cominciò sotto Augusto e continuò entro il II sec. d. C. (Fransioli, La necrop. rom. di Madrano, in Jahrb. Schw. Ges. f. Urgeschichte, xlvii, 1958-59, p. 57 ss.). La distribuzione "normale" della ceramica si verifica principalmente attraverso il bacino del Po, e si estende lungo le due coste dell'Adriatico fino ad Ancona e Spalato, rispettivamente; si riscontra anche verso E piuttosto densamente attraverso la Carinzia e la Jugoslavia del N (Noricum meridionale e Pannonia Superior), diminuendo e terminando a Carnuntum e Belgrado; verso O la distribuzione si esaurisce a Nizza. Al di fuori di quest'area "normale" solo le firme di L. Mag( ) Vir( ) ed A. Terentius, due dei produttori più prolifici, attraversarono gli Appennini e raggiunsero Roma; Fuscus è a Fiesole; Achoristus ed Agilis sono all'Auerberg presso Schöngau in Bavaria; Serra è a Vechten; A. Terentius è a Cartagine, Nea Cartagine e Tarragona; Philadelphus è a Tarragona, e forse Eutichus è a Poitiers. In confronto all'esportazione imponente d'Arezzo, e specialmente in considerazione del fatto che i padroni di fabbriche italo-settentrionali indipendenti furono molto più numerosi degli aretini (Oxé ne elenca 145 e 125 rispettivamente; ma le statistiche sono alquanto ingannevoli), tale distribuzione testimonia uno sforzo debole; ma i produttori aretini formavano un gruppo relativamente compatto - che forse sarebbe giustificato chiamar "lega" -, mentre abbiamo scarsa ragione di supporre che molte botteghe individuali italo-settentrionali fossero grandi secondo criterî aretini o che esse fossero sufficientemente centralizzate per sviluppare procedimenti commerciali efficaci.
La nostra conoscenza dei vasi italo-settentrionali prodotti mediante matrice è stata recentemente chiarita da A. Serena Fava, Una ignota produzione di sigillata padana nel Museo di Bologna, in Rei cret. Rom. Faut. Acta, iv, 1962, pp. 45-74; v. anche Knorr, Töpfer u. Fabr. verz. T.-s. d. ersten Jhdts., figg. 2 e 3, e Déchelette, op. cit., 1, figg. 23 e 24. Questo materiale, insieme ai vasi inediti di Aquileia e Trieste, forma il nucleo della documentazione disponibile nei confronti della t. s. italo-settentrionale da matrice. La Glanztonfilm appare composta ed applicata meno accuratamente che ad Arezzo e Pozzuoli. Il cratere a piedistallo continua ad essere usato, ma la sagoma più caratteristica consiste in una coppa da matrice svasata e poco profonda, lievemente ristretta alla sommità, con un alto orlo concavo o convesso, due manici ed un basso piede ad anello. Questi vasi sono connessi alle ceramiche di Aco e Sarius, con cui hanno in comune non soltanto la sagoma tipica e quella del bicchiere, che pure ricorre, ma persino alcune delle occasionali firme e specialmente i motivi decorativi di coppie di linee tracciate con la riga o di archi, che dividono l'area in pannelli e triangoli meccanicamente riempiti di rosoni, palmette, foglie embricate ed altra vegetazione stilizzata, ed anche piccole figure umane, che richiamano alla mente la produzione di "Bargathes A" e ceramisti affini di Arezzo. Tuttavia, prendendo le mosse da un nucleo di vasi decorati con "vesciche pennute", un tipo ornamentale in forte concentrazione a Bologna, la Fava isola un gruppo maggiore a caratteristiche interne sue proprie, separato sia da Arezzo che da Aco-Sarius. Alcuni vasi della Valle Padana pongono pure in rilievo le figure umane, di dimensioni maggiori ma spesso non uniformi. Tali figure possono poggiare su una linea di base loro propria o su di un piedistallo che fa parte del loro stampino, ma il vasaio non introduce altra linea di base generale che serva ad unificare la composizione; egli accosta semplicemente gli 8 o 10 tipi che gli accade di possedere, insieme od una larga foglia o due. Queste figure sembrano prodotte mediante timbri vecchi e logori importati o imitati da Arezzo, per esempio le figure Atellane, il Sileno-e-Dioniso della famosa scena sacrificale introdotta da Cerdo Perenni e in seguito adottata da P. Cornelius, o un adattamento di una vendemmiatrice Aretina (ma non Perenniana?). La Fava suggerisce che Ateius possa aver contribuito alla trasmissione di tali motivi, ma ciò rientra nel campo delle ipotesi. Del pari insoluto è il problema della localizzazione dell'industria padana, a prescindere da Montegrotto. Bologna, Modena, Cremona ed Aquileia potrebbero venir prese in considerazione quali luoghi di produzione, ma le prove sono scarse o mancano del tutto. Può darsi persino che la fabbricazione non avvenisse in un centro unico.
Un tentativo di ricostruire tale industria potrebbe prendere le mosse dall'attività di Aco sotto Augusto. Ma intorno al 15 d. C., mentre la bottega di Aco era ancora attiva, un invasione di influssi da Arezzo, sotto forma di un'ondata di schiavi o liberti di secondo o terzo ordine, in possesso di alcuni vecchi stampi, dotati d'insufficiente abilità tecnica e senza ideali artistici apparenti, traversò gli Appennini per permeare, e finalmente sopraffare la tradizione antiquata di Aco. Se Aco aveva inclinazione per i facili guadagni, egli può aver personalmente promosso tale movimento "modernizzante"; egli certo ne subì le conseguenze, ed ancor più le subì il suo successore Sarius. I nuovi venuti arricchirono il loro repertorio di alcuni piccoli elementi decorativi, ma non ricercarono attivamente nuovi modelli né spiegarono originale ispirazione artistica. Sotto Tiberio e Caligola questa industria di trapianto estese il suo dominio sulla vecchia produzione incrementata, e mantenne o conquistò un considerevole mercato locale e provinciale da cui indubbiamente ricavò profitti pecuniarî. Ma i suoi prodotti non furono mai altro che roba mediocre, imitazioni secondarie e trascurate di due tradizioni migliori.
F1) Ceramica di Montegrotto. La sola notizia edita consiste in un commento incidentale su tre frammenti a Roma conservanti tracce interne di spugna quali raramente si trovano nella t. s. aretina ma sono fortemente caratteristiche della produzione italo-settentrionale, e con motivi decorativi molto simili a quelli dei Perennii di Arezzo. Tale commento è il seguente: "Ludwig Ohlenroth... ha di recente studiato un gruppo di ceramica italo-settentrionale proveniente da Montegrotto presso Padova, che consiste non soltanto di abbondante materiale attribuibile ad Aco e alla sua cerchia..., ma anche di ‛frammenti ricoperti da ingubbiatura rossa simile alla sigillata, in complesso chiaramente posteriori, ma con delicata ornamentazione e ripetutamente firmati clemens tra le decorazioni. Tuttavia non appaiono ancora calici ansati, soltanto tazze'" (Comfort, Mem. Amer. Acad. in Rome, xxiv, 1956, p. 53, nn. 16-18). Questo vasellame chiaramente rappresenta un sottogruppo delle fabbriche della Valle del Po, probabilmente di data relativamente antica.
G) T. s. tardo-italica. L'ultima fase italica della sigillata vera e propria è rappresentata dalla cosiddetta "t. s. tardo-italica" prodotta da un gruppo di ceramisti composto di Sex. Mu(rrius ?) Fes(tus), L. Rasinius Pisanus, Sex. Mu(rrius ?) Pi(sanus ?), L. Nonius Florus e C. P( ) P( ); la loro produzione di vasellame da mensa liscio e decorato fu gigantesca ed essi devono aver impiegato un vasto numero di lavoranti, ma, al contrario dei lavoranti aretini, questi subordinati evidentemente non avevano alcun peso od importanza, ed i loro nomi non ci sono stati tramandati. Il loro centro principale si trovava probabilmente in Etruria ma non ad Arezzo; a voler giudicare dai nomi dei fabbricanti o dalle marche lunate in cui essi spesso firmarono, tale centro può essere localizzato nell'ager Pisanus o nell'ager Lunensis. Secondo il criterio già adottato per altre categorie di t. s., l'abbondante ceramica liscia non riceverà qui ulteriore considerazione.
I seguenti studî, ed i riferimenti ivi citati, offrono un'introduzione alla t. s. tardo-italica: J. Déchelette, Vases céramiques, I, pp. 113-116; T. Campanile, Not. Scav., 1919, pp. 264-275 (Talamone); H. Comfort, Am. Journ. Arch., XL, 1936, pp. 437-451 (sintesi); A. Stenico, in Arch. stor. Lodigiano, III, 1955, pp. 3-12; H. Klumbach, in Jahrb. Röm.-germ. Zentralmus. Mainz, 3, 1956,pp. 117-133 (area di distribuzione); A. Stenico, Ceramica arretina e T. s. tardo-italica, in Rei Cret. Rom. Faut. Acta, II; 1959, pp. 51-61 (derivazione di motivi). Ma il materiale non è stato studiato a fondo, e gran parte di quanto è stato scritto in proposito dev'essere accettato con riserva.
Le principali caratteristiche della t. s. tardo-italica sono: 1) l'uso precipuo della tazza carenata Dr. 29 e, sebbene meno frequente, quello della coppa emisferica Dr. 37, entrambe popolari in Gallia; non si riscontrano la tazza cilindrica a rilievo Dr. 30, contemporaneamente anche popolare in Gallia, e crateri a piedistallo del tipo aretino e puteolano; il profilo interno del piede è gallico in apparenza. 2) Firme possono apparire sia tra le decorazioni, ossia facenti parte della matrice, o possono venire impresse sulla coppa già completata. Esse si trovano di solito in planta pedis o in mezzelune; occasionalmente quelle che appaiono tra le decorazioni sono in lettere ad intaglio retrograde, il che dimostra che il punzone era stato fabbricato per applicazione su vasi già ultimati. 3) L'impasto dei vasi è notevolmente più spesso e più pesante di quello della ceramica aretina; la superficie è pure meno liscia e raffinata. 4) La tecnica e l'esecuzione della decorazione sono estremamente mediocri e povere d'originalità; i contorni sono deformati; il modellato interno sparisce: punzoni difettosi vengono usati senza reticenza; spesso è impossibile identificare le figure. La disposizione dei punzoni è del pari priva di gusto. Gli ovoli sono impressi a rovescio; le relative proporzioni non vengono rispettate; lo stesso stampino (persino se si tratta di firme!) viene ripetuto ad libitum o si alterna ad altri, spesso sotto una serie di archi; la composizione delle figure non si riferisce ad alcun episodio o storia; qualunque motivo complicato, sia pure la più semplice girale di vite, esula dalle capacità della maggior parte dei vasai; sono comuni le embricazioni ed i pannelli di linee ondulate che echeggiano la t. s. gallo-meridionale, ma che appaiono infinitamente più crudi e grossolani. Tuttavia non bisogna contrastare troppo recisamente la ceramica aretina e la tardo-italica. Non tutti gli esemplari della prima conservano la grazia e la perfezione tecnica dei primi prodotti perenniani; quasi tutti i difetti della t. s. tardo-italica sopraccitati sono in un certo senso adombrati nelle fasi posteriori della ceramica aretina. La principale differenza tra la tarda produzione aretina e la t. s. tardo-italica sembra consistere nel fatto che la prima decadde restando pur sempre nei limiti delle sue tradizioni, mentre Pisanus ed altri sembrano aver intenzionalmente inaugurato una nuova tradizione ed un culto d'incomprensibilità e di cattiva lavorazione.
La t. s. tardo-italica fu dapprima sommariamente considerata un'imitazione della t. s. gallo-meridionale; abbiamo già notato alcune somiglianze fra le due ceramiche, e molte altre se ne potrebbero elencare. Approssimativamente dal tempo di Nerone la t. s. gallo-meridionale divenne sufficientemente comune in Italia da fornire facili modelli ai vasai tardo-italici. Ma questi ultimi furono anche fortemente influenzati dalla produzione aretina. Stenico (op. cit.) illustra dieci motivi rappresentativi e ne discute le implicazioni. Tale influenza aretina sembra aver avuto origine nelle fasi intermedie e posteriori della produzione d'Arezzo, com'è logico supporre, piuttosto che ai suoi inizî; essa proviene da una varietà di botteghe aretine che comprendono i Perennii, Annius, Cispius, P. Cornelius, C. Gavius, Publius, Cn. Ateius e fabbriche producenti e facenti uso di decorazioni applicate per gli orli di coppe e piatti. Così, benché i vasai tardo-italici, trasferendosi in una nuova sede ed adottando un nuovo idioma decorativo, si siano distaccati nettamente dalla tradizione aretina, essi ne ritennero anche numerosi elementi. Nell'osservare i motivi decorativi derivanti da fonti galliche ed aretine non bisogna trascurare categorie che fino ad ora non sono state riscontrate nella t. s. tardo-italica. Per ragioni imprecisate, il suo repertorio non comprende la maggior parte delle classiche figure umane aretine principali (un satiro vendemmiatore, una danzatrice con kalathiskos ed una figura comica atellana costituiscono delle eccezioni), né include la decorazione schematica a base di linee rette o curve miste a particolari floreali convenzionali. È notevole l'assenza dei temi erotici. Dal repertorio gallico ci saremmo attesi non soltanto le versioni transalpine dei temi succitati, ma anche la croce di Sant'Andrea, i godrons, il nautilus, ed altri elementi che furono invece ignorati. Inoltre, se i vasai tardo-italici introdussero alcune figure nuove da fonti non ancora identificate, essi non le ottennero più mediante calchi diretti dal vasellame argenteo, che cessò di costituire una fonte di modelli per l'industria ceramica. La t. s. tardo-italica mostra scarso spirito inventivo o curiosità sperimentale; si accontentò di relativamente pochi punzoni, di derivazione e combinati senza immaginazione.
Le maestranze lavorative sotto gli imperatori della famiglia Giulio-Claudia e Flavia provenivano naturalmente da zone del tutto diverse da quelle del periodo tardo-repubblicano ed augusteo, e possiamo soltanto discutere sulle origini etniche dei lavoranti di t. s. tardo-italica e sulle loro intenzioni nell'affastellare insieme questi elementi eterogenei e spesso informi. Le matrici che ne risultarono non sono soltanto lontane dallo spirito ellenico, ma anche da quello italico, dal romano, dal gallico, dal germanico, o da qualunque altro. Ci si domanda se questa "arte" rifletta le campagne orientali di Corbulone, Vespasiano ed altri che introdussero in Italia come schiavi elementi così estranei alla tradizione greco-romana da poter fraintendere o usare erroneamente alla rovescia l'ovolo, il più comune dei bordi decorativi, o capaci di convertire la firma del fabbricante in un elemento ornamentale. Ma che pensare dei cittadini romani che permisero che questo genere di lavoro uscisse dalle loro botteghe? Essi non erano certo dotati di maggiore integrità artistica dei loro schiavi. E che dire del pubblico acquirente che tollerò questo genere di mercanzia? La produzione coeva d'argenteria, bronzi, gemme, marmi, mosaici, ecc. rimase ad un livello relativamente alto per via della classe facoltosa per cui questi articoli di lusso venivano creati; nella t. s. tardo-italica notiamo, meglio che altrove, la decadenza del gusto e delle esigenze artistiche del popolo romano (non delle province!). La classica tradizione ellenica d'unire l'utile al bello era svanita; l'ottenere una solida utilitarietà costituiva l'unica preoccupazione sia dell'artigiano che del consumatore. Come Stenico osserva in un contesto diverso, "la terra sigillata tardo-italica esprime... il gusto particolare del momento... un'espressione genuina, documentazione di uno stadio e di un aspetto del linguaggio figurativo... estremamente popolaresco". L'erronea interpretazione della tradizione ellenica, il diluirsi dell'elemento etnico romano, e la confusione generale di concetti caratteristici dell'arte della t. s. tardo-italica non solo si ritrovano con le stesse caratteristiche nella vita pubblica contemporanea quale ci viene tramandata dagli storici - sebbene non da Plinio - e nella moralità pubblica quale ci viene tramandata dagli autori satirici; ma, nella sua modesta maniera, essa costituisce anche un presagio sintomatico del cataclisma posteriore convenientemente definito come la caduta dell'Impero Romano.
Principalmente a causa delle precedenti considerazioni la cronologia e l'area di distribuzione della t. s. tardo-italica sono particolarmente significative. Piatti lisci prodotti da vasai tardo-italici si rinvengono a Pompei, ma le loro coppe a rilievo mancano. Ne deduciamo quindi che, mentre l'industria tardo-italica di ceramica liscia fu istituita sotto Vespasiano, o anche prima, essa non s'interessò di ceramica decorata fino al periodo di Domiziano o anche più tardi. Quindi la datazione assoluta proposta per la t. s. tardo-italica decorata, dal Comfort nell'Am. Journ. Arch., xl, 1936, p. 447-8, è troppo bassa, nonostante la cronologia relativa possa conservare un certo valore; un'evoluzione stilistica sembra aver avuto luogo durante diversi decennî, ma è impossibile precisare quanti. Soltanto nuove ed accurate relazioni di scavo potranno fornire la risposta definitiva. Nel contempo Stenico, considerando lo stretto rapporto tra la t. s. aretina e quella tardo-italica, pone la questione della continuità cronologica. Sia pur senza prove, io tendo a credere che i vasai tardo-italici ricevettero i loro modelli aretini da ceramisti aretini liquidanti la loro industria, piuttosto che mediante una specie di ricerca antiquaria tra gli scarti dei vasai d'Arezzo, e che quindi la ceramica decorata aretina (e puteolana) veniva ancora prodotta per lo meno un cinquantennio dopo la data terminale del 25-30 d. C. proposta da Dragendorff-Watzinger.
Per quanto riguarda la distribuzione, la pianta del Klumbach comprende ceramica liscia al pari della decorata, e la si deve quindi usare con cautela per i nostri fini. I principali rinvenimenti di t. s. tardo-italica decorata hanno avuto luogo in Toscana, lungo la costa ligure, a Roma ed Ostia, ed in Austria ed Ungheria; esemplari sporadici appaiono altrove, compreso Alicante. Sull'organizzazione distributiva dell'industria e sui fattori che promossero l'esportazione in certe direzioni e l'impedirono in altre conosciamo ancor meno di quanto si sappia per la ceramica aretina, che possedeva per lo meno un mercato militare negli accampamenti augustei.
