Teoria generale dello spirito come atto puro
Nell’Epilogo che, accompagnato da un’Apologia, chiude il Sistema di logica come teoria del conoscere (1917-1923), Giovanni Gentile rinvia alla Teoria generale dello spirito come atto puro come all’opera nella quale si celebra la «negatività originaria dell’atto» in cui consiste essenzialmente il pensiero messo a tema dal suo idealismo (Sistema di logica, 2° vol., 19423, p. 369). Pubblicata nel 1916, a ridosso del primo volume del Sistema – in forma di dispensa collegata al corso di filosofia teoretica tenuto alla Scuola Normale di Pisa dal filosofo siciliano, salito due anni prima sulla cattedra del maestro Donato Jaja, appena scomparso («Io non mi sostituisco; io continuo», La riforma della dialettica hegeliana, 19754, p. 235) –, essa aveva infatti attirato l’attenzione sulla consistenza di uno «spirito» che, per «realizzare se stesso», negava la «natura» chiamata in molti modi ad anticiparne le fattezze. Per quella via, che era ormai la via dell’idealismo attuale, si era trattato anzi di comprendere come la negazione della natura stesse appunto nel realizzarsi dello spirito impegnato a suscitare la fisionomia di un mondo sottratto per sempre al limite e all’inerzia delle cose. Risolto nell’atto del pensiero, lo spirito gentiliano aveva perciò esibito la «libertà» del soggetto dal «meccanismo del mondo», enfatizzando la purezza di un «procedere» in ragione del quale non c’era vincolo o condizionamento naturale che non equivalesse a una distrazione dello spirito destinato a rimanere sempre presso di sé. Le impurità dell’esperienza che già Immanuel Kant, evocando l’esperienza possibile, aveva tradotto nelle forme a priori dell’Io penso, erano cioè dileguate in una esperienza attuale entro cui non poteva più trovare spazio una realtà che non esibisse lo sguardo immancabile del soggetto. Uno sguardo, allora, che posava bensì gli occhi sul mondo, ma proprio perché il mondo era al tempo stesso animato dall’«energia spirituale» alla quale occorreva riconoscere il ruolo del «principio che lo crea[va] e lo mant[eneva] in quanto lo cont[eneva]» (Sistema di logica come teoria del conoscere, 2° vol., cit., p. 369).
Per questo verso, occorreva dunque rendersi conto di come la natura rappresentasse l’esito e il contenuto dello spirito chiamato tuttavia a negarla. Negativo della propria negazione, lo spirito avrebbe cioè negato la natura nel momento stesso in cui si fosse adoperato per suscitarla. In tal senso, la Teoria generale introduceva al Sistema di logica così come il negativo introduceva al positivo, quando al negativo si fosse assegnato il compito di esaltare il rovesciamento dialettico del soggetto nell’oggetto che doveva attestarne la «potenza creatrice». Negativo della natura, dalla quale egli era indotto a «tornare» a se stesso, lo spirito negava allora una parte di sé, dando luogo a uno sviluppo «da sé a sé» che palesava l’«attuarsi concreto e positivo» di una vera e propria autonegazione. Non dunque un uscire da sé dello spirito, per imbattersi in altro, bensì il suo rimanere presso di sé, facendosi altro, in modo che fosse l’umanità dell’uomo, senza residui materialistici, a imporsi, «atto in atto» (Teoria generale dello spirito come atto puro, 19385, p. 8) di un pensiero al quale Gentile intendeva dare il risalto che compete alla verità indefettibile della filosofia. Al cospetto della natura, lo spirito si imbatteva cioè nel proprio non-essere, da negare bensì, per essere se stesso, ma solo perché esso era se stesso negandosi, insieme soggetto e oggetto.
Non può allora sorprendere che la Teoria generale adotti un approccio polemico nei confronti del «naturalismo», testimone di un approccio filosofico astratto, per il quale la natura sovrasta lo spirito e la realtà oltrepassa l’idea chiamata a ritrarla. Per Gentile, occorreva infatti ribaltare la prospettiva realistica e favorire l’avvento di un idealismo capace di restituire alla realtà quello che la filosofia, evocando la natura, aveva cercato di custodire, senza riuscirci. Gentile però non poteva accontentarsi del motivo polemico, benché per questa via egli accedesse a una realtà polemica, erede e frutto della guerra posta da Eraclito a capo di tutte le cose. La polemica, infatti, doveva apparire sorretta da un argomento sul quale il testo si sofferma fin dalle prime battute, in vista dell’accesso a quello che il filosofo siciliano presenta come il punto di vista trascendentale inaugurato dal criticismo di Kant, la «vera novità» della filosofia. Gentile invitava cioè il lettore a sgombrare il campo per l’«idealità del reale» (p. 4), prima di dimostrare, contro le diverse e talora mascherate forme di realismo, l’insostenibilità delle dottrine naturalistiche. Naturalisticamente concepita, infatti, la natura smarriva la consistenza che nel corso dei secoli la filosofia gli aveva riservato, chiamando volta a volta in causa l’individualità, la positività, la tessitura spazio-temporale e la contingenza del mondo. Si trattava infatti di guardare alla natura attraverso lo spirito capace di legittimarne l’avvento, privato così di ogni consistenza che non fosse stata quella conferita a essa dal suo artefice.
