Terapia genica
In biologia e medicina, è la terapia che prevede l'introduzione nel paziente di frammenti di DNA contenenti geni per la cura o la prevenzione di patologie a determinazione genetica e non. L'agente terapeutico è in genere costituito da un prodotto del gene introdotto nell'organismo (RNA o proteina) o da cellule modificate con il trasferimento genico. Questo tipo di terapia è diventato oggetto di sperimentazione avanzata dagli anni Novanta del 20° sec. grazie all'evoluzione concettuale e tecnica delle biotecnologie e alla progressiva conoscenza del genoma umano. Infatti, numerosi sistemi fisiologici sono noti sia nella forma 'normale' sia in quella patologica, e sono state identificate anche le cause delle alterazioni: spesso quadri clinici complessi sono il risultato di specifiche variazioni di un singolo gene. Per le patologie di questo tipo, come le immunodeficienze primitive, l'emofilia, la talassemia, la distrofia muscolare di Duchenne, la fibrosi cistica, il trasferimento del gene 'sano' nelle cellule malate potrebbe rappresentare una cura definitiva. Oltre alle applicazioni nel campo delle malattie monogeniche, la t. g. offre anche la possibilità di introdurre una nuova funzione nella cellula che può servire, per es., a difendersi dalle infezioni virali, inibire la crescita di tumori o favorire la rigenerazione di tessuti danneggiati. Numerose sperimentazioni si sono quindi indirizzate alla terapia di malattie acquisite come l'AIDS, i tumori, le malattie cardiovascolari quali l'aterosclerosi, o patologie neurodegenerative come il morbo di Parkinson. I problemi della t. g. sono numerosi e aperti, dalla scelta delle cellule o dei tessuti bersaglio più appropriati, alla messa a punto di sistemi di trasferimento e di espressione dei geni che siano non solo efficienti, ma anche sicuri nelle cellule dei pazienti, alla necessità di prevenire possibili reazioni immunitarie contro molecole riconosciute come estranee. La t. g. non è la stessa per tutte le malattie: anche se tutti i protocolli si basano essenzialmente sugli stessi principi, ogni patologia può richiedere la messa a punto di una metodica differente. Molto spesso è il bersaglio a essere differente: per es., i tentativi di t. g. per curare la fibrosi cistica hanno come principale bersaglio le cellule delle vie aeree, mentre quelli per le immunodeficienze o le anemie mirano a trasferire il gene nelle cellule staminali del sangue. È evidente che ognuna di queste malattie, oltre che i problemi comuni a tutte le tecniche di t. g., pone delle sfide scientifiche e tecniche peculiari. L'efficacia della t. g. dipende in gran parte dal modo in cui il frammento di DNA s'inserisce nella cellula ospite: con il metodo della ricombinazione omologa, cioè la sostituzione del gene 'malato' con quello 'sano', si potrebbe assicurare l'accuratezza del procedimento, ma questo tipo di approccio è molto complesso e inefficiente. Pertanto gli attuali orientamenti strategici puntano non alla sostituzione del gene difettoso, ma piuttosto all'aggiunta di un frammento di DNA che possa stabilmente dimorare presso il nucleo e svolgere così la sua funzione attiva nelle cellule del paziente. Per questo motivo, quasi tutte le tecniche di t. g. fanno uso di vettori derivati dai virus in grado di trasportare e inserire il DNA all'interno delle cellule dell'ospite. I virus sono vettori genetici naturali: una loro caratteristica è infatti proprio quella di infettare le cellule dell'organismo ospite e trasferire al loro interno il proprio materiale genetico, in modo che vengano prodotti altri virus. Grazie alla ricerca biotecnologica è stato possibile trasformare i virus in vettori, eliminando dal loro genoma le caratteristiche che ne determinano la virulenza. Il vettore funzionerà da trasportatore del DNA terapeutico all'interno della cellula, come un cavallo di Troia, ma non potrà più replicarsi. Alcuni vettori non sono in grado di inserire il loro materiale genetico nei cromosomi e quindi il loro impiego è limitato a cellule che non si replicano (cellule muscolari, neuroni) oppure a situazioni che richiedono solo un effetto temporaneo. La reazione immunitaria rappresenta un altro ostacolo per il successo della terapia genica. Come ogni altro agente estraneo, il vettore oppure la proteina prodotta dal gene sano possono scatenare una risposta immunitaria da parte dell'organismo ospite. Il sistema immunitario può reagire eliminando il vettore, o