III. -Terra sigillata provinciale occidentale. - La t. s. provinciale occidentale costituisce il più complicato dei raggruppamenti maggiori: la sua storia complessiva si estende dall'inizio dell'èra cristiana fino a tutto il IV sec.; fabbricata soprattutto nella Gallia meridionale, centrale ed orientale ed in Germania, fu anche prodotta in Spagna, Britannia, Raezia e Pannonia; numerose "scuole" d'arte ceramica si svilupparono e si dissolsero durante la sua storia; fu esportata a grandissime distanze ed in vastissime quantità; quantitativi ingenti ne sono stati rinvenuti sia nei luoghi di manifattura che in lontane zone di consumo; si conoscono i nomi di numerosissimi fabbricanti; in generale, grazie alle ricerche di studiosi francesi, tedeschi ed inglesi, le categorie maggiori ci sono relativamente ben note, mentre studî olandesi, belgi, svizzeri, spagnoli ed ungheresi ci hanno fatto conoscere molte fabbriche locali. La maggior parte delle officine produsse ceramica sia liscia che decorata, per lo più firmata dal lavorante sul pezzo ultimato, o nella matrice della ceramica decorata, o su entrambi; secondo i criteri finora seguiti; non ci occuperemo in particolare del vasellame liscio. Il più completo manuale sull'intero argomento è quello di Oswald e Pryce, An Introduction to the Study of Terra Sigillata treated from a Chronological Standpoint, Londra 1920, pp. 286 con 85 tavole, (adesso alquanto superato); meno estesa è l'opera di J. Déchelette, Vases céramiques ornés de la Gaule romaine in 2 volumi con molte illustrazioni, Parigi 1904; v. anche l'articolo di Comfort in Pauly-Wissowa, Suppl. vii, 1940, cc. 1295-1352, s. v. e l'articolo di P. Wuilleumier, Arte Galloromana, nell'Enciclopedia Universale dell'Arte, v, 1958. Un'abbondante letteratura si occupa di fasi locali più ristrette dell'industria provinciale di t. s.; citazioni selezionate vengono fornite più oltre.
A) Ceramica "aretina provinciale". Oxé, Arret. Reliefgefässe vom Rhein ('933) ed il suo articolo Die Funde von Haltern seit 1925, in Stieren, Bodenaltertümer Westfalens, vi, 1944, pp. 15-76, stabiliscono l'esistenza, durante i primi due decenni dell'èra cristiana, di importanti succursali di fabbriche aretine o d'altre industrie ceramiche italiche in uno o più centri imprecisati della Gallia o della Germania, aventi lo scopo precipuo di provvedere ai bisogni della frontiera militare settentrionale. Egli basa la sua tesi sul fatto che, dal punto di vista economico, appare generalmente improbabile che tali vasti quantitativi di vasellame fossero trasportati da Arezzo al territorio del Reno; egli si basa inoltre sul grande numero di firme, specialmente dalle botteghe di Cn. Ateius e dei suoi liberti, che appaiono in quantità in località gallo-germaniche ma non in Italia; sul ritrovamento delle matrici stesse a Magonza e Weisenau - queste ultime appartenenti alla forma "di Aco" e firmate [p.a]tti (?); e infine su alcune coppe a rilievo di tradizione aretina che sembrano tanto grossolane da farci escludere una loro origine italica. Ciò nonostante, quasi tutta la produzione provinciale di Ateius, Attius (?) ed altri fu probabilmente ottenuta da matrici spedite dall'Italia; ai fini artistici, le coppe a piedistallo che ne risultano sono aretine senza influenza alcuna da parte dell'arte locale. Oxé ritiene che la fine dell'industria aretina extraterritoriale di Ateius e la rivolta di Florus e Sacrovir nell'anno 21 d. C. sono connesse, ma vi sono indicazioni che tale produzione possa aver soddisfatto il fabbisogno civile per ben venticinque anni ancora (Hawkes e Hull, Camulodunum, i, pp. 189-190, con la recensione del Comfort, in Am. Journ. Arch., liii, 1949, pp. 328-331). Qualunque sia stata la causa ed il corso del suo declino, i vasai gallo-meridionali furono pronti a colmarne subito il vuoto. La tesi generale di una "t. s. aretina provinciale" riceve una certa corroborazione dalle firme di C. Sentius nell'Oriente ellenistico, di M. Vettius a Noricum o in Pannonia, di S. M. T. e S. M. P. in planta pedis nella Spagna meridionale, e specialmente da dieci timbri di l. terent(ius) l(egio) iiii ma(cedonica) su tazze e piatti grigi e rossi, privi di decorazione, di norinale sagoma italica, rinvenuti ad Herrera de Pisuerga, databili prima del 40 d. C. (García y Bellido, Herrera de Pisuerga, 1a: Campaña, 1962, pp. 29-37). Si deve peraltro notare che in Rei cret. Rom. Faut. Acta, iv, 1962, pp. 27-44, E. Ettlinger ha seriamente indebolito la teoria di un'industria "provinciale aretina" almeno riguardo al gruppo di Ateius, che ella ritiene fabbricato esclusivamente ad Arezzo, o, come seconda possibilità, con un ramo vicino a Lezoux in Alvergna, ma in ogni caso non nella regione renana.
B) T. s. gallo meridionale. La t. s. gallo-meridionale verrà discussa più oltre sotto le voci locali di Montans, la Graufesenque e Banassac; ma in vista delle somiglianze di stile, l'impiego di personale comune, e la generale contemporaneità, una rassegna preliminare sembra consigliabile.
1) Generalità. V. specialmente Oswald-Pryce, op. cit., pp. 234-242; Knorr, Töpfer und Fabriken verziertier T.-s. des ersten Jahrhunderts, 1919; Oxé, Die ältesten T.-s. Fabriken in Montans am Tarn, in Jahrb. d. deutsch. Arch. Inst., Arch. Anz., xxix, 1914, c. 61-76; Frühgallische Reliefgefässe van Rhein, Francoforte s. M. 1934, e la sua dettagliata e severa recensione in Bonn. Jahrb., cxl-cxli, 1936, pp. 325-394, del lavoro di Hermet, La Graufesenque, Parigi 1934; e gli articoli di Oswald sulle volute (Antiq. Journ., xxxi, 1951, pp. 149-153) ed altri motivi (Journ. Rom. Stud., xlvi, 1956, pp. 107-114) adattati dal repertorio aretino dai vasai gallo-meridionali.
Questi autori assumono quale oggetto di fede e di ragione, che l'industria della t. s. abbia mosso in fasi schematiche da Arezzo alla Gallia meridionale, alla Gallia centrale e alla Gallia orientale. Ma le testimonianze esposte nella Sezione A, e recenti osservazioni di Vertet, hanno fatto vacillare la credenza nella tradizionale espansione progressiva e ordinata dal S al N; centri "tardi", quali per esempio Lezoux, appaiono attivi molto presto, e centri "antichi", quali per es. Montans, sembrano aver continuato la loro attività più a lungo di quanto supposto. L'avanzare supposizioni nuove e azzardate non rientra nei fini del presente articolo, ma si ammonisce il lettore che parte di quanto segue potrà essere soggetto a revisione sulla scorta di una migliore evidenza stratigrafica e di una reinterpretazione dei criteri stilistici.
Cominciando a Montans (ed altrove?) intorno al 10-15 d. C., vasai gallo-meridionali fabbricarono ceramiche sia lisce che a rilievo. Tra queste ultime, le più antiche appartennero alle Forme 11 (cratere a piedistallo) e 29 (coppa carenata); il loro carattere "primitivo" si rivela nell'eccessiva strettezza delle zone superiori della Forma 29, nel disegno angolare ed irregolare delle linee curve che vennero più tardi perfezionate in fluidi ed aggraziati fregi vegetali sinuosi, nelle forme delle firme che ricordano la tradizione aretina e puteolana, ed in molte caratteristiche del susseguente stile "nobile" (fig. 813). Questi vasi primitivi furono fabbricati solo per un breve periodo a Montans e forse anche in altri centri non ancora identificati, ma essi penetrarono fino a Basilea, in Britannia, ed in altre località della zona del Reno, dove sono stati rinvenuti in depositi insieme a vasi di Ateius. Intorno al 25-30 d. C. si sviluppa lo stile "nobile", caratterizzato nella Forma 29 da orli stretti, da modanature rigate bordate da bottoni relativamente larghi separanti le zone, da piccoli fregi vegetali accentuati da coppie di piccole foglie senza gambo nella zona superiore, o da ghirlande orizzontali dello "schema a lyra" nella medesima posizione; nella zona inferiore e nella Forma 11 incontriamo frequentemente il quieto, semplice ed aggraziato fregio vegetale poco profondo. Altri particolari decorativi di questo stile sono abbondantemente illustrati nei lavori citati ed altrove, per esempio da Vaes, Ann. Inst. arch. Luxembourg, lxxiv, 1943, pp. 159-208.
La Forma 11 merita una menzione speciale a causa del suo stretto rapporto tipologico con Arezzo e della sua eccezionale grazia decorativa che, insieme a quella della contemporanea Forma 29, Oxé definisce "l'acmè artistica della t. s. gallica". Ciò naturalmente è questione di preferenza personale; altri possono prediligere la maggior ricchezza e varietà del susseguente periodo "sovraccarico" (Oxé) o "splendido" (Hermet), ma nessuno può negare l'attraente aspetto dei vasi della Forma 11, che purtroppo sono tutti modestamente anonimi (figg. 810 e 811 esemplari rispettivamente anteriore e posteriore), e di quelli coevi dell'affine Forma 29 prodotti da Senicio, Volusus ed altri artisti del primo periodo. I vasi editi della Forma 11 sono così concentrati lungo il Reno ed il suo retroterra che alcuni autori sono stati indotti a localizzare la loro manifattura in questa zona, forse a ragione; ma materiale edito ed inedito a Roanne, Narbonne, Ensérune ed altrove nella Francia meridionale e nella Spagna fa supporre del pari l'esistenza di altri centri. Infatti, a Coulanges presso Moulins, Vertet ha recentemente scoperto forni di vasai ed una matrice frammentaria che potrebbe facilmente venir scambiata per aretina; questi ritrovamenti sono decisivi, e possono forse indicarci la fonte degli esemplari di Roanne (Déchelette, i, figg. 7, 8). Vertet vorrebbe anche classificare alcuni vasi della Forma 11 quali ceramica augustea di Lezoux (Gallia, xx, 1962); esemplari seriori probabilmente provennero da La Graufesenque. Ma sia che essi appartengano alla sfera artistica della Gallia meridionale o della centrale, essi rappresentano antichissimi e spontanei modelli di integrità artistica.
La t. s. gallo-meridionale costituisce un adattamento nuovo e sostanzialmente indipendente della tradizione artistica greco-romana. Bisogna ammettere che essa adottò dalla tradizione italo-"megarese" e da Arezzo e dal provinciale Ateius e da Pozzuoli le Forme 11 e 29 e numerosi motivi decorativi, - la "voluta barocca" o nautilus, i godrons, i fregi vegetali larghi e stretti, la ghirlanda orizzontale, la lyra, gli archi dritti o capovolti, ecc.; ma tuttavia le combinazioni, il trattamento, ed il tono generale differiscono chiaramente da quelli della produzione italica anteriore e contemporanea. Persino i tentativi "primitivi" illustrati da Oxé (1934), Knorr ed Hermet, sebbene a volte maldestri, mostrano un chiaro ed originale senso di direzione e di proposito, e, una volta impiantata, l'industria della t. s. gallica proseguì per la sua strada ed elaborò idiomi suoi proprî; per esempio sviluppò la croce di Sant'Andrea ed i fregi vegetali in maniera assai complicata e con grande varietà di fogliame, viticci, baccelli, ecc., ed introdusse molti tipi individuali d'esseri umani, d'animali e d'uccelli, ma in genere evitò intere categorie aretine, per esempio figure umane, palmette, arredamento domestico, ecc.
Possiamo sottolineare alcune differenze molto generiche. 1) Non si cerca mai di stabilire una relazione tra il possessore della tazza o della coppa gallo-meridionale e la decorazione del vaso stesso. Invece le decorazioni a scheletri su vasi aretini costituirono messaggi specifici tendenti a ricordare all'osservatore che fra breve egli sarebbe morto, ergo vivamus dum licet esse bene (Petron., Satyricon, 34); le scene di caccia agli animali e le centauromachie invitavano ad innocui voli d'immaginazione in cui l'osservatore poteva immaginare se stesso sotto forma di giovane, intrepido ed agile atleta; le numerose scene simposiastiche ed erotiche chiaramente suggerivano umana emulazione del rilievo; trofei carichi d'armi galliche ravvivavano lo spirito patriottico, ecc. Non tutto il rilievo narrativo aretino fu di questa specie, ma gran parte di esso lo era. Mediante l'abolizione delle figure umane, i vasi gallo-meridionali eliminarono ogni consimile reazione personale alle loro ceramiche. Le sole eccezioni sono le esortazioni all'ebbrezza, all'amore e all'orgoglio di tribù provenienti da Banassac; i gruppi erotici gallo-meridionali (Hermet, tav. 124) sono scene grottesche di ordine psicologico differente e inferiore. Altre figure umane, per esempio gladiatori, toreri, e specialmente le statuarie figure mitologiche dei vasai gallo-centrali del II sec., non inducono alla loro identificazione. Un'analisi psicologica della differenza esistente tra i vasai italici e gallici ed i loro rispettivi acquirenti sarebbe interessante, ma esula dagli scopi del presente articolo e dalla competenza dello scrivente; basti dire che molti versi d'Orazio forniscono sottotitoli precisi per scene su vasi aretini (Oxé, Röm.-ital. Beziehungen zur früharret. Reliefgef., in Bonn. Jahrb., cxxxviii, 1933, specialmente 86-98), ma che la Gallia non produsse né le scene né un Orazio. 2) La Gallia meridionale usò criteri selettivi nell'adottare motivi privi di figure umane. Per esempio, non riscontriamo i familiari motivi aretini del tipo a linea-retta-e-palinetta (estremi esempî caratteristici sono citati in Stenico, Ceram. aret... Pisani-Dossi, nn. 111, 112, 154, 180, e spesso in tutta la letteratura aretina); il motivo che vi si avvicina di più, la croce di Sant'Andrea, ebbe un'origine del tutto differente. 3) I vasai gallo-meridionali mostrano scarsa abilità nella linea interna e nel modellato; le larghe foglie dei loro fregi vegetali costituiscono una delle tante eccezioni, ma in genere, e in confronto alla produzione aretina, la loro è un'arte di contorni, che tende quasi alla silhouette, su due piani. 4) Gli artisti gallo-meridionali usarono liberamente festoni e tralci, ma i loro festoni non furono le ricche combinazioni di foglie, pigne e frutti dei vasai aretini, bensì semplicemente linee semicircolari, ed i loro fregi vegetali non furono costituiti dalle complicate, lussureggianti foglie dell'acanto con gli orli arricciati, ma puramente da lunghe, sinuose, fredde linee ondulate spessore sempre uguale. Effetti complessi vennero ottenuti mediante moltiplicazione di steli, foglie ed altri elementi vegetali convenzionalizzati, piuttosto che mediante elementi complessi di per sé. Paragonata all'arte aretina, che fu l'immediata erede della tradizione ellenistica, l'arte gallo-meridionale appare dapprima rigida e povera. 5) Mentre molti punzoni aretini furono miniaturistici, Arezzo fece anche uso di molti stampini relativamente grandi; la Gallia meridionale usò esclusivamente timbri miniaturistici anche sulla Forma 11, che avrebbe permesso dimensioni maggiori e, più di Arezzo, si basò su linee manoscritte per congiungerli. Questo fenomeno può rappresentare semplicemente l'altra faccia dell'horror humani et acanthi gallo-meridionale, ma il suo risultato fu lo sviluppo di un'esperta abilità disegnativa a mano libera quale Arezzo non presentò mai. 6) Degna di nota è la completa assenza del meandro, assente anche dall'arte aretina, ma comune in quella di Popilius ed Aco, ed una generale predilezione per le forme curvilinee che si manifesta come un'onnipresente linea ondulata persino in contesti rettilinei. 7) In totale, l'arte gallo-meridionale iniziale s'occupa esclusivamente di disegno privo di figure umane, mentre l'arte aretina e la puteolana se ne occuparono solo in parte; il suo forte consiste nella stilizzata ripetizione di volute, godrons, ondulazioni, file di perle e linee ondulate verticali ed orizzontali, e piccole figure umane ed animali in contesti non narrativi.
Gli artisti dotati di immaginazione che iniziarono e svilipparono la t. s. gallo-meridionale furono principalmente galli: Aquitanus, Bilicatus, Catlus, Maccarus, Senicio o Seno, Urvoed, Vapuso, oltre a quelli di Montans. Altri, quali Acutus, Albinus, Balbus, Ingenuus, ecc., possono essere stati sia galli che italici; tuttavia nessuno dei vasai più antichi firma con un prenome romano, e non esistono greci. Non ostante una crescente proporzione di nomi latinizzati nel II sec., per tutta la sua durata l'industria della t. s. gallica impiegò personale gallico in maniera preponderante, se non esclusiva; a parte forse poche iniziali eccezioni non identificate, furono Galli coloro che introdussero la Glanztonfilm rossa, le firme, le forme vascolari, le tecniche del rilievo mediante matrice, e certi motivi e sistemi decorativi in un'area dov'essi erano precedentemente sconosciuti, e furono Galli coloro il cui gusto artistico durante due secoli sviluppò tali elementi ed infine li fece degenerare. I primi ceramisti furono artisti di sicuro istinto e forte originalità, che può ben paragonarsi a quella dell'industria, marcatamente ellenizzata di t. s. italica. Inoltre, ai loro successi artistici bisogna aggiungere il merito della creazione di un'industria poderosa che distribuì i suoi prodotti per tutto il mondo romano.
