TERMODINAMICA
. La termodinamica in senso classico, e cioè in rapporto alla linea del suo sviluppo storico, tratta in maniera generale delle trasformazioni di lavoro in calore, e di calore in lavoro. Si occupa cioè in senso lato dell'equivalenza di queste due forme di energia, e delle loro possibilità di trasformazione reciproca. In questa sua formulazione si presenta dunque come un ramo essenzialmente pratico della termologia; ma pur partendo da questo speciale aspetto si riscontra una grande diversità fra essa e le altre discipline fisiche: la termodinamica cioè, nata per risolvere problemi assolutamente definiti, e in un piano assolutamente pratico, partendo da questioni poste sempre in un aspetto molto generale, riesce a dare a tali questioni risposte ben definite, e per questa sua particolare natura può essere applicata a qualsiasi problema che tratti di trasformazioni di calore in lavoro, e viceversa.
Uno dei caratteri fondamentali della termodinamica consiste appunto nella possibilità di applicazione a qualsiasi specifica questione: è un mezzo d'indagine al quale può essere sottoposto qualsiasi problema, purché in questo ci siano elementi che riguardino quantità di calore e lavoro. Essa costituisce ai nostri giorni uno dei rami meglio elaborati delle scienze fisiche, e i cui risultati sono da accettare con la più grande fiducia.
Questo ramo della termologia ha dunque grande importanza, specie per le applicazioni pratiche, ed è inoltre connesso strettamente con altre branche della fisica. Un aspetto particolare della termodinamica è che mentre in essa si riscontra da un lato un grande rigore nelle deduzioni (e questo rappresenta un forte elemento positivo), d'altra parte mediante i ragionamenti termodinamici non vi è spesso la possibilità di rendersi conto del meccanismo che sta alla base del processo studiato.
La termodinamica è fondata su tre principî distinti. Questi tre principî hanno dei rapporti fra di loro, e permettono, quando si considerano sia separatamente, sia in connessione tra loro, di ottenere un numero sempre più notevole di deduzioni. Essi sono stati enunciati successivamente, e sono stati via via sempre meglio elaborati e chiariti, mettendo in riìievo la portata assolutamente generale del loro contenuto. I due primi principî sono stati enunciati nella seconda metà del sec. XIX, il terzo è frutto di un'indagine più recente.
La termodinamica si è sviluppata largamente in base ai due primi principî: in tali considerazioni i corpi sono considerati come continui, e manca assolutamente in questo suo aspetto una qualsiasi concezione cinetica della materia. Questo indirizzo ha permesso uno sviluppo rigoglioso della scienza: si è così formata quella parte che va sotto il nome di termodinamica classica.
Ma oltre questo aspetto si è avuto uno sviluppo nel quale si è partiti dalla considerazione che i corpi sono in sostanza formati da particelle discontinue, dotate di moto, e specie nel caso dei gas si è tenuta costantemente di vista questa concezione cinetica. Lo sviluppo di questa branca, detta termodinamica statistica, ha inoltre dato un aspetto del tutto nuovo alle varie considerazioni già precedentemente svolte, e ha fra l'altro chiarito il vero significato del secondo principio.
Ai due primi principî si è venuto ad aggiungere negli ultimi anni un terzo principio. Questo ha evidentemente due aspetti diversi: può avere una formulazione nel linguaggio della termodinamica classica, e può essere considerato ancora dal punto di vista corpuscolare, cinetico. Gli sviluppi teorici moderni hanno mostrato che questo principio è interpretabile perfettamente dal punto di vista teorico, ed esso viene così ad essere strettamente collegato con la teoria quantistica.
È infine da citare un terzo aspetto che può assumere la termodinamica: data la sua grande importanza, e il valore assoluto dei suoi principî, si è cercato di dare ad essa una formulazione astratta, perfettamente corrispondente, come precisione e valore sintetico, alle analoghe costruzioni teoriche della meccanica. Può cioè costruirsi una termodinamica assiomatica che pur non portando naturalmente elementi nuovi di sviluppo, permette di considerare le diverse deduzioni che si traggono dai suoi principî come dipendenti da principî o assiomi perfettamente inquadrati in un ragionamento matematico rigoroso.
Parametri termodinamici. - Queste considerazioni generali valgono a dare alcuni aspetti caratteristici di questo ramo della fisica. Altro aspetto che conviene mettere in luce è l'impiego nel ragionamento termodinamico di alcuni concetti fondamentali, e naturalmente di carattere molto generale, i quali sono strettamente connessi con questo ramo della scienza fisica. La termodinamica opera su corpi o su assiemi di corpi e cioè su sistemi che caso per caso conviene particolarmente fissare. Questi corpi sono detti omogenei se le proprietà fisiche e chimiche di essi sono le stesse in tutte le parti nelle quali il corpo si può immaginare suddiviso; in altri casi, quando fra varî elementi di un corpo vi è diversità di comportamento e di proprietà, si parla di corpi eterogenei.
Un corpo che si trova in speciali condizioni fisiche si dice che si trova in un determinato stato; per esempio un grammo di aria, alla pressione di 76 cm. e alla temperatura di 15°, rappresenta un corpo che si trova in un certo stato. In generale, per fissare compiutamente lo stato di un corpo, bisogna dare i valori di un certo numero di grandezze, dette parametri.
Nel caso prima considerato, lo stato del grammo d'aria è individuato dalla pressione e dalla temperatura.
Lo studio del comportamento dei corpi ha permesso di stabilire che per una determinata massa di sostanza omogenea esiste una relazione fra le tre grandezze: pressione p, volume V e temperatura T, e questa relazione costituisce l'equazione di stato del corpo:
Ne segue che lo stato del corpo si potrà individuare dando i valori di p e T, oppure di V e T, oppure di p e V.
Nel caso di una massa gassosa m di massa molecolare M, non eccessivamente compressa né a temperatura eccessivamente bassa la (i) assume la foma (v. gas):
R è la costante universale dei gas, e se p è misurata in dine, V in cmc., T in gradi assoluti, R = 8,313 × 107 [erg. grad.-1].
Per i gas compressi, in generale per i fluidi, e inoltre per i corpi solidi, sono state proposte altre relazioni che in molti casi si possono considerare come soddisfacenti, almeno in una certa approssimazione.
In altri speciali problemi il numero di parametri può variare, come può variare il tipo dei parametri e cioè le grandezze fisiche che servono per individuare lo stato del corpo nello speciale problema trattato. Nel maggior numero dei casi lo stato di un sistema di corpi costituiti da masse diverse in varî stati d'aggregazione, oltre che dalla pressione p, che l'ambiente esterno esercita sul corpo, e dalla temperatura T, dipende anche dalle masse delle varie componenti presenti nelle varie parti del sistema.
Quando, considerando un corpo omogeneo, si produce una variazione dei valori di p, V e T da una terna particolare a un'altra terna, o quando in sistemi eterogenei cambia o il valore della terna p, V e T o vi è una variazione delle varie masse nei varî stati di aggregazione (nel senso che una diminuisce e l'altra aumenta, per esempio quando in un sistema acqua-vapor d'acqua evapora una certa quantità d'acqua), si dice che si è verificata una trasformazione (v. anche trasformazione).
La termodinamica s'occupa appunto delle condizioni per le quali queste trasformazioni possono verificarsi. Un susseguirsi di trasformazioni costituisce una "serie di trasformazioni" o un ciclo. Se lo stato finale della trasformazíone coincide con lo stato iniziale, si dice che il ciclo di trasformazione è un ciclo chiuso.
Trasformazioni quasistatiche, reversibilità e irreversibilità. - Molta importanza nel ragionamento termodinamico ha il modo col quale s'immagina compiuta una trasformazione. Per portare un esempio concreto si consideri la trasformazione che consiste nella dilatazione di una massa gassosa contenuta in un cilindro munito di stantuffo e sottoposto ad una pressione p e mantenuto costantemente alla stessa temperatura T (fig.1). Perché avvenga la trasformazione, e cioè perché lo stantuffo si sposti dall'interno verso l'esterno, è evidentemente necessario che ci sia una differenza di pressione fra le due facce dello stantuffo: detta dp questa differenza di pressione, ed S la superficie dello stantuffo, la forza agente dF capace di produrre il moto è data da dF = Sdp.
Per azione di questa forza, che supporremo piccolissima, lo stantuffo si sposta verso l'esterno. Sia F la forza che agisce sulla faccia esterna del pistone, e quindi F + dF quella che agisce sulla faccia interna.
Quando lo stantuffo si muove di un tratto Δl, il lavoro ΔL che la massa gassosa considerata fa rispetto all'ambiente esterno è dato da:
Il lavoro dFΔl viene impiegato sia per vincere le resistenze d'attrito fra stantuffo e cilindro, sia . per conferire a questo stantuffo una certa forza viva. Il lavoro FΔl è invece il lavoro fatto dal gas per vincere la pressione dell'ambiente esterno. Si conclude quindi che questo tipo di trasformazione, che corrisponde ad una trasformazione reale, non permette di riottenere tutto il lavoro nell'ambiente esterno, una parte del lavoro fatto dal gas per le suddette cause va perduto.
Contemporaneamente a questo fatto si riscontra quest'altra particolarità: la trasformazione viene ad essere nelle condizioni suesposte perfettamente individuata nel senso; e cioè perché questa si verifichi deve esistere una differenza di pressione dp fra l'interno e l'esterno, e ciò che si osserva è una dilatazione della massa gassosa.
Immaginiamo ora teoricamente che lo stantuffo sia a perfetta tenuta e assolutamente privo d'attrito, e che la differenza di pressione fra l'interno e l'esterno diventi sempre più piccola. In tal modo anche la forza dF che mette in moto lo stantuffo diventa sempre più piccola, e quindi sotto l'azione di questa forza il moto dello stantuffo ha una velocità estremamente piccola. Il tempo impiegato dallo stantuffo a compiere un tratto Δl diventa infinitamente lungo. Ma la durata di una trasformazione non ha in termodinamica alcuna importanza, perché i problemi si possono considerare solo da un punto di vista teorico; quindi al limite per Δp → 0 tale tipo di trasformazione ideale permette che tutto il lavoro fatto dal gas si ritrovi nel mondo esterno. Questa trasformazione lentissima rappresenta al limite una serie di stati d'equilibrio, e si definisce trasfomazione quasistatica.
Supponiamo ancora che questa trasformazione sia fatta in modo che non vi sia nessuna variazione di temperatura nella massa gassosa. Ora immaginiamo che questa trasformazione che non presenta perdita di lavoro per la presenza di forze d'attrito, o per energia cinetica dei pezzi in movimento, sia compiuta anche in senso opposto, a spese di lavoro fatto dal mondo esterno.
Quando la massa gassosa è ritornata nelle condizioni di prima, essendo rimasta sempre alla stessa temperatura, non si riscontra nessuna modifica nel mondo esterno. Questo tipo di trasformazione quasistatica, che inoltre può essere compiuta in senso opposto e che poi non lascia nel mondo esterno nessuna modifica, si definisce trasformazione reversibile. Mentre dunque nel caso reale la trasformazione avviene in un senso ben determinato, e non dà tutto il lavoro che si può ricavare dalla trasformazione, nel caso teorico considerato, concependo la trasformazione come una serie di stati d'equilibrio, si ottiene una trasformazione ideale che dà il massimo lavoro utile, e le condizioni che permettono di ricavare il massimo lavoro utile permettono anche che la trasformazione sia reversibile.