perfino uccidendo le cellule che hanno ricevuto il gene sano. Per questo la ricerca di base nel campo dell'immunologia cerca di mettere a punto nuovi sistemi che blocchino o controllino la reazione immunitaria contro la terapia genica. I principali vettori utilizzati per uso clinico includono i vettori retrovirali, adenovirali, adenoassociati, gli herpes virus e, più di recente, i vettori lentivirali, derivati dal virus HIV. A oggi non esiste ancora un vettore ideale per la t. g., in quanto ognuno presenta i propri punti di forza e le sue limitazioni: la scelta del vettore dipende dal tipo cellulare o tessuto che è in grado di infettare, dalla grandezza del frammento di DNA che può trasportare, dalla capacità di inserire il gene in maniera stabile nella cellula e controllarne l'espressione in maniera regolata, dalla risposta immunologica che può generare. Esistono anche sistemi per veicolare l'informazione genetica che non utilizzano vettori virali, come il DNA sotto forma plasmidica, o combinato a liposomi, vescicole sferiche costituite da un doppio strato lipidico. Questi sistemi hanno meno rischi rispetto ai vettori virali ma sono molto meno efficienti. Per iniziare un approccio di t. g. occorre in primo luogo aver identificato il gene responsabile della malattia e conoscerne la fisiopatologia. Il gene d'interesse viene amplificato, sequenziato e clonato all'interno del materiale genetico del vettore che dovrà trasportarlo nella cellule. Per produrre un vettore ricombinante è necessaria una conoscenza dettagliata del genoma e del ciclo produttivo virale. Grazie alle tecniche di biologia molecolare vengono eliminate dal genoma virale le sequenze che consentono la produzione di particelle che sono capaci di replicarsi, mantenendo quelle richieste per l'impacchettamento (packaging) dell'informazione genetica nelle particelle virali e per il traffico all'interno della cellula. Per la produzione del vettore ricombinante si utilizzano cellule di mammifero appositamente modificate che forniscono gli elementi virali mancanti. Le cellule packaging sono coltivate in bioreattori all'interno di laboratori specializzati e le particelle virali ricombinanti vengono in genere raccolte nel loro mezzo di coltura (sopranatante). L'esposizione della cellula bersaglio della t. g. a un vettore può avvenire in due modi diversi, in vivo o ex vivo. Nella t. g. in vivo il DNA codificante il gene terapeutico viene inserito direttamente nelle cellule o nei tessuti all'interno del paziente, utilizzando liposomi o vettori di origine adenovirale o adenoassociati. Questa tecnica si applica prevalentemente al fine di ripristinare l'attività di tessuti che difficilmente possono essere prelevati, come i muscoli striati, il muscolo cardiaco, l'epitelio polmonare, l'endotelio vascolare oppure i neuroni. L'approccio in vivo è stato sperimentato nei tumori, nella fibrosi cistica, nella distrofia muscolare e in alcune malattie metaboliche, ma con risultati spesso non soddisfacenti a causa del trasferimento genico inefficiente, della persistenza limitata nel tempo del gene terapeutico o della risposta immunitaria nei confronti del vettore o del prodotto genico. L'altra strategia di t. g. si basa su un approccio ex vivo: si tratta cioè di modificare geneticamente in laboratorio le cellule del paziente per poi reimmetterle nell'organismo. Quest'approccio è possibile con ceppi cellulari che proliferano, come le cellule ematopoietiche (cellule staminali, linfociti) o della pelle: una volta reintrodotte nell'organismo, le cellule modificate trasmettono il gene sano alle cellule figlie. Le cellule bersaglio ideali per la t. g. ex vivo sono le cellule staminali dei tessuti, dotate di capacità di autorigenerarsi e di differenziare in più linee cellulari. Questa procedura offre il vantaggio di un miglior controllo del processo e di una migliore efficienza di trasferimento genico, ed è utilizzata, per es., per la t. g. delle immunodeficienze. In questo caso il sistema d'integrazione del gene è di solito un vettore derivato da un retrovirus murino, che ha per sua natura la capacità di integrare il loro DNA all'interno dei cromosomi delle cellule bersaglio e funziona solo in cellule che sono in fase di attiva proliferazione. In futuro si prevede un più ampio utilizzo dei vettori lentivirali derivati da HIV in quanto dotati di un profilo di sicurezza elevato e di una maggiore efficacia nel trasferimento genico in cellule staminali