Ma quale spirito avrebbe consentito alla natura di rendersi finalmente visibile e per quale via esso doveva perentoriamente imporsi al discorso filosofico? Senza rispondere a queste domande, l’idealismo gentiliano non avrebbe potuto rappresentare l’irrevocabile confutazione del realismo che esso si apprestava a celebrare sulla scena speculativa. Gentile muoveva allora dall’idealismo empirico di George Berkeley, che aveva insistito sull’inesistenza della materia, quando per materia si fosse intesa la realtà originariamente sottratta all’attività percettiva della mente. Esse est percipi recitava il berkeleiano A treatise concerning the principles of human knowledge (1710) e Gentile a suo modo sottoscriveva, dal momento che doveva apparirgli «intrinsecamente contraddittorio» ogni tentativo che avesse mirato a isolare la realtà dalla coscienza chiamata a rappresentarla. Occorreva cioè convincersi di come non fosse possibile spezzare la relazione che collegava il dominio dell’essere al soggetto. Sarebbe stato facile, infatti, osservare con Berkeley come ogni forma della realtà concepita al di là della coscienza appartenesse alla coscienza che, concependola, conteneva sia la coscienza oltrepassata dalla realtà, sia la realtà che la oltrepassava, investendole entrambe. Il fuori della coscienza, insomma, era sempre e comunque dentro la coscienza, garante e custode di quella eccedenza. Ora, per questa via emergeva la consistenza attuale della coscienza alla quale la realtà doveva apparire indissolubilmente legata. A suggellare la consistenza ideale del mondo non era cioè semplicemente la coscienza, bensì la coscienza in atto: non quella altrui o la mia di una volta; nemmeno quella che fino a un attimo fa non era la mia o che lo sarebbe stata, bensì quella mia che ora, giudice e arbitro del mondo, le conteneva tutte e a tutte attribuiva un tempo e uno spazio. Non, dunque, la coscienza pensata come tale, nella molteplicità delle sue evenienze, bensì quella che si realizzava come tale, pensando.
La «soggettività del reale» (p. 3) andava perciò ulteriormente avvicinata, per evitare gli equivoci e le ambiguità che avevano indotto Berkeley a porre, accanto al soggetto pensante, un soggetto trascendente e a fare dunque della realtà quella relativa a una Mente oggettiva chiamata a pensare tutto il pensabile. Si trattava infatti di scongiurare l’oggettivismo che affliggeva l’approccio di chi, evidenziata l’attualità della relazione soggetto-oggetto, continuava a vedere il soggetto come un’isola accerchiata dal mare delle cose che esso, pensando, ancora non aveva pensato o non pensava più, quando non da quelle che esso non aveva e non avrebbe mai pensato. D’altra parte, anche se tutto era oggetto della mente – così suonava tale approccio – non era forse evidente che la nostra mente non pensava tutto, se non tutto quello che pensava? Da questo ordine di considerazioni veniva la persuasione che dovesse esistere allora un «Pensiero assoluto, eterno, trascendente le singole menti», tale da consentirne lo «sviluppo», altrimenti impossibile. Siccome tutto era pensiero, al mio pensiero doveva aggiungersi il pensiero di Dio, cui nulla davvero poteva essere sottratto. Ma era una persuasione che scaturiva dal «punto di vista empirico» (p. 4) adottato da Berkeley, stando al quale anche il soggetto, colto nell’atto del pensare che sottraeva il mondo alle tenebre della materia, continuava a valere come uno degli oggetti dell’esperienza, capace bensì di illuminare il mondo, ma senza mai sottrarsi al mondo illuminato. Il soggetto di Berkeley – ma ciò doveva valere per tutto il soggettivismo moderno – era cioè pensato fin da principio come un oggetto tra gli oggetti, e non come un soggetto. Per pensare il soggetto come soggetto, occorreva passare attraverso l’adozione del «punto di vista trascendentale», il solo che consentisse di cogliere il pensiero «non come atto compiuto, ma, per così dire, quasi atto in atto», quale «noi stessi» eravamo e non potevamo non essere (p. 8).
Ma ciò che più importava a Gentile era che tale punto di vista, enfatizzando l’intrascendibilità di un gesto che non poteva essere abbandonato, se non con quel gesto, implicava non solo l’impossibilità che si desse la realtà materiale abolita dall’idealismo berkeleiano, bensì anche quella che ad anticipare il pensiero in atto fosse un qualsiasi altro pensiero, compreso quello di Dio. Gentile invitava cioè a comprendere come la logica posta alla base dell’introduzione del pensiero chiamato a pensare tutto il pensabile fosse destituita di fondamento, il fondamento essendo il trascendentale dal quale non potevamo in alcun modo uscire senza entrare più profondamente in noi stessi. Dopo Kant, che alla salvaguardia del punto di vista trascendentale aveva consacrato la propria filosofia, rimanendone tuttavia al di sotto, era cioè la logica dell’anticipazione metafisica a venire meno. Certo, posta la mente che, attuata se stessa, illuminava il mondo, aveva ragione Berkeley a invocare la condizione di possibilità della sua progressiva attuazione. Il sorgere del pensiero, che prima e dopo il proprio sorgere non era, doveva infatti essere giustificato: «se è, era possibile», e possibile esso non sarebbe stato se non fosse esistito il pensiero chiamato ad anticiparlo (p. 7). La possibilità del pensiero implicava cioè la necessità che esso, prima di essere, esistesse altrove, vale a dire in una dimensione «trascendente» destinata a scongiurare il nulla dal quale altrimenti l’essere sarebbe venuto. Ma le cose stavano davvero così? Cominciando a rispondere, Gentile mirava a evidenziare come alla base dell’idealismo berkeleiano agisse ancora il principio metafisico in ragione del quale dal nulla non veniva nulla, se e quando qualcosa veniva. E non veniva forse il pensiero?