L'unico svantaggio che si riscontra nella trasformazione suddetta è costituito dal fatto che la durata di questa trasformazione, in dipendenza dell'estrema piccolezza della velocità dello stantuffo, è infinita. Ma noi abbiamo già detto che in termodinamica i varî problemi vengono trattati da un punto di vista assolutamente teorico, quindi l'estrema lentezza di una trasformazione reversibile non ha nessuna conseguenza in tale campo d'indagine, mentre lo stabilirne la possibilità anche puramente teorica porta all'importante risultato che in tale trasformazione tutto il lavoro fatto dal corpo può essere effettivamente tutto assorbito dal mondo esterno e viceversa.
L'esempio prima portato si riferisce ad un processo meccanico, ma si può ugualmente immaginare che le condizioni di quasi staticità siano soddisfatte in un processo che consiste in uno scambio di calore. In tali condizioni si ha che una certa quantità di calore passa da un corpo ad un altro; nelle condizioni di quasi staticità le due temperature devono essere infinitamente vicine, in modo che il flusso di calore avvenga con lentezza infinita, e si hanno così condizioni di quasi staticità termica, alla quale è connessa una reversibilità del processo.
Lavoro fatto in una trasformazione. Rappresentazione grafica. - Nel caso prima considerato della dilatazione di una massa gassosa contenuta in un cilindro, e mantenuta a temperatura costante, il lavoro fatto dal corpo per lo spostamento Δl dello stantuffo è dato dalla (3) che si può anche porre sotto la forma:
indicando con dV la variazione di volume: se dV è positivo si ha lavoro fatto dal gas, nel caso opposto si ha lavoro che il mondo esterno fa sulla massa gassosa.
Ora, qualunque sia il corpo, il lavoro fatto quando il corpo è sottoposto ad una pressione uniforme p, per effetto di una variazione dV di volume è dato dalla (4).
Infatti considerando (fig. 2) un elemento dS di superficie del corpo, la forza agente su tale elemento è data da pdS e se il corpo passa dal volume limitato dalla curva continua al volume limitato della curva tratteggiata, la forza pdS compie un lavoro ΔL = pdSdl = pdV ed estendendo il ragionamento ai varî elementi di superficie del corpo si ottiene il risultato enunciato. Se quindi il corpo subisce una variazione di volume da V1 a V2, nel caso generale nel quale la pressione può essere considerata variabile a mano a mano che il corpo si dilata (o si contrae) si ottiene che il lavoro è dato da
e nel caso che la pressione sia costante:
Indicando con ΔA il lavoro fatto dalle forze esterne sul corpo si ha
Per ottenere graficamente una rappresentazione sia di una trasformazione, sia del lavoro fatto durante questa trasformazione è conveniente riferirsi ad un sistema di assi in cui le ordinate sono i valori della pressione e le ascisse sono i valori dei volumi (fig. 3). Ci riferiamo cioè ad una rappresentazione nel piano p, V (piano di Clapeyron). Un corpo di determinata massa si trovi ad una certa temperatura T, e siano p0, V0 i valori della pressione e del volume: il punto p0, V0 del piano rappresenta questo stato del corpo.
Durante una trasformazione i valori di p e V variano con continuità, e il punto figurativo descrive una curva nel piano. In questa curva però non è esplicitamente raffigurata la variazione della temperatura, e i varî punti di essa possono rappresentare stati del corpo a temperature diverse.
Questa curva rappresenta la trasformazione, o il ciclo di trasformazione, e questo ciclo può essere chiuso o aperto: riferendosi al primo caso, dalla (5) si ricava che l'area ABCD rappresenta il lavoro fatto dal corpo, se l'arco AB è percorso nel senso della freccia, nel caso opposto è il lavoro che il corpo subisce dall'ambiente esterno.
Passando ora a considerare il caso di un ciclo chiuso (fig. 4), nell'ipotesi che esso sia percorso nel senso antiorario, l'area totale nel ciclo dà il lavoro che è fatto dal mondo esterno sul corpo, mentre nell'altro caso si ottiene il lavoro che il corpo compie rispetto all'esterno.
Trasformazioni isoterme, isobare, isocore. - Data la grande generalità che è caratteristica della termodinamica, le trasformazioni che si possono considerare possono essere diversissime. Ma fra tutte le trasformazioni possibili, alcune rivestono un carattere particolarmente importante.
Un tipo di trasformazione nel quale ad ogni istante la pressione rimane costante è detto trasformazione isobara. La rappresentazione di detta trasformazione nel piano di Clapeyron è data da un segmento parallelo all'asse dei volumi.
La trasformazione nella quale il volume rimane costante, trasformazione isocora, è rappresentata da un segmento di retta parallelo all'asse della pressione; vi è ancora la trasformazione che avviene a temperatura costante, e cioè la trasformazione isoterma; la curva rappresentativa di questa trasformazione nel piano di Clapeyron, sarà data dalla relazione di stato (i) nella quale si faccia T = cost. Queste curve sono dette isoterme, ognuna di esse è caratterizzata da un particolare valore di T. Esse possono essere tracciate nel caso che si conosca l'equazione di stato del corpo che si considera. Se ci riferiamo al gas perfetto, per il quale la (i) assume la forma (2) le isoterme sono date dalla relazione:
e cioè per una data massa gassosa sono iperboli equilatere aventi per assintoti i due assi (fig. 5).
Si considera inoltre in termodinamica un altro tipo di trasformazione nella quale si suppone che la sostanza non scambi calore col mondo esterno; si immagina cioè, almeno idealmente, l'esistenza di pareti assolutamente isolanti rispetto al calore; mediante l'uso di pareti di tale tipo la trasformazione può avvenire in un recipiente senza che il corpo ceda o assorba calore dal mondo esterno; tali trasformazioni sono dette adiabatiche.
I punti figurativi degli stati del corpo, per i quali si ha la condizione che si passa da uno di essi al successivo reversibilmente e senza scambio di calore col mondo esterno, individuano nel piano di Clapeyron altre curve: le adiabatiche.
Evidentemente per poter stabilire la relazione analitica fra p e V o tra p e T o infine fra V e T nel caso della trasformazione adiabatica bisogna conoscere più specificatamente il comportamento del corpo.
Le trasformazioni che abbiamo considerate sono le più importanti, ma si possono considerare altri processi, i quali però non hanno un'applicazione pratica molto notevole.
Il 1° principio della termodinamica. - Lo studio della meccanica ha portato a riconoscere l'esistenza di sistemi materiali, detti conservativi, per i quali la somma dell'energia cinetica e potenziale delle varie masse rimane costante. Questo fatto costituisce in meccanica il principio della conservazione dell'energia. Negli altri rami della fisica, e cioè particolarmente nell'elettricità e nel magnetismo, s'introducono altre forme d'energia (energia elettrica, magnetica) e si trova che anche queste forme di energia in moltissimi fenomeni obbediscono a un principio di conservazione, si può cioè anche per queste forme riconoscere l'esistenza di sistemi conservativi. Ma questi in generale sono schemi puramente teorici; nella pratica si può dire che questo principio nella sua formulazione puramente meccanica, o elettrica o magnetica cade in difetto. Così, per esempio, il lavoro fatto per la deformazione elastica di un corpo non si può riavere completamente quando il corpo ritorna nello stato iniziale, e così l'energia cinetica di un corpo in movimento in un fluido, che si presenta in pratica sempre come un mezzo resistente, a mano a mano si dissipa, e il corpo arriva in un tempo più o meno lungo in quiete; nel primo caso abbiamo una dissipazione che è generata nell'interno stesso del corpo, nell'altro caso ci troviamo davanti a un tipo di dissipazione dovuta alle forze di attrito esterno. Così anche il moto di un corpo solido su di un altro corpo solido si compie con dissipazione d'energia. Per quanto grandi possano essere gli accorgimenti usati nella pratica per ridurre queste perdite, esse sono sempre presenti.
Ma la mancata verifica del principio di conservazione dell'energia nella pratica non è limitata ai sistemi meccanici. Anche nel caso del lavoro speso per la magnetizzazione di un corpo si osserva che nella smagnetizzazione non si ritrova tutto il lavoro precedentemente impiegato. Inoltre il passaggio di una quantità di elettricità nell'interno di un qualunque conduttore solido, liquido o gassoso, è accompagnato con la perdita di una quantità di energia elettrica, e questa perdita è uguale al prodotto della differenza di potenziale agli estremi del conduttore per la quantità di elettricità che è passata in esso.
Esiste dunque in natura gran copia di sistemi dissipativi per i quali è da considerare come non soddisfatto il principio di conservazione dell'energia nel senso meccanico. Però in tutti questi casi che abbiamo considerato, nei quali, come abbiamo visto, non è valido questo principio di conservazione, si osserva sempre uno sviluppo di calore: in altre parole quando il principio di conservazione cade in difetto, almeno in moltissimi casi, compare una certa quantità di calore, a compenso di questa energia o meccanica o magnetica o elettrica o in generale diversa, che si è perduta. Nasce dunque, come conseguenza di queste osservazioni, l'idea che le quantità di calore sviluppate in corrispondenza alla scomparsa di certe quantità di energie "equivalgono" a questa quantità. Perché possa accettarsi questa posizione, che estenderebbe il principio di conservazione dell'energia, implicando come forma d'energia anche le manifestazioni calorifiche, deve evidentemente verificarsi sperimentalmente che queste quantità di calore che a volta a volta si producono siano sempre equivalenti a corrispondenti quantità d'energia: che in altre parole esista un rapporto costante fra le quantità di lavoro meccanico o elettrico, o magnetico, ecc., scomparso e la corrispondente quantità di calore prodotto. Solo nel caso che l'esperienza dimostri questa costanza del rapporto fra l'energia meccanica scomparsa e la quantità di calore prodotto, si può dire che è valido un principio di equivalenza.
Questo concetto dell'equivalenza, che, come s'è visto, si presenta alla mente nella considerazione dei sistemi dissipativi, trova una conferma nella teoria cinetica del calore. In base a questa teoria tutte le manifestazioni termiche si riducono a variazioni dell'energia cinetica delle particelle che costituiscono i corpi, quindi la quantità di calore sarà una forma d'energia che si riferisce all'energia meccanica dei costituenti elementari della materia.
Determinazione sperimentale dell'equivalente meccanico del calore. - L'esperienza che può servire a verificare il concetto dell'equivalenza è schematicamente semplice: basta infatti trasformare una certa quantità di lavoro meccanico in calore, fare il rapporto fra queste due grandezze, ripetere l'esperienza in vario modo e giungere così a stabilire l'effettiva costanza del rapporto fra il calore prodotto e la quantità di lavoro consumato. Le conclusioni che possono trarsi da un'indagine di questo tipo sono di due specie: in un primo luogo si dimostra sperimentalmente la validità del principio di equivalenza, e in secondo luogo si riesce a stabilire anche il valore del rapporto.
Se dunque ΔL è il lavoro meccanico che mediante una certa esperienza viene a disperdersi in un sistema dissipativo, e ΔQ è la quantità di calore prodotto, si deve ottenere in base a questo principio di equivalenza:
J è "l'equivalente meccanico del calore", e cioè se si misura il lavoro in Joule, e la quantità di calore in calorie J permette di trasformare un certo numero di calorie in un certo numero di Joule.
Supponiamo di considerare un sistema meccanico che sia dissipativo: se E1 + V1, e E2 + V2 sono le somme dell'energia poienziale e cinetica del sistema nello stato iniziale e finale, dato che il sistema è dissipativo, e ciò per azione o di attrito esterno, o di attrito interno di fluidi che fanno parte del sistema, il lavoro perduto è ΔL = (E1 + V1) − (E2 + V2), e se in corrispondenza vi è una certa quantità ΔQ di calore sviluppato, il principio dell'equivalenza stabilisce la costanza del rapporto fra ΔL e ΔQ.