Non sappiamo donde questi innovatori provennero, nè da dove essi dedussero la loro pratica e il loro interesse per i modelli italici. Le botteghe "aretine provinciali" devono aver impiegato un gran numero di operai gallici. Se il declino di quest'industria fu lento, alcuni dei primi vasai gallo-meridionali possono aver lavorato in qualità di apprendisti sotto Ateius o altri, prima di venir svincolati da tali impegni in tempo per produrre vasi che furono in uso contemporaneamente a quelli di Ateius. Contro questa tesi, purtroppo, rimane la constatazione che è la più antica produzione gallo-meridionale non si riallaccia facilmente al tardo stile "aretino provinciale". Nè la si può definire un prossimo derivato di alcun altro stile. Cercando di sottovalutare all'eccesso l'entità del distacco netto creato dai ceramisti gallo-meridionali con le tradizioni del passato, Oswald e Pryce fanno risalire le origini di varî motivi gallo-meridionali a modelli micenei, egiziani della XVIII Dinastia, greci classici, ellenistici e "megaresi"; ma sebbene una forte influenza mediterranea con rapporti "megaresi" particolarmente suggestivi sia innegabile, la origine dell'arte gallo-meridionale-romana non consiste solo nella tradizione greco-ellenistico-romana. Né, come abbiamo visto, vi era in essa nulla più di un'eclettica dipendenza da modelli ceramici aretini, puteolani ed italo-settentrionali (cfr. Knorr, Töpfer u. Fabriken, ecc., pp. 99-100), nè vi riscontriamo una servile ripetizione di prototipi argentei pari a quella praticata in Italia. Probabilmente molte caratteristiche del vasellame gallo-meridionale possono interpretarsi piuttosto alla luce dalla tarda civiltà romano-La Tène che era stata in processo di formazione sin dall'acquisizione dell'originaria provincia transalpina nel 121 a. C. e, a fortiori, sin dal tempo di Giulio Cesare (per Gergovia, v. Hatt, Bull. hist. et scient. de l'Auvergne, lxv, 1945, pp. 151-174). In tale civiltà i primi ceramisti gallò-meridionali nacquero e crebbero, e soprattutto per i partecipanti a tale civiltà essi produssero. L'arte di La Tène evitò le figure umane ma promosse le spirali e certi animali che appaiono sulla t. s. gallo-meridionale. Così, mentre le differenze tra la t. s. gallo-meridionale da una parte e la ceramica di La Tène e "gallo-romana precoce" (Hatt, loc. cit.) dall'altra sono a prima vista persino più stridenti di quelle tra la t. s. gallica e l'italica, tuttavia la t. s. gallo-romana deve rappresentare una fusione organica di elementi sia gallici che romani giulio-claudi. Si può postulare che alcuni dei primi ceramisti gallo-meridionali abbiano servito, spontaneamente o meno, nelle fabbriche di Pozzuoli, dov'essi appresero le tecniche della t. s. liscia ed a rilievo e ne adottarono alcuni particolari decorativi; da lì essi rientrarono a Montans ed altrove nel retroterra di Narbonne, dove riunirono una forza lavoratrice di alcuni alunni gallici di Ateius e di altri "aretini provinciali".
Interessati all'Europa del Medio Evo, del Rinascimento e dell'epoca moderna, e al primitivismo esotico ora alla moda, i critici e gli studiosi della storia dell'arte hanno ignorato la t. s. gallica anche più che le altre manifestazioni dell'arte romana. La sola parvenza di critica estetica da essa ricevuta sono i pochi aggettivi generici inseriti incidentalmente nella loro prosa da Oxé, Hermet ed altri archeologi. Eppure la documentazione esistente è abbondante e facilmente accessibile, e merita dettagliata analisi e critica dal punto di vista della storia dell'arte; i risultati potrebbero accrescere le nostre imperfette conoscenze della vita e della mentalità del popolo minuto provinciale durante i primi secoli cristiani.
2) Montans (Tarn) e Lombez (Gers). Il miglior compendio dell'industria della t. S. di Montans si trova in Déchelette, op. cit., 1, pp. 129-137; Oxé, Die ältesten Terra-Sigillata-Fabriken in Montans am Tarn, in Jahrb. deutsch. Arch. Inst., Arch. Anz., 1914, c. 61-76; Oswald-Pryce, op. cit., pp. 15-16; Durand-Lefebvre, in Gallia, iv, 1946, pp. 137-194 (soprattutto firme) e xii, 1954, pp. 73-88 (vasi a rilievo); M. A. Mezquiriz de Catalan, Excav. est rat. de Pompaelo, 1, Pamplona 1958, pp. 229-236. La collezione fondamentale scavata nel 1861 da Rossignol ed ora in corso di studio si trova nel Musée St.-Raymond a Tolosa.
Intorno al 10-15 d. C. la t. s. si sovrappose ad un'industria ceramica indigena a Montans, per opera di un gruppo di ceramisti aventi nomi sia latini che gallici: Acutus, Ainicius, Contouca (fig. 812), Lepta, Paratus, Rufus, Surus Nigri e L. Aurelio(s) (?). In base all'evidenza di loro marchi di fabbrica in rettangoli a doppia linea e in ghirlande circolari nella tradizione aretina e puteolana, Oxé considera Montans il più antico dei centri di manifattura della t. s. gallica genuina: Durand-Lefebvre è del medesimo parere. I primi prodotti furono piatti lisci; "primitive" coppe a rilievo create da Acutus tosto seguirono (Oxé, Frühgall. Reliefgef. vom Rhein, nn. 48 e 54, trovati a Basilea insieme a vasi di Ateius). Montans è l'unico centro identificato responsabile dell'instaurazione della tradizione gallo-meridionale; intorno al 25-30 d. C. presumibilmente esso "colonizzò" La Graufesenque, e scambi di stile e di personale divennero da quel momento così frequenti che è difficile distinguere tra le due produzioni ceramiche. Durand-Lefebvre afferma: "In generale... l'artista di Montans s'astiene da una compartimentazione in rettangoli e medaglioni impiegata correntemente a La Graufesenque... Tuttavia, Montans manifesta maggior ricchezza, maggiore ricerca decorativa, maggiore ispirazione ellenica, italica e persino orientale". Mezquiriz così distingue: "I vasi provenienti da La Graufesenque presentano le note caratteristiche di vernice rosso-intensa e d'impasto assai compatto, ed anche di un rosso violento con frattura vitrea; al contrario i vasi di Montans rassomigliano maggiormente agli ispanici, sia per la loro vernice che per l'impasto, che è a volte rossiccio, a volte rosa-giallastro". Tuttavia certi vasai e certi motivi decorativi sono in prevalenza o esclusivamente connessi con Montans (per esempio, Valerius, fig. 813) ed in tre esemplari della Forma 37, oppure, relativamente tardi, appare il singolare esperimento, che ci ricorda Aco, di iscrivere una lunga frase al posto di una della fasce decorative. Nessuna di queste iscrizioni è completa, e non se ne è potuto ricostruire il significato. Altre forme da matrice a Montans, furono Dr. 29 e 30 (comune); anche 11, 34, Déchelette 60, 62, 63, vassoi e bicchieri; anche un tipo di vasellame a pareti sottili, privo di ricopertura di superficie, prodotto mediante matrice, che si riscontra pure in Portogallo ed a Vindonissa (cfr. Ohlenroth in Ettlinger e Simonett, Schutthügel von Vindonissa, pp. 42-51, tav. 31).
In origine la ceramica di Montans fu distribuita nella Francia sud-occidentale, ma in seguito partecipò, e forse capeggiò una più vasta distribuzione attraverso la Gallia ed i centri militari in Britannia e Germania. La Forma 29 (ma non la Forma 37) è comune a Pamplona, e ceramica di Montans è forse stata rinvenuta anche a Pompei.
A Lombez (Gers) esisteva verso la metà del I sec. d. C. un'industria che produceva, tra l'altro, scodelle decorate a rilievo modellato in una tecnica imitata dalla t. sigillata; vasi lisci e decorati sono illustrati da Mesplé, in Gallia, xv, 1957, pp. 41-71. La t. s. sensu stricto in questo sito però sembra essere stata importata da Montans e da La Graufesenque piuttosto che fabbricata sul posto.
3) La Graufesenque (Aveyron). La bibliografia internazionale su la Graufesenque (Condatomagus) è tanto vasta come vasta fu l'esportazione della sua ceramica; opere fondamentali sono quelle già citate del Déchelette, Knorr, Oswald e Pryce, ed Hermet (quest'ultimo da usarsi con cautela e sempre facendo riferimento ad Oxé, La Graufesenque, in Bonn. Jahrb. cxl-cxli, 1936, pp. 325-394, e Die Töpferrechnungen von der Graufesenque, in Bonn. Jahrb., cxxx, 1925, pp. 38-90).
Da aggiungere numerosi altri studî di R. Knorr con ottime illustrazioni, specialmente: Die verzierten T.-S.-Gefässe von Rottweil, 1907; Süd-gallische T.-S.-Gefässe von Rottweil, 1912; Die T.-S.-Gefässe von Aislingen, in Jahrb. hist. Ver. Dillingen, XXV, 1912; T.-S.-Gefasse des ersten Jahrh. mit Töpfernamen, 1952; E. Ritterling, Das frührömisehe Lager bei Hofheim i. T., in Annalen de Ver. f. nassauische Altertumsh. u. Geschichtsf., xl, 1913; D. Atkinson, Hoard of Samian Ware from Pompeii, in Journ. Rom. Stud., IV, 1914, pp. 2764; numerosi articoli di Oswald; anche i resoconti preliminari degli scavi recentemente condotti da Albenque, L. Balsan ed A. Aymard, in Gallia, VIII, 1950; Rev. de Rouergue, 1951; Reo. Arch., XXXVII, 1951; Procès-Verb. Soc. Lett... Aveyron, XXXVI, 1949-53; ibid., XXXVII, 1954-58; Rev. Ét. Anc., LIII-LIV, 1951-53.
I principali depositi di materiale di scavo si trovano al Musée Fénaille, Rodez, e al nuovo Museo di Millau, ma una massa di scavi del I e II sec. per tutta l'Europa occidentale hanno contribuito alla formazione di molte collezioni locali su cui si basano molti studi sulla t. s., specialmente cronologici.
La Graufesenque, in senso ristretto, è il nome di una o più fattorie situate in una pianura a 2 km da Millau sulla Dourbie proprio sopra il suo punto di confluenza col Tarn. Essa, e l'oppidum di La Garénède su terreno elevato adiacente, erano già centri di colonizzazione celtica di La Tène con una loro tradizione ceramica; intorno al 25-30 d. C. l'industria della t. s. fu introdotta da Montans, con cui La Graufesenque possiede molti nomi in comune. Come d'uso, i vasai di t. s. fabbricarono sia vasi lisci che a rilievo, in quantità tali da giustificare l'asserzione del Déchelette che durante la metà del I sec. La Graufesenque era "il centro di fabbricazione ceramica più importante non soltanto della Gallia, ma di tutto l'Impero Romano". Benché esso sia il centro manifatturiero gallomeridionale meglio scavato e meglio pubblicato, la documentazione che esso può fornire è stata sfruttata in maniera relativamente superficiale ed ogni campagna di scavo produce nomi, forme ed informazioni interamente nuovi; per esempio, che l'industria si protrasse, in uno stato di decadenza, fino alla seconda metà del II secolo.
Il presente schema è troppo limitato per consentire un'estesa trattazione della ceramica a rilievo di La Graufesenque. Per varî scopi, ed a seconda del materiale disponibile, essa è stata trattata da sette punti di vista totalmente diversi: 1) descrizione del materiale di centri o zone databili (per esempio, Knorr, Rottweil, 1907 e 1912, Aislingen; Ritterling; Atkinson, op. cit.; Curle, A Roman Frontier Post... Newstead, Glasgow 1911; ecc.). In tali casi la località fornisce la data per il materiale, piuttosto che viceversa; il minimo requisito consiste nell'illustrazione dei ritrovamenti. 2) Presentazioni di collezioni di museo eterogenee (per esempio, Walters, Cat. Rom. Pottery... Brit. Mus.). Tali lavori, a meno che gli archivi del museo siano migliori della media, hanno scarso valore cronologico. 3) Divisione dell'argomento in periodi stilistici, con analisi della decorazione che li caratterizza. Nel caso tipico (Hermet), la cronologia fu dedotta dalle date fornite da scavi in altre località, non dalla propria stratigrafia. 4) Analisi delle varie forme a rilievo in termini del loro sviluppo decorativo (Oswald Pryce, cap. v, pp. 65-129; Hermet, capp. iv-vii, pp. 75-162). 5) Analisi dell'evoluzione di motivi o stili selezionati, per esempio, godrons, figure umane ed animali, pannelli, ecc. (Oswald-Pryce, capp. vi-vii, pp. 130-168). 6) Analisi delle firme di ceramisti individuali, dei loro punzoni, del loro stile, ecc. (Knorr 1919 e 1952; alcuni studî di Oswald, Stanfield, ed altri). 7) L'opposto del precedente, un dettagliato repertorio di tipi con indici dei vasai che li usarono (Knorr; Déchelette; Oswald, Index of Figure-Types). Nessuno di questi metodi di studio esclude gli altri, ed infatti essi vengono di solito combinati, forse nella maniera più soddisfacente da Déchelette ed Oxé. La trattazione dello studioso francese (1904) è più deliberata, personale, e necessariamente più ipotetica; quella dello studioso tedesco è concreta, impersonale, e costruita in base a rigoroso ragionamento. Ma i precedenti sono essenzialmente metodi e indirizzi archeologici adottati soprattutto per perfezionare una cronologia che possa venire applicata a località insufficientemente datate; come precedentemente notato, nessuno ha ancora affrontato la ceramica di La Graufesenque o altra t. s. provinciale quale forma d'arte evolventesi attraverso successive fasi estetiche e psicologiche.
Le caratteristiche delle due più antiche fasi della ceramica a rilievo gallo-meridionale sono state precedentemente citate; la fase "primitiva" dell'Oxé non si riscontra a La Graufesenque, mentre la fase "nobile" (che Hermet chiama "primitiva") vi appare soltanto nei suoi stadi posteriori. Soprattutto caratteristici di La Graufesenque sono i suoi stili "splendido" e di "transizione", rispettivamente databili intorno all'epoca claudio-neroniana 3768 d. C. e alla prima epoca flavia circa 65-85 d. C. La migliore definizione del primo consiste nel dire che esso manca delle caratteristiche degli stili che lo precedono e lo seguono; la decorazione è elegante e di buon gusto; il rilievo non è enfatico la sagoma della Forma 29 si è alterata: da un orlo stretto, una zona superiore quasi verticale ed una carenazione rotonda si passa ad un labbro più ampio, una zona superiore svasata ed una carenazione più angolosa; la Forma 37 non ha ancora fatto la sua apparizione; la Glanztonfilm è assai lucida. Produzione in serie e vigorosa esportazione sono al loro culmine; i centri claudi e neroniani della Britannia e della Germania forniscono un eccellente documentazione per questo periodo (fig. 814). Lo stile "di transizione" viene così chiamato perché in uso quando avvenne la transizione dalla Forma 29 alla Forma 37; in un famoso ritrovamento a Pompei vennero alla luce 36 vasi della prima e 54 della seconda (nessuno della Forma 30!). Il suo criterio di riconoscimento più certo consiste nell'onnipresente divisione di fregi vegetali, medaglioni, archi, triangoli e pannelli mediante linee orizzontali; altri motivi significativi sono i cespi d'erba sotto il ventre d'animali in corsa, le zone di godrons modificati in corti bastoni dalle estremità arrotondate o in "strigili", e le foglie ed i rosoni su steli arricciati che fanno gratuita intrusione entro i pannelli, e numerosi altri motivi misti (fig. 815). Il periodo "decadente" è caratterizzato dalla virtuale sostituzione della Forma 29 e della decorazione vegetale, ad opera dell'emisferica Forma 37 e di pannelli verticalmente divisi in cui predominano i soggetti umani ed animali; il rilievo è anche più accentuato che per il passato. Un gruppo di vasellame caratteristico di questa scuola viene pubblicato dal Jacobs, Sigillatafunde... zu Bregenz, in Jahrb. f. Altertumsk., vi, 1912, con illustrazioni di 33 vasi della Forma 37, appartenenti al primo periodo traianeo, ed altri (fig. 816).
Oltre 120 vasai di La Graufesenque, produssero vasi da matrice a rilievo dei quali ci sono noti nomi ed indubbiamente molti altri non sono stati ancora riconosciuti. La loro datazione, l'evoluzione di uno stile personale, ed i loro rapporti reciproci sono troppo complicati per venire qui discussi. Alcuni di essi possedettero punzoni decorativi privati tipicamente loro proprî; altri punzoni furono abbondantemente ed esclusivamente usati entro ristrette cerchie di ceramisti, che possiamo quindi isolare in gruppi specifici. Occasionalmente sia la matrice che il vaso ultimato sono impressi col marchio di fabbrica; in tali casi i nomi sono a volte gli stessi ed a volte diversi; per lo meno in un caso vasi identici sono impressi con nomi diversi. Tutto ciò, in aggiunta alla testimonianza dei famosi graffiti di La Graufesenque (Hermet, Oxé 1925, e Duval, Ét. celt., vii, 1957, pp. 253-268) ed alcuni casi di attestata collaborazione, implica una considerevole organizzazione interna, interdipendenza e specializzazione entro l'industria. Coloro che, come Knorr, hanno studiato i vasai nella loro qualità di individui, riescono ad attribuire frammenti non firmati sulla base di punzoni individuali, specialmente quelli meno cospicui; se usati con cautela, gli ovoli delle Forme 30 e 37 sono molto utili per tale scopo. Ma i ceramisti di La Graufesenque sono meno facilmente identificabili di quelli della Gallia centrale, e molti archeologi si accontentano di assegnare il loro materiale alla più elastica cronologia dei principati imperiali.
Innovazioni di stile non possono di solito venire attribuite a ceramisti specifici, sebbene Knorr qualifichi Bilicatus, Germanus, Licinus-Volus e Masclus "artisti donatori", il cui lavoro fu copiato da altri non soltanto a La Graufesenque ma infine anche nella Gallia centrale ed orientale. Germanus di La Graufesenque e di Banassac merita speciale attenzione a causa della grande abbondanza ed originalità della sua produzione, e perché il suo nome suggerisce ch'egli non fosse un indigeno gallo ruteno o un gàbale; le sue date e quelle dei suoi seguaci Germani f. e Germani f. ser. si aggirano intorno al 60-90. L'opera delle botteghe di Germanus si divide in tre fasi: durante la seconda di esse egli adottò, se non addirittura introdusse, la Forma 37, che divenne la sagoma principale del II sec., ed egli "ha il sommo onore di aver introdotto lo stile libero nella sua forma pienamente sviluppata" (Oswald-Pryce), ossia egli arricchì il repertorio di fregi vegetali, pannelli, ghirlande, nautili, ecc., che egli stesso ed altri avevano precedentemente impiegato e continuarono ad impiegare, ed aggiunse alla t. s. gallica la coerente scena dell'attività umana e della vita animale selvatica e domestica (cfr. vol. ii, fig. 697), spesso senza divisioni in pannelli, oppure sostituendo le varie divisioni tradizionali con naturalistici alberi. Questo trattamento del campo decorativo, ed alcuni dei temi, ricordano la t. s. italica classica (il che non significa ch'egli fosse direttamente influenzato né da ricerca antiquaria tra i primi aretini né dalla coeva t. s. italica flavia), ma la raffinatezza ellenistico-aretina fu al di là della sua mentalità e delle sue capacità disegnative; egli raffigura conigli che divorano grappoli d'uva, invece di satiri che li vendemmiano; i suoi alberi, come gli antecedenti fregi vegetali, sono disegnati alla stecca in linee di uguale spessore, invece di presentare la nodosa robustezza dei tronchi e del fogliame aretini; la sua percezione delle relazioni spaziali o dell'unità di stile non è così raffinata come quella di molti aretini. Tuttavia gli possiamo forse concedere un primitivo senso del simbolismo nel significato moderno del termine: Knorr, 1919, tav. 38 Q "nel primo stile di Germanus" illustra un cane in mezzo a vegetazione che insegue un cinghiale in mezzo a vegetazione entro un ampio pannello bordato da zone di linee ondulate diagonali che s'intersecano. Sorvolando sulla stridente incoerenza dei motivi impiegati, ci si domanda se queste diagonali siano puramente decorative, o se Germanus abbia voluto suggerire che la caccia ha luogo da una retia ad un'altra. Oswald e Pryce attribuiscono a Germanus il credito di un'ispirazione che la Gallia non aveva fino a quel momento ancora ricevuto, derivante dalla metallurgia e dalla scultura classica; Drexel, in Bonn. Jahrb., cxviii, 1909, p. 18o rileva motivi di Germanus, usati nell'argenteria alessandrina; Ettlinger suggerisce che l'Oriente ed il materiale tessile furono le fonti del nuovo stile da lui iniziato. La sua importanza d'innovatore merita uno studio approfondito che metta a fuoco tutta la sua estesa produzione.