In effetti, la posizione gentiliana, evocando l’«Io trascendentale» (p. 6), costringeva la filosofia a fare i conti con un pensiero che non era più quello intorno al quale poteva essere sollevata la questione della sua provenienza. Un conto, cioè, era il pensiero fatto oggetto del pensiero; un altro conto era appunto il pensiero che lo faceva oggetto di sé. Gentile non esitava dunque a riprendere la terminologia kantiana, distinguendo, nell’Io, l’«Io empirico» (p. 7) chiamato a esibire uno dei contenuti investiti dalla luce della coscienza. Una luce che poteva certamente esser fatta oggetto della coscienza, ma solo perché essa doveva esporsi a una luce che non era quella oggettivata, bensì quella che la oggettivava. La definizione del soggetto, insomma, non doveva farci dimenticare che essa era «resa possibile dal rimanere la nostra attività pensante, non come oggetto, ma come soggetto della nostra stessa definizione». Per Gentile, ciò significava richiamare l’attenzione sullo «spettatore» di ogni «spettacolo» del mondo, compreso quello che portava sulla scena l’avvento del pensiero, facendone l’oggetto che esso non poteva essere. Oggetto della coscienza, il soggetto «non è più soggetto, ma oggetto: non è più Io, ma non-io», vale a dire quel rinvio alla «vera attività pensante» dentro la quale doveva cadere tutto, compreso ciò che era dentro e fuori, prima e poi, senza che mai essa venisse meno (p. 8).
L’accendersi e lo spegnersi delle luci del mondo evidenziavano cioè la persistenza di una luce che non si accendeva e non si spegneva, consegnandosi tuttavia al chiaroscuro dell’esperienza. D’altra parte, per Gentile si trattava di comprendere come la realtà dell’Io stesse tutta nel non-io, così come «gli occhi nostri» stavano sulla superficie dello «specchio» capace di rifletterne fedelmente lo sguardo (p. 8).
Per questo verso, il mondo restituiva all’Io le sembianze dell’atto pensante che, in quanto atto, stava nel riflesso come il non essere stava nell’essere che avrebbe dovuto suscitarlo. L’oggetto, insomma, rinviava al soggetto, ma non lo era o, piuttosto, lo era come ciò che esso non era, per essere. L’Io dell’attualismo doveva cioè tendere l’arco che, opponendo il soggetto e l’oggetto, risolveva entrambi nella «concretezza» del divenire storico come unità dell’essere e del non-essere. Il rinvio gentiliano allo spettatore trascendentale alludeva così all’impossibilità che si desse una realtà sottratta al «processo costruttivo» della «storia», in cui era l’unità del soggetto a imporsi (p. 18). Non un’unità vuota, senza il mondo, cara al misticismo, bensì l’unificazione piena delle cose e delle persone che lo affollavano, raccolti nel grembo ospitale di uno «svolgimento» (p. 19) incessante. Ciò significava insistere sulla circostanza per la quale «questo soggetto unico e unificatore non [era] un essere o uno stato», bensì il «farsi» di cui ogni essere e ogni stato dell’essere erano intrisi, coniugando immediatezza e mediazione. Conoscere il mondo, aprendo gli occhi sullo spettacolo che lo imponeva al nostro sguardo, equivaleva a sciogliere il nodo ontologico che pareva stringersi attorno a esso, quando alla realtà si conferiva l’inerzia delle cose chiamate ad anticiparne l’avvento. Si trattava allora di abolire bensì l’immediatezza dell’essere, risolvendola integralmente nella mediazione del pensiero, ma solo per impedire all’immediato di dettare al pensiero una legge che esso non avrebbe mai potuto adeguare.
D’altra parte, la circostanza non dava luogo soltanto a una rincorsa infinita del pensiero, costretto a rimanere chiuso fuori della porta che consentiva l’ingresso nella casa della verità, bensì a un vero e proprio annullamento dell’esperienza umana. In questione, cioè, non era soltanto una vicenda gnoseologica, che del resto solo una valida gnoseologia avrebbe potuto svalutare in quei termini, ma un motivo di natura ontologica, legato all’esistenza, per quanto fugace e precaria, del mondo illuminato dal pensiero. Gentile chiariva infatti come non fosse possibile concedere al pensiero la consistenza del processo che «presuppone il suo oggetto già realizzato prima che il processo stesso s’inizii» (p. 257), senza far precipitare il pensiero nel «niente» (p. 6). Stando all’attualismo, l’esistenza di un qualsiasi dominio eccedente quello del pensiero in atto implicava cioè l’inesistenza di quest’ultimo. Lo spettatore che radunava nel proprio sguardo la plurale evenienza del mondo, concessa la precedenza dell’essere, o apparteneva già all’essere, essendo già prima di essere, o non apparteneva all’essere. In entrambi i casi, ci si doveva rassegnare alla nientità del pensiero, se solo si rifletteva sulla circostanza che in tal modo veniva a determinarsi: concessa l’immediatezza dell’essere, il pensiero, cioè, mediando l’immediato, o restava l’immediato che esso era o eccedeva l’immediato, senza però poter trovare uno spazio per sé. Certo era che, stando così le cose, il pensiero non avrebbe potuto in alcun modo rappresentare la novità che, come tale, esso pretendeva per sé. L’imporsi del «nuovo», come «cosa» realmente esistente, nell’Io che si affacciava sul mondo non conducendo «dinanzi a sé se non se medesimo» (p. 18), avrebbe infatti ceduto le armi a un passato destinato a inghiottire l’umanità e la sua vita cosciente nel gorgo dell’irrevocabile. Ridotta così a «natura», la spiritualità dell’uomo si sarebbe estinta nella realtà che era quello che era, incapace di emanciparsi da una fattualità che avrebbe inchiodato il mondo a se stesso, «logicamente esaurito, quantunque non ancora del tutto attuato nel tempo» (p. 23).