Le esperienze fatte per la determinazione di J sono state di diverso tipo. Per lo più si è trovato conveniente trasformare in energia calorifica l'energia dovuta al campo gravitazionale, e cioè trasformare l'energia potenziale di un corpo situato ad una certa altezza in energia cinetica, e infine trasformare questo in calore. I sistemi sperimentali adottati sono stati diversi: possiamo ricordare per esempio quello di Hirn (fig. 6); il peso A viene sollevato ad un'altezza h e quindi lasciato cadere; questo peso va ad urtare il corpo B, ma il contatto avviene tra A ed il blocco di piombo P: per effetto dell'urto il sistema A, P e B raggiunge una certa altezza h′, e quindi solo una parte dell'energia potenziale che inizialmente aveva il sistema ritorna energia potenziale; la parte perduta viene a ritrovarsi come calore, perché il pezzo di piombo si è deformato e riscaldato per effetto della deformazione. La quantità di calore che si riscontra nel blocco di piombo P, quantità che può determinarsi nota la massa di piombo m, l'aumento di temperatura ΔT, e il calore specifico c del piombo, divisa per la quantità di lavoro perduto, permette di ottenere l'equivalente J.
Un metodo che ha servito ottimamente per la determinazione di J è quello usato da Joule (fig. 7).
Un cilindro ad asse verticale ha due avvolgimenti di due fili in senso opposto, che passano sulle gole di due carrucole; all'estremità dei due fili vi sono due pesi uguali Mg. Per azione della gravità questi due pesi si abbassano, e conseguentemente l'asse del cilindro entra in rotazione. Ora il cilindro si prolunga in un asse portante delle alette; queste alette sono disposte in un recipiente che porta delle controalette, e in questo recipiente è messo un liquido. La disposizione delle alette mobili rispetto alle alette fisse connesse con le pareti del recipiente impedisce al liquido contenuto nel recipiente di assumere un moto d'insieme per effetto del moto delle alette, e quindi tutto il lavoro fatto dai pesi che cadono, per la presenza di un attrito interno del liquido contenuto nel recipiente, si trasforma in calore. Misurando l'aumento di temperatura del liquido, e conoscendone la massa e il calore specifico, si può determinare la quantità di calore prodotta. Questa quantità di calore è ottenuta perché i pesi Mg si sono abbassati di un tratto h. Nella posizione iniziale l'energia potenziale è 2 Mgh, e l'energia cinetica di ciascun peso è nulla; nello stato finale invece, se v è la velocità delle masse, l'energia potenziale è nulla, e l'energia cinetica è 2•1/2 Mv2, quindi il lavoro scomparso è dato da:
Però non tutto questo lavoro si è trasformato in calore; infatti il sistema meccanico costituito da fili, pulegge, assi, ecc., presenta resistenze d'attrito; quindi per ottenere il moto del sistema in modo che nello stato finale le due masse abbiano acquistato la velocità v, bisogna compiere un certo lavoro, che non si ritrova poi come calore nel recipiente. Questo lavoro può venire facilmente determinato con un'esperienza a parte.
Conoscendo il calore specifico del liquido che è contenuto nel recipiente e determinando la massa di questo liquido e l'innalzamento di temperatura, si può determinare ΔQ.
Dalle esperienze compiute da Joule e da altri autori risulta effettivamente che qualunque sia il valore di ΔL, e cioè la quantità di lavoro consumato, la quantità di calore prodotto ΔQ è tale che il rapporto è costante. Misurando ΔL in Joule e ΔQ in calorie si ottiene:
Lo stesso valore di J si ottiene usando altri metodi, per es., metodi elettrici, fondati sull'effetto termico della corrente.
Il valore di J attualmente più preciso è il seguente:
Questi risultati sperimentali portano dunque a stabilire una equivalenza fra lavoro e calore, e cioè portano alla conclusione che ad una certa quantità di calore corrisponde una certa quantità di lavoro; ma analogamente una certa quantità di calore può trasformarsi in lavoro meccanico.
Naturalmente in questo caso il rapporto fra la quantità di calore consumato e la quantità di lavoro prodotto è l'inverso del rapporto precedentemente determinato
Calcolo teorico di Mayer dell'equivalente meccanico del calore. - La possibilità di ottenere lavoro mediante l'impiego di una certa quantità di calore venne stabilita da R. Mayer con le seguenti considerazioni, che però, come vedremo, sono incomplete. Supponiamo di avere una grammo-molecola di gas e di scaldarla a volume costante. Per produrre un aumento di temperatura di ΔT gradi occorrerà somministrare al gas una quantità di calore:
indicando con cv il calore specifico a volume costante (v. calore). Scaldando invece a pressione costante occorre, a parità di aumento di temperatura, una quantità maggiore di calore:
In questo secondo caso il gas, scaldandosi, si espande e compie un lavoro:
indicando con ΔV l'aumento di volume.
Secondo la geniale intuizione del Mayer, la quantità di calore necessaria in più nel secondo caso:
rappresenta l'equivalente in calore del lavoro ottenuto. Siccome per un gas perfetto:
si conclude:
equazione che permise al Mayer di calcolare il valore di J equivalente meccanico della caloria, mediante i valori noti di R, cP e cv.
Questo ragionamento, come abbiamo detto, è incompleto, poiché non tiene conto del fatto che nei due casi di riscaldamento considerati lo stato finale del gas non è lo stesso. È per un caso fortunato che, per un gas perfetto, il ragionamento porta a un risultato corretto; applicato ad altri corpi darebbe risultati completamente erronei, come risulterà meglio da quanto segue.
Estensione del principio dell'equivalenza. - Energia interna. - In base a quanto si è detto precedentemente è dimostrata la possibilità di una trasformazione di lavoro in calore e viceversa.
Indicando quindi con ΔA il lavoro che le pressioni esterne esercitano sul corpo in esame, lavoro che per semplicità supponiamo espresso in calorie, e cioè
con − ΔQ la quantità di calore che il corpo sviluppa per azione di questo lavoro ΔA fatto dalle forze esterne, si ottiene
Negli esempî finora portati questa relazione è stata soddisfatta sperimentalmente nel modo più soddisfacente.
Ma, come si è già accennato, non si può affermare che questa relazione è sempre verificata; in effetto in alcune trasformazioni si trova
e cioè in alcune trasformazioni il sistema subisce dall'ambiente esterno un certo lavoro ΔA, assorbe una certa quantità di calore ΔQ, ma la somma di queste non è nulla. Per portare un esempio concreto si abbia un filo di rame ricotto, che venga per azione di una forza traente allungato permanentemente. Durante la deformazione il corpo subisce un riscaldamento. Però la quantità di calore sviluppata non è in questo caso equivalente al lavoro fatto. Contemporaneamente però a questa apparente eccezione al principio dell'equivalenza si osserva che le proprietà meccaniche del filo non sono più le stesse delle condizioni iniziali: il filo presenta, p. es., un coefficiente d'elasticità di trazione più piccolo, e si dice che il filo si è incrudito. In altre parole nel caso in cui non è verificata la (6) si può sempre riscontrare che la trasformazione non ha portato il corpo nelle stesse condizioni di prima, lo stato finale non è coincidente con lo stato iniziale. Si può quindi scrivere:
e interpretare la quantità d'energia ΔU che non corrisponde né a lavoro subito dal corpo, né a calore sviluppato, come una quantità d'energia che rimane localizzata nell'interno del corpo, o che viene fornita dal corpo, secondo che ΔU è positivo o negativo. Si può cioè immaginare che il corpo abbia in sé una certa forma d'energia che è detta energia interna. La necessità d'introdurre questa nuova forma d'energia nasce dal bisogno di salvare il principio di conservazione dell'energia nei casi nei quali si presenta in difetto. Però questa possibilità è strettamente connessa col fatto sperimentale che si può riscontrare in questi casi una differenza fra lo stato iniziale e lo stato finale.
Fissati i due stati di un corpo, noi possiamo immaginare che vi siano parecchi modi per passare dal primo di questi al secondo e viceversa; volendo allora estendere in un campo più vasto il principio di conservazione dell'energia, considerando come forma di energia anche l'energia interna di un corpo, si è portati logicamente a ritenere che la quantità ΔU, e cioè la variazione dell'energia interna che si è introdotta, dato che l'esperienza dimostra che i due stati del corpo sono distinti, deve essere indipendente dal cammino fatto per passare dallo stato iniziale 1 allo stato finale 2.
Questa variazione ΔU deve dipendere esclusivamente dai parametrì che individuano i due stati, iniziale e finale. Ciò significa in altre parole che ΔU si deve porre sotto la forma seguente: ΔU = U2 − U1, e cioè sotto la forma di una differenza fra due valori della funzione U, di cui uno si riferisce allo stato iniziale, e l'altro allo stato finale. Supponendo i due stati vicinissimi, ciò significa che dU è un differenziale esatto, mentre le due quantità dQ e dA non godono di questa proprietà, e cioè non dipendono soltanto dagli estremi della trasformazione, ma dipendono anche dal modo col quale si compie la trasformazione.
Lo stato di un sistema materiale può essere funzione, come abbiamo già detto, nel caso generale, di un certo numero di parametri; più comunemente si può ritenere che due variabili x e y bastano per fissare lo stato del corpo e cioè per esempio T e p, V e T, p e V. Il principio della conservazione dell'energia acquista allora la forma seguente:
L'energia interna di un corpo in base alla definizione si può conoscere a meno di una costante additiva, infatti ciò che si manifesta nelle varie trasformazioni che non riportano il sistema nello stato iniziale è soltanto la sua variazione.
Enunciato generale del 1° principio. - Il primo principio quindi ha assunto l'aspetto (8′) e tale formulazione è da considerare essenzialmente come un'estrapolazione: bisogna prima di tutto vedere quali conseguenze fisiche si possono trarre dalla (8′). Si consideri allora una serie di trasformazioni formanti un ciclo chiuso. La (8′) deve essere applicata a ogni parte elementare del ciclo e poi si deve fare la somma relativamente a tutto il ciclo; rappresentiamo l'integrale relativo a un ciclo chiuso con il simbolo ʃ0, poiché ΔU dipende solo dallo stato iniziale e finale, nel caso di un ciclo chiuso, e quindi a stato finale e iniziale comune, si ha
Di qui deriva
e cioè per ogni ciclo chiuso può variare la quantità di calore totale assorbita, e il lavoro consumato, ma la somma algebrica di queste due quantità deve necessariamente essere nulla. Se noi supponiamo che si costruisca una macchina capace di compiere un ciclo chiuso, e che questa macchina non prenda calore da nessuna sorgente, e cioè
in base al primo principio si conclude che
e cioè il lavoro fatto da questa macchina è nullo. Quanto precede è conseguenza del primo principio nella sua formulazione più generale.
Se si definisce perpetuum mobile di prima specie una macchina capace di produrre lavoro senza sottrarre calore a nessuna sorgente, il primo principio della termodinamica si può enunciare dicendo che: è impossibile realizzare un perpetuum mobile di prima specie.
La prima chiara enunciazione di questo principio si deve al Mayer. Il Helmholtz ha riconosciuto appieno l'importanza e la vastità del campo d'applicazione di esso in tutti i rami della fisica. In base a tutte le esperienze fatte fino: a, si è sempre riscontrato che non è possibile ottenere in un ciclo chiuso di trasformazioni lavoro senza che ci sia una sottrazione di calore da una sorgente, o ci sia una variazione di stato del sistema, che equivale a ritenere il ciclo considerato non come ciclo chiuso; con ciò si viene a concludere che il primo principio della termodinamica non subisce in nessun caso eccezione dall'esperienza.