pluripotenti. Una volta in contatto con la cellula o il tessuto bersaglio, il vettore deve attraversare la membrana plasmatica in maniera efficiente, e ciò avviene attraverso recettori di superficie specifici per ogni vettore virale. È possibile modificare il tropismo di un vettore sostituendo le proteine dell'involucro durante il processo di produzione del vettore. Dopo aver attraversato la membrana, il vettore passa nel citoplasma ed entra nel nucleo per poter sfruttare l'apparato cellulare trascrizionale per l'espressione del gene terapeutico. Per alcuni vettori questo passaggio è dipendente dalla mitosi, da aperture temporanee nella membrana nucleare o da segnali molecolari che li indirizzano attraverso la membrana nucleare intatta. Per i vettori che si integrano stabilmente nel nucleo della cellula l'inserimento avviene in genere in maniera casuale in tutti i cromosomi, con preferenze per le regioni vicine al sito di inizio della trascrizione dei geni (vettori retrovirali) o all'interno dei geni (vettori lentivirali). Perciò le ricerche di laboratorio mirano a ottenere una integrazione sito specifica: l'inserzione casuale comporta da una parte la possibilità che il vettore si posizioni in regioni della cromatina inattive e quindi perda la sua funzione, dall'altra il rischio di alterare la funzione o l'espressione dei geni cellulari vicini. I vettori che non si integrano (per es. adenovirus, herpes virus) possono mantenere le proprie sequenze sotto forma episomiale, ovvero non integrate, anche per lunghi periodi nel caso in cui la cellula non si replichi, limitandone le applicazioni a tessuti non mitotici o alla necessità di una espressione transiente. I livelli di espressione del gene terapeutico e la capacità di limitare l'espressione alle specifiche cellule bersaglio sono un altro fattore importante da considerare. Dal momento che le sequenze che regolano la trascrizione (promotori) di origine virale non forniscono un controllo adeguato, è spesso necessario includere all'interno del vettore degli elementi regolatori specifici che permettono l'espressione del transgene solo in una determinata linea cellulare o un tessuto e ne regolano l'intensità e la durata dell'espressione in maniera fisiologica. Per es., le regioni regolatorie della globina sono state usate per ottenere la produzione dell'emoglobina in maniera specifica ed efficiente nei precursori dei globuli rossi. I livelli di espressione necessari per ottenere un effetto terapeutico desiderato sono molto importanti da determinare durante la fase preclinica e variano a seconda del tipo di cellula bersaglio e dell'applicazione clinica. Laddove i geni sono espressi in maniera costitutiva e ubiquitaria, uno stretto controllo dell'espressione non è richiesto e sono sufficienti anche i promotori comuni o di origine virale.
Vettori retrovirali
I retrovirus murini, dei quali il capostipite è il virus della leucemia murina Moloney, sono stati i primi virus a essere trasformati in vettori per la terapia genica. Sono costituiti da due catene di RNA virale complessate con varie proteine che formano un involucro interno (core), l'enzima trascrittasi inversa e un involucro esterno proteolipidico (envelope), derivato dalla cellula ospite infettata. Il genoma del vettore può contenere fino a 9 kilobasi (Kb) di sequenze codificanti e regolatorie, fiancheggiate da sequenze non codificanti dette LTR (Long Terminal Repeat) o sequenze terminali ripetute lunghe, che permettono l'integrazione nei cromosomi e regolano l'espressione del gene inserito nel vettore. I vettori retrovirali sono privi di capacità replicativa perché dal loro genoma sono state rimosse le informazioni necessarie per impaccare l'RNA, formare i virioni e regolare la retrotrascrizione. Le proteine del core, quelle dell'envelope e la trascrittasi inversa sono prodotte dalla cellula packaging e vengono impacchettate insieme alle catene di RNA del vettore retrovirale che contengono un'apposita sequenza per guidare la formazione dei virioni completi. Il vettore entra nella cellula mediante un recettore di superficie che varia a seconda del tipo di envelope usato. Dopo il suo ingresso nel citoplasma l'RNA virale viene retrotrascritto in cDNA, entra nel nucleo e si integra stabilmente nei cromosomi. I vettori retrovirali possono infettare in maniera efficiente un ampio numero di cellule purché queste si trovino proliferanti, e dunque sono particolarmente indicati per approcci ex vivo.