Ma come poteva essere ammessa la nientità di quello che attualmente, sprigionando una realtà senza precedenti, si imponeva agli occhi come la «vera e concreta realtà» dello spirito, «creatore» di un mondo che equivaleva al divenire della «verità»? Del resto, con Giambattista Vico e oltre Giambattista Vico, occorreva convincersi di come il vero coincidesse con il fatto estorto all’essere: verum et fieri convertuntur, allora, «il fatto, con cui si converte il vero, essendo la stessa realtà spirituale che si realizza» (p. 21). Non l’inerzia del già pensato, che estingueva il pensante, né la verità senza ombre che aboliva l’errore, bensì il chiaroscuro di uno «svolgimento» che intrecciava atto e fatto, vero e falso, gioia e dolore, trovando la «realtà spirituale» nella ricerca operosa di un Io destinato a costruire se stesso: «e se per trovarla bisogna cercarla, e trovarla significa appunto cercarla, noi non l’avremo mai trovata, e l’avremo trovata sempre» (p. 27). Siccome «essere e spirito [erano] termini contraddittori» (p. 23), non c’era spirito – se «diciamo che è egli stesso» – che non coincidesse allora con l’attuarsi di un processo incessante, sottratto alle grinfie del dato. A imporsi era cioè il darsi del dato, il non essere dell’essere, che, senza cancellare il dato e l’essere, toglieva al dato e all’essere l’autonomia e l’indipendenza dell’oggetto originariamente contrapposto al soggetto. «Molteplicità» e «determinatezza» rispondevano cioè fin da principio al soggetto, tolto il quale l’una e l’altra naufragavano senza scampo nel mare indeterminato di un’unità astratta. Si trattava cioè di comprendere che il soggetto in atto, irriducibile a una sostanza spirituale, rappresentava la custodia essenziale del mondo che il dualismo astratto opponeva al monismo idealistico. In tal senso, la Teoria generale dello spirito come atto puro, nella consapevolezza della difficoltà opposta dal «concetto dello spirito come processo», doveva contrastare «le astrazioni fissate dal pensiero comune e dalla scienza», governate entrambe dall’«intelletto», artefice del sapere che Gentile si proponeva ormai di oltrepassare con una radicalità senza precedenti.
Per questo verso, pluralità e finitezza del mondo dovevano apparire come l’astratto di un concreto che lo spirito, attuando se stesso, suscitava nella forma di una realtà «immoltiplicabile ed infinita» (p. 30). La frammentazione dello spettacolo, fatto di cose e persone, implicava cioè l’esistenza sui generis della «Persona che non ha plurale» (p. 18), al modo dell’orizzonte unitario che lo assorbiva, riverberandone la ricchezza inesauribile. Non che perciò esso si aggiungesse ai molti. «Non si ha – scrive Gentile – n+1, ma n=1. Gli oggetti dell’esperienza non possono avere tra sé anche il soggetto, perché sono tutti esso» (p. 35). Il soggetto attuale non doveva cioè essere introdotto per salvare il mondo e la sua unità, impedendogli di scaturire dal niente. L’esistenza del mondo, infatti, testimoniava il suo avvento unitario, sgombrandogli per sempre il campo, avvolto da «una sfera il cui raggio è infinito» (p. 32). Se proprio si voleva che il mondo alludesse a una provenienza, allora occorreva rendersi conto di come esso provenisse dal soggetto che lo innervava, alimentandone la consistenza attuale. Lungo questa via, l’equazione n=1, a differenza della somma n+1, mirava a scongiurare la logica del regresso alla quale l’intera tradizione filosofica aveva fatto riferimento, rinviando la realtà a una matrice indisponibile, davvero unitaria. Che il finito, essendo, fosse l’«infinito» e che la determinazione, ritagliando lo spazio per le cose, fosse l’«indeterminato», era ciò che sarebbe dovuto venire finalmente in chiaro, non appena il mondo si fosse consegnato al palcoscenico della coscienza attuale. La parte, insomma, trovava se stessa nel tutto, chiamata a disciplinarne la fisionomia, suscitando il reticolo delle sue relazioni spazio-temporali. Per questo verso, dire «svolgimento» spirituale avrebbe significato rinviare la realtà alla concretezza di un processo nel quale l’unità non era né al principio né al termine della vicenda, ma coincideva con una «infinita unificazione del molteplice» che era insieme «infinita moltiplicazione dell’uno», senza soluzione di continuità.
Esso né fu in principio, né sarà alla fine, perché non è mai: diviene. Il suo essere consiste appunto nel suo divenire, che non può avere né un antecedente né un conseguente, senza cessar di divenire (p. 42).