Una peculiarità di La Graufesenque fu la sua cosiddetta "ceramica marmorizzata" con Glanztonfilm gialla striata da venature dell'usuale color rosso (v. la bella fotografia a colori in Charleston, Roman Pottery, tav. B). Sebbene varî metodi tecnici per ottenere tale effetto "variegato" siano stati suggeriti, un frammento a Narbona (Collezione Poncin) mostra chiaramente che esso fu prodotto spruzzando con Glanztonfilm rossa un vaso allo stato "asciutto", dopodiché si procedette all'applicazione della superficie gialla; durante il processo di cottura quest'ultima si liquefece e trascinò con sé i pigmenti rossi della creta in striature e vortici improvvisati. Questa ceramica speciale appare in quasi tutte le sagome del vasellame liscio ed a rilievo; fu prodotta da un certo numero di ceramisti per un periodo di tempo considerevole, e fu esportata insieme agli altri vasi pure fino all'India (Wheeler, Ancient India, II, 1946, p. 36, nn. 10-14). In proporzione all'usuale t. s. rossa, il suo quantitativo è scarso; a prescindere dalla sua imitazione, sia pur vaga, del vasellame metallico, la sua importanza ci è ignota; forse essa ebbe speciali usi stagionali o cerimoniali.
È da notarsi che i vasi a pareti sottili, già osservati a Montans, si fabbricavano pure a La Graufesenque ed altrove nella Gallia meridionale.
Infine, nel riassumere la t. s. di La Graufesenque, notiamo una piccola fabbrica succursale a Le Rozier, a 20 km da Millau alla confluenza del Jonte e del Tarn (Hermet, pp. 285-8). Tutti i nomi di vasai ivi rinvenuti, tranne uno, si riscontrano anche a La Graufesenque, ed i due stili decorativi sono identici. La data assegnata a tale branca si aggira intorno al 60-80/85 d. C.; la sua produzione, come prevedibile, fu alquanto in ritardo, sia all'inizio che alla fine, rispetto alla massima esportazione delle ceramiche gallo-meridionali. In base a questo dato ed alle osservazioni di Balsan su la Bartacelle, Creissels, Rojoles, e Saint-Georges (Rev. arch. du Centre, ii, 1963, p. 29) e vista la testimonianza del Vertet su Barzan (Gironde), in Gallia, xx, 1962, possiamo dedurre l'esistenza di altre succursali minori dell'industria ceramica gallomeridionale.
4) Banassac (Lozère). Un'abbondante bibliografia delle ceramiche gallo-romane di Banassac si trova in Balmelle, Bibl. du Gévaudan, fasc. 3, in Bull. Soc. Lettres, Sciences et Artes de la Lozère, 1950, specialmente pp. 40-51.
Da aggiungere: H. Comfort, in Antioch-on-the-Orontes, Princeton IV, 1, 1948, pp. 71-73, figg. 37-8, e Ch. Morel, in Comptes-rendu XXXI Congr. Rhodania, 1956, ed articoli, in Bull. Soc. Lettres, Sc. et arts Lozère, 1954, ed in Acta Rei crer. Rom. Faut., III, 1961, pp. 45-55; J. Vendryes, Comp. Ren. Ac. Inscr. et Belles Lettres, 1956, pp. 159-187 (iscrizioni galliche); M. Cavaroc, in Ogam, XIII, 1951, pp. 431-436; il resoconto più accessibile, sebbene incompleto ed antiquato, rimane Déchelette, op. cit., pp. 117-128. Scavi recenti del Touring Club de France vengono descritti da Hofmann ed altri, in Rev. du Gévaudan, 1961.
Le principali collezioni del materiale scavato a Banassac prima del 1871 ed a partire dal 1933 si trovano a St. Germain-en-Laye, Rodez e specialmente a Mende (Coll. Morel, museo); pezzi d'esportazione rinvenuti in località varie sono esposti in molti luoghi. Il centro lungo entrambe le sponde dell'Urugne, un tributario del Lot, è stato esplorato in maniera incompleta, e solo una piccola frazione dei ritrovamenti è stata pubblicata.
Banassac, già dimora di un'industria ceramica indigena, fu "colonizzata" verso la fine (?) del periodo neroniano da produttori di t. s. di La Graufesenque, i cui nomi appaiono in entrambi i centri. Vi si produssero vasi sia lisci che a rilievo; tra questi ultimi le Forme 29 e 78 sono rarissime; più comune appare la Forma 30; la Forma 37 è la sagoma dominante; il repertorio comprese anche borracce lenticolari, bicchieri, e varie piccole tazze. I vasi a rilievo furono firmati assai di rado dal loro produttore.
Soltanto a Banassac si riscontra l'uso, sulla Forma 37, di brevi messaggi di saluto ed espressioni conviviali in larghe lettere separate da foglie o da elementi divisorî convenzionali: Gabalibus (Treveris, Remis, Lingonis, Sequanis) feliciter, Veni ad me amica, Bibe amice de meo, Cervesa reple, ecc. (fig. 817). Uno di tali vasi, che include anche l'ovolo con fiocco piriforme caratteristico di Banassac, fu trovato a Pompei e data questa serie agli anni intorno al 70. Altri motivi decorativi, quali il fregio vegetale e specialmente il pannello, si avvicinano di più agli stili che rinveniamo altrove. Il fregio vegetale è meno complicato di quello di La Graufesenque; i pannelli possono estendersi fino ad occupare l'intera profondità della zona decorativa disponibile, oppure possono essere divisi orizzontalmente; le bordure a lisca di pesce orizzontali sono comuni; le figure umane ed animali abbondano. Alcuni modelli sono di una qualità molto fine, ma in generale, le figure ed i motivi accessori posseggono scarso modellato interno di drappeggi, muscoli, ecc., e sono impressi nelle matrici in maniera relativamente profonda; perciò i vasi appaiono talvolta decorati con silhouettes rigorosamente prominenti ma maldestramente disegnate (fig. 818). La loro già mediocre esecuzione viene talvolta resa peggiore dall'impiego di matrici che l'uso eccessivamente prolungato ha reso inservibili, e le pareti delle coppe sono spesse. Se la "scuola" di Banassac si può distinguere da quelle dei maggiori centri d'arte ceramica galloromana, ciò che la caratterizza sono le sue superfici a rilievo fortemente arrotondate, lungi dalla raffinatezza ellenico-romana. Morel ha enumerato circa 1000 tipi decorativi, molti dei quali sono comuni sia a Banassac che a La Graufesenque o Lezoux, mentre altri sono tipicamente locali.
La distribuzione della ceramica di Banassac è paragonabile a quella della ceramica di La Graufesenque, sebbene in quantità molto minori. Lasciando a parte i ritrovamenti gallici e germanici, essa è stata rinvenuta in sorprendente concentrazione ad Antiochia sull'Oronte, diversi esemplari decorati sono stati trovati a Brigetio (O-Szöny) ed in altre località danubiane (Juhász, A Brigetioi Terra Sigilláták, 1935, p. 181 [in magiaro, con sunto in tedesco]), ed uno o due pezzi sono venuti alla luce a Zvenyhorod presso Lwów (Pasternak, Nuove scoperte di materiale romano nella Galicia e Volynia [in ucraino con sunto in tedesco]); essa probabilmente non esistette in Britannia (Simpson) ed è rarissima in Spagna (Balil). Le acclamazioni di tribù suggeriscono che uno speciale tentativo venne fatto per raggiungere mercati popolari gallici locali nelle zone orientali e settentrionali; vi è scarsa documentazione archeologica che tale ambizione sia stata brillantemente soddisfatta, dato che queste regioni erano più facilmente approvvigionate dalla Gallia centrale, ma vi sono molte prove, che la ceramica di Banassac fu apprezzata da una varietà di consumatori non gallici.
Déchelette pone il termine dell'industria di Banassac prima del periodo antonino; Morel vorrebbe prolungare la sua "decadenza completa" fino al III sec.; dal punto di vista artistico, tuttavia, essa fu sempre in un certo stato di decadenza. Un esemplare attribuibile ad una fase tarda, - una frammentaria borraccia lenticolare - ci mostra la sua superficie circolare, così adatta ad una decorazione artistica e di buon gusto, rovinata dalla stessa ripetizione di malcompresi motivi che troviamo nella peggiore t. s. tardo-italica, a cui la fiasca può essere coeva.
C) T. s. gallo-centrale. - 1) I titoli fondamentali della bibliografia sulla t. s. gallo-centrale, con speciale riferimento a Lezoux, sono:
Déchelette, Oswald e Price, opp. citt.; l'Index of Figure Types on Terra sigillata, 1936-37, dell'Oswald; Stanfield e Simpson, Central Gaulish Potters, 1958; di importanza solo lievemente minori sono libri ed articoli che trattano centri specifici, per esempio: G. Juhász, op. cit., o P. Karnitsch, Die Reliefsigillata von Ovilava (Wels), 1959, o temi specifici. Gli articoli del Terrisse su Les Martres de Veyre, in Germania, XXXII, 1954, pp. 171-5; id., in Westerheem, vii, 1958, pp. 47-50; id., in Ogam, X, 1958, pp. 221-242, e dei M. e P. Vanthey a Terre Franche, in Rev. Arch. du Centre, I, 1961, pp. 152-157 e Il, 1963, pp. 48-56, e di H. Vertet su Toulon-sur-Allier, in Rei cret. Rom. Faut. Acta, Il, 1959, 69-73 sono informativi ma preliminari.
Collezioni fondamentali per lo studio della t. s. gallocentrale, che derivano principalmente dagli scavi di Constancias (circa 1850) e del Dr. A.-E. Plicque (1879-87) a Lezoux, si trovano a Roanne, St.-Germain-en-Laye, all'Università di Nottingham e all'Università di Durham; altre collezioni sono a Clermont-Ferrand, il nuovo museo di Lezoux, e le collezioni private dei defunti Mathonnière-Plicque e Ch. Fabre. La collezione Terrisse a Parigi consiste di materiale proveniente da Les Martres de Veyre; le collezioni del Museo Moulins (Catalogue 1885) e di Vertet derivano da scavi a Toulon-sur-Allier; ed i ritrovamenti di Vichy sono nel museo del luogo. Importanti collezioni di ceramica gallo-centrale d'esportazione si trovano in Inghilterra, Francia settentrionale, Germania, Svizzera e in località danubiane; ma l'esportazione nella Gallia meridionale, nella Spagna, nell'Italia e in Africa fu virtualmente inesistente. Può essere stata esclusa da qualcuna di queste ultime aree dalla ceramica contemporanea di Banassac e di La Graufesenque. Tutti i centri gallo-centrali fabbricarono t. s. sia liscia che a rilievo, ed alcuni di essi contemporaneamente produssero statuette ed altre categorie ceramiche di cui il presente articolo non si occupa.
Alcuni dati, sia editi che inediti, riguardanti firme, decorazione, vernice a piombo genuina, ecc., suggeriscono che la Vallata dell'Allier albergò un'industria ceramica nella tradizione ellenistico-romana sin dal 10-15 d. C. (v. Déchelette, op. cit., per St.-Rémy-en-Rollat; Vertet e Comfort, infra; Lantier, in Germania, xix, 1935, pp. 318-321, con la critica dell'Ohlenroth, in Rei cret. Rom. Faut. Acta, ii, 1959, pp. 41-47, sulle forme del tipo di Aco in questa zona).
2) Lezoux (Puy-de-Dôme), la Ledosus merovingia a 26 km ad E di Clermont-Ferrand, aveva prodotto ceramiche galliche prima dell'avvento dei Romani, ma intorno al 10-15 d. C. (non il 40 d. C.) vi fu inaugurato un centro di terra sigillata. Vertet, Les vases caliciformes gallo-romains de Roanne et la chronologie des fabriques de Lezoux au début du Ier siècle, in Gallia, xx, 1962, nota che i vasai dell'Avernia fecero presto ad imitare le ceramiche straniere (ossia italiche) che piacevano alla clientela gallica, persino al punto da importare punzoni italici usati, per esempio quali appaiono in Déchelette, i, fig. 8. (Per la ceramica liscia antica di tipo italico cfr. Comfort, in Am. Journ. Arch., lxiii, 1959, 178-180). Durante il I sec. il ruolo di Lezoux fu secondario rispetto a quello di La Graufesenque, ma essa infine divenne il principale e più noto centro manifatturiero di t. s. gallo-centrale, avente inoltre la fortuna di venir scavato da un Plicque e pubblicato da un Déchelette. Una pianta dei ritrovamenti sugli scavi mostra fabbriche che si estendono per chilometri.
Déchelette distingue tre fasi stilistiche; Oswald e Pryce e molti altri gli si associano in teoria; Stanfield e Simpson, nel formulare la loro cronologia assoluta, che abbassa sostanzialmente le date suggerite dai loro predecessori nei confronti della ceramica del II sec., si basano su centri militari della Britannia settentrionale e del Gallea per la datazione di singoli vasai. Per gli scopi generali di questo articolo, e con alcune modifiche, il principio del Déchelette è il più conveniente, ma bisogna sottolineare che ai fini archeologici l'indirizzo di Stanfield-Simpson lo ha sostituito.
Il "primo periodo" del Déchelette è caratterizzato dalle Forme 11 (rara) e 29, così strettamente parallele a quelle di La Graufesenque che la distinzione fra i prodotti dei due centri deve generalmente basarsi soltanto sulla Glanztonfilm meno lucida e più rosso-arancione impiegata a Lezoux. La produzione fu limitata; solo un gruppetto di vasai, tutti dai nomi solidamente gallici, firmò i vasi della Forma 29. L'esportazione fu praticamente inesistente; l'Atepomarus del periodo claudio inviò alcune coppe in Britannia, ma egli ed i suoi contemporanei di Lezoux non riuscirono a competere con la valanga di vasellame che invase la Britannia e la Germania da La Graufesenque. La sua maniera decorativa caratteristica, e quella dei suoi successori che produssero la Forma 29 a Lezoux, è illustrata da Oswald, in Journ. Rom. Stud., xxvii, 1937, pp. 210-214. La "emigrazione di vasai gallo-meridionali a Lezoux" intorno al 40 d. C. suggerita dall'Oswald, indubbiamente si verificò, ma essi andarono ad associarsi ad un'industria già esistente, piuttosto che fondarne una nuova. Atepomarus stesso "non deve nulla ai vasai gallo-meridionali", ma può essere stato influenzato, sia pur remotamente, così dalla tradizione celtica come dallo stile augusteo dell'Ara Pacia in un modo e ad un grado tale da differenziarsi da qualunque altro artista gallico.
Il "secondo periodo" è caratterizzato dall'introduzione della Forma 37 con stile "di transizione", stile libero e decorazione a pannelli. Inoltre, entro questo periodo, intorno al 100 d. C., ebbe inizio l'esportazione su vasta scala, e molti nuovi tipi figurati, specialmente umani, vennero introdotti nella produzione. Come Hatt giustamente afferma, "la fine del I secolo è un'epoca importantissima per l'evoluzione della terra sigillata gallica" (Gallia, xvi, 1958, p. 261). Questo fenomeno è parallelo nel tempo, e forse in rapporto, ad una corrente traianea che si allontanò dalle sue caratteristiche barocche nei particolari della decorazione architettonica a Roma e vi sostituì un "classicheggiante", ossia augusteo, interesse per le figure umane. Nella capitale ciò può essere stato un riflesso del novus ordo saeculorum che fece seguito alla fine della dinastia flavia e che trovò espressione letteraria nell'Agricola di Tacito e negli scritti di Plinio il Giovane, espressione militare nelle guerre di Traiano, ed espressione artistica nei monumenti pubblici del periodo, più sobrî e meno appariscenti che per il passato, come viene in sostanza suggerito da von Blanckenhagen, Neues Bild der Antike; nella Gallia centrale ciò può essere stato un riflesso non soltanto delle più vaste correnti di gusto artistico romano testé menzionate, ma anche del nuovo ordine locale di economia e produzione dovuto alla grande espansione dell'area d'esportazione. E se ci si spinge fino ad interpretare l'arte romana adrianea ed antonina come una continuazione dell'arte traianea piuttosto che come un fenomeno iniziatosi sotto Adriano ed influenzato dai suoi gusti e dalla sua personalità, la stessa affermazione può essere fatta in generale a proposito della terra sigillata adrianea ed antonina nella Gallia centrale ed orientale.
Il "terzo periodo" (dalla fine del regno di Traiano fin verso la fine del secolo; secondo Birley in Stanfield-Simpson, op. cit., la vittoria di Settimio Severo su Clodio Albino, 197 d. C., probabilmente pose fine a tale fase, o per lo meno la indebolì gravemente; Déchelette prolunga il periodo fin verso il 250), è una continuazione delle tendenze del secondo, ma l'abilità artistica e tecnica diminuirono mentre il commercio d'esportazione raggiungeva il suo culmine, specialmente sotto gli Antonini. I tipi di decorazione predominanti sono larghi medaglioni, mezzi medaglioni, e figure in pannelli; ornamenti dello stile libero; arcate; e grandi fregi vegetali continui spesso riempiti di medaglioni o di figure (fig. 819).