Il principio dunque si può considerare, come afferma il suo enunciato, quale principio che stabilisce l'equivalenza delle varie forme di energia. Ma quest'affermazione porta con sé tre concetti diversi: in primo luogo un concetto di costanza dell'energia totale dell'universo; quando infatti in una trasformazione il calore preso e il lavoro prodotto non si equivalgono, la loro differenza non è perduta, si ritrova come energia interna; e cioè la variazione totale, tenuto conto di questa forma d'energia, è nulla. In secondo luogo si afferma così un concetto di compensazione, e cioè l'energia che non assume né la forma d'energia calorifica, né la forma di lavoro esterno, meccanico, si ritrova in altro modo, come energia interna e viceversa; ma questo concetto porta con sé ancora l'idea dell'unità di queste varie forme di energia.
Il primo principio della termodinamica è da considerare quale principio fondamentale di tutta la scienza sperimentale.
Deduzioni generali che si ricavano dal primo principio. - L'importanza che questo principio assume deriva principalmente dal fatto che da questo si può trarre una serie di conseguenze che si applicano senza eccezione a tutti i corpi: la formulazione matematica di questo principio è la seguente: la variazione dell'energia interna in una qualunque trasformazione che non riporti il corpo nelle condizioni iniziali, è un differenziale esatto. Sarebbe facile trattare il problema nel caso della massima generalità supponendo che uno dei parametri sia la temperatura, e che poi oltre a T, altri n parametri non meglio specificati possano individuare lo stato del sistema, ma ci contenteremo di riferirci a condizioni più semplici; nelle quali si supponga che oltre alla temperatura, in luogo delle n variabili, basti una sola a caratterizzare lo stato del sistema; e sia questa dapprima la pressione p. Modifichiamo di poco lo stato di questo corpo, che per semplicità supponiamo abbia la massa unitaria, e rappresentiamo con dq la quantità di calore necessaria per produrre questa variazione, facciamo cioè variare di poco la temperatura T e la pressione p, fornendo al corpo una certa quantità di calore dq; facendo variare prima di poco la temperatura a pressione costante, e detto cp il calore specifico a pressione costante, la quantità di calore somministrato è cpdT; se poi la temperatura si mantiene stazionaria, per aumentare la pressione del corpo di dp a temperatura costante, bisogna somministrare una certa quantità di calore hdp. In totale la quantità di calore somministrata per le due variazioni è data da:
L'espressione del lavoro dA è data in generale da:
ma poiché p e T sono le due variabili indipendenti:
dove, seguendo l'uso corrente, il simbolo
per esempio, significa derivata parziale rispetto a p, fatta tenendo T costante.
Sostituendo nell'espressione del dU si ottiene:
ossia:
La condizione necessaria e sufficiente perché un differenziale come (10) sia il differenziale di una funzione, ossia un differenziale esatto, si ottiene uguagliando le due derivate miste
(v. integrale, calcolo). Si ottiene così che per qualsiasi sostanza deve valere la relazione:
Se le due variabili che individuano lo stato del sistema sono T e V, si porrà analogamente per la quantità di calore capace di produrre una trasformazione infinitesima:
dove l è la quantità di calore che bisogna somministrare per ottenere dal corpo una variazione di volume dV a temperatura costante, e dove cv è il calore specifico a volume costante.
Di qui si ricava (con un ragionamento identico al precedente) in base al primo principio:
ma indipendentemente dal primo principio si ha che:
da cui:
Applicazione del primo principio ai gas perfetti. - Consideriamo una massa gassosa che segue la legge dei gas perfetti. Il gas sia contenuto in un recipiente di volume V1, connesso mediante un robinetto R ad un altro recipiente di volume V2 (fig. 8). La pressione del gas nel primo recipiente sia p1, nell'altro recipiente la pressione sia nulla: se si fa espandere il gas dal volume V1 al volume V1 + V2, dato che è nulla la pressione nel volume V2 la dilatazione si compie senza lavoro esterno; l'esperienza dimostra inoltre che per i gas che sensibilmente seguono la legge dei gas perfetti questa espansione senza lavoro esterno non è accompagnata da variazione termica: ΔT = 0.
Questo risultato sperimentale (Joule-Thomson) dimostra che l'energia interna non dipende, nel caso dei gas perfetti, dal volume, dipende solo dalla temperatura, e quindi:
L'energia interna di una massa m di gas che obbedisce alla legge di Joule-Thomson, e cioè l'energia interna di un gas perfetto, di massa molecolare M è data da
se cv è costante.
Inoltre per i gas perfetti
e quindi sostituendo nella (16) e passando dagli Joule alle calorie
formula che abbiamo già ricavato e che ora ritroviamo con un ragionamento più completo.
Nel caso dei gas perfetti si può facilmente dedurre l'equazione caratteristica di una trasformazione adiabatica; questa è data dalla condizione dQ = 0; se il gas dilatandosi o comprimendosi adiabaticamente compie un certo lavoro esterno − dA = pdV, il primo principio applicato in generale a una trasformazione adiabatica dà dQ = dU + pdV = 0 e cioè nel caso del gas perfetto:
Dall'equazione di stato si può esprimere il secondo termine in funzione di V e T, e quindi sostituendo si ottiene:
da cui, ponendo
si ricava
Questa è dunque la relazione che passa fra T e V nel caso della trasformazione adiabatica del gas perfetto.
La relazione che per la stessa trasformazione passa fra T e p si può ottenere facilmente ricordando che
la relazione fra p e V si può analogamente ottenere, e questa relazione ha la forma:
Le due trasformazioni, le isoterme e le adiabatiche, nel caso dei gas perfetti sono rappresentate nel piano di Clapeyron dalle due equazioni:
Nel caso generale di un corpo qualunque non si possono stabilire in forma analitica le relazioni che dànno l'isoterma e l'adiabatica, però si potranno sempre immaginare tracciate nel piano di Clapeyron il reticolato di linee corrispondenti alle isoterme e alle adiabatiche.
Il 2° principio della termodinamica. - Ciclo di Carnot (v. anche carnot, sadi-nicolas-léonard). - È ben noto dall'esperienza quotidiana che mediante l'impiego di speciali macchine si può ottenere lavoro mediante calore. Questo fatto fondamentale della trasformabilità di una forma di energia in un'altra è già contenuta nel primo principio che appunto stabilisce un'equivalenza fra le due forme di energia; le macchine alle quali si fornisce calore e che sono in grado di dare lavoro sono dette macchine termiche.
Ora mentre il primo principio stabilisce la possibilità, in linea di massima, di ottenere lavoro mediante somministrazione di calore, il secondo principio della termodinamica dovuto al Carnot afferma che questa trasformazione di calore in lavoro è soggetta a certe limitazioni. Analizzando queste limitazioni, si giunge a dare al principio una forma più generale, che ha mostrato nei suoi successivi sviluppi una portata sempre più vasta, e il cui significato profondo è stato posto in evidenza quando si è sviluppata un'altra forma di termodinamica, quella statistica.
Le considerazioni del Carnot si basavano sulla ricerca di un ciclo di trasformazioni fatte da una macchina, in modo da trasformare calore in lavoro, ma tali che con questo ciclo di trasformazione si avesse il massimo lavoro possibile col minimo calore impiegato. Egli fu così condotto al ben noto ciclo, costituito da due adiabatiche e due isoterme percorse reversibilmente.
Il Carnot intuì che le condizioni migliori si avevano quando tutte le trasformazioni del ciclo fossero compiute dalla macchina in modo quasistatico (in tal modo si ricava da ogni trasformazione il massimo lavoro utilizzabile) e completamente reversibile. Concettualmente il più semplice modo di realizzare un ciclo di questo genere è il seguente: si abbia un cilindro (fig. 9) che contenga un corpo qualunque e sia questo cilindro a pareti assolutamente isolanti, esclusa la parete di fondo che può essere posta a contatto di sorgenti di calore a temperature diverse o separata dal resto mediante una sostanza ugualmente isolante. Si parta dalla condizione seguente: il cilindro è posto su una sorgente di calore a temperatura T1; facendo espandere il gas isotermicamente la pressione passa dal valore iniziale p1 ad un valore p2 ed analogamente il volume V1 passa a V2, il punto figurativo nel piano di Clapeyron descrive in tali condizioni un tratto d'isoterma a temperatura T1, limitato dai valori p1, V1 e p2, V2 (fig. 10). Durante questo processo il corpo compie un certo lavoro esterno e contemporaneamente la sorgente fornisce una quantità di calore Q1. Arrivati al punto p2 V2 del piano di Clapeyron, il cilindro è tolto dalla sorgente a T1, e isolato termicamente, indi si fa compiere al corpo una dilatazione adiabatica che lo fa passare da p2V2 a p3V3; contemporaneamente il corpo passa dalla temperatura T1 a un'altra temperatura T2 e il punto figurativo nel piano di Clapeyron descriverà un tratto di adiabatica. Il corpo compie un certo lavoro ma senza assorbire o cedere calore. Giunti nel punto p3V3 il cilindro vien posto in contatto di una sorgente a temperatura T2 e il corpo viene compresso isotermicamente in modo che il punto figurativo da p3V3 passi a p4V4.
Durante questo processo il mondo esterno compie lavoro sul corpo, il quale cede alla sorgente a T2 una quantità di calore Q2. Si toglie infine la comunicazione con la sorgente a temperatura T2 e si comprime il corpo adiabaticamente, fino a raggiungere la temperatura T1. Il mondo esterno compie ancora lavoro, ma il corpo non cede né assorbe calore. Bisogna scegliere il punto p4V4 sull'isoterma a T2 in modo che l'adiabatica che passa per p4V4 passi pure per p1V1.
Così si è riportato il corpo nelle stesse condizioni di prima compiendo un ciclo dotato di. reversibilità completa. Il lavoro fatto dal corpo è rappresentato dall'area del ciclo, e vi è lavoro fatto perché il ciclo è stato percorso nel senso orario. In questo ciclo il corpo ha preso una quantità di calore Q1 dalla sorgente a temperatura T1, ha versato alla sorgente a temperatura T2 una quantità Q2: la prima sorgente si chiama appunto sorgente, l'altra è detta refrigerante. In base al primo principio il lavoro L fatto dalla macchina, espresso in calorie, è dato da L = Q1 − Q2.
Una macchina temica sarà più utile e cioè di maggior rendimento, quanto più grande è il lavoro fatto dalla macchina e quanto più piccola è la quantità di calore presa alla sorgente; se tutto il calore Q1 preso si potesse trasformare in lavoro, si avrebbe evidentemente una perfetta trasformazione, e cioè il massimo rendimento possibile. Conviene quindi definire come rendimento ρ di una macchina termica che prende calore a T1 e cede calore a T2 l'espressione
Il rendimento ρ così definito può variare fra i limiti estremi di 0 e 1.
Ora il secondo principio della termodinamica afferma che fra tutte le macchine lavoranti fra le stesse temperature T1 e T2, quella che compie il ciclo di Carnot ha il rendimento massimo.