L’unità e la molteplicità, poste l’una fuori dell’altra, non avrebbero mai potuto restituire alla coscienza filosofica «lo svolgimento della vita», mai «perfetto», bensì la sua morta fotografia, sminuzzata in una serie di scatti. Non bastava cioè appellarsi alla successione degli stati del vivente, se si perdeva di vista la persistente e viva «unità di tutti i suoi stati» (p. 40). Lo sguardo trascendentale dell’Io coincideva infatti con la plurale evenienza del mondo, preda bensì di una inquietudine che sfaccettava il reale, ma solo perché in tal modo lo spirito andava sfaccettando se stesso, rimanendo uno.
Alla dialettica del pensiero pensato, oggetto del pensiero pensante, cui da Platone a Georg Wilhelm Friedrich Hegel, almeno, la filosofia aveva affidato le sorti del vero, occorreva contrapporre la dialettica del pensiero pensante, evocata obliquamente dal criticismo kantiano. Coniugando unità e molteplicità, «identità e differenza», la scoperta di quello che a Gentile doveva apparire come un «mondo nuovo» dettava al pensiero la necessità di oltrepassare il dominio della realtà governata dal «principio di non contraddizione». Le vecchie «colonne d’Ercole della filosofia» (p. 45) avevano bensì impedito al pensiero di valicare i limiti posti dalla legge che imponeva alla realtà di essere se stessa, ma solo perché si era sempre trattato di fare i conti con la materia dell’esperienza, oggetto del soggetto, dimenticando la forma soggettiva che all’oggetto conferiva l’adeguato risalto. Ora, dirottata l’attenzione sul soggetto che in prima persona diceva Io penso, nulla poteva più trattenere la nuova filosofia dall’esigere uno spazio per la «contraddizione». La realtà di Platone e Aristotele, nonostante la differente consistenza delle forme che essi evocavano per governarla, era pur sempre la realtà ricondotta al pensiero incontraddittorio, specchio e riflesso di un essere che era quello che era, «identico a se stesso». Gentile invitava invece ad accostare il pensiero che, identico alla realtà, non era «mai identico a se stesso» (p. 44), anche se solo per consentire all’identico di costituirsi.
L’atto pensante, suscitando il pensato, chiudeva bensì la realtà del mondo nel carcere dell’essere che era quello che era, ma proprio nel momento in cui essa evadeva dalle sue mura, aprendo un varco, senza catene e lacci che fossero in grado di trattenerla. Ciò tuttavia accadeva nella misura in cui ci si rendeva davvero conto – e non era facile riuscirci – che non c’era realtà che non coincidesse con il nostro pensiero attuale, sempre oggetto a se stesso, ma, proprio per questo, perennemente al cospetto di sé nella forma dell’altro e mai dinanzi all’altro che l’avrebbe costretto a cedere le armi. Misura e norma dello spirito, in effetti, il fatto – anche quando il fatto assumeva le sembianze dello spirito chiamato a precederlo – toglieva al mondo il suo respiro ed estingueva l’atto del pensiero destinato ad assecondarlo, dando luogo a un inutile e inconsistente doppione dell’essere che, con l’avvento dell’Io, non aggiungeva e non toglieva niente a se stesso. Eleaticamente avvinto ai ceppi della Necessità, l’essere identico a sé non poteva far altro che immobilizzare il pensiero che si fosse azzardato ad avvicinarlo, per liberarne l’energia sopita. Ma era appunto di questo essere, da adeguare con gli strumenti della ragione ridotta a intelletto, che occorreva disfarsi, disfacendosi dell’intelletto. Non per voltare semplicemente le spalle alla tradizione, bensì per approfondire l’esigenza che essa aveva costantemente testimoniato, manifestando l’intenzione di onorare il divenire dell’essere e del mondo. Del resto, tutta la storia della filosofia, nel corso delle vicende che avevano caratterizzato il suo sviluppo, doveva parere a Gentile come un continuo e sempre nuovo proporsi del contrasto tra Parmenide e Democrito, nel quale Parmenide finiva tuttavia per farla da padrone. Il «democratismo», infatti, rappresentava ai suoi occhi l’appello all’«esperienza» che, contro l’«eleatismo», si era costantemente e strenuamente levato a difesa di quel mondo che è «divenire, in cui tutto si trasforma», suscitando un’imprevedibile «molteplicità di individui» (p. 107). Lo stesso passaggio da Platone ad Aristotele poteva spiegarsi in ragione del rimprovero che Aristotele faceva al suo maestro di aver reso impossibile il divenire che pure egli aveva tentato di strappare alla logica parmenidea. E non era stato rimproverato anche Aristotele per lo stesso motivo? E dopo di lui, non era toccato anche ai tardoantichi, ai medievali e ai moderni, fino a Hegel?
Il punto, stando a Gentile, era che nessuno si era mai davvero liberato del realismo che consisteva essenzialmente nel far precedere all’Io ciò che all’Io, invece, doveva essere addebitato. Posto il divenire, infatti, il divenire doveva risultare impossibile. Del resto, non era difficile mostrare come l’intera vicenda filosofica ribadisse la conclusione che Gentile traeva dal tentativo aristotelico, in ordine al quale il divenire, «pensato, non è divenire; [e] come divenire, non si può pensare» (p. 49). In effetti, ci voleva poco a comprendere come, per quanto imprevedibile e caotico, il divenire, posto come tale, non potesse in alcun modo emanciparsi da quella determinata imprevedibilità e caoticità. «Presupposto del pensiero», tutto quello che il pensiero pensava, fosse stato pure il divenire, precipitava nell’inerzia di un mondo al quale non rimaneva che ribadire se stesso, senza tuttavia poterlo fare davvero. Ciò che per questa via sfuggiva sempre alla presa del concetto, benché esso dovesse rimanere padrone del campo, era cioè «la storia, il progresso» al quale la modernità aveva conferito lo spessore del «processo che non era vana dispersione di attività, ma creazione continua della realtà stessa, o incremento del suo essere» (p. 49).