Vettori lentivirali
I lentivirus appartengono alla famiglia dei retrovirus ma, a differenza di questi, possono infettare anche cellule che non si dividono, cosa che li rende un ottimo strumento per il trasferimento genico in vivo in cellule terminalmente differenziate come i neuroni o le cellule muscolari, e facilita la modificazione genetica ex vivo di cellule staminali quiescenti. Tale proprietà deriva dalla presenza nel genoma virale di sequenze che ne facilitano il trasporto attraverso la membrana nucleare sotto forma di un complesso con proteine virali. L'impiego di vettori derivati dal virus HIV ha suscitato inizialmente preoccupazioni relative alla loro sicurezza, ma i progressi della ricerca biotecnologica hanno consentito di generare sia vettori sia linee cellulari adatte al loro impacchettamento che impediscono una ricombinazione che ne ripristini lo stato di virus originale. Le cellule packaging vengono trasfettate mediante il plasmide contenente il genoma del vettore lentivirale nonché altri tre plasmidi distinti, che contengono separatamente l'informazione per l'involucro di superficie, per la trascrittasi inversa e i geni strutturali indispensabili, evitando così che l'intero genoma sia inserito nelle particelle virali ricombinanti. Al fine di ampliare il tropismo cellulare del vettore e facilitarne la purificazione, le glicoproteine di superficie del virus HIV originale sono sostituite con quelle di un altro virus (per es., il virus della stomatite vescicolare). Al fine di ridurre ulteriormente il rischio potenziale di dare origine a una particella virale infettiva e capace di replicazione autonoma, i vettori lentivirali sono stati resi autoinattivanti (SIN, Self-INactivating). Nei vettori SIN, dopo la retrotrascrizione, il genoma virale contiene entrambe le sequenze LTR inattive, rendendo la replicazione e la trascrizione impossibili. Il gene terapeutico clonato nel vettore viene trascritto grazie all'azione di un promotore interno di origine virale (per es., derivato dal citomegalovirus) o cellulare. In quest'ultimo caso è possibile inserire le sequenze di promotori che regolano l'espressione dei geni in maniera fisiologica e tessuto specifica, ovvero limitata alle sole cellule d'interesse. L'utilizzazione di vettori SIN potrebbe anche ridurre il rischio di mutagenesi inserzionale, eliminando la capacità di un LTR funzionale di attivare geni cellulari potenzialmente pericolosi situati nelle vicinanze.
Vettori adenovirali
I vettori adenovirali derivano da virus a doppio filamento di DNA, a simmetria icosaedrica, non racchiusi da un involucro lipidico, associati nell'uomo soprattutto a infezioni dell'apparato respiratorio. Gli adenovirus sono in grado di infettare un'ampia gamma di cellule attraverso il legame con specifici recettori cellulari che permettono l'ingresso del virus tramite endocitosi. Il genoma degli adenovirus è costituito da regioni codificanti per geni espressi precocemente (early, E) e tardivamente (late, L), fiancheggiati dalle cosiddette sequenze terminali invertite (ITR, Inverted Terminal Repeat), necessarie per la replicazione e l'impacchettamento del virus. I vettori adenovirali ricombinanti sono stati costruiti a partire dagli adenovirus eliminando almeno le regioni E1 ed E3 (che regolano la replicazione e la risposta immune), rendendo il virus difettivo per la replicazione. Come cellule packaging vengono usate cellule renali embrionali esprimenti la regione E1, permettendo la replicazione del virus difettivo e la produzione di nuovi virioni ricombinanti con una resa assai elevata. Le problematiche principali dei vettori adenovirali sono rappresentate dalla capacità di indurre infiammazione nei tessuti bersaglio e una forte risposta immunitaria sia cellulare sia anticorpo-mediata, che può essere in alcuni casi preesistente alla terapia, tanto da neutralizzare rapidamente il virus. Le ricerche hanno consentito di ottenere una nuova generazione di vettori ricombinanti in cui buona parte dei geni virali sono stati eliminati, diminuendo le problematiche che appaiono legate alla sicurezza e riducendo, ma non eliminando, la risposta immunitaria nei confronti del vettore.
Vettori derivati da virus adenoassociati
I virus adenoassociati (AAV) sono piccoli virus appartenenti alla famiglia dei parvovirus, dotati di un genoma a DNA a singolo filamento di circa 5 kb, privi di un involucro lipidico. Gli AAV non sono in grado di replicarsi autonomamente ma necessitano di un virus helper, che è in genere un adenovirus. In assenza del virus helper gli AAV si integrano in maniera latente nel genoma della cellula ospite in una regione ben precisa del cromosoma 19. Il genoma di un AAV è formato dal gene rep, che codifica le proteine necessarie per il controllo della replicazione virale, e dal gene cap, che dà origine alle proteine strutturali del capside, fiancheggiati da sequenze ITR necessarie per regolare sia la replicazione sia l'incapsidazione del virus. I vettori ricombinanti AAV sono stati costruiti inserendo il gene terapeutico al posto di cap e rep e mantenendo le sequenze ITR contenenti tutte le informazioni necessarie per l'integrazione e l'impacchettamento. La produzione del vettore viene ottenuta trasfettando una linea cellulare con un plasmide contenente i geni cap e rep e successivamente infettandola con un adenovirus helper difettivo per E1. In assenza di rep il processo di integrazione dei vettori ricombinanti è poco efficiente e quindi i vettori AAV restano spesso in forma episomiale. Per evitare che l'adenovirus helper rimanga come contaminante nella preparazione dell'AAV, esistono in evoluzione dei metodi di produzione più sicuri. I virus AAV infettano un ampio numero di cellule, ma possono contenere solo geni relativamente piccoli ed è stato osservato che nell'uomo il loro impiego in vivo induce una risposta immune contro gli antigeni del capside.