Varî enunciati del 2° principio. - Il principio ora enunciato va inteso come un postulato ricavato direttamente dall'esperienza esso può apparire come un principio estremamente particolare e di portata limitata. Ciò è dovuto soltanto alla forma particolare dell'enunciato, che non è certo quella fisicamente più significativa. Si possono considerare altre forme che permettono di cogliere il significato fisico di questo principio in maniera più precisa. Supponiamo, per esempio, che si abbia una macchina che compie un ciclo chiuso, reversibile o no, il quale abbia un rendimento superiore a un ciclo di Carnot operante fra le stesse temperature estreme,e cioè i due cicli siano tali da prendere calore dalla stessa sorgente T1, e riversare calore allo stesso refrigerante T2, e siano Q1, Q2 le quantità di calore prese e cedute dalla macchina operante secondo un ciclo di Carnot, Q1′, Q2′ le quantità di calore prese dalla macchina operante con rendimento superiore.
Per ipotesi è:
Supponiamo ora di far lavorare le due macchine contemporaneamente; facciamo però compiere alla macchina di Carnot il ciclo in senso inverso (per ipotesi il ciclo di Carnot è completamente reversibile), mentre l'altra macchina lavori nel modo ordinario, cioè nel senso della produzione di lavoro.
In queste condizioni la macchina di Carnot sottrarrà calore alla sorgente 2 e ne darà alla sorgente1. Si può naturalmente regolare l'andatura delle due macchine in modo che la sorgente 2 non riceva né ceda calore, complessivamente.
È facile mostrare che nell'ipotesi (20), il risultato finale sarà la conversione totale in lavoro di una certa quantità di calore presa solo alla sorgente 1.
In altre parole, l'insieme dei due cicli, usati nel modo descritto, costituirebbe una macchina (perpetuum mobile di seconda specie) capace di produrre lavoro compiendo un ciclo chiuso e prendendo calore da una sola sorgente. Ma questo fatto non è stato mai osservato in natura.
Il principio di Carnot è equivalente alla negazione della possibilità di una macchina cosiffatta. Infatti partendo da questa negazione si può, come abbiamo visto, dimostrare il principio di Carnot. Viceversa, se esistesse un perpetuum mobile di seconda specie, si potrebbe facilmente violare il principio di Carnot. I due enunciati sono quindi perfettamente equivalenti.
Di qui si vede dunque che non soltanto non è possibile ottenere lavoro senza consumare calore o un'altra forma equivalente di energia (1° principio), ma, volendo usufruire del calore, è necessario che ci sia una seconda sorgente in cui riversare parte del calore preso alla prima. Il 1° principio stabilisce un'equivalenza generale tra energia in genere, ed energia calorifica in ispecie. Il 2° principio limita la trasformabilità che sembrerebbe completa dal 1° principio: si può ottenere lavoro mediante calore, ma non si può trasformare tutto il calore in lavoro; una parte di questo calore deve passare a una sorgente a temperatura più bassa.
Il 2° principio può essere enunciato ancora sotto altra forma: supponiamo di riferirci alle stesse condizioni esposte precedentemente, ma regoliamo l'andatura delle due macchine in modo che sia nullo il lavoro fatto. Sempre partendo dalla (20) si vede che in tal modo si cederebbe calore alla sorgente più calda, portando questo calore da una sorgente più fredda senza compiere nessun lavoro. Sperimentalmente si osserva che il calore non passa mai spontaneamente, e cioè senza lavoro concomitante, da un corpo a temperatura più bassa ad un corpo a temperatura più alta. L'affermazione che il ciclo di Carnot è a rendimento massimo, che cioè è impossibile la (20), corrisponde a questo fatto sperimentale assicurato da tutto l'andamento dei fatti naturali: che il calore spontaneamente passa dal corpo caldo al corpo freddo.
Si potrebbe infine dimostrare che il rendimento è indipendente dalla natura della sostanza che compie il ciclo. Anche questo fatto, che cioè il rendimento di un ciclo di Carnot non dipende dalla sostanza impiegata, è suscettibile di una verifica sperimentale diretta. In effetti è possibile, mediante l'uso delle tavole delle costanti fisiche, determinare il rendimento di un ciclo di Carnot compiuto fra le stesse temperature da sostanze diverse; questi calcoli numerici, basati su dati sperimentali, hanno dimostrato che effettivamente il rendimento di una macchina è indipendente dalla natura della sostanza che forma la macchina. E ciò si può considerare una nuova verifica del principio di Carnot.
Calcolo del rendimento del ciclo di Carnot. - La grande importanza del risultato ora detto consiste essenzialmente in questo fatto: se il rendimento è indipendente dalla sostanza, noi possiamo immaginare che il ciclo di Carnot sia compiuto da un gas perfetto. Mediante le proprietà note delle adiabatiche e delle isoterme di un gas perfetto si potrà calcolare teoricamente il reqdimento in funzione delle due temperature estreme del ciclo. Il risultato dovrà valere per qualsiasi sostanza.
Senza entrare in particolari sul calcolo, enunciamone il risultato, molto semplice: siano T1 i e T2 le due temperature estreme tra cui lavora il ciclo di Carnot, misurate nella scala assoluta delle temperature ossia nella scala definita mediante un termometro a gas perfetto secondo l'equazione di stato (2); in questo caso il rendimento è dato da:
Notiamo che quest'equazione può anche venire usata (v. temperatura) per definire la scala assoluta.
Il rendimento teorico precedente è quello che si ottiene nel caso della reversibilità. Quando il ciclo non è compiuto reversibilmente dalla stessa macchina che opera fra le stesse temperature estreme, si conclude che il rendimento effettivo ρi è minore di ρ
e cioè
l'uguaglianza si riferisce alle condizioni di reversibilità; la (22) si può anche scrivere
da cui
Tenuto conto che Q2 è la quantità di calore che il corpo cede al refrigerante e considerando le quantità di calore algebricamente (e più particolarmente positive se date dall'ambiente esterno al corpo, negative nel caso opposto), si può scrivere con questa nuova convenzione:
e cioè in un ciclo di Carnot la somma delle quantità di calore prese alle due sorgenti a temperatura diversa divise per le rispettive temperature è nulla se il ciclo è compiuto reversibilmente, è negativa se è compiuto in modo irreversibile.
Si possono estendere queste considerazioni a cicli più generali di quello di Carnot. Nel caso in cui vengano utilizzate nel ciclo n sorgenti di calore a n temperature diverse (n > 2), si può provare che, analogamente alla (24):
Con un naturale passaggio al limite, si giunge, nel caso più generale di un ciclo (fig. 11) in cui la temperatura del sistema varî in modo continuo, alla relazione:
dove, per essere precisi, bisogna intendere T la temperatura della sorgente che cede e assorbe la quantità di calore dQ, e in particolare, nel caso di un ciclo reversibile, alla:
Entropia. - Si consideri ora un ciclo chiuso ABCD (fig. 11) compiuto reversibilmente; dalla relazione precedente si ricava:
e cioè l'integrale di
da un certo stato del corpo (punto A) ad un altro stato del corpo (punto C) lungo un qualunque percorso, e cioè lungo una serie di stati, compiuto però in modo reversibile non dipende dallo speciale cammino scelto; l'integrale di
può dunque porsi sotto forma di differenza di due grandezze, una dipendente dal punto iniziale, l'altra dal punto finale
Il 2° principio dunque analiticamente afferma che
è il differenziale esatto di una funzione dello stato del corpo. Tale funzione è detta dal Clausius entropia.
Come conseguenza del 2° principio si viene così a introdurre una nuova funzione, la funzione entropia S, analogamente a quanto avviene per il 1° principio, che porta a riconoscere l'esistenza dell'energia interna U. Il 1° principio afferma che la somma della quantità di calore dQ e del lavoro dA (le quali nel caso generale non sono differenziali esatti), per una qualunque trasformazione è sempre un differenziale esatto, il secondo principio stabilisce che il quoziente nella quantità di calore dQ per la corrispondente temperatura T nel caso di una trasformazione reversibile è il differenziale della funzione S. La quantità
rende dQ un differenziale esatto: è dunque il fattore integrante del dQ.
Formulazione matematica del 2° principio. - Al differenziale:
si possono applicare considerazioni analoghe a quelle già fatte per il differenziale dell'energia interna. Deve infatti trattarsi di un differenziale esatto e ciò permette di ricavare alcune relazioni analitiche, la cui verifica sperimentale costituisce naturalmente una verifica indiretta del 2° principio.
Consideriamo il caso semplice di un sistema, il cui stato dipende, oltre che dalla temperatura, da una seconda variabile.
Se in particolare le variabili sono T e V, e ci riferiamo all'unità di massa del corpo:
quindi si ottiene:
ed in base alla (13) si conclude:
formule che valgono per qualsiasi sostanza.
Se le due variabili sono T e p:
l'entropia è data da:
da cui:
Le due quantità l e h si possono quindi determinare mediante (26) (27) conoscendo rispettivamente l'andamento di p e di V al variare di T.
Trasformazioni irreversibili. - Rivolgiamo ora la nostra attenzione ai cicli irreversibili, per cui non vale in generale l'uguaglianza (25), ma la disuguaglianza già scritta:
Applichiamo in particolare questa disuguaglianza a un ciclo chiuso costituito da una trasformazione irreversibile che porti il sistema da uno stato 1 a uno stato 2, e da un'altra trasformazione, lungo un altro cammino, e reversibile, che riporti il sistema dallo stato 2 allo stato 1. Poniamo, per la prima trasformazione:
Poiché il processo è stato compiuto irreversibilmente, questa quantità σ dipende non solo dai due stati 1 e 2 ma anche dal cammino seguito lungo la trasformazione. D'altra parte:
dove S1 e S2 sono i valori della funzione entropia per i due stati 1 e 2. Considerando il ciclo chiuso costituito dal tratto 1 a 2 fatto irreversibilmente e dal tratto 2 a 1 fatto reversibilmente, dalla disuguaglianza di Clausius, dato che il ciclo non è tutto compiuto in modo reversibile, si ricava che:
e dicendo a una quantità essenzialmente positiva:
cioè nel passare dallo stato 1 allo stato 2 l'integrale
ha il massimo valore quando la trasformazione è compiuta reversibilmente.
Consideriamo ora un sistema termicamente isolato, tale quindi che siano nulle tutte le quantità di calore che questo sistema scambia col mondo esterno. Se in questo sistema avvengono delle trasformazioni, con scambî di calore fra le varie parti, in modo che si passi da uno stato d i ad uno stato 2, l'integrale
che dipende dagli scambî di calore che questo sistema fa col mondo esterno, data la condizione dell'isolamento termico del sistema, è nullo; se si completa il ciclo, riportando il sistema nelle condizioni iniziali da 2 a 1 mediante una trasformazione reversibile, la (29) in questo caso dà:
e cioè in un sistema isolato l'entropia cresce. Ciò significa che i processi che avvengono in un sistema isolato, sono quelli che portano ad un aumento di entropia.
Dalle considerazioni svolte partendo dal principio di Carnot siamo quindi portati a riconoscere l'esistenza di una funzione S, l'entropia, che varia spontaneamente in un sol senso, tende cioè a crescere. I processi che si possono realizzare in natura spontaneamente, sono processi che tendono a portare l'entropia del sistema al massimo.
Per i sistemi isolati si può quindi dire che la condizione per la quale non si ha più nessuna modificazione, e cioè l'equilibrio del sistema, è la condizione di massimo dell'entropia.