Gli «antichi», ma agli antichi dovevano accompagnarsi i medievali e i moderni, posto alle spalle della natura il principio immancabile della sua realizzazione, da ripensare, adeguandone l’immutabile ed eterna fisionomia, avevano smarrito il bandolo della matassa che avrebbe consentito loro di apprezzare il «concetto moderno, tutto spiritualistico e cristiano, della serietà della storia». Ora, scrive Gentile,
che la storia, la vita dello spirito umano, sia qualche cosa di serio, il quale entri a formare il processo di svolgimento della realtà stessa, è un’idea non sospettata da tutta la filosofia antica, né dalla medievale che continua l’antica (p. 50).
Giordano Bruno vi aveva accennato soltanto, inaugurando il punto di vista che nemmeno Hegel, dopo Cartesio e Kant, sarebbe riuscito a tener fermo, nonostante l’invito di entrambi a cogliere lo sprigionarsi dell’atto pensante. Hegel, infatti, pur congiungendo l’unità e la varietà del reale nell’idea come soggetto del pensiero, andava anch’egli incontro all’esito platonico che concepisce la dialettica come «sistema» ideale da adeguare con la mente, e non come la mente stessa nel suo farsi sistema. Le difficoltà incontrate dal filosofo di Stoccarda sulla soglia della «Logica», dove dall’essere scaturisce il divenire chiamato a suscitare il dominio storico, si spiegavano infatti con il persistente approccio realistico di un idealismo che, pur additando «l’essere che non è» e «diviene», unità di essere e non essere, continuava a interpretare l’essere come il concetto che, assolutamente indeterminato, non era, e non come l’atto del concepire che, non essendo, si determinava. Si trattava cioè di comprendere come l’essere che, identico al non essere, non era, non stesse affatto nell’essere che Hegel definisce indeterminato, pareggiando l’uno e l’altro in una stasi senza «contraddizione», bensì nell’essere
del pensiero che definisce e, in generale, pensa: ed è, come vide Cartesio, in quanto pensa, ossia non essendo (perché, se fosse, il pensiero non sarebbe quello che è, un atto), e perciò ponendosi, divenendo (p. 56).
In tal senso, la dialettica acquistava la consistenza e il valore che dovevano esserle riconosciute solo a patto di ribaltare il persistente punto di vista platonico e aristotelico, per il quale la realtà è quella che noi pensiamo, mentre, «se noi la pensiamo, non può essere se non nel nostro pensiero» (p. 57). Per questa via, infatti, la «dialetticità del reale» enfatizzava la «vera e concreta realtà» del «pensiero in atto», «evidente e certa come certo ed evidente è a ciascuno di noi l’aver coscienza di ciò che pensa: il vedere, per esempio, quello che vede». Occorreva dunque sottrarsi a quella che a Gentile doveva apparire come un’«ordinaria e inconsapevole astrazione» (p. 57), tale tuttavia da strappare alla vita del mondo il cuore pulsante che la animava. Non doveva infatti sorprendere come, in preda a un’astrazione di questo genere, il pensiero filosofico si fosse sempre ritrovato per le mani una realtà esangue ed estenuata, anzi artefice di una mortificazione dell’uomo che alludeva alla morte stessa dell’umanità, originariamente consumata. La vicenda filosofica occidentale, guidata dal principio di non contraddizione, custode e garante della determinazione dell’essere, doveva dunque essere riletta alla luce dell’idealismo attuale, trasferendo «dal pensiero astratto al concreto» i problemi ai quali essa era andata incontro, per restituire all’uomo la sua umanità (p. 94). Il mondo era certamente pensato, identico e non contraddittorio, ma ciò non avrebbe significato consegnarsi a esso, svuotando il pensiero, bensì suscitare il pensante in cui era il differente e contraddittorio a imporsi, pieno di mondo.
Per questa via, allora, lungo la quale si sarebbe trattato di innestare l’astratto nel concreto, Gentile affrontava il problema della natura, che la filosofia aveva fin da subito collegato alla questione dell’individualità, intrisa di spazio e tempo. Egli si proponeva di mostrare come l’approccio filosofico antico e moderno avesse costretto il pensiero ora ad assorbire, fino ad annullarlo, l’individuo nel concetto universale, ora a far precipitare, fino a estinguerlo, l’universale nell’individuo, alternando realismo e nominalismo della conoscenza. O il pensiero pensava la realtà, trascendendo l’individualità nell’universale, o il pensiero rinunciava alla realtà, lasciando accadere l’individuale. E dunque: o si accedeva a una ragione senza mondo o ci si rassegnava a un mondo senza ragione: questo il dilemma chiamato a ritrarre gli esiti fondamentali di una disputa bimillenaria compromessa dal dualismo. Ciò però era accaduto appunto perché si era voluto che l’individuo, con la sua specifica e irripetibile consistenza, fosse l’oggetto dell’esperienza che la mente, illuminandone il tratto fondamentale, rendeva intelligibile, e non invece l’esperienza stessa che, in atto, andava chiarendosi, universalizzando il particolare. L’individuo autentico, tramite il quale era il «positivo» a imporsi sulla scena del mondo, doveva infatti essere riconosciuto nell’Io come sintesi attuale di universale e particolare, in ragione della quale non c’era universale che, particolarizzandosi, non fosse il proprio individuarsi e non c’era individuo che, universalizzandosi, non si particolarizzasse.