Vettori derivati da herpes virus
Gli herpes virus possiedono un filamento di DNA con capside icosaedrico e un involucro lipidico e sono dotati di un tropismo specifico per il sistema nervoso centrale. Possono instaurare nei neuroni infezioni latenti, persistendo a lungo sotto forma episomiale nella cellula, ma possono indurre tossicità. I vettori ricombinanti sono costituiti dal genoma del virus herpes simplex-1 opportunamente modificato e vengono prodotti in genere in cellule packaging che forniscono gli elementi regolatori e strutturali; possono accomodare frammenti di DNA piuttosto grandi, permettendo di inserire anche costrutti costituiti da più geni. I vettori herpetici potrebbero essere impiegati per veicolare i geni nel sistema nervoso centrale per il trattamento di patologie quali il morbo di Parkinson o la sclerosi multipla.
Vettori non virali
Le tecniche più semplici per trasferire il DNA senza ricorrere a virus risultano basate sull'utilizzo del DNA, 'nudo' o complessato con liposomi. Il DNA nudo contenente il gene terapeutico può essere iniettato in vitro in singole cellule mediante una micropipetta, ma la metodica non è ovviamente proponibile per un uso clinico su larga scala. L'iniezione diretta in vivo di DNA nel muscolo oppure nella pelle può indurre una forte risposta immunitaria contro il prodotto genico d'interesse e quindi essere sfruttata come vaccino. Il DNA può essere complessato a liposomi, vescicole fosfolipidiche che presentano una carica negativa. In questo caso il DNA complessato con i liposomi può fondersi con la membrana cellulare o essere internalizzato tramite endocitosi, per poi entrare nel nucleo ed essere espresso. È possibile anche migliorare l'efficienza del trasferimento del DNA utilizzando metodi fisici (strumenti elettrici o ad alta pressione). In ogni caso l'efficacia di questi processi risulta essere da 100 a 1000 volte inferiore rispetto a quella dei vettori biologici. Futuri miglioramenti di questo metodo potranno essere realizzati grazie alle nanotecnologie, con la creazione di composti formati da sostanze chimiche e biologiche, veri e propri 'virus artificiali' dotati di molecole di superficie che fungono da ligandi specifici.
Come per ogni terapia innovativa, anche per la t. g. i benefici vanno valutati alla luce dei possibili pericoli. Soprattutto per gli approcci in vivo esistono rischi potenziali legati alla trasmissione non intenzionale alla linea germinale, ad altre persone o all'ambiente, del vettore o del DNA trasferito nel paziente. Tutti i protocolli clinici prevedono misure adeguate per prevenire questa eventualità, che è quindi remota. È possibile che il prodotto del gene terapeutico sia sintetizzato in quantità eccessiva, nociva per le cellule, ed è quindi importante che nel disegno sperimentale siano poste in atto tutte le misure per controllarne l'espressione. La somministrazione del vettore virale, come quelli derivati dagli adenovirus, può provocare una risposta immunitaria o un'infiammazione eccessive. Nel caso di un paziente la reazione è stata così intensa da essere fatale, un evento che ha rappresentato uno dei momenti più negativi nella storia della terapia genica. Per i vettori che si integrano nei cromosomi, il rischio maggiore è che si localizzino in regioni del genoma causando mutazioni dannose o tumori. Questo evento si è verificato finora in un solo studio clinico di t. g. per un tipo di immunodeficienza.