I problemi dell'attribuzione personale a singoli vasai di Lezoux differiscono da quelli di La Graufesenque perché diversi ceramisti importanti che produssero vasi della Forma 37 non firmarono i loro prodotti; perché le firme, quando presenti, appaiono di solito su matrici invece che su coppe ultimate; e perché, lavorando in botteghe separate, i vasai svilupparono stili loro proprî senza venir relativamente influenzati dai loro vicini. Ciò che ne risulta è una maggior precisione nelle attribuzioni, come dimostrato da Stanfield-Simpson e dalla loro identificazione di una serie di vasai anonimi (x-i ... x-7, ecc.) e di estesi rapporti reciproci tra i ceramisti gallo-centrali, identificazione che si basa su minuziosi confronti di particolari decorativi e di stile.
Oswald, Index of Potters' Stamps (1931), elenca 169 produttori gallo-centrali di ceramica da matrice; molti di essi sono di grande interesse, ma non possono venir qui illustrati o discussi per ovvie ragioni; per esempio, Cinnamus (circa 150-195 d. C.), la cui vasta produzione, "superante di gran lunga l'opera di qualunque altro vasaio di t. s.", si calcola rappresenti il 70% di tutte le coppe a rilievo antonine rinvenute lungo il Muro Antonino e nei centri scozzesi alleati (Stanfield-Simpson, op. cit., pp. 263-271, con molti particolari supplementari). Né possiamo far più che citare il "Vasaio X-1" (che viene chiamato "Il Maestro degli Scudi e degli Elmi" da Fölzer, "Maestro della più bella sigillata" da Knorr, "Vasaio anonimo" da Delort, "Terzo vasaio" da Hatt, circa 100-120 d. C.), i cui motivi decorativi, sotto l'influenza di Arezzo e della Gallia meridionale, furono abilmente e delicatamente combinati con attraenti tipi figurati suoi proprî. La forte influenza che egli esercitò su Satto e, suo tramite, su altri vasai gallo-orientali viene discussa da Delort e da Stanfield-Simpson (op. cit., pp. 4-5). (In uno studio speciale su questo ceramista, in Rev. arch. du Centre, ii, 1963, pp. 5-13, Lutz ha dimostrato che ha lavorato a Boucheporn, Mittelbronn, Chémery, e forse a Eschweiler Hof, ma esprime qualche dubbio sulla sua presunta attività nella Gallia centrale).
Una posizione di preminenza tra i vasai gallo-centrali è occupata da Libertus (circa 100-120), press'a poco per le stesse ragioni che distinguono Germanus di La Graufesenque (fig. 820). Egli è il più caratteristico dei ceramisti di Lezoux; a lui è dovuta l'origine di un quarto dei tipi figurati grandi e piccoli del repertorio di Lezoux; il suo modellato fu d'alta qualità; egli lavorò in Glanztonfilm sia rossa che nera; produsse il più vasto numero di sagome; la sua influenza fu sentita da molti successori, specialmente da Butrio-Putriu. Egli evita i fregi vegetali e lo stile di transizione del I sec., lavorando specialmente nello "stile libero" e con metope divise da cariatidi o figure consimili. Particolari irrilevanti fanno intrusione nella sua opera, che appare incoerente e disorganizzata come quella dei suoi contemporanei. Déchelette accenna a somiglianze esistenti tra i suoi tipi figurati ed i rilievi neoattici, la toreutica e la ceramica aretina, ma non sappiamo attraverso quali vie egli sia venuto a conoscenza di tali fonti. Significativo, ma non conclusivo, è il fatto che Libertus è il più antico ceramista di Lezoux che porti un nome inequivocabilmente latino, sebbene ve ne furono altri in seguito.
Al pari dei vasai di t. s. in altre località, quelli della Gallia centrale non furono un gruppo statico. Essi migrarono da un centro all'altro con notevole libertà, sia entro la loro zona, che, come vedremo, verso il N-E soprattutto, più vicino alla frontiera del Reno; v. per esempio lo studio di A. P. Detsicas sul Vasaio anonimo X-3, in Collection Latomus, xliv, 1963.
D) Vasi con decorazione applicata. L'uso di applicazioni per decorare la t. s. gallica, sebbene non limitato alla Gallia centrale, si presta meglio ad essere considerato a questo punto, sotto le suddivisioni di Lezoux, la Valle del Rodano, la zona del Reno, la Pannonia, ed il Nord Africa. Tali vasi hanno in comune l'uso di piccoli rilievi di argilla modellata applicati mediante argilla liquida (barbotine) a varie sagome di bicchieri ed ollae a larga apertura, ma non alle tradizionali Forme ii, 29, 30 e 37 della t. sigillata. La tecnica era già stata impiegata sugli orli verticali di piatti aretini post-augustei (Stenico, Matrici a placca... di Arezzo, in Arch. Class., iv, 1954, 43-77), ma sembra essere caduta in disuso per circa un secolo prima della sua ricomparsa nella Gallia centrale dove, come ad Arezzo, essa appare concomitante ad un declino artistico dell'industria di vasi a rilievo da matrice. Essa è sconosciuta nella Gallia meridionale.
1) Lezoux, ecc. Déchelette, ii, pp. 168-234 rimane la migliore fonte sulla produzione di vasellame con applicazioni a Lezoux, Vichy e St.-Bonnet-Iseure; v. anche Oswald-Pryce, op. cit., pp. 230-231; alcuni esemplari recentemente rinvenuti a Lezoux sono illustrati dal Comité Archéologique de Lezoux in Ogam, ix, pp. 1957, 147-149; 255-260. Un considerevole numero di vasi frammentari sono stati trovati; esistono anche delle matrici mediante le quali furono prodotti i rilievi, ed uno o due dei modelli originarî di terracotta usati per produrre le matrici. Le matrici spesso recano il nome del lavorante (ossia, del proprietario?), ma i vasi stessi non sono mai firmati. Escludendo i soggetti erotici, "d'altronde poco varî", Déchelette illustra 159 tipi decorativi di figure divine, mitologiche, umane ed animali e di motivi ornamentali: essi sono in parte gli stessi usati sui vasi a rilievo di Lezoux, e sono in parte derivati da altre fonti; una nuova categoria è formata da una serie di maschere grottesche dai tratti esagerati, mentre un'altra celebra le imprese militari di Traiano. La qualità del modellato varia da eccellente a "negligente e barbarica". Particolari a mano libera (tralci, punti, ecc.) sono generosamente aggiunti à la barbotine. I frammenti a soggetto traianeo ed alcuni altri possono datarsi dall'inizio del II sec., ma un esemplare del tipo olla risale sicuramente agli anni immediatamente intorno al 200 d. C. La distribuzione ampia, benché rada, di tali vasi si estende a tutta la Francia, e vi fu una certa esportazione a centri britannici (Charleston, op. cit., tav. A a colori, proveniente da Felixstowe).
2) Vallata del Rodano. Il più completo resoconto su questi vasi è dato da Wuilleumier ed Audin, Les médaillons d'applique gallo-romains de la Vallée du Rhône, [in Annales de l'Univ. de Lyon, 3 ser. (Lettres) xxii], 1952, che descrive ed illustra 380 esemplari. Questa serie è molto più ampia di quella di Lezoux, da cui differisce per la forma dei vasi ed in altri modi. Per esempio, l'applique non consiste in una figura isolata, come a Lezoux, ma è un disco decorato in bassorilievo; il disegnatore veniva quindi a fronteggiare gli stessi problemi dei fabbricanti di lucerne, teglie (cfr. Alföldi, Tonmodel und Reliefmedallions aus den Donauländern, in Laureae Aquincenses... Kuzsinszky [Diss. Pann., ii, S. 10], 1938) e monete, invece di quelli dell'artista di t. s. normale. Quale disegnatore, infatti, egli non era necessariamente un ceramista, ma un lavorante in cera, come dimostrato da iscrizioni quali Felicis cera; la sua funzione era quella di riempire una zona circolare predeterminata in maniera definitiva, invece di basarsi sul capriccio del momento nel combinare punzoni miscellanei disponibili. Quando ciò era stato fatto e il medaglione completato era stato applicato al vaso, il suo compito era terminato; non vi era alcun uso supplementare di decorazione di riempitivo à la barbotine, come a Lezoux. Ne risulta una sintesi alquanto ristretta e severa, tuttavia dotata di una coerenza di temi sconosciuta ai vasai di Lezoux, persino a quelli che usarono la "decorazione a medaglioni" su coppe antonine da matrice. I ceramisti della Valle del Rodano imitarono inoltre i loro confratelli disegnatori di dischi nel libero uso d'iscrizioni per spiegare o commentare la scena resa o per esprimere auguri, ed anche per firmare i loro prodotti. Essi fecero uso d'un ampio repertorio di soggetti, comprendente rappresentanti del pantheon greco-romano, celtico ed orientale, scene del mito e dell'epica, episodî e ritratti storici romani recenti, spettacoli di teatro, anfiteatro e circo, ed una complessa serie di scene erotiche. Le loro fonti tipologiche, oltre a quelle già citate, includono il vasellame argenteo, la statuaria, la pittura e il dramma.
Questi vasi furono fabbricati a Vienne e Lyon, e furono venduti con speciale concentrazione in queste due città, Orange, Arles, Nîmes e St.-Rémy; nel N si spinsero fino a Nijmegen, ma non in Britannia; esemplari eccezionali provengono da Ampurias ed Alessandria. Wuilleumier ed Audin hanno identificato oltre 15 maestri-vasai di cui Felix, Amator ed altri sono noti per nome. La loro industria è più giovane, contemporanea dell'industria appliqué di Lezoux, attiva per circa un secolo, dopo circa il 170 d. C., o forse comincia anche con Adriano.
3) La zona del Reno. Alcuni medaglioni e matrici per medaglioni sono stati rinvenuti a Colonia e Treviri (Klein, in Bonn. Jahrb., lxxxvii, 1889, 84; [E. Müllenbach], Westd. Zeits. Korr.-Bl., v 1886, 251; Lehner, Westd. Zeits. xv, 1896, p. 251, tav. 9, 12; C.I.L., xiii, 10013). Due di essi provenienti da Colonia sono firmati Primianus fecit e sono decorati con scene del mito di Deianira, Nesso ed Ercole, e di Leda col cigno, quest'ultima con l'aggiunta di un commentario metrico. Il medaglione erotico di Lehner, attribuibile al III sec., a detta del Déchelette "ricorda interamente per il suo stile quelli della vallata del Rodano", e sebbene il nome di Primianus non si rinvenga in quest'ultima località, un medaglione della Valle del Reno trovato a Colonia ed iscritto felix vien... (Klein, op. cit., p. 85) fa supporre una forte influenza da tale fonte. Ma i medaglioni applicati della zona del Reno furono un elemento insignificante della locale industria ceramica.
4) Pannonia. E. Thomas, Alba Regia, i, 1961, pp. 71-76, considera quattro medaglioni per applicazione, o le matrici per produrli, rinvenuti a Martonvásár-Szentlászlópuszta, Brigetio ed Aquincum. Al contrario dei medaglioni della Valle del Rodano, che sono bordati, eventualmente, da una ghirlanda d'alloro, le versioni della Pannonia sono regolarmente circondate da bottoncini o perle, ed i loro soggetti rappresentano galli, un cane ed un'antilope, e sono quindi del tutto differenti dagli argomenti elencati nell'indice di Wuilleumier-Audin. La studiosa avanza l'ipotesi che i medaglioni applicati della Pannonia furono ispirati dall'Oriente, specificatamente dall'impero sassanide fondato nel 226 d. C., piuttosto che dalla Gallia e dalla Germania come proposto dall'Alföldi, op. cit., pp. 322-323 e Folia Arch., 5, 1945, 68; lo scrivente tuttavia tende a favorire quest'ultimo punto di vista a causa di ovvie somiglianze esistenti tra pezzi quali il medaglione di Brigetio, Alföldi, Laur. Aquin., tav. lxxi (che potrebbe essere esso stesso importato dalla Gallia) e Wuilleumier-Audin, op. cit., nn. 105, 187, 189, 191, ed anche a causa della possibile discrepanza cronologica tra la diffusione della cultura sassanide e l'inizio del III sec. a cui vengono assegnati i medaglioni pannonici. Inoltre, la chioccia per lo meno era un tradizionale motivo gallico associato colla buona fortuna (Déchelette, ii, fig. 137). Ma bisogna sottolineare il fatto che, nonostante l'interesse derivante dalle eventuali influenze culturali galliche o sassanidi, quantitativamente la produzione di medaglioni applicati fu insignificante al paragone di quella delle teglie pannoniche.
5) Nord Africa. Dechelette (ii, pp. 174-177), Merlin (Bull. Arch. du Comité, 1910, 1912, 1914, 1915, 1916, 1918), e Salomonson (Bull. ant. Besch., xxv, 1960, pp. 25-51) illustrano vasi rossi con decorazione applicata. Questi si ritrovano principalmente, e conseguentemente sono prodotti, nella zona di Sousse, el-Djem, el-Aouja, e qualche volta li troviamo esportati nel Mediterraneo orientale, nel basso Reno, e nella Gallia centrale. Eccetto per la tecnica e qualche motivo decorativo che posson derivare da Lezoux o dalla Valle del Reno, questi formano una tradizione indipendente. Le loro forme principali sono anfore dal ventre sferico, oinochòai, ed insoliti vasi troncoconici ad un manico, ampiamente rigonfi al di sopra del piede ad anello e gradualmente diminuenti in diametro fino alla stretta apertura superiore. La decorazione solitamente consiste in un paio di fronde di palma od altri rami verticali, che fiancheggiano una figura. Questi tipi sono così rozzi che la loro identificazione diviene difficile, ma essi includono animali selvaggi, Eroti, menadi, aurighi, Atteoni, ecc., tutti nella tradizione grecoromana senza intrusione di temi provenienti dall'arte indigena. Quei vasi illustranti animali o contenenti le acclamazioni Sinemati (Pentasi, Taurisci, Telegeni) nika scritte in tabella ansata riflettono il tifo locale per i venatores nell'anfiteatro. Uno studio dettagliato di altri motivi mostrerebbe probabilmente un simile rapporto con altre manifestazioni della vita locale contemporanea. Questi pezzi non sono firmati dal vasaio per quanto un certo Navigius produsse vasi alquanto simili, una discussione dei quali però va al di là degli scopi del presente articolo. Essi datano di sicuro dal secondo venticinquennio del III secolo.
E) Vasi a decorazione incisa. Intorno al 150 d. C., ossia, contemporaneamente ai vasi con decorazione applicata, i ceramisti di Lezoux svilupparono anche una tecnica del "cristallo tagliato", consistente in incisioni concave a forma di V praticate sulla superficie di vasi globulari od ovoidi che non si prestavano al procedimento mediante matrice "aperta". I disegni principali furono motivi a raggiera, quali stelle o foglie, e, meno felicemente, si tentò persino di rendere animali. In seguito, quando il repertorio di sagome fu esteso mediante l'inclusione di alti bicchieri e piccole coppe, e quando la tecnica fu ampliata mediante l'uso di più larghe incisioni a fondo piatto, questa fu adottata anche a Lavoye, Treviri, Rheinzabern e Westerndorf. Tale decorazione richiede un selettivo senso del disegno, un occhio sicuro, ed una mano ferma, ma i ceramisti che produssero questi vasi evidentemente non considerarono i loro sforzi sufficientemente artistici da meritare d'essere firmati (se invero le firme sono prova di orgoglio nella propria lavorazione; esse servivano anche allo scopo pratico d'identificare i contenuti dei forni dopo il processo di cottura), e perciò ignoriamo purtroppo se il vasellame inciso sia stato prodotto da artisti altrimenti noti. I vasi ad incisione non costituirono mai una forma preponderante della produzione di t. s., ma essi furono largamente distribuiti lungo il Reno ed in Britannia e la loro manifattura continuò fino al IV secolo. Illustrazioni e discussioni si trovano in Déchelette, op. cit., ii, pp. 312-315, tav. v; Oswald-Pryce, op. cit., pp. 223-226, tavv. lxxvii, lxxviii; Ludowici, Rheinzabern, iii (Urnengräber, ecc.), p. 275; Chenet, Cér. gallo-rom. d'Argonne du IV s., p. 85; Charleston, Roman Pottery, tavv. 14, 15.
F) Vasi con decorazione à la barbotine. Molto più flessibile e molto più largamente praticata dell'incisione a "cristallo tagliato" fu la tecnica di stendere, o altrimenti manipolare, dell'argilla liquida (barbotine) su di un vaso già formato. Mentre tale procedimento tecnico è naturale nell'industria ceramica, essendo stato impiegato sin da tempi minoici, esso è anche comune all'industria vetraria, ed in seguito allo sviluppo di quest'ultima uno scambio reciproco d'influenze tra le due industrie divenne inevitabile. L'impiego di barbotine ci è noto dal periodo ellenistico, e durante il periodo romano fu occasionalmente praticato dai ceramisti aretini e liberamente adottato nelle classi intermedie della ceramica romana del I sec. che Lamboglia ha chiamato col nome generico di "vasi a pareti sottili" (fig. 829), donde passò al vasellame "retico" e della zona del Reno, e finalmente ai famosi "vasi di Castor" del Northamptonshire in Britannia. Su t. s., a parte l'aretina, il trattamento à la barbotine acquistò grandissimo favore durante il I sec. a La Graufesenque, e fu impiegato nelle ampie e basse Forme 35 e 36 e su sagome simili aventi un orlo orizzontale, donde si estese anche nelle versioni ispaniche ed africane delle medesime forme. Non esiste quindi un unico punto logico in cui sia naturale introdurre la discussione di tale procedimento tecnico in un articolo principalmente dedicato alla ceramica da matrice; tuttavia esso non può venir ignorato, poiché spesso fu impiegato insieme alla Glanztonfilm genuina della t. s. e fu praticato dagli stessi ceramisti che produssero terra sigillata.
Sulle più antiche forme galliche la decorazione consistette in un semplice disegno di foglia-e-stelo più volte ripetuto, ma progredì verso motivi più complicati sugli ampi orli ansati di lances ovali e rotondi e, tramite le coppe globulari di Lezoux, si estese infine a forme animali, vegetali ed umane su varie sagome della ceramica di Rheinzabern del II secolo. Come tecnica, la barbotine sopravvisse alla t. s. fin entro il IV secolo. Le capacità che si richiedono per l'impiego della barbotine sono quelle proprie di un disegnatore a mano libera, ovviamente del tutto diverse da quelle richieste per decorazione sia incisa che da matrice. In generale bisogna ammettere che gli artisti che la praticarono ottennero soddisfacenti risultati entro i limiti delle loro ambizioni. L'occhio moderno, uso sia alla semplificazione che all'esagerazione, troverà i loro risultati gradevoli ed eleganti. Stranamente, i vasi decorati alla barbotine, appartenenti a qualsivoglia forma o periodo, compresi quelli delle Forme 35 e 36 provenienti da La Graufesenque, non sono quasi mai firmati. Illustrazioni e discussioni si trovano in Déchelette, op. cit., ii, pp. 309-312; Loeschcke, Slg. Niessen, tavv. lviii-lx, lxxxvii, lxxxviii, passim; Oswald-Pryce, op. cit., pp. 226-230, tavv. lxxix-lxxxiii; Ludowici, op. cit., pp. 272-274; Charleston, op. cit., frontespizio (a colori), tavv. 12 B, 16-21, 24 B, 29 B, 38 A, 54-66 A, comprendenti una varietà di ceramiche.