Per questo verso, il positivo, cui l’intera tradizione filosofica aveva guardato come al fatto indiscutibile dell’esistenza, non rinviava semplicemente al posto, esito o risultato di un qualsivoglia processo, bensì al porsi del processo consapevole di sé quale soggetto di un’esperienza in divenire. In tal modo, emergevano i tratti di una relazione soggetto-oggetto come intreccio dinamico di essere e non essere, tale per cui l’identità alludeva a una differenza e viceversa, dando luogo al dominio, davvero «scevro di contraddizioni», della storia (p. 93). Contraddittorie erano infatti apparse tutte le precedenti interpretazioni dell’esperienza storica, prede del principio chiamato a vegliare sulla realtà oggetto del pensiero, in cui però non c’era più spazio per il pensiero. Ora, stando a Gentile, l’Io, «non come coscienza che presuppone il Sé, suo oggetto, anzi come coscienza che lo pone» (p. 98), suscitava la coincidenza della singolarità più assoluta, qual era la puntualità dell’atto, con la più assoluta universalità, dal momento che essa inaugurava l’orizzonte totale della verità. Se il mio pensiero era allora quello di tutti e quello di tutti il mio, nell’unità del «Noi trascendentale» (p. 43), non per questo doveva venir meno la differenza, tolta la quale l’identità con sé del vero sarebbe precipitata nell’immediatezza che competeva alle cose. Per il pensiero, infatti, farsi altro significava esser sé, togliendo al mondo l’inerzia che solo astrattamente poteva competergli. Occorreva cioè convincersi che la rassicurante consistenza del mondo non stava nel mondo, bensì nell’atto chiamato a sostenerlo, tolto il quale – scriveva Gentile – «il mondo diventa un rêve, senza positività», affidato al capriccio degli uomini (p. 104). Così come, a rigore, non c’era lo spirito, allo stesso titolo nemmeno poteva dirsi che ci fossero il particolare e l’universale, da congiungere saldamente nell’individuo. A esserci era il loro «farsi» tali nella individuale «trasparenza assoluta del pensiero a se stesso nell’atto suo» (pp. 104-05).
Per questo verso, l’esperienza storica dell’umanità era chiamata a essere, suscitando lo spazio per la dislocazione degli eventi e il tempo per la loro successione sul palcoscenico della coscienza. Si trattava cioè di comprendere come concomitanza delle cose e passaggio dal prima al poi alludessero alla relazione, né concomitante né passeggera, che consentiva l’imporsi del dove e del quando. In tal senso, si vuol dire, la puntualità inestesa dell’eterno sprigionava il dove come un qua e non un là, e il quando come un presente e non un passato, nella coincidenza relativa del qua (incluso) e del là (escluso), ma anche del presente (incluso) e del passato (escluso). Ogni inclusione, infatti, escludeva e viceversa, sebbene ciò accadesse appunto perché incluso ed escluso trasparivano a se stessi nella coscienza che non faceva velo, manifestando la pienezza di un essere che occupava lo spazio, sgombrando il campo, così come transitava nel tempo, rimanendo sulla scena. L’apparire dello spazio e del tempo, quali «sistemi del molteplice» (p. 112), equivaleva cioè all’imporsi dell’unità che si faceva tale, raccogliendo i molti chiamati a testimoniarla. Si trattava allora di comprendere come, sottraendosi al tempo, la storia oltrepassasse la cronologia, perpetuando se stessa in un «infinito» rimanere presso di sé, senza mai perdere nulla di sé e senza mai acquistare nulla, quasi ciò avesse significato abbandonare dietro di sé qualcosa o tendere a qualcosa. La realtà storica alla quale lo spirito doveva essere ricondotto integralmente implicava, cioè, la radicale abolizione di ogni eccedenza ontologica, in vista di un immanentismo che invitava a rimanere entro i confini immutabili dell’esperienza pura, dove il passato veniva meno per consentire al futuro di essere tale.
La Teoria generale dello spirito come atto puro si avviava così a celebrare nell’Io privo di presupposti o anticipazioni, padrone di sé e del mondo, l’avvento dell’eterno che non sovrastava lo spettacolo del mondo, strappandolo al ludibrio del nulla, ma che, impersonando il suo immancabile spettatore, sovrastava ogni tentativo di sovrastarlo, eternandone l’andirivieni. Lo spirito, infatti, «non abbandona mai a sé la realtà empirica: anzi l’accoglie, la risolve eternamente in sé, e la eterna nella propria eternità» (p. 144), immortalando la scena, dove nulla muore senza vivere e nulla vive senza morire. Per questo verso, la vita dell’Io era il dominio intrascendibile della realtà che non veniva mai dopo senza il prima che era «fuori di ogni “prima e dopo”» (p. 141), a inaugurare la personalità immortale che la perpetuava di contro al nulla. Impedendo alla filosofia di annullare la storicità del mondo trasparente a se stesso nella luce di una coscienza senza fine, Gentile accedeva tuttavia alla paradossale conclusione per la quale la morte riguardava esclusivamente ciò che non era mai esistito. L’esistenza dell’«individuo immortale», cui lo spettacolo altalenante del mondo rinviava necessariamente, implicava così la convinzione che non solo la memoria dell’accaduto avrebbe dovuto tradursi nella creazione del ricordo, ma che anche l’attesa del possibile si sarebbe dovuta interpretare come una rinuncia a ogni forma di previsione. Nulla infatti poteva essere ricordato e nulla doveva essere atteso. La logica della previsione rientrava cioè a pieno titolo nella logica della rievocazione, compromessa dalla fattualità del fatto che, atteso o ricordato, stava dietro le quinte, pronto a entrare in scena, seguendo un copione già scritto.