Le applicazioni della terapia genica
Dal 1990 le sperimentazioni cliniche di t. g. sono state oltre 1100 in tutto il mondo, con migliaia di pazienti trattati, di cui la maggior parte arruolati in fasi precoci della sperimentazione (fase i o ii) e soltanto il 3% in fase iii. Oltre i due terzi degli studi clinici di t. g. sono stati condotti nel campo della t. g. dei tumori, utilizzando diverse strategie. Il primo farmaco per uso clinico basato su prodotti di t. g. è stato registrato in Cina nel 2005 e consiste in un vettore adenovirale per il trasferimento del gene p53 nelle cellule tumorali al fine di sopprimerne la crescita. Numerose sono le ricerche volte a migliorare le difese dell'organismo contro le cellule tumorali, attraverso la somministrazione di DNA che codifica per antigeni tumorali (vaccini) o per molecole che stimolano la risposta immune. Un'altra strategia è stata impiegata nel contesto di trapianti di midollo osseo per leucemie e si basa sull'impiego di linfociti del donatore sano con attività antitumorale, geneticamente modificati in modo da poter controllare con un gene suicida eventuali effetti collaterali legati alla reazione nei confronti delle cellule sane del ricevente. Altri approcci terapeutici si basano sulla iniezione nelle cellule tumorali di virus che le rendono più sensibili alla chemioterapia o alla radioterapia (geni suicidi), o sulla somministrazione di geni che inibiscono la crescita dei vasi che forniscono il sangue al tumore (antiangiogenesi). Gli studi di t. g. per i tumori hanno dimostrato la biosicurezza e l'attività biologica dei prodotti, in alcuni casi producendo risultati incoraggianti, ma non vi sono ancora chiare dimostrazioni di efficacia clinica sostenuta nel tempo. Un altro settore in cui si prevede una forte applicazione della t. g., anche combinata alla terapia cellulare, è quello delle malattie neurodegenerative del sistema nervoso. Per queste patologie si ipotizza la somministrazione di virus oppure di cellule ingegnerizzate producenti molecole antiinfiammatorie per prevenire l'insorgenza del danno autoimmune (per es., sclerosi multipla) o fattori stimolanti la crescita delle cellule del sistema nervoso per riparare il tessuto danneggiato. Quest'ultimo approccio potrebbe essere applicato anche nel caso delle lesioni dei nervi o della colonna vertebrale dovute a traumi. Esistono numerosi esempi di trattamenti efficaci a lungo termine nei modelli preclinici di disordini neurologici, quali il morbo di Parkinson e l'Alzheimer, utilizzando vettori lentivirali o adenoassociati, e sono in corso le sperimentazioni cliniche.
Anche le malattie cardiovascolari sono oggetto di intensi e di approfonditi studi di terapia genica. I primi studi clinici avevano dimostrato che il trasferimento di un fattore di crescita per l'endotelio vascolare (VEGF) era in grado di migliorare la vascolarizzazione e prevenire l'amputazione in pazienti con ischemia critica di un arto. I nuovi studi stanno fornendo importanti indicazioni sulla necessità di consentire un'espressione regolata dei fattori angiogenici e sul vantaggio di combinare l'effetto di due o più geni terapeutici al fine di ottenere un effetto terapeutico. Le ricerche nel campo cardiologico hanno mostrato come il trasferimento di geni che inducono la modulazione dei processi infiammatori e ossidativi della cellula oppure di un gene che stimola la produzione di fattori trofici sono in grado rispettivamente di prevenire l'insorgenza dell'infarto del miocardio oppure di curarne le conseguenze nei modelli animali.
Circa il 10% degli studi clinici di t. g. riguardano malattie genetiche. Le patologie in cui è stata finora dimostrata la piena efficacia clinica della t. g. sono le immunodeficienze severe combinate o SCID (Severe Combined ImmunoDeficiency), gravi malattie ereditarie che causano la mancanza delle difese immunitarie. Caratteristica comune delle immunodeficienze congenite è l'aumentata suscettibilità alle infezioni, che, in assenza di trattamento, risulta la causa più frequente di morte. Le forme più gravi di deficit immunologico congenito, le SCID, sono note comunemente anche come malattia del bambino nella bolla (bubble boy disease) perché i piccoli pazienti sono spesso costretti a vivere in condizioni di isolamento assoluto per essere protetti dalle infezioni.
La SCID da carenza dell'enzima adenosindeaminasi (ADA) è stata la prima malattia genetica a essere trattata con la t. g. a partire dal 1991. I primi studi clinici avevano messo bene in evidenza la sicurezza del trasferimento del gene ADA mediante dei vettori retrovirali nelle cellule staminali ematopoietiche di pazienti o nei linfociti di sangue periferico, ma il loro impatto clinico era stato limitato. Ricerche condotte in Italia hanno consentito di dimostrare una piena correzione del difetto associato a questa patologia, con beneficio per i pazienti. In questo studio il vettore retrovirale codificante il gene sano dell'ADA è stato utilizzato per ingegnerizzare ex vivo le cellule staminali ematopoietiche (CD34+) ottenute dal midollo osseo degli stessi pazienti. Nel corso di questa procedura le cellule staminali sono state coltivate in laboratorio in presenza di fattori di crescita per stimolarne la replicazione. Al fine di creare nel midollo osseo uno spazio utile a favorire l'attecchimento delle cellule staminali