G) T. s. gallo-orientale e renana. Una vasta bibliografia si è formata intorno alla t. s. gallo-orientale e renana. Il primo studio approfondito fu quello del Fölzer, Die Bilderschüsseln der ostgallischen Sigillata-Manufakturen, 1913, con bibliografia completa e 33 tavole di dettagliate illustrazioni. Oswald-Pryce, op. cit., pp. 21-38, è più esteso ma meno originale. In seguito Holwerda, Arentsburg, 1923, e Ricken, Saalburg Jahrb., viii, 1934, 130-182, hanno ampliato e corretto molti particolari. Nelle sue linee generali, e salvo alcune eccezioni quali la scena di Polifemo usata da Satto, questa fase dell'arte della t. s. non è fortemente creativa, ma per i suoi tipi figurati e le loro combinazioni si rifà generosamente alle industrie che la precedettero, specialmente della Gallia centrale. Pur avendo riconoscibili caratteristiche sue proprie, l'arte gallo-orientale e renana non si disfa dell'eredità del passato, come l'arte gallo-meridionale aveva fatto, prima nei confronti delle tradizioni italiche e poi delle sue stesse tradizioni, o come notiamo nell'arte di Lezoux con i suoi radicali cambiamenti.
In sintesi, i vasai della Gallia orientale erano gli ultimi eredi di una tradizione greco-romana da cui essi erano ormai troppo distaccati; essi, sia in gruppo o come individui, e la loro clientela, per la maggior parte militare, avevano perduto il senso estetico. Vivevano in un mondo disordinato e continuamente soggetto a pressioni esterne che sempre meno si orientava verso Roma; il loro mestiere era minacciato dallo sviluppo dei prodotti di vetro provenienti dall'O, specialmente la Renania. Queste sono alcune delle ragioni che spiegano perché la t. s. scompare dalle Gallie al principio del III sec. invece di svilupparsi in nuovi prodotti come avvenne altrove nell'Impero.
Alcuni "classici" punti di vista come quelli enunciati da studiosi pionieri come Fölzer e Forrer non resistono alla prova di una rivalutazione di vecchi dati o dei nuovi dati derivati da scavi in diverse località quale Boucheporn. Notiamo variazioni locali di firme, incluso più di un nome su un singolo vaso; forme venivano cedute dal vasaio che le produsse per uso di altri vasai ed in località diverse; omonimi vasai in fabbriche differenti; notizie vaghe sull'organizzazione delle fabbriche e lo stato dei lavoranti; differenti interpretazioni delle influenze stilistiche; ed infine una pletora di località grandi e piccole variamente legate fra loro in maniera più stretta che altrove (una sovrabbondanza di dati che confonde e la quale si estende al vasellame liscio di cui, come d'uso, ci esimiamo dal parlare, senza però dimenticare la sua esistenza); tutti questi fattori contribuiscono a complicare lo studio della t. s. della Gallia orientale. Si ha l'impressione di migrazioni continue di vasai vagabondi i quali erano molto meno attaccati a una località che non fossero, per esempio, gli aretini.
Fuorché a Chémery la Forma 29 è quasi sconosciuta nella Gallia orientale; la Forma 30 è solo lievemente più comune; la Forma 37 domina il campo senza seria competizione. Come nel caso dei ceramisti della Gallia centrale, non soltanto i principali tipi figurati, ma specialmente gli ovoli ed i motivi di riempitivo minori costituiscono criteri essenziali per l'assegnazione di vasi decorati; quali esemplari di paziente lavoro investigativo, cfr. la ricostruzione dell'estesa produzione ed influenza di Albillus da La Madeleine fatta dal Fölzer (op. cit., pp. 10-13), che prende le mosse da un singolo frammento firmato, e l'analisi del Ricken sugli ovoli ed altri elementi a La Madekine ed altrove, op. cit., passim.
1) Luxeuil (Haute-Saône) rappresenta il primo movimento verso l'E, ma la maggior parte dei dati del Fölzer sul personale e la cronologia, già scarsi di per se stessi, sono ora stati eliminati: v. Stanfield-Simpson, op. cit., pp. XXXX, 29 (Ranto), e Lerat e Jeannin, in Annales lit. de l'Univ. de Besançon, xxxi, Archéol., 9, 1960. Si sono rinvenuti i timbri di 32 vasai, ma molti di essi appaiono su ceramica di La Graufesenque che raggiunse Luxeuil tramite importazione.
2) Aachen-Schönforst, descritta da Mayer, in Germania, xviii, 1934, pp. 102-109, fu un centro traianeo privo di grande importanza, che interessa soprattutto per la sua posizione settentrionale in un periodo così antico, e per l'usanza locale d'iscrivere piatti lisci in corsivo entro l'anello del piede prima della cottura. Gli scarsi avanzi di ceramica decorata indicano rapporti con Blickweiler ed Heiligenberg. Timbri-firma in uso anche a Rheinzabern implicano che l'industria fu eventualmente assorbita da quel centro.
3) Chémery-Faulquemont (Mosella) e la produzione dei ceramisti Saturninus e Satto sono state ampiamente discusse da Delort, in Annuaire Soc. d'hist. et d'arch. Lorraine, xliv, 1935, pp. 355-406, 20 tavole, e Mém. Ac. nat. Metz, xvii, 1948, pp. 95-127 e Vases ornés de la Moselle, 1953; Fölzer, op. cit., pp. 17-36; Lutz, in Ann... Lorraine, lxi, 1961, pp. 39-43 ed altre imminenti pubblicazioni; Knorr e Sprater, Die westpfälzischen Sigillata-Töpfereien von Blickweiler und Eschweilerhof, 1927, pp. 24-27, 80-81; Delort, in Gallia, xiv, 1956, p. 290. Saturninus, possibilmente emigrato dalla Gallia meridionale, fu il più anziano dei due associati. Finora soltanto i suoi lavori sono stati trovati a Boucheporn presso St. Avold (Mosella), intorno all'8o d. C.; se Satto collaborò con lui in quel centro, egli deve essere emigrato a Chémery intorno al 110 d. C.; in seguito egli lavorò anche a Blickweiler, e finalmente a Mittelbronn. Materiale rinvenuto a Heiligenberg, Sinzing-Remagen e Treviri è stato addotto a prova del suggerimento che Satto ed il suo lavorante Silvinus furono attivi anche in tali luoghi, forse in qualità di specialisti nel produrre matrici piuttosto che le coppe medesime, o che a Chémery essi produssero ed esportarono matrici per impiego ad Heiligenberg, ecc.; ma Lutz interpreta tale materiale soltanto quale risultato di plagio locale basato sull'opera di Satto. In ogni caso, e sebbene la valutazione dei dati esistenti lasci alcuni problemi insoluti, è ovvio che Satto manifatturò matrici, coppe a rilievo e piatti lisci a Chémery, che rappresenta pertanto il suo primo centro produttivo sicuramente identificato. Egli fu non soltanto un influente caposcuola nello stile artistico della sigillata, ma anche un produttore prolifico ed un industriale importante. La distribuzione della sua produzione, come quella di Saturninus, presenta le caratteristiche di tutta la produzione della Gallia orientale: 55% al limes germanico, zona dell'alto Reno e Gran Bretagna, 35% al limes del Danubio, 10% locale, niente al S o ad O. Se la valutazione della sua attività artistica appare difficile, ciò è dovuto ai suoi complicati rapporti e alla sovrabbondanza della sua produzione. Il suo lavoro a rilievo, stilisticamente legato sia alla Gallia meridionale che alla centrale, rientra in alcune ampie classificazioni: la classe geometrica, che varia da esemplari semplici ad esemplari piuttosto complicati; quella dei fregi vegetali, coi vuoti colmati da foglie su steli sinuosi o da figure umane ed animali o da motivi di riempitivo geometrici; quella a festoni ed archi contenenti figure varie; quella a metope (pannelli) racchiudenti croci di Sant'Andrea, figure, medaglioni e file di perle; e quella dei vasi a stile libero con scene di caccia, vendemmia, il mito di Polifemo e temi miscellanei.
Altri fabbricanti di vasi da matrice a Chémery possono aver compreso il "Vasaio del Rosone" di Stanfield-Simpson (= il Terzo Vasaio del Delort) ed il Vasaio X-I, ambedue provenienti da Les Martres-de Veyre; v. Lutz in Rev. arch. du Centre, ii, 1963, pp. 5-13. Inoltre, numerosi ceramisti impressero i loro nomi o rosoni caratteristici su vasi lisci. L'industria di Chémery può aver avuto termine tra il 150 e il 16o d. C.
4) La Madeleine presso Nancy (Meurthe-et-Moselle) fu "colonizzata" dagli abitanti della Gallia centrale. Due dei principali produttori di coppe da matrice furono Albillus e Janu(arius), del periodo adrianeo-antoniniano. Entrambi furono fortemente influenzati dall'arte di Lezoux, e, come prevedibile, dalla Gallia orientale stessa. In seguito entrambi emigrarono ad Heiligenberg; Albillus quindi andò a Treviri, dove egli esercitò grande influenza sugli stili ceramici locali, mentre Janu(arius) si recò a Rheinzabern.
5) La zona della Foresta delle Argonne comprende i centri di t. s. di Lavoye, il più importante sotto tutti i punti, Avocourt, la Forêt de Hesse, Les Allieux (tutti nella Meuse), Pont-des-Rèmes e Vaux-Régnier (entrambi nella Marne), e la Chalade (Meuse). La più completa pubblicazione di queste località trovasi in G. Chenet e G. Gaudron, La ceramique sigillée d'Argonne des IIe et IIIe siècles, suppl. Gallia, VI, 1955, con bibliografia di studi parziali anteriori da parte di Meunier, Chenet e Fölzer, op. cit., pp. 37-41; v. anche Hofmann, Acta Rei cret. Rom. Faut., iii, 1961, pagg. 23-33. La fase più antica della loro produzione di t. s. viene attribuita al periodo 120, 130-200 d. C.; Avocourt e Pont-des-Quatre-Enfants nella Forêt de Hesse ripresero le loro attività nel 270-400 d. C. Dei 94 artigiani sulla cui produzione di vasi lisci ed a rilievo in questa zona abbiamo sicure prove, 39 apparentemente non lavorarono mai altrove, benché circa una ventina di essi emigrarono entro l'area delle Argonne; pur assumendo che certi vasai omonimi d'altri centri rappresentano gli stessi individui delle Argonne, una cinquantina sono anche sicuramente assegnabili a luoghi al di fuori di questa zona, principalmente a Lezoux, donde essi probabilmente provennero, e ad Ittenweiler (?), Treviri, Rheinzabern e Westerndorf, dove presumibilmente si recarono. Fölzer non vede alcuna influenza gallo-meridionale nella loro decorazione, e vi scorge solo scarsi elementi provenienti dalla Gallia centrale; i loro tipi derivarono piuttosto da Chémery e La Madeleine, e furono trattati con poca raffinatezza. Il loro repertorio fu relativamente ristretto e la composizione si basò molto sulla monotona ripetizione. (Si badi che l'effetto di scorcio dall'alto e dai lati nelle fotografie delle coppe presentate da Chenet rende questo difetto meno sgradevole che nei suoi disegni di sviluppo in piano). A Lavoye il ceramista innovatore Eburus, privo di doti artistiche, si specializzò nella manifattura di calici ovoidi a rilievo, prodotti mediante due mezze matrici combacianti verticalmente; molti suoi stampi, ma pochissini suoi vasi, sono stati rinvenuti.
Anteriormente e contemporaneamente all'industria della t. s. nelle Argonne esistette anche una tradizione ceramica gallo-belga in piena attività, come abbiamo notato anche altrove. È quindi logico far riferimento, a questo punto, alla ripresa della tradizione di t. s. intorno al 270 d. C., come ci viene descritta da W. Unverzagt, Terra sigillata mit Rddchenverzierung, 1919 e da G. Chenet, La céramique galloromain d'Argonne du IVe siècle et la terre sigillée décorée à la molette, Macon 1941, titoli che adeguatamente descrivono sia la tecnica della decorazione che la data; la trattazione più aggiornata è quella dell'Ettlinger, Die Kleinfunde aus dem spätrömische Kastell Schaan, in Jahrb. d. Hist. Ver. f. d. Furstent. Liechtenstein, lix, 1960, pp. 229-299, con particolare attenzione rivolta alla Svizzera. La principale forma decorativa deriva dalla Forma 37, e certe sagome di t. sigillata liscia vengono ora trattate con decorazione, insieme ad altre che non avevano mai fatto parte delle tradizioni della t. sigillata. Il colore è ancora rosso, sebbene tenda maggiormente verso l'arancione, e la Glanztonfilm è spesso notevolmente più opaca di prima. Ma invece d'essere prodotta mediante matrici, la decorazione viene ora impressa in fasce orizzontali sull'esterno del vaso mediante rotellatura con cilindri intagliati in piccole metope di linee diagonali, croci, ovoli, ecc., una tecnica celtica per lo meno antica quanto le colonie da Mont Beuvray e Gergovia (v. per esempio Hatt, in Bull. hist. et scient. de l'Auvergne, lxv, 1945, figg. 20-21, et saep.) ma, come Ettlinger dimostra, non meno favorita dai decoratori di molti oggetti minori durante il IV sec. (op. cit., p. 235). "Con mezzi puramente grafico-lineari e attraverso l'impiego delle forme basilari più semplici derivanti dal cerchio e dalla retta, si ottenne mediante addizione un effetto ritmico eseguito in modo sempre meno schematico... Ogni piccolo motivo individuale è soltanto una parte del contesto maggiore, ed in questo caso ciò significa persino un settore dell'intera superficie ravvivata dalla decorazione". A Chatel-Chéhéry si usavano motivi cristiani. Le firme sono cadute in disuso, ma le opere di Unverzagt e di Chenet elencano 354 motivi su cilindri (molettes) che, con le aggiunte di Gricourt, in Gallia, viii, 1950, pp. 55-76 (Bavai) e Mitard, Gallia, xvi, 1958, pp. 293-299 (Guiry-Gadancourt), possono servire press'a poco agli stessi fini. In vista del declino dell'impero durante il IV sec., è interessante notare che questa ceramica fu distribuita in Inghilterra, verso Occidente nella Baia di Biscaglia, verso Oriente a Schlufter (Turingia!), lungo il Danubio fino a Deutsch-Altenburg (Carnuntum), e ad Hosszuhetény in Ungheria.
6) Blickweiler ed Eschweilerhof, presso St. Ingbert (Sarre) furono scavate da Sprater proprio prima della prima guerra mondiale e da lui pubblicate insieme a Knorr, op. cit., 1927, con ampie illustrazioni. Forse Satto emigrò da Boucheporn a Blickweiler, ed intorno al 135 d. C. Austrus, che Stanfield-Simpson identificarono con il "Capo-Ceramista" di Sprater-Knorr, vi emigrò da Lezoux, centro che fornì molti tipi figurati suoi ed altrui. Benché concomitante col declino di La Graufesenque, questo movimento migratorio non fu certo causato da esso; piuttosto, le stesse cause furono responsabili per entrambi i fenomeni. Circa 13 anonimi contemporanei più giovani di questi due ceramisti sono stati identificati e denominati da Knorr in base a criteri stilistici; alla fine dell'industria il "gruppo di Avitus", composto da quattro o cinque vasai, riprese a firmare le matrici, ed entro il 16o d. C. l'intero gruppo cedette alla competizione ed emigrò verso Oriente, a Rheinzabern o verso Settentrione, a Treviri. In complesso, la loro opera si può paragonare alla buona produzione di Lezoux, con cui può venir facilmente confusa, pur avendo uno stile ed alcuni tipi figurati suoi proprî. L'industria di Blickweiler-Eschweilerhof derivò elementi anche da Luxeuil, Chémery e La Madeleine; a loro volta, i suoi ceramisti contribuirono all'arte di Avocourt, Treviri, e dei vasai seriori di Rheinzabern, Ittenweiler, Kräherwald, Beinstein e Westerndorf. Il tardo Ceramista di Avitus L•A•L, è stato fatto oggetto di uno speciale studio da parte di Klumbach, Mainz. Zeits., xxviii, 1933, pp. 6o-68; le sue scene circensi e di caccia, i suoi animali in pose disinvolte, le sue figure decorative ed i suoi motivi vegetali ornamentali sono disposti ampiamente e con gusto, evitando l'affollato horror vacui di alcuni suoi colleghi e la tediosa vacuità di altri. Alcune coppe di L•A•L raggiunsero l'Inghilterra e Wels in Austria, ma la distribuzione dei prodotti di Blickweiler-Eschweilerhof fu in genere ristretta al limes ed il suo immediato retroterra nelle vallate del Neckar e del Reno. I materiali degli scavi si trovano al museo di Speier.