Vogliamo ora illustrare con qualche esempio questo risultato fondamentale. Consideriamo in primo luogo un qualunque processo meccanico. Ora in un qualunque meccanismo si riscontra sperimentalmente che, per effetto delle forze di attrito, si sviluppano nei varî organi della macchina delle quantità di calore. Se dQ è la quantità di calore sviluppata per effetto dell'attrito, e T è la temperatura a cui si trova il corpo, nel sistema si riscontra un aumento di entropia (ΔS > 0) dato da
Analogamente per la presenza dell'attrito interno, il moto dei fluidi e il moto dei corpi solidi nei fluidi è accompagnato da sviluppo di calore, e quindi da aumento d'entropia, per la presenza dell'istesi le deformazioni elastiche sono accompagnate da sviluppo di calore, quindi da aumento d'entropia del sistema. Anche il passaggio di una certa quantità di carica elettrica da un punto a potenziale più alto a un punto a potenziale più basso è un processo connesso con lo sviluppo di una quantità di calore (effetto Joule) che produce un aumento dell'entropia.
Consideriamo ancora il passaggio di calore da un corpo a temperatura T1 più alta ad un corpo a temperatura più bassa T2: il primo corpo supponiamo che ceda la quantità Q1 alla temperatura T1 (quindi Q1 è negativo), l'altro assorba la stessa quantità Q1 alla temperatura T2 (e quindi Q2 è positivo ed è dato da Q2 = − Q1) l'entropia varia di ΔS:
poiché
I processi che sono stati da noi precedentemente considerati avvengono tutti spontaneamente, e sono tutti accompagnati da un aumento di entropia.
Trasformazioni isoterme. - Particolare interesse per le applicazioni nei varî campi della fisica e della chimica fisica presentano le trasformazioni reversibili per le quali la temperatura si mantiene costante e cioè le trasformazioni isoterme. In questi casi la variazione d'entropia per il passaggio dallo stato 1 allo stato 2 è data da:
Se si considerano due trasformazioni fra gli stessi stati iniziale e finale, una di queste fatta irreversibilmente, e l'altra reversibile, nel caso isotermo in base alla (29) si ha:
e cioè la trasformazione isoterma reversibile è quella che assorbe la massima quantità di calore. Questa quantità di calore massima non dipende dal cammino reversibile scelto, è solo funzione dello stato iniziale e finale.
Nel compiere una qualunque trasformazione isoterma, e cioè passando dallo stato 1 allo stato 2 irreversibilmente, si ricava dal corpo un certo lavoro ΔL′; chiudendo il ciclo in modo da ritornare dallo stato 2 allo stato 1 ma per via reversibile, si compie un lavoro ΔL. Poiché questo ciclo chiuso è isotermo, il corpo è rimasto a contatto con una sola sorgente, e quindi in base al 2° principio:
cioè il lavoro che si può ricavare da una trasformazione isoterma è massimo quando la trasformazione si compie in modo reversibile. Poiché, come abbiamo visto, la quantità di calore massima, che si deve somministrare in una trasformazione isoterma e reversibile, non dipende dal cammino, ma è data dalla differenza fra due valori, uno relativo allo stato iniziale e l'altro allo stato finale, e precisamente:
l'equazione generale del primo principio assum in questo caso la forma:
Introducendo la quantità F mediante la relazione:
F sarà come U e TS una funzione dei parametri che individuano lo stato del corpo, e poiché ?ΔT = 0 (trasformazione isoterma):
La variazione ΔF della funzione F ha dunque un significato molto importante: è il lavoro ricevuto dal sistema per effetto della trasformazione.
La relazione (33), tenendo conto della (31), afferma che in una trasformazione isoterma nella quale vi è una variazione ΔU dell'energia interna del sistema, il massimo lavoro che si può ricavare non è dato dalla variazione ΔU; una parte di questa energia e precisamente la quantità TΔS non si può trasformare in lavoro, solo ΔU − TΔS può essere utilizzata. Per tale ragione la funzione F è detta energia libera o utilizzabile nella trasformazione isoterma, e la funzione TS rappresenta energia legata.
Una proprietà importante della funzione si ricava osservando che:
che si può anche scrivere:
Poiché:
si ottiene:
Di qui risulta ancora la grande importanza che ha la funzione F: se per una sostanza qualunque si riesce a determinare questa F in funzione di V e T, la derivata di questa funzione rispetto a V, a temperatura costante, ci dà una relazione fra p, T e V e cioè ci dà l'equazione di stato. L'importanza di questo risultato è chiaramente evidente in meccanica statistica, dove si stabilisce un procedimento generale per determinare la funzione F.
Equazione di Gibbs-Helmholtz. - L'espressione del massimo lavoro utile, che si può ricavare da una trasformazione isoterma e reversibile, assume mediante le formule precedenti una forma diversa: infatti dalla (37) si ricava:
e cioè nelle trasformazioni reversibili e isoterme a volume costante esiste questa relazione detta equazione di Gibbs-Helmholtz, la quale collega per ogni temperatura la variazione dell'energia interna ΔU con la variazione dell'energia utilizzabile ΔF e la derivata
della variazione dell'energia utilizzabile rispetto alla temperatura.
Potenziali termodinamici. - Nel campo dei fenomeni meccanici le condizioni di equilibrio di un sistema si possono enunciare dicendo che una determinata grandezza (l'energia potenziale), funzione della posizione dei varî punti del sistema soggetti a un determinato sistema di forze, acquista un valore minimo quando v'è l'equilibrio; la posizione per la quale questa condizione è soddisfatta, è la posizione di equilibrio del sistema.
Per analogia si può ragionare allo stesso modo nel campo della termodinamica. Le trasformazioni possono essere di vario tipo, così, per esempio, è una trasformazione la fusione di una massa di ghiaccio; perché questo processo possa avverarsi è necessario però che, a una certa pressione, la temperatura T assuma valori superiori alla temperatura di fusione; se la massa di ghiaccio è alla pressione di 760 mm. di Hg e alla temperatura, supponiamo, di − 7°, la trasformazione non si effettua. Analogamente possiamo procedere per gl'infiniti altri casi, e cioè la possibilità di una trasformazione è determinata da certe condizioni. Nasce alloia per analogia l'idea che anche in questi processi termodinamici debba esistere una funzione che corrisponde alla funzione potenziale, la quale con i suoi minimi stabilisce le condizioni d'equilibrio termodinamico del sistema; la ricerca di questa funzione, e più propriamente dei minimi di essa, in funzione dei parametri che nel campo termodinamico fissano la posizione, e cioè lo stato del sistema, rappresenta la ricerca delle condizioni di equilibrio termodinamico.
In questo campo a seconda delle variabili indipendenti, e a seconda delle condizioni del sistema, si possono avere varie funzioni, che hanno l'analogo ufficio della funzione potenziale.
Supponiamo che il sistema sia isolato termicamente, e cioè consideriamo le trasformazioni adiabatiche; in questo sistema isolato, che non scambia calore con il mondo esterno, si svolgono spontaneamente solo quei processi che portano ad un accrescimento dell'entropia, si vede quindi che in questo tipo di trasformazione si ha equilibrio quando l'entropia ha raggiunto il valore massimo, e cioè nei processi adiabatici la funzione − S rappresenta la funzione potenziale; il suo minimo dà la condizione di equilibrio.
Consideriamo ora il caso delle trasformazioni isoterme: queste trasformazioni possono avvenire a pressione costante, e cioè isoterme-isobare, oppure a volume costante e cioè isoterme-isocore. Cominciamo col trattare il problema nel caso generale.
Si dimostra facilmente che in una trasformazione isoterma irreversibile si ha:
dove ΔA è il lavoro che l'ambiente esterno fa sul sistema che subisce la trasformazione. Una trasformazione di tal tipo può quindi verificarsi solo se per essa è soddisfatta la relazione precedente.
Applichiamo più particolarmente questo risultato al caso in cui si tratti di una trasformazione isoterma-isocora (ΔV = 0); ciò significa che ΔA = 0, e quindi la (38) si trasforma nella:
Cioè quando l'energia libera nello stato 1 ha un valore maggiore che nello stato 2, la trasformazione non si verifica: una trasformazione isoterma isocora si effettua solo quando questa trasformazione produce una diminuzione dell'energia libera.
Considerando poi tra le possibili trasformazioni quelle costituite da reazioni chimiche che si svolgono a volume costante, si conclude, da quanto precede, che queste reazioni si effettuano tanto più vivacemente quanto maggiore è la variazione ΔF; di qui deriva che la variazione ΔF può servire per la misura dell'affinità chimica di una reazione. La condizione che F abbia lo stesso valore per i varî corpi che si trovano a contatto rappresenta dunque la condizione di equilibrio chimico per la trasformazione isocora.
Se la trasformazione è isobara, il lavoro esterno fatto dal sistema è dato da:
e la (38) diventa:
Introduciamo la funzione:
per questo processo isobaro si ha dunque:
che sostituisce la (38 a). Φ è detto il potenziale termodinamico; prendendo come variabili i parametri T e p, si potrà porre:
ma da (39), nelle condizioni d'equilibrio di un processo isotermo isobaro, si ha:
e cioè.
e cioè si ottengono relazioni analoghe a quelle ottenute per F. La conoscenza di Φ in funzione di p e T permette, derivando Φ rispetto a p, di stabilire la relazione (40) tra p, T e V, si ottiene così l'equazione di stato del corpo. Per le trasformazioni isoterme-isobare si può scrivere un'equazione analoga a quella di Gibbs-Helmholtz, la quale collega il potenziale termodinamico Φ con la funzione "entalpia" W (W = U + pV), in modo perfettamente analogo a quello che si riscontra fra l'energia libera A e l'energia interna U.
Equilibrî termodinamici. - I principî e i teoremi, che siamo venuti sviluppando, trovano nel vasto campo dei problemi di equilibrio termodinamico una serie grandiosa di applicazioni, a cui non possiamo che accennare brevemente.
Il caso più semplice di equilibrio è quello tra due stati di aggregazione diversi di una stessa sostanza. Possiamo illustrare mediante questo esempio i varî modi in cui la condizione di equilibrio: ΔΦ = 0 può venire sfruttata. Se tutte le quantità che compaiono nell'equazione (o in altre relazioni che da essa si possono dedurre) vengono determinate sperimentalmente, si può procedere a una verifica dell'equazione, verifica che naturalmente costituisce un controllo dei due principî fondamentali della termodinamica.
D'altra parte noi possiamo considerare una delle quantità, che compaiono nell'equazione, come un'incognita, che l'equazione ci permette di calcolare una volta note le altre quantità. Nel caso di equilibrî più complicati (equilibrî chimici, tra parecchie fasi, ecc.) vi sono in generale parecchie condizioni di equilibrio indipendenti, cosicché le quantità che si possono assumere come incognite sono più d'una. È anche interessante eseguire una semplice valutazione aritmetica del numero delle equazioni indipendenti; questa valutazione (J. W. Gibbs, 1875-78) porta alla celebre regola delle fasi, che determina il numero dei gradi di varianza in un equilibrio comunque complesso. Questa regola è riassunta nell'equazione:
che lega il numero L dei gradi di varianza al numero F delle fasi e a quello C delle componenti (v. anche fase).
Tornando al caso semplice di una sola equazione, ha un particolare interesse considerare come incognita la temperatura; consideriamo per fissare le idee un equilibrio solido-liquido. La condizione di equilibrio consiste nell'eguaglianza tra i potenziali termodinamici (riferiti all'unità di massa) delle due fasi. Se noi supponiamo nota, in funzione della temperatura e della pressione, la differenza ΔΦ dei due potenziali termodinamici, noi possiamo considerare l'equazione: ΔΦ = 0 come una relazione tra p e T, che ci permette di calcolare la temperatura di fusione T per ogni valore della pressione. Questo programma non è stato concretato compiutamente che in seguito alla scoperta del 3° principio, come ora diremo. Infatti nel tentativo di determinare la funzione ΔΦ, o, che è poi lo stesso, la variazione ΔF dell'energia libera in base a dati sperimentali e senza supporre di conoscere già la temperatura di fusione, s'incontra una caratteristica indeterminazione. In generale si parte, a questo scopo, dall'equazione di Gibbs-Helmholtz, che si può scrivere:
cosicché:
Ora, il valore di ΔU si può molto spesso ricavare da misure calorimetriche o simili, ma una volta fatto questo, rimane nel calcolo di ΔE una costante d'integrazione arbitraria. In realtà il valore di questa costante viene fissato dal principio di Nernst, come ora vedremo.