Per questo verso, la filosofia chiamata da Gentile a difesa del divenire storico, in cui nulla veniva all’essere o si annientava senza essere già, doveva invitare a cogliere l’«immortalità del mortale» che, partecipe dell’eterno, moriva della vita inestinguibile del pensiero. Del resto, dando la vita all’oggetto, l’atto del pensiero suscitava se stesso, e non ciò che, vivo, l’avrebbe distrutto: la «molteplicità naturale», anzi, investita dallo spirito, doveva «parteciparvi […] distruggendovisi» (p. 147). Era il modo con il quale, accostando l’assoluto, l’attualismo evocava l’incondizionata consistenza del mondo, risolto nell’«unità infinita e immoltiplicabile dello spirito» (p. 149). Occorreva cioè convincersi dell’impossibilità di concedere una qualunque forma di condizionamento di tipo causalistico entro i confini immutabili della storia. Le vicende collegate all’elaborazione filosofica del concetto di «condizione» (p. 150) testimoniavano infatti, senza tema di smentita, come il vincolo causale impedisse al mondo di emanciparsi da una necessità che annientava la sua esistenza, fatta di imprevedibilità e libera evenienza. L’impossibilità di distinguere realmente la causa dall’effetto, senza appiattire il secondo sulla prima o abbandonare il secondo a se stesso, secondo la logica astratta della non contraddizione, doveva allora indurre Gentile a coniugare entrambi nell’atto per il quale la causa, effetto di se stessa, doveva imporsi al modo della «causa sui» (p. 188). Ancora una volta, il difetto radicale di ogni filosofia della trascendenza così come di ogni reazione di matrice empirista, preoccupate di garantire al mondo la novità e la razionalità dell’essere, stava nella persuasione di avere a che fare con una serie di fatti, messi in fila uno dopo l’altro, a testimonianza della lacerazione che non poteva mai venir meno, senza rinunciare al tessuto stesso del divenire storico. L’intelligibilità del nuovo aveva infatti indotto il pensiero filosofico, sulla scia del teismo, a escogitare la creazione di Dio, in ragione della quale il mondo dipendeva bensì dal Creatore, senza tuttavia aggiungervi nulla, ma anche ad affacciare la più radicale contingenza dell’essere, quale dava ormai a vedersi nella filosofia contemporanea francese (Jules Lachelier ed Émile Boutroux). Se Dio vincolava la creatura svincolandosi da essa, trattenuta ex nihilo, il contingente si svincolava da tutto, vincolandosi esclusivamente a se stesso, senza antecedenti e conseguenti che non ribadissero la medesima condizione. Ma non erano entrambi – anche se in modo diverso – al cospetto di un mondo estinto, senza la vita che soltanto a parole veniva concessa, quando era la decisione imperscrutabile di Dio o l’accadimento estemporaneo dell’esperienza a imporsi? Del resto, in un caso e nell’altro, posto il fatto nella sua imprevedibile evenienza, non restava che la serie dei fatti, uno dietro l’altro, fino a Dio, se si vuole, chiamato a riassumerne misteriosamente la consistenza originaria, o senza Dio, quando il riassunto teologico pareva minarne l’insorgenza casuale e innovativa.
Per Gentile, nulla doveva anticipare la vicenda storica, ma proprio perché non c’era vicenda storica che non alludesse all’eterna attualità del futuro sottratto per sempre alle grinfie di un mondo che, pur appellandosi alla «novità dei fatti» (p. 176), non rinunciava al fatto. Si trattava invece di rinunciarvi, per non «annulla[re] il futuro nell’atto stesso in cui lo [si] pone[va]» (p. 175), senza però rinunciare alla novità, che doveva allora assumere le sembianze paradossali di una novità senza fatti. Per questa via, insomma, il mondo non avrebbe potuto ambire alla novità, tolto l’atto del pensiero che in effetti lo sprigionava, scaturendo al modo della coscienza chiamata ad acquistare la coscienza di sé. Occorreva cioè rendersi conto di come la causa sui dovesse tradursi nel «conceptus sui», evocando i lineamenti teorici di un «formalismo assoluto», «che sottra[eva] lo spirito a ogni limite di spazio e di tempo e da ogni condizione esteriore» (p. 230). La purezza dell’andamento storico suggeriva infatti come fosse la stessa forma ideale a realizzarsi, contenuto bensì di se stessa, ma non senza ribadire lo scarto suscitato da un conoscere che assumeva ormai la consistenza del fare, coniugando gnoseologia e ontologia in una dottrina della volontà in cui era l’Io a farla da padrone. Ecco «l’intellettualismo vero, che non ha fuori di sé il volontarismo» (p