7) Heiligenberg (Bas-Rhin) è stata pubblicata da Forrer, Die römischen TerrasigillataTöpfereien von HeiligenbergDinsheim und Ittenweiler im Elsass, Stoccarda 1911. Sotto Traiano o Adriano fu colonizzata, fra gli altri, da Ciriuna, che aveva apparentemente fatto il suo tirocinio nella Gallia centrale e che qui emerge per la prima volta in qualità di ceramista indipendente produttore di ceramica a rilievo sobria e ben organizzata. In seguito egli sembra essersi recato a Rheinzabern con un numero di soci che adottarono o plagiarono i suoi tipi figurati e le sue matrici. Un altro vasaio importante, forse il più antico colonizzatore fra tutti (ma la data del Forrer, 90-95 d. C., è troppo alta), fu Janu(arius). In base alle statistiche, la sua produzione raggiunse quella di tutti gli altri ceramisti di Heiligenberg messi insieme; i suoi rilievi sono audaci ed appariscenti, differenti in ciò da quelli di Ciriuna. Altri ceramisti, per esempio il Maestro dei Piccoli Medaglioni (Il Maestro F), Cerialis e Reginus, eminenti produttori di t. s. ampiamente disseminata, inclusero Heiligenberg tra le località in cui essi esercitarono la loro professione - in maggioranza cominciando in qualche altro centro gallico, raggiungendo Heiligenberg in tempi diversi a volte per vie indirette, presto o tardi recandosi a Rheinzabern, e talvolta persino migrando più oltre fino a Kräherwald o Westerndorf. "Essi studiarono le coppe gallo-centrali e cercarono di copiare a loro modo, ma non possedettero i punzoni figurati, ornamentali e di bordura (ovoli) della Gallia centrale, e dovettero manifatturare i loro" (Simpson). Da Heiligenberg, come del resto anche da altri centri, si riceve un'impressione d'incessante andirivieni da parte di industriali della ceramica indaffarati per quanto mediocri, per la cui vita economica, la popolazione civile e specialmente l'esercito ebbero estrema importanza, sempre in cerca di nuovi punti di vantaggio da cui poter produrre e disseminare le loro fragili ma indispensabili ceramiche con maggior profitto. L'"estate di San Martino del mondo antico" sotto i Buoni Imperatori donò loro lo stimolo e l'opportunità di migliorare le loro condizioni materiali, ma li ispirò ben poco ad esplorare le possibilità di creare nuove bellezze ceramiche entro le tradizioni della t. sigillata. Anche se le coppe illustrate nelle tavole del Forrer, ed ancor più gli oggetti stessi, non sono totalmente privi di una certa grazia di composizione, tuttavia la decorazione consiste di solito in una ristretta serie di punzoni più o meno rozzi ripetuti meccanicamente e senza ispirazione, in una massa di motivi di riempitivo privi di significato, ed in una completa dipendenza dall'uso di stampini, in contrasto alla tradizione di tralci e linee ricurve fatti a mano che avevano contribuito all'originalità e alla grazia della t. s. gallo-meridionale.
8) Ittenweiler (Basso Reno) e diverse altre stazioni alsaziane minori vengono discusse dal Forrer, op. cit., pp. 715-749, e, con differenti conclusioni, da Urner-Astolz, Die römerzeithche Keramik von Eschenz-Tasgetium, in Thurgauische Beitr. z. vaterl. Ges., lxxviii, 1942. Quaranta ceramisti sono stati identificati ad Ittenweiler; 7 di essi provennero da Lavoye; 10 vennero da Heiligenberg o vi si recarono; e 16 andarono in seguito a Rheinzabern. Soltanto 2, Verecundus, originario di Blickweiler ed Heiligenberg, ed il suo apprendista, imitatore e successore Cibisus, produssero vasi a rilievo. Il primo fu per anni il "grande maestro" di Ittenweiler, che fornì i vasi della Forma 37 all'alto Reno, alto Danubio e bassopiani della Svizzera, specialmente Eschenz. Il suo stile decorativo fu vario nelle sue disposizioni di una vasta serie di tipi figurati, molti dei quali appartengono alle tradizioni di Lezoux e di Blickweiler, ma appaiono in combinazioni dotate di stile e spirito personali. Al pari di altri ceramisti, Verecundus terminò la sua carriera a Rheinzabern. L'opera di Cibisus è accurata e coscienziosa, ed è caratterizzata da diverse idiosincrasie, per esempio il suo "ovolo" triangolare ed il suo uso di una o due bande, tracciate colla riga e quadrettate, al posto delle linee ondulate o delle file di perle impiegate da altri. La datazione di questi due maestri non è sicura, ma Cibisus evidentemente emigrò da Ittenweiler, forse intorno al 130 d. C. e forse passando da Rheinzabern, e si recò a Mittelbronn, dove collaborò con Satto prima di trasferirsi in una terza (?) località dove produsse la coppa proveniente da Kempten che comprende una moneta dell'anno 171 d. C. quale parte della sua decorazione, (Lutz, in Gallia, xviii, 1960, pp. 111-161). Uno dei suoi lavori passò le Alpi e raggiunse Madrano (Fransioli, in Jahrb. schw. Ges. f. Urgeschichte, xlvii, 1958-59, p. 57 ss.).
9) Mittelbronn, presso Phalsbourg (Moselle), scavata e descritta in un opuscolo da Lutz e Morand-Hartmann, La céramique de Mittelbronn, 1957 (per i dati e conclusioni più completi v. Lutz, in Gallia, xvii, 1959, pp. 101-160, e xviii, 1960, pp. 111-161), fu un centro importante per la manifattura di ceramiche "miscellanee", compresa la t. sigillata. Forse negli anni intorno al 130 Satto vi emigrò dall'ultima località ov'egli aveva precedentemente sostato, e vi fondò la locale industria ceramica. Abbiamo tuttavia scarse prove della presenza a Mittelbronn del suo contemporaneo più anziano Saturninus. A Satto si unì poco dopo Cibisus proveniente da Ittenweiler; i due lavorarono nella zona fino alla morte di Satto e la possibile riemigrazione di Cibisus, che morì dopo il 171. Nel contempo l'industria della ceramica "miscellanea" aveva posto ferme radici; era in piena produzione poco dopo il 159, e sopravvisse fin verso la fine del III secolo.
10) Alto-Yutz (Moselle) è stato recentemente identificato dallo Hatt e altri come un centro per la fabbricazione di vasi sia lisci che sagomati (Annuaire Soc. d'Hist. et d'Arch. Lorraine, lx, 1960, pp. 5-40). La scoperta consiste di quattro forni è circa 5.000 frammenti di ceramica campana, di tardo La Tène, e di t. sigillata. Un precedente periodo di t. s., circa 150-170 d. C., è caratterizzato da artigiani influenzati, o provenienti, da Lavoye, e da uno sconosciuto Maestro dell'Omino che ci fa pensare al periodo posteriore di Blickweiler; il suo stile di "una decadenza ancora ordinata" fa prevedere la completa bancarotta artistica degli artigiani seguenti. Circa il 170 d. C. si nota una interruzione della produzione, a causa di guerre, come del resto si nota altrove. Questa si riprende per un periodo tra il 180-200 d. C., circa, con ceramisti che firmarono coi nomi di Alpinius e Censor(inus) di Treviri, e di Comitialis di Rheinzabern. Due problemi, di cui da tempo si aveva vaga conoscenza, vengono in primo piano quale risultato degli scavi dell'Alto-Yutz: I) la questione di fabbriche sussidiarie a quelle dei centri maggiori, e 2) la questione fondamentale del significato delle firme. Entrambi attendono risposta.
11) Treviri ed il suo avamposto a Remagen sono descritti da Fölzer, op. cit., pp. 48-81; Oelmann, Ker. d. Kast Niederbieber, pp. 25-28; Holwerda, Arentsburg, pp. 114-117, tutti con numerose illustrazioni. Oltre Treviri stessa, dove si rinviene il maggior numero dei vasi, l'area di distribuzione fu limitata al basso Reno e al limes, con penetrazione occasionale in Britannia; non si estese alla riva destra del Reno a S del Meno, né alla Rezia e al Danubio. Si distinguono tre gruppi di ceramisti: 1) una scuola anonima sotto l'influenza della Gallia centrale specialmente Vichy (ma Oelmann lo nega), e della Gallia orientale, specialmente dei suoi ceramisti Albillus e Satto; questa scuola fu attiva dal primo trentennio del II sec. fin circa il 180 d. C. e "colonizzò" Remagen. 2) Il gruppo di Dexter-Censor(inus)-Criciro-Maiiaaus, ecc., databile intorno al 175-225 d. C., che mostra l'industria in pieno declino con un repertorio tipologico ristretto e mal eseguito, completamente indipendente da Lezoux, ma con un certo numero di tipi nuovi, per esempio, mostri marini, derivati dal vasellame metallico; a prescindere da scene dell'arena e del circo vi sono pochissime composizioni narrative. 3) Alpinus ed altri, coevi ai precedenti, ma artisticamente indipendenti da essi, che continuarono a subire l'influenza di Vichy e Lavoye persino in questa tarda epoca.
12) Rheinzabern (Tabernae Rhenanae) in Rheinpfalz fu paragonabile in importanza ad Arezzo, La Graufensenque e Lezoux quale centro per la manifattura di t. sigillata. Abbondanza di eccellente argilla, convenienti ed economiche possibilità di trasporto per carrozzabile e fiume, e le illimitate capacità di consumo delle colonie militari e civili del limes ed altrove, contribuirono a renderla la meta della maggior parte dei ceramisti itineranti della Gallia orientale, che abbiamo già visto. Circa 270 nomi si riscontrano su t. s. liscia ed a rilievo. Questo centro ha avuto anche la fortuna di venir scavato a fondo e pubblicato riccamente da Ludowici (5 voll. dai titoli diversi, 1904-1927, ed un volume postumo, n. 6, Die Bilderschüsseln der römischen Töpfer van Rheinzabern, compilato da H. Ricken, e compiuto da Ch. Ficher, tavole, 1942 [1946]; testo, 1963). Inoltre la ceramica di Rheinzabern è stata sia studiata che scavata diffusamente in varî centri britannici e continentali, ultimamente e specialmente da Karnitsch, Die verzierte Sigillata von Lauriacum, in Forsch. i. Lauriacum, iii, 1955 e Die Reliefsigillata van Ovilava, 1959, specialmente tavv. 87-181; v. anche Rutkowski, Terra Sigillata znaleziane w Poisce, 1960, con sunto in inglese. Matrici e vasi scavati a Rheinzabern si trovano nell'Historisches Museum a Speier. La completezza e l'eccellenza di queste trattazioni facilmente accessibili ci sollevano dal compito di presentare per esteso l'industria di Rheinzabern.
Il centro di t. s. in Rheinzabern fu fondato intorno al 140 d. C. da Janu(arius) di La Madeleine ed Heiligenberg; egli fu seguito da Reginus I di Heiligenberg, Ittenweiler e Blickweiler (la cronologia è del Karnitsch, e corregge quella del Reubel e dell'Oswald). Oswald e Pryce assegnano ad un secondo periodo Belsus, B. F. Attoni, il gruppo di Cerialis e numerosi altri ceramisti; nel terzo e più produttivo periodo essi includono il gruppo di Comitialis, Arvernicus, Primitivus, Victor, Iulius ed altri, con la loro preferenza per tipi umani ed animali ad esclusione delle forme vegetali (fig. 826). Di Iulius essi affermano che "la sua opera raggiunse l'infimo livello della degradazione... così esecrabilmente cattiva in disegno ed esecuzione da bastare in se stessa a scoraggiare ulteriori richieste di terra sigillata a rilievo"; forse polemicamente, Karnitsch osserva che, considerando la sua tarda data, i suoi motivi decorativi sono tuttora assai graziosi. In tutti i casi, Iulius, come i suoi imperiali contemporanei Elagabalo, la matriarchia di Emesa e Massimino il Trace, fu l'aggiornato rappresentante di una tradizione che, nata intorno al 30 a. C., è ora barbarizzata e completamente priva d'originalità, ricettività di spirito ellenico, capacità di grandezza imperiale, e tutte le altre caratteristiche che ci rendono interessanti sia la persona di Augusto che la ceramica aretina. Per vie parallele gli imperatori e le ceramiche imperiali avevano degradato i loro modelli augustei così completamente da non serbare ora che la più vaga rassomiglianza alle loro origini. Col termine dell'industria di Rheinzabern circa il 230 d. C. (Nierhaus, in Germania, xl, 1962, pp. 168-171 a confronto con la data del Karnitsch di circa 260) possiamo virtualmente scrivere l'epitaffio sia dell'Impero Romano che della t. s., benché, come abbiamo visto, il IV sec. di Diocleziano e Costantino riuscì a produrre una specie di restaurazione non soltanto della tradizione imperiale, ma anche, nelle Argonne, della t. s. romana imperiale.
13) L'uso di una ingubbiatura bianca in luogo di pittura su ceramiche renane come alcuni altri fenomeni, non ha, un logico posto fisso in una rassegna generale della t. sigillata. Oswald e Pryce ne parlano come di una forma di barbotine; ed in un certo senso essi hanno ragione. Ma la tecnica, il proposito e l'effetto della pittura bianca sono interamente differenti da quelli della monocroma barbotine. Il suo impiego sulla t. s., che solo c'interessa in questa trattazione, è in effetti limitato al rendimento di cerchi solidi dal centro lievemente sollevato, disposti in semplici motivi di vario genere. Entrò in uso durante la seconda metà del II sec. su occasionali pezzi di t. s. a Rheinzabern, ma più particolarmente anche su ceramiche nere presso Colonia, e la si rinviene appunto in questa zona ed in Britannia (dove può anche essere stata imitata). Pezzi singoli sono stati pubblicati, ma non esiste una sintesi complessiva della ceramica nel suo insieme. Per esemplari caratteristici, molti dei quali hanno una superficie nera, v. Walters, Cat. Rom. Pottery Brit. Mus., pp. 75-76; 393-394; Behn, Röm. Ker., fig. 16, 4 (anche in Charleston, Rom. Pottery, tav. 71); Oelmann, Niederbieber, p. 7; Ludowici, Rheinzabern, III, p. 273 e le pubblicazioni di varî centri renani.
14) Una manifattura di t. s. a rilievo a Magonza è attestata da matrici firmate verecvndvs f, e comitiali e concostio graffito sul fondo, e da una coppa mal cotta di b•f•attoni, e forse da altri dati; cfr. Fremersdorf, Mainz. Zeits., xliv-xlv, 1949-50, pp. 34-37. Le matrici sono in argilla di Rheinzabern ma non vi è ragione di supporre che i produttori in serie nominati abbiano in effetti emigrato a Magonza. Tranne nel caso che alcuni dei loro subordinati si siano nuovamente stabiliti colà portando seco i loro materiali, dobbiamo assumere che i ceramisti di Magonza (e forse di qualche altra "colonia" di Rheinzabern) abbiano abbandonato ogni interesse e rinunciato ad ogni responsabilità per la selezione e la combinazione di figure in matrice, limitandosi a comprare stampi prodotti per la vendita a Rheinzabern, da cui essi derivarono impressioni sul luogo.
15) Kräherwald presso Stoccarda ed il limes fu un'altra ramificazione di Rheinzabern, brevemente descritta ed illustrata da Knorr, Die verzierten T.-s.-Gefässe von Cannstatt une Köngen-Grinario, 1905, pp. 41 5ss, tavv. 34-40. Reginus fu il più importante di un certo numero di ceramisti che apparentemente lavorarono colà durante la seconda metà del II secolo. Karnitsch osserva che la produzione di Kräherwald rassomiglia tanto a quella di Heiligenberg che le due sono difficilmente distinguibili. La ceramica di Kräherwald si trova nelle collezioni di Stoccarda, Cannstatt ed altrove.
16) Tra Waiblingen e Beinstein, pure presso Stoccarda, esistette un centro strettamente connesso a Rheinzabern e Kràherwald (Paret, Die römische Töpferei von Waiblingen-Beinstein, in Festsch. f. August Oxé, pp. 57-64; Ricken, Die Bilderschüsseln der Töpferei von Waiblingen-Beinstein, ibid., pp. 64-83, con abbondanti illustrazioni). Tuttavia la ceramica a rilievo ha un certo carattere particolare dovuto ad una rielaborazione di alcuni tipi decorativi minori, quali ovoli, medaglioni, archi, ecc. L'evidenza stilistica data questo centro, ed i suoi ceramisti Reginus, Augustinus, Marcellus ed infine Marinus (tutti attivi anche a Rheinzabern), nella seconda metà del II secolo. La sua area di distribuzione non fu molto estesa; il pezzo rinvenuto più lontano dal centro di produzione proviene da Enns.
17) Westerndorf, presso Rosenheim, Baviera, fu "colonizzata" da quelli di Rheinzabern intorno al 150 d. C. e continuò la sua attività nel secolo seguente. Le sue ceramiche furono esportate principalmente verso l'E; la trattazione più aggiornata è quella del Kellner, Zur Sigillata-Töpferei von Westerndorf, I, Bayer. Vorgeschichtsbl., xxvi, 1961, pag. 165-203, con ampia bibliografia di Kissin, Karnitsch, Rutkowski, ecc. La ceramica di Westerndorf rientra in tre categorie principali, tutte più o meno derivanti dall'arte di Rheinzabern. 1) Il gruppo di Comitialis, che impresse sulla matrice il nome di Comitalis e di qualche altro ceramista (Veneri, csserot), a volte sostituito, o a volte accompagnato, da un altro nome (Augustus, cssbelatullus, ecc.) apposto sull'orlo del vaso completo. Tipici di questo gruppo sono i punzoni della forma cssbelatullus, csselenius, csserot, cssmaianus, cssmarcellinus, csssedatus, cssvologesus; il prefisso rimane inspiegato, ma senza dubbio ha qualche nesso con Comitialis. Tuttavia la maggioranza dei suoi soci o lavoranti non ne fece uso. Un sicuro indice della ceramica di Comitialis da Westerndorf è il suo abituale ovolo, tipico della sua produzione. 2) Onniorix, che Eichler per primo (Laureae Aquincenses... Kuzsinszky [Diss. Pann., ser. 2, n. 10, 1938]) identificò quale vasaio di Westerndorf, ha uno stile stranamente povero e monotono, ma caratteristico. 3) Il gruppo di Helenius, composto da 23 ceramisti, alcuni dei quali, compreso apparentemente Helenius stesso, avevano lavorato per Comitialis, è stato identificato dal Kiss, in parte rintracciando motivi associati coll'"ovolo G" del Ricken (Saalburg Jahrb., viii, 1934, p. 168), in parte in base ai pezzi firmati da Helenius provenienti da Rheinzabern, e in parte mediante le firme dei suoi 23 soci o lavoranti di Westerndorf apposte sull'orlo dei vasi già ultimati, poiché il nome di Helenius stesso non appare sui prodotti della sua attività a Lavoye, che precedette quella a Rheinzabern, o su quelli della sua fase a Westerndorf, che la seguì!
18) Fabbriche svizzere di t. s. a Berna, Solothurn, Windisch (Vindonissa) e Baden produssero coppe a rilievo che sono state studiate da Vogt, Terra Sigillatafabrikation in der Schweiz, in Zeits. f. schweiz. Archaeol. u. Kunstgesch., 3, 1941, pp. 95-190. Corrispondenze di nomi e tipi figurati indicano che queste fabbriche furono diramazioni di Rheinzabern, forse tramite Westerndorf, a cui esse sono approssimativamente coeve, ed un impiego, alquanto simile, di cerchietti impressi ripetutamente e senza ispirazione sulla Forma 37 è stato trovato dal R. Malherbe in una fornace di t. s. lucente del II sec. d. C. a Losanna-Vidy. La distribuzione di tutta la t. s. elvetica era limitata all'area contigua, dove, osserva il Vogt, essa contribuì ben poco alla gloria della tradizione artistica gallo-romana. Un'interessante applicazione locale delle tecniche della t. s. fu l'impressione di punzoni di t. s. sugli orli orizzontali di mortai, producendo così un fregio di figure ad intaglio invece del solito rilievo della t. s. (fig. 827).