Il 3° principio della termodinamica. - Nell'esposizione del 1° e 2° principio si è prima di tutto considerato un enunciato ricavato dai risultati sperimentali, poi, deducendo da questa prima formulazione varie conseguenze, che permettevano di comprendere meglio il contenuto di essi, sono stati ricavati altri enunciati. Tra questi sono notevoli l'enunciato che riveste una precisa formulazione matematica (e cioè dU e dS differenziali esatti) e la formulazione di una impossibilità.
Analogamente si può procedere per il 3° principio: in primo luogo enuncieremo questo principio basandoci su dati sperimentali, poi si cercherà di fissarne il contenuto teorico, e dare a questo una formulazione che, rimanendo equivalente a quella primitiva, permetta d'interpretarne meglio il contenuto. Il 1° principio è indipendente dalla conoscenza della teoria cinetica, tiene conto dell'effettiva struttura discontinua della materia. Il 2° principio ha un significato che può essere compreso solo nell'interpretazione discontinua, come si mostrerà nella termodinamica statistica. Il 3° richiede per l'effettiva comprensione una concezione ancora più approfondita e cioè la conoscenza della teoria quantistica.
Questo principio, dovuto a W. Nernst, è sorto dalla ricerca di un criterio per fissare il valore della costante arbitraria che s'incontra nell'equazione (41) dedotta dalla relazione di Gibbs-Helmholtz. Il Nernst rivolse la sua attenzione dapprima a quelle modificazioni che avvengono fra corpi che si trovano allo stato o liquido o solido, e cioè fra fasi condensate; per semplicità limitiamoci specificatamente ai corpi solidi.
Dalle ricerche sperimentali compiute dallo stesso Nernst, e poi anche da altri sperimentatori, risulta che alle basse temperature i calori specifici tendono rapidamente a zero, anzi si può dire che sono praticamente nulli già prima di raggiungere temperature estremamente basse. Ricerche posteriori hanno dimostrato che per molti corpi si può ritenere con ottima approssimazione:
Ciò porta alla conclusione che la variazione ΔU dell'energia interna in una trasformazione isocora, variazione data da:
ha l'andamento rappresentato in figura 12. Si consideri ora una trasformazione per la quale dall'andamento già determinato in un esteso campo dei calori specifici delle sostanze che prendono parte alla trasformazione, si possa conoscere ΔU in funzione di T.
Per trattare un caso concreto si consideri la trasformazione dello zolfo rombico in zolfo monoclino alle varie temperature supponendo che la pressione esterna sia quella atmosferica. Le quantità che in tal caso bisogna considerare sono l'entalpia W, e il potenziale termodinamico Φ.
Le due forme cristalline che hanno due diverse tensioni di vapore sono in equilibrio, e cioè hanno la stessa tensione, per T = 368°,5; quindi per tale valore di T si può porre ΔΦ = o; a temperatura inferiore i valori di ΔΦ sono diversi da zero. Infatti, poiché le due modificazioni hanno diverse tensioni di vapore, si può far evaporare una molecolagrammo di una modificazione, e questo vapore ha la tensione p1, far espandere questo vapore dalla pressione p1 alla pressione p2 della seconda modificazione, e in questa trasformazione si compie un lavoro dato da
condensare infine il vapore nell'altra forma. Poiché durante l'evaporazione e la condensazione i processi sono isotermi e reversibili e le due fasi sono in equilibrio, la variazione di ΔΦ è data solo da
Conoscendo i valori di p1 e p2 alle varie temperature si conosce ΔΦ(T) in funzione di T. D'altra parte conoscendo i calori specifici delle due modificazioni alle varie temperature si può determinare l'andamento della curva ΔW, e facendo uso dell'equazione di Gibbs-Helmholtz, si può, fra le infinite possibili soluzioni che questa equazione dà per ΔΦ, tracciare quella curva per la quale, per T = 368°,5, ΔΦ è uguale a zero (fig. 13).
Si trova così che, riferendoci all'unità di massa, ΔW e ΔΦ risultano dati dalle relazioni:
Mediante determinazione di tensione di vapore delle due forme cristalline alle varie temperature si hanno direttamente i valori di ΔΦ in funzione di T ed i valori che si ricavano dalla formula scritta sono in perfetto accordo con i risultati sperimentali. Dalla (43) si ricava che verso le basse temperature ΔΦ (T) tende a diventare tangente alla curva ΔW (T) e cioè poiché, come abbiamo già detto, ΔW (T) ha tangente orizzontale:
Questo risultato trovato per la trasformazione dei due stati allotropici dello zolfo si verifica ugualmente in numerosi casi; in tutti questi le due curve ΔW e ΔΦ determinate con opportune esperienze tendono per T → 0 ad avere la tangente comune e parallela all'asse delle T. Analoghi risultati si hanno per trasformazioni isocore.
Il Nernst in base al numeroso materiale raccolto ha postulato che per tutte le trasformazioni tra fasi condensate vale la condizione:
Ciò significa fisicamente che nell'intorno dello zero assoluto tutta la variazione dell'energia interna ΔU o dell'entalpia ΔW si trasforma in energia libera.
Le conferme sperimentali di questo nuovo postulato si ottengono evidentemente per i varî casi misurando le quantità ΔU o ΔW per varie trasformazioni, alle varie temperature, determinando quindi sperimentalmente le quantità ΔF o ΔΦ e confrontando poi se l'andamento delle due curve empiriche è in accordo con la posizione (44).
Le verifiche numerosissime, limitatamente per ora a fasi condensate, sono state tutte soddisfacenti. Nelle figg. 14 a, e 14 b si riportano graficamente i risultati relativi ad altre due reazioni nelle quali l'andamento del ΔU è diverso dall'andamento già considerato. È interessante riscontrare come anche in questi casi il principio di Nernst sia perfettamente in accordo con l'esperienza.
In base a tali continue verifiche il teorema o postulato di Nernst si può considerare quale terzo principio fondamentale.
Vediamo quali conseguenze si possono trarre da esso. Riprendiamo l'equazione (41); poiché:
sostituendo, e indicando con I la costante d'integrazione, si ottiene:
da cui:
Per basse temperature e per le sostanze solide, per cui vale la legge di Debye sui calori specifici, i due integrali portano a termini con T al cubo, e quindi vanno rapidamente a zero per T tendente a zero, ed il terzo principio stabilisce che:
cioè è nulla I, la costante termodinamica indeterminata.
Per quelle trasformazioni che avvengonp fra corpi che a basse temperature obbediscono alla legge di Debye, la variazione dell'energia libera in base al 3° principio è quindi data da:
La conoscenza della legge di variazione dei calori specifici e della variazione dell'energia interna allo zero assoluto, determinazioni che possono farsi mediante opportune esperienze, basta completamente per la conoscenza della variazione ΔF, e cioè del massimo lavoro utile che si può ricavare da una trasformazione.
Un'altra forma importante del 3° principio si ottiene ricordando che ΔF è la differenza fra l'energia libera della sostanza iniziale e la sostanza finale:
il terzo principio afferma che per T → 0:
quindi il 30 principio può anche enunciarsi dicendo che alle basse temperature le trasformazioni avvengono senza che vari l'entropia.
Il Planck ha maggiormente esteso il Principio di Nernst ponendo:
e cioè affermando che l'entropia di una qualunque fase condensata è nulla allo zero assoluto.
Finora sono stati trattati problemi relativi a sistemi condensati. Si consideri ora una trasformazione che consista in un'espansione isoterma da V1 a V2 di una molecolagrammo di un gas perfetto alla temperatura T. Il massimo lavoro utile che si puó ottenere in tal caso è dato da:
ma questa espressione non si annulla per T = 0, quindi il 3° principio non si accorda con le leggi del gas perfetto.
Di fronte a tale risultato si possono prendere due atteggiamenti distinti: o si ritiene che il terzo principio sia valido solo per fasi condensate, o che alle basse temperature le leggi dei gas perfetti debbano modificarsi in modo da stabilire l'accordo con questo nuovo principio.
Effettivamente gli sviluppi ulteriori della teoria quantistica (EinsteinFermi) hanno mostrato che il gas ideale manifesta un comportamento diverso alle basse temperature, alle quali si presentano speciali fenomeni detti di "degenerazione gassosa", e il comportamento di un gas nello stato degenere risulta in accordo col 3° principio.
Anche il 3° principio, come il 1° ed il 2°, si può porre sotto la forma di un enunciato che afferma un'impossibilità.
Il 3° principio della termodinamica, ΔS = 0, nell'ipotesi che sia già ammessa la tendenza ad annullarsi per T → o dei calori specifici, equivale al seguente enunciato: non è possibile mediante un processo finito portare un corpo allo zero assoluto.
Termodinamica statistica. - Base della termodinamica statistica è la concezione cinetica sulla struttura della materia.
In questa i corpi si considerano come formati da un assieme di particelle, fra le quali agiscono forze attrattive e repulsive, funzioni della distanza; queste particelle sono dotate di moto; se il corpo è solido i movimenti avvengono intorno a punti fissi, nel caso dei fluidi le particelle godono di una maggior libertà; nei liquidi però esse sono ancora legate da notevoli forze attrattive, che conferiscono al liquido un volume proprio, mentre in un gas le forze attrattive si possono considerare quasi trascurabili, e per effetto della velocità le particelle gassose tendono a sfuggire in tutte le direzioni.
Se è V il volume occupato dalla massa gassosa, si può cineticamente calcolare anche la pressione, che, com'è noto, risulta data da
e cioè si può così determinare compiutamente lo stato V del gas (v. gas).
Questo stato è caratterizzato da una certa distribuzione di energia cinetica fra le particelle. Di qui si vede che conoscendo la distribuzione di quest'energia fra i varî individui che formano un insieme, si può risalire alla determinazione dei parametri che individuano l'insieme. Il problema cui abbiamo accennato può essere formulato nella sua forma più generale come segue: sia dato un certo numero N d'individui: determinare le proprietà "macroscopiche" dell'assieme, per es., la pressione p, la temperatura T, conoscendo le leggi che regolano il moto degl'individui. Nel caso prima considerato gl'individui sono le molecole. Secondo la teoria cinetica, la distribuzione dell'energia fra le particelle segue le leggi del caso, e moti sono moti per inerzia. Ogni individuo in un certo istante si trova in un determinato stato, e da istante a istante cambia evidentemente la distribuzione dell'energia fra i varî individui, e cioè i varî individui cambiano di stato. Ora a noi è dato modo di determinare le proprietà corrispondenti a una distribuzione degli individui nei varî stati e cioè a una "complessione": ogni complessione può essere realizzata in varî modi perché gl'individui possono scambiare i loro stati. Tra le distribuzioni che una data grandezza può avere fra gl'individui ve ne sarà una che è la più probabile: sarà quella nella quale più facilmente si troverà l'assieme.