è stato somministrato ai pazienti un farmaco chemioterapico (busulfano), impiegato a un basso dosaggio allo scopo di ridurne la tossicità. Al termine della chemioterapia le cellule staminali ingegnerizzate sono state reintrodotte nei pazienti attraverso una semplice trasfusione. Dopo poche settimane dalla t. g. i linfociti dei bambini hanno cominciato a svilupparsi e a funzionare normalmente, permettendo loro di proteggersi dalle infezioni. Con tecniche molecolari sofisticate è stato possibile dimostrare l'attecchimento delle cellule con il gene dell'ADA sano in tutte le linee ematopoietiche (linfociti, granulociti, globuli rossi, piastrine). La t. g. ha consentito di correggere il difetto enzimatico e ripristinare il normale funzionamento delle difese immunitarie, con beneficio clinico e in assenza di effetti collaterali. A distanza di anni dal primo trattamento, i pazienti sono tutti in buone condizioni e non necessitano più di altre terapie. Altri successi sono stati ottenuti da un gruppo francese e da uno inglese per il trattamento della SCID-X1, una forma grave di immunodeficienza dovuta alla carenza di un recettore presente sui linfociti T, la catena comune gamma del recettore della interleuchina 2 (IL2RG). A partire dal 1999, venti bambini affetti da questa patologia sono stati trattati con cellule autologhe staminali prelevate dal midollo osseo, con un vettore retrovirale diverso da quello per la SCID-ADA e contenente il gene per la IL2RG. La maggior parte dei bambini ha beneficiato della terapia che ha consentito di ripristinare lo sviluppo normale dei linfociti e riparare il difetto immunologico. Nel caso della SCID-X1 non è stata utilizzata la chemioterapia in associazione alla t. g. ottenendo l'attecchimento prevalentemente nelle cellule linfocitarie. A fronte di questo successo, nella t. g. per la SCID-X1 si è manifestato per la prima volta uno degli effetti avversi ipotizzati per i vettori retrovirali, la mutagenesi inserzionale. Tre dei pazienti trattati dal gruppo francese hanno sviluppato una forma di proliferazione linfoide non controllata (simile a una leucemia), correlata all'inserzione del vettore retrovirale in geni 'sensibili', implicati nell'origine dei tumori (protooncogeni). Dopo una fase iniziale di sospensione cautelativa in Italia e in altri Paesi, il parere degli esperti è stato favorevole alla riattivazione dei protocolli di t. g. per tutte le altre malattie gravi, ivi comprese le immunodeficienze quali la SCID-ADA, in cui non sono disponibili trattamenti adeguati. Si ritiene infatti che esista un rischio specifico legato alla t. g. della SCID-X1, dovuto al ruolo del gene IL2RG, che trasmette alla cellula un segnale di proliferazione, e una predisposizione alla malattia stessa. Va ricordato inoltre che nessun altro paziente fra le centinaia finora trattati con vettori retrovirali in altri studi condotti in tutto il mondo ha sviluppato questi eventi avversi, e che quindi, pur essendo ancora una procedura sperimentale, la t. g. mantiene un buon profilo di sicurezza. Sono in corso sperimentazioni precliniche per altri gravi patologie del sangue, quali la talassemia, l'anemia di Fanconi, le malattie metaboliche (per es., leucodistrofia metacromatica) e altre immunodeficienze, con l'obiettivo di estendere l'impiego clinico della t. g. con cellule staminali ematopoietiche. I risultati delle ricerche con vettori lentivirali sono molto promettenti e si prevede nei prossimi anni l'inizio delle prime sperimentazioni cliniche per queste patologie. Fra le altre malattie genetiche oggetto di studi preclinici e clinici vanno menzionate in particolare l'emofilia, la distrofia muscolare e le malattie genetiche della pelle. Per il trattamento della emofilia (malattia genetica da carenza di fattori della coagulazione) la strategia si basa sul trasporto del gene sano direttamente in vivo, mediante vettori adenovirali o adenoassociati, al fine di ottenere nel fegato o nel muscolo la sintesi del fattore della coagulazione mancante (Fviii o Fix). I risultati degli studi pilota nei pazienti hanno dimostrato che questo approccio è percorribile, consentendo la sintesi di Fix a livelli terapeutici, ma con importanti limitazioni legate alla risposta infiammatoria e immune nei confronti del vettore e/o del fattore ricombinante prodotto. Gli approcci di t. g. per la distrofia muscolare sono stati a lungo improduttivi a causa della grandezza eccessiva del gene e delle difficoltà di ottenere un trasferimento genico efficiente e stabile con i vettori disponibili. In seguito sono stati ottenuti risultati promettenti nel modello di malattia del topo, con la produzione di distrofina a livelli fisiologici e la correzione del difetto muscolare, grazie all'impiego di un vettore AAV. Il vettore non conteneva il gene per la distrofina, ma solo un suo frammento codificante sequenze antisenso che, agendo a livello dell'mRNA cellulare, ha eliminato una parte (esone) del gene malato della distrofina. Per le malattie della pelle come l'epidermolisi bullosa, le strategie si basano sulla coltura ex vivo delle cellule staminali dell'epidermide combinata alla loro ingegnerizzazione con vettori stabilmente integranti. Le cellule geneticamente corrette espanse in vitro hanno generato degli strati di pelle che sono stati reimpiantati nei pazienti con risultati incoraggianti.