È logico, anche se non cronologicamente esatto, far menzione a questo punto delle imitazioni elvetiche di sigillata descritte da Drack, Die helvetische Terra sigillata-Imitation des 1. Jahrhunderts n. Chr. (1945). Esse consistettero in una ceramica totalmente liscia che si sviluppò all'inizio del periodo augusteo e durò per tutto il I sec. d. C. Essa trova il suo più prossimo parallelo nelle ceramiche "belghe" persino anteriori a quelle di Montans. La sua massima concentrazione si verifica nei centri militari di Windisch, Baden ed Augst, con ritrovamenti sparsi nelle colonie civili da Ginevra attraverso la Svizzera del Nord e il Cantone Vallese.
H) T. s. pannonica. La t. s. decorata della Pannonia rientra in due gruppi generali, quello impresso e quello a rilievo da matrice. Entrambe le categorie usarono una superficie lustra grigia o bruno-nerastra invece della normale Glanztonfilm della t. s., ma la ceramica da matrice impiegò anche la convenzionale superficie della t. sigillata. a) Nell'ultimo venticinquennio del I sec. la ceramica impressa, prodotta da Resatus e la sua cerchia nella provincia di Fejér, introdusse la tecnica della decorazione stampata sulla superficie esterna delle coppe, procedimento che in seguito divenne popolare su ceramiche tardo-romane. La distribuzione di tali vasi ebbe luogo principalmente nella Pannonia orientale ma anche lungo la linea Savaria-Scarabantia-Carnuntum. Le sue influenze formative provennero dal Mediterraneo orientale (Barkoczi e Bónis, in Acta Arch. Acad. Scient. Hung., iv, 1954, specialmente pp. 169-170 su Adony-Vetus Salina) oppure da La Graufesenque (Nagy, in Arch. Ért., 1928, pp. 96-110 su Aquincum), sebbene ad una data così antica ed in questa zona sarebbe stata piuttosto prevedibile un'ispirazione italo-settentrionale. I fatti osservati possono riflettere, come illustrato in certi altri casi in cui le due culture vennero a competizione, da una parte la persistenza dell'ellenismo contro la corrente romana, e dall'altra uno spostamento del centro di gravità sia culturale che politico dalla penisola alle province. Effettivamente quest'industria fu soppiantata dall'influsso delle ceramiche di Rheinzabern e Westerndorf, ma sopravvisse fin circa il 250 d. C. a Budapest (Aquincum). V. inoltre E. B. Thomas, in Acta Arch. Hung., VI, 1955, specialmente 110-114 (Tác-Fövenvpuszta) e Póczy, ibid., vii, 1956, pp. 73-138. b) La t. S. da matrice di Aquincum ha ricevuto una trattazione alquanto sproporzionata ai suoi meriti artistici, ad opera di Kuzsinszky, A gázgyári Római fazekastelep Aquincumban, in Budapest Régiségei ii, 1932 (con sunto in tedesco) e di Kiss, Die Zeitfolge der Erzeugnisse des Töpfers Pacatus von Aquincum, in Laureae Aquincenses... Kuzsinszky, pp. 212-228 (con testo anche in ungherese). La dettagliata pubblicazione del quartiere ceramico ad opera del primo autore, e soprattutto la brillante analisi della t. s. fatta dal secondo, sono modelli d'investigazione archeologica sulla ceramica romana. Il quartiere ceramico ad Aquincum, in contrasto con la maggioranza di quelli rinvenuti altrove, produsse una grande varietà di categorie ceramiche: la t. s. da matrice rappresenta soltanto una di esse. Se ne distinguono due produttori: un anonimo "vasaio anteriore" che introdusse un repertorio relativamente ricco di tipi figurati da Lezoux, forse sotto Adriano, ed il suo lavorante e successore Pacatus, che adottò molti di questi tipi e ne aggiunse altri suoi proprî, in parte derivandoli dalle categorie non appartenenti alla t.s. che fecero anche parte della sua produzione. Il primo non fu un artista esperto, ed il suo lavoro è rozzo; Pacatus per lo meno iniziò la sua carriera con una certa abilità artistica, ma andò progressivamente peggiorando. Stranamente, la t. s. di Aquincum non è comune a Budapest stessa, dove le ceramiche di Rheinzabern e Westerndorf evidentemente riuscirono a competere coi prodotti locali; la si trova invece a Osijek (Mursa) dove sembra sia stata pure fabbricata dalle matrici di Pacatus. L'industria non sopravvisse ai disastri delle guerre marcomanne. Un'industria contemporanea di t. s. a Sisak (Siscia) viene discussa da Thomas, loc. cit., con riferimenti a Nagy, loc. cit., e Budap. Rég., xiv, 1935, p. 321 ss.; ed una coppa dalla forma strana, verniciata a piombo, decorata con fregi a rilievo composti da rosoni ed animali galoppanti ovviamente adattati dalla t. s. gailica della fine del I e dell'inizio del II sec. (proveniente da Kisköszeg, metà del II sec.) è trattata da Nagy, in Budap. Rég., xiv, 1935, p. 293. Per la manifattura pannonica di medaglioni ceramici applicati, v. supra, D 4.
I) T. s. britannica. L'enorme importazione di t. s. in Britannia deve aver tentato i manifattori continentali a stabilirsi al di là della Manica, ma possediamo prove che solo pochi in effetti lo fecero. Una matrice frammentaria del cosiddetto Vasaio X-3 o Vasaio dell'Ancora, appartenente al periodo traianeo, che lavorò a Les-Martres-deVeyre ed a Lezoux ed il cui vero nome fu probabilmente Drusus (cfr. Terrisse, in Ogam, xii, 1960, pp. 27-30), è stata rinvenuta a York, ma senza prove collaterali atte a dimostrare ch'essa rappresenta una fabbrica vera e propria. Verso la metà del II sec. l'anonimo Vasaio di Aldgate produsse coppe a rilievo eccezionalmente "rozze e trascurate" che "contrastano sfavorevolmente persino coi peggiori prodotti delle fabbriche gallo-centrali a Lezoux" (Simpson, in Journ. Rom. Stud., xlii, 1952, pp. 68-71). Frammenti delle sue matrici sono stati rinvenuti a Pulborough nel Sussex, e le sue coppe ebbero una limitata distribuzione nel Sussex, Hampshire e Londra. Apparentemente egli fu un plagiatore indigeno delle coppe a rilievo di Acaunissa, Attianus e del Vasaio della piccola S, piuttosto che un immigrato proveniente da Lezoux; in questo ultimo caso egli si sarebbe avvicinato maggiormente al livello artigiano contemporaneo della Gallia centrale. Finalmente una considerevole industria di t. s. a Coichester è abbondantemente descritta con illustrazioni da Hull, Roman Potters' Kilns of Colchester, in Rep. Soc. Antiq. London, xx, 1963. Circa una ventina di vasai firmarono piatti lisci, e due ceramisti anonimi, "A" e "B", produssero coppe a rilievo le cui matrici sono state rinvenute in abbondanti quantità. È interessante notare che nessuno dei 50 tipi a cui si limitò il Vasaio "A" possiede visibili relazioni continentali; e che i tipi usati da entrambi in comune, o limitati all'opera di "B" sembrano connessi con Blickweiler più direttamente che con Lezoux. In effetti, tuttavia, il più caratteristico vasellame di buona qualità prodotto nella Britannia romana non fu affatto t. s. propriamente detta, ma fu la Ceramica di Castor decorata à la barbotine, la cui tecnica ed i cui soggetti erano stati ugualmente importati dal continente (v. supra, iii F).
J) T. s. iberica. La t. s. iberica viene estesamente descritta da M. Angeles Mezquíriz de Catalán, Terra Sigillata Hispánica, 1961-62; la sua vasta bibliografia ci dispensa dal fornire qui dettagliate citazioni. La penisola non possedette mai un'unità ceramica, grazie alle variazioni della produzione costiera in contrasto con quella dell'interno, di quella terragonese rispetto alla betica, grazie anche alle tradizioni razziali ecc. In generale possiamo ricostruire una prima importazione di ceramica nera campana nei luoghi più facilmente accessibili, seguita dalla normale t. s. aretina e puteolana sotto Augusto e Tiberio, a sua volta seguita dalle ceramiche gallo-meridionali di Montans e La Graufesenque. Ma intorno al 50 d. C. i ceramisti ispanici cominciarono a produrre la loro t. s. liscia ed a rilievo nella Forma 29 ed in altre che, pur chiaramente imitando la superficie, le sagome e la decorazione della Gallia meridionale, sono tuttavia del tutto inconfondibili per via delle loro caratteristiche positive e negative, per esempio, una prima predilezione per pannelli separati da raggruppamenti di linee ondulate verticali e per bordure a lisca di pesce (fig. 830), ed una posteriore tendenza per la ripetizione di piccoli motivi circolari (fig. 831); entrambe le preferenze derivano dalla tradizione iberica della ceramica dipinta piuttosto che da importazioni galliche. Piccole figure umane, animali, e vegetali sono comuni ad entrambi gli stili. L'orlo della Forma 29 non è quasi mai soggetto a rotellatura e la carenazione non è mai sottolineata da file di perle; i motivi gallici del fregio vegetale e della croce di Sant'Andrea vengono usati relativamente di rado. Bisogna ammettere che la t. s. ispanica è monotona e priva d'originalità. La qualità della lavorazione mutò a seconda del periodo e della località, ma per lo meno in origine fu generalmente pari ai modelli gallici. La superficie mutò da rosso chiaro a rosso arancione e finalmente ad arancione. Coll'andar del tempo le prime forme decorate furono soppiantate dalla Forma 37. Alcune fabbriche sono state indentificate nella Spagna nord-orientale, ma ve ne devono essere state numerose altre. Forse quelle del meridione, dove le firme sono più comuni, furono più grandi e più importanti, dal punto di vista commerciale, delle settentrionali (Mezquíriz). Tale ceramica si distribuì soprattutto entro la penisola, ma si spinse anche nelle Baleari, nel Marocco, e in piccole quantità anche nella Francia meridionale, ossia in una zona esclusivamente civile; a sua volta, l'evoluzione delle sagome e degli stili ispanici non fu influenzata dall'estero, ma progredì nella relativa tranquillità e immunità dalle invasioni, proprie della penisola iberica. Verso la fine del III sec., contemporaneamente alle prime invasioni germaniche, o verso la fine del IV, contemporaneamente ad un "periodo di disturbi" locali, appare nella Spagna settentrionale - per esempio a Clunia - un nuovo stile "circolare" che non possiede alcuna relazione né con la precedente t. s. né con le arti maggiori coeve, ma probabilmente rappresenta un risorgere di antichi motivi popolari che compaiono su certe pietre tombali della Navarra fin dal II secolo. Una parte di questa ceramica è di buona qualità, ma la media è povera in concezione ed in lavorazione e rappresenta l'ultima manifestazione delle caratteristiche tecniche della sigillata a rilievo.
IV. -Ceramiche mediterranee posteriori (selezionate). - Non rientra negli scopi di questo articolo il discutere particolareggiatamente le "dure" e friabili ceramiche d'argilla e superficie rosea che succedettero alla t. s. intorno al Mediterraneo e che vengono spesso chiamate esse stesse t. sigillata. Ogni presentazione estesa di tale vasellame riuscirebbe solo a confondere il lettore, se non altro per le diverse, e persino contraddittorie, nomenclature in uso comune. Tuttavia dobbiamo per lo meno notare che sin dal I sec. d. C. una ricopertura lucida, solitamente d'argilla e superficie più rosee di quelle della t. s., fece la sua comparsa nella zona del Mediterraneo, e che le ceramiche su cui fu impiegata ottennero favore crescente in proporzione al declino della t. sigillata. Alcune di esse furono lisce, tranne che per la rotellatura dell'interno o dell'esterno, mentre altre vennero decorate con decorazioni applicate, impresse o a rilievo da matrice, spesso assai delicate ed accurate. Parlando della sua ceramica "tardo-romana A", con rotellatura a piuma, Waagé afferma: "Il fascino tattile ed ottico esercitato da questa bella ceramica rossa, solitamente scevra dalla meretricia distrazione di una decorazione figurata, e la lavorazione superiore, che produsse piatti di oltre 30 cm di diametro con pareti di meno di 3 mm in spessore, contribuiscono a collocare questo vasellame, considerato solamente per i suoi meriti ceramici, ad un alto posto nella scala di tutte le ceramiche antiche". Inoltre l'esecuzione e la fedeltà della decorazione narrativa su altre categorie "tardo-romane", col mantenersi alla pari della toreutica medio e tardo-imperiale ed in altri modi che trovarono favore presso un pubblico civile da tempo imbevuto di tradizioni artistiche, di gran lunga sorpassarono quelle della tarda e rozza t. s. della Gallia orientale e del Reno, parzialmente contemporanea, che fu prodotta in un'area dal futuro instabile e fu distribuita ad un pubblico composto di personale militare e di civili solo parzialmente romanizzati. Il litorale mediterraneo conservò la capacità di iniziare nuove tradizioni originali, mentre, come abbiamo visto, la Gallia orientale ed il Reno riuscirono soltanto a far deteriorare le antiche.
La facies di queste diverse ceramiche "tardo-romane" (il termine è del Waagé; Lamboglia le chiama "t. s. chiara"; Palol denomina quelle posteriori "t. s. romano-cristiana" o "stampata paleocristiana") naturalmente varia grandemente da luogo a luogo nel corso di cinque o sei secoli; fino ad ora esse sono state studiate soltanto secondo la necessità degli scavi o delle collezioni ad Atene, Antiochia, Tarso, Alessandria, Nord Africa, Tarragona, Barcellona, Saint Blaise, Fréjus, Ventimiglia, Ostia, Roma, Colonia (!), Schaan (Liechtenstein!) ed altrove, il che impedisce una trattazione veramente inclusiva. Dire che alcune di esse furono prodotte ad Alessandria e nel Nord Africa ed in Italia e Spagna non preclude altre fonti di manifattura e distribuzione; esse vengono quindi accodate alla nostra rassegna generale della t. s., piuttosto che aggiunte ad un'epoca particolare o ad un centro specifico. Esse sono onnipresenti intorno al Mediterraneo durante un lasso di tempo superiore a quello della t. sigillata. Tuttavia, nonostante il rispettabile volume delle pubblicazioni esistenti, l'organizzazione di queste ceramiche posteriori in una sintesi coerente rimane un campo d'investigazione quasi vergine.
Ulteriori progressi riguardo alla documentazione e all'interpretazione della t. s. si possono trovare nei seguenti studî: l'articolo di M. Lutz, État actuel de nos connaissances sur la céramique sigillée de la Gaule de l'Est, in Rev. arch. du Centre, 5, 1966, pp. 130-157 che amplia alcune parti della nostra voce; le nuove osservazioni di M. Vertet sull'importanza di Lione come centro per la fabbricazione della t. s.; l'identificazione di un numero di ceramiche di Banassac in Britannia, maggiore di quello che si era finora supposto; l'illustrazione di t. s. puteolana del Louvre in Acta Rei cret. Rom. Faut., 5-6, 1963-64, pp. 7-28, tavv. i-xix; nuova documentazione sulla più ampia distribuzione e sull'imitazione indigena della t. s. spagnola in J. Boube, La terra sigillata hispanica en Maurétanie tingitane, Rabat 1965; e F. Pallare's, Terra sigillata ispanica ad Ostia, in Riv. St. Liguri, xxix, 1963, pp. 69-82.
Gli studî accessibili più inclusivi sono quelli del Waagé, in Hesperia, ii, 1933, pp. 293-308; id., Antioch, IV, 1, Princeton 1948, pp. 43-59 (quest'ultimo di speciale importanza); N. Lamboglia, T. s. chiara, in Riv. Ingauna ed Intemelia, VII, 1941, pp. 1-16; id., Gli Scavi di Albintimilium e la Cronologia della Ceramica Romana, Parte I, Bordighera 1950, passim; id., Nuove Osservazioni sulla 'Terra Sigillata Chiara' (Tipi A e E), in Riv. Stud. Liguri, XXIV, 1958, pp. 257-330; id., ibid., XXIX, 1963, pp. 145 ss., tipi C e v. anche J. Holwerda, Laatgr. en rom. Gebruiksaardewerk... te Leiden, Grovemege 1936, pp. 42-50; A. J. B. Wace, in Bull. Soc. roy. d'Arch. d'Alexandrie, XXXVII, 1948, pp. 47-57; Fr. F. Jones, Gözlü Kule, Tarsus, I, 1950, pp. 203-206; M. Squarciapino, in Atti Acc. naz. Lincei, Rendiconti, Cl. morali, ser. 8, IV, 1951, pp. 133-143; J. M. C. Toynbee, in Latomus, XIX, 1957, pp. 18-22; F. Fremersdorf, Nordafrikanische Terra sigillata aus Köln, in Köln. Jahrb. f. Vor-u. Früh-gesch., III, 1958, pp. 11-19 (piatti lisci e stampati, c. 300 d. C.); P. de Palol, in Gron. IV Congr. arq. del Sudeste esp., Elche 1948, pp. 450-469; id., in Actas I Congr. arq. Marruecos, esp., Tetuàn 1953, pp. 431-434; id., in Rei cret. Rom. Faut. Acta, I, 1958, pp. 30-31 (t. a. romano-cristiana); B. Rutkowski, Terra sigillata Znalezione w Polsce, Wrolaw 1960; E. Kantorowicz, in Proc. Amer. Philos. Soc., CV, 1961, pp. 390-393 (lo stesso); I. Čremošnik, Glasnik Zemalj. Muz. Sarajewo, Archeol., XVII, 1962, pp. 115-140, con sunto in tedesco (Višiči, Jugoslavia); E. Ettlinger, in Jahrb. hist. Ver. Furst. Liechtenstein, LIX, 1960, pp. 229-299 (Scaan); I. Rigoir, Céramique paléochretienne sigillée grise [Provence hist., 10], 1960 (V sec. ed oltre); J. W. Salomonson, Late Roman Earthen ware with relief decoration found in Northern-Africa and Egypt, in Oudheidkundige Mededelingen, XLIII, 1962, p. 53 ss., (piatti a rilievo della "tarda romana B", IV-V sec.); M. P. Lavizzari Pedrazzini, La t. s. tardo-italica decorata a rilievo nella Coll. Pisani Dossi del Mus. Arch. di Milano, Milano 1972; 3. W. Hayes, Late Roman Pottery. A Cat. of Roman Fine Wares, Londra, 1972.