Scopo della termodinamica statistica è di determinare qual è, fra tutte le possibili, la distribuzione più probabile, e di ricavare il valore dei parametri che individuano questo stato più probabile. Si riesce in tal modo a ottenere le caratteristiche funzioni termodinamiche tenendo conto dell'effettiva natura dei corpi, e portando così la concezione atomistica anche in questo campo della fisica.
Caratteristica fondamentale dei problemi che si studiano in questo campo, è la perfetta equivalenza fra individui; scambiando fra loro . i varî individui della stessa struttura atomica, si viene a creare una nuova distribuzione la quale però non caratterizza una nuova complessione poiché questo scambio fra individui equivalenti non produce nessuna diversità nella complessione. Se una certa grandezza è distribuita fra gli N individui, questa distribuzione d'individui è individuata dal numero dei modi nei quali può farsi questa distribuzione. Tale numero è evidentemente il numero dei modi nei quali quei determinati individui, scambiando posto fra di loro, possono realizzare quella distribuzione. Se il numero totale d'individui è N e la distribuzione che si considera attribuisce N1 individui allo stato 1, N2 allo stato 2 e così via, il numero dei modi W nei quali si può fare questa distribuzione è dato dal numero N! delle permutazioni degli N individui, ma tenuto conto che si possono scambiare fra di loro tutti gli N1 individui nello stato 1, gli N2 individui nello stato 2, ecc., senza alterare la distribuzione, il numero W è dato da
tale numero è detto probabilità statistica o numero delle complessioni. Ricordando che per N molto grande si può ritenere in base alla formula di Stirling che:
si ottiene:
Se consideriamo due o più sistemi di particelle che si considerano formanti un sistema unico, il numero delle complessioni totali relativo alla distribuzione per la quale il primo sistema ha N1, N2, ... elementi distribuiti negli stati a, b,..., mentre l'altro sistema ha N1′, N2′, ... elementi distribuiti negli stati a′, b′,... supponendo che la presenza di Ni, individui del primo sistema nello stato i non influenzi in nessun modo la presenza di Nj; individui nello stato j, è dato dal prodotto dei due numeri W1 e W2: infatti, ogni distribuzione del primo sistema si può accoppiare con tutte le distribuzioni dell'altro; dunque la probabilità statistica W di due sistemi o più, che si sono uniti formando un unico sistema, è dato da
In quanto precede abbiamo considerato il problema in modo piuttosto generale. Infatti non abbiamo definito particolarmente lo stato in cui si trovano gli N individui. Ora per individuare in maniera precisa lo stato di ognuno degl'individui è necessario un certo numero di parametri che possono essere un certo numero di coordinate, di componenti di velocità traslatoria, di velocità di rotazione, ecc. La scelta di questi parametri evidentemente è arbitraria, ma è opportuno scegliere come parametri che individuano lo stato degl'individui le variabili dinamiche coniugate q e p, e cioè le q, coordinate generalizzate, e le componenti coniugate dell'impulso. Se in particolare le particelle hanno tre gradi di libertà e cioè si considera una massa gassosa formata da molecole monoatomiche le variabili coniugate q e p sono x, y, z e mvx, mvy, mvz, in totale 6; in generale con f gradi di libertà si hanno 2 f coordinate. Supponendo che la grandezza da distribuire fra le varie particelle sia l'energia totale w (somma dell'ewnergia cinetica ε e dell'energia potenziale u si può scrivere
e cioè l'energia totale di una particella è funzione delle p e delle q. Un assieme particolare di valori delle p e delle q individuano uno stato, e se si considera uno spazio che ha tante coordinate quante sono le p e le q (e cioè nel caso più generale uno spazio a 2 f dimensioni) ogni punto di questo spazio rappresenta un assieme di valori dei parametri p, q e quindi rappresenta uno stato.
Questo spazio che ha come coordinate le variabili coniugate p, q è detto spazio di fase; una particella in un determinato stato, individuato da particolari valori delle p e delle q, individua un punto dello spazio di fase.
Considerando le particelle dell'assieme le cui coordinate sono comprese fra i valori p e p + dp, q e q + dq delle variabili coniugate si viene a individuare una porzione dello spazio di fase, che si dice una celletta, il cui volume dτ è dato da
tutti gl'individui dell'insieme le cui coordinate p e q si trovano comprese in quell'intervallo, sono rappresentati da punti che si trovano nel volume elementare dτ dello spazio fase. Queste particelle si considereranno in seguito come appartenenti allo stesso stato.
Al variare del tempo le particelle si spostano e cambiano i valori delle p e delle q, quindi quegl'individui che prima si trovavano in una speciale celletta hanno in un altro istante i punti figurativi che si trovano in un'altra zona dello spazio di fase.
Scegliendo come variabili le p e q si ha il grande vantaggio, come ha mostrato il Liouville, che il volume dτ1, occupato nello spazio di fase in un istante dagl'individui, che all'istante t = 0 occupavano il volume dτ, è immutato:
e cioè fatta una suddivisione in cellette, al variare del tempo per effetto del moto gl'individui si spostano, i punti figurativi occupano altre cellette le cui dimensioni restano immutate; tale suddivisione ha quindi significato: essa si conserva immutata al variare del moto.
Dopo aver fissato con maggiore precisione la nozione di stato, consideriamo una certa distribuzione degli N individui nei varî stati e supponiamo suddiviso lo spazio di fase in cellette, lasciando però indeterminate le dimensioni.
Nel caso più generale si deve ritenere che la probabilità perché un individuo si trovi in uno stato, e cioè in una celletta dello spazio di fase che corrisponde a tale stato, abbia un certo valore p; ed allora la probabilità che N individui si trovino nello stato i è dato da pin, quindi in generale in questa nuova concezione che tiene maggiormente conto dei varî aspetti del problema, il numero dei modi nei quali si può risolvere una certa distribuzione non è dato più dalla (48) ma da
Fra le varie distribuzioni si considera come stato normale, quella per la quale tutti gl'individui si trovano in uno stato, per esempio, lo stato 1; si ha per la probabilità statistica W0 di questa distribuzione
e quindi la probabilità relativa (detta probabilità termodinamica) della realizzazione di una qualunque distribuzione rispetto alla distribuzione normale sopra definita è data da
Indicando con gi i pesi statistici, e cioè i rapporti fra le probabilità
che una particella si trovi nella celletta i, si vede che la nuova probabilità (55) così definita è coincidente con il numero delle complessioni già prima considerato (48) nell'ipotesi che vi sia un'uguale probabilità che gl'individui si trovino in una qualunque celletta [pi = p1 = 1].
Applicando questi ragionamenti al caso che l'assieme degl'individui sia l'assieme delle particelle di una massa gassosa e determinando la distribuzione per la quale Wt è massima (distribuzione più probabile) si dimostra che se a questa massa gassosa si somministra una quantità d'energia calorifica dQ alla temperatura T si produce una variazione nella quantità Wt tale che:
da cui:
e cioè:
Il risultato qui ottenuto afferma che l'entropia S di una massa gassosa, a meno di una quantità costante indeterminata è il prodotto della costante k di Boltzman per il logaritmo della probabilità Wt, relativa alla distribuzione.
La funzione entropia riceve così la sua interpretazione statistica: l'entropia, almeno nel caso di una massa gassosa, è una funzione del numero di modi nel quale si può realizzare un determinato stato. Un determinato assieme d'individui tende a raggiungere quello stato che si può realizzare nel maggior numero dei modi, tende cioè verso lo stato più probabile (Wt, massimo), ossia, nel linguaggio della termodinamica classica, tende verso lo stato a cui compete il massimo dell'entropia. Ma questa tendenza di un assieme d'individui verso lo stato più probabile è di carattere generale, non bisogna evidentemente limitarla al caso della massa di gas perfetto. Si tratta ora di trovare in generale la dipendenza funzionale fra Wt, e S. Stabilito cioè in linea di massima S = f(Wt,), si tratta di determinare la funzione f (Wt), dopo che nel caso speciale del gas perfetto è stato possibile trovare la forma della funzione. Si abbia quindi un sistema 1 per il quale l'entropia ha il valore S1, e la probabilità termodinamica il valore W1,
e analogamente un sistema 2 . per il quale
Il sistema complessivo formato dal corpo 1 e dal corpo 2 ha l'entropia totale S che è la somma di S1 e S2, poiché, come s'è visto, l'entropia gode della proprietà additiva, mentre la probabilità W del sistema complessivo è data dal prodotto; si ha cioè
Deriviamo la (57) rispetto a W1 e W2
da cui
e cioè
Ma questa relazione nel caso del gas perfetto prende la forma (56), dunque partendo dal fatto sperimentale dell'additività dell'entropia, e dalla posizione che debba esistere una relazione fra l'entropia e il numero di complessioni, che tendono entrambi a un massimo, si giunge a stabilire che per ogni sostanza è valida la relazione fondamentale
dove k è la costante di Boltzman.
Da questo risultato, che interpreta cineticameme la funzione entropia, si può subito ricavare una conseguenza molto importante: lo stato a cui corrisponde Wt massimo, è lo stato più probabile, ma statisticamente può sempre prevedersi che si possano realizzare stati che non corrispondono al massimo di Wt, e cioè con l'interpretazione statistica si possono immaginare delle fluttuazioni dell'entropia intorno al valore massimo: e cioè il principio di Clausius non è in realtà, nell'interpretazione cinetica, un principio di carattere assoluto; si possono verificare dei casi nei quali il sistema passi dallo stato più probabile in un altro stato e quindi in questa trasformazione diminuisca il valore della sua entropia. La tendenza generale però di un sistema è di evolversi in modo da trovarsi nello stato più probabile, e quanto più grande è l'aumento dell'entropia connesso con un processo, con tanta maggiore probabilità avverrà questo processo. Una trasformazione dunque che aumenta il numero di complessioni da W1 a W2 rappresenta un processo che procederà tanto più irreversibilmente quanto maggiore è n = W2/W1.
Si abbiano allora due corpi le cui temperature si differenziano di tre decimi di grado, e supponiamo che sia T = 300°; i due corpi siano a contatto, e tre millesimi di caloria passino dal corpo più caldo all'altro; questo processo, che come si è già visto è irreversibile, porta ad un aumento d'entropia ΔS dato da
da cui esprimendo ΔS in
e dividendo per
e cioè
Già il passaggio di questa piccolissima quantità di calore fra due corpi a piccolissima differenza termica produce un aumento grandissimo delle probabilità dello stato del sistema, quindi questo passaggio è molto più probabile del passaggio inverso, che rappresenterebbe un'eccezione al postulato di Clausius.
Il 2° principio nella forma statistica si può porre sotto il seguente enunciato: un sistema composto da numerosi individui tende sempre a raggiungere lo stato più probabile, si "evolve" verso una direzione, in altre parole "non ripassa per il medesimo stato": è un principio quindi d'evoluzione. Col 2° principio si stabilisce dunque una tendenza che ha ogni sistema formato di numerosi individui di non tornare indietro, di non ripassare per lo stesso stato.
Mentre il 1° principio stabilisce che tutte le forme di energia sono equivalenti nel senso della trasformabilità di una forma nell'altra, la legge dell'accrescimento dell'entropia invece mostra in modo molto evidente, che c'è la tendenza di tutte le forme di energia a trasformarsi in calore, ad assumere la forma a cui compete una maggiore possibilità di distribuzione: l'energia si degrada. Inoltre l'energia calorifica tende a passare dai corpi più caldi a quelli più freddi, ottenendo così un'uniformizzazione di tutti i moti delle particelle costituenti i corpi.
L'energia totale dell'Universo rimane costante, ma l'energia utilizzabile tende sempre a diminuire.