Gli approcci di t. g. per l'infezione da HIV mirano a interferire con la capacità di replicazione o l'attività del virus attraverso molecole inibitorie (dominanti negativi), anticorpi intracellulari, RNA antisenso, ribozimi o piccoli RNA ad attività interferente (siRNAs). Un'altra strategia prevede il potenziamento dell'attività del sistema immunitario nei confronti delle cellule infettate da HIV. Nel complesso, a fronte dei numerosi trials clinici di t. g. per HIV, i risultati di efficacia sono finora ancora limitati. I vettori lentivirali potrebbero trovare un valido impiego nella t. g. dell'AIDS per la loro capacità di infettare sia cellule mature (linfociti, cellule dendritiche) sia cellule progenitrici. Il primo studio di t. g. con vettori lentivirali è stato intrapreso nel 2003 e prevedeva l'infusione di linfociti autologhi, ingegnerizzati con geni atti a bloccare la replicazione di HIV. Come tutti i farmaci, anche la t. g. deve superare una lunga fase di sperimentazioni mirate a valutarne la tollerabilità, la sicurezza d'uso e l'efficacia. Per il suo carattere altamente innovativo, la t. g. richiede una logistica molto specializzata e standard elevati di qualità e sicurezza. Procedure quali la produzione di vettori virali, l'isolamento delle cellule e la manipolazione ex vivo devono essere effettuate presso strutture dedicate alla produzione secondo le norme di buona fabbricazione. Ciò richiede necessariamente un approccio integrato basato sul coordinamento delle ricerche di laboratorio e cliniche e il reperimento delle risorse economiche dedicate. Nel caso delle malattie rare, per le quali l'interesse industriale è limitato, gli sforzi maggiori sono stati realizzati dalle fondazioni non-profit (la Fondazione Telethon in Italia), e il legislatore ha creato alcuni canali preferenziali per incentivare lo sviluppo farmaceutico della t. g. a livello europeo. Sono una decina i prodotti di t. g. i quali hanno ottenuto dall'Agenzia europea per il farmaco (EMEA, European Medicines Agency) il riconoscimento di 'farmaco orfano', in fasi diverse di sviluppo: alcuni sono in uno stadio preclinico (per es., per la t. g. della distrofia muscolare e della sindrome di Wiskott-Aldrich, una immunodeficienza primitiva), altri in fase avanzata clinica (SCID-ADA, tumori).
Gli approcci di t. g. prevedono l'impiego di cellule somatiche, sia di tipo non specializzato (staminali) sia differenziate, e non coinvolgono cellule riproduttive (spermatozoi, oociti) o cellule embrionali. La t. g. delle cellule somatiche non pone particolari problemi etici se non per la sua possibile applicazione in campi non terapeutici, come, per es., nel doping sportivo, dove si è ventilato un utilizzo per migliorare le prestazioni muscolari o la produzione di globuli rossi. Alcuni ricercatori stanno sperimentando in vitro l'impiego di cellule staminali di origine embrionale, modificate con la t. g. in modo da renderle compatibili con il soggetto ricevente, ma questa strategia è oggetto di un acceso dibattito morale e in molte nazioni non sono consentite ricerche con cellule embrionali umane. D'altra parte vi è unanimità di consenso nel vietare tutti gli approcci che modificano intenzionalmente il patrimonio genetico ereditabile, perché coinvolgono cellule germinali e le modifiche verrebbero trasmesse alle generazioni successive. Da quanto detto, appare chiaro che la t. g. ha suscitato dibattiti di ordine non solo medico ma anche etico, giuridico e politico perché, a fianco degli evidenti benefici diagnostici e terapeutici, esistono potenziali rischi per i pazienti e per l'ambiente. Comunque, proprio perché la t. g. è considerata alla stessa stregua di un farmaco, tutti gli studi clinici avvengono secondo precise direttive che regolano gli aspetti etici, tecnici e scientifici dell'impiego della t. g., dal disegno dello studio alla preparazione e somministrazione del prodotto di t. g., con un monitoraggio continuo della efficacia e sicurezza dello studio da parte delle autorità regolatorie. Ciò garantisce che il rapporto rischio-beneficio del trattamento sia favorevole, che sia assicurata un'adeguata protezione dei pazienti e siano eliminati i pericoli per l'ambiente. Non si può dimenticare che molti pazienti candidati a questi trattamenti soffrono di malattie assai debilitanti e spesso mortali per le quali le terapie convenzionali sono inefficaci. La t. g. è una scienza giovane che ha compiuto enormi progressi, ma resta sperimentale: solo il superamento delle difficoltà tecniche e un suo impiego responsabile consentiranno di sfruttare a pieno le enormi potenzialità che essa può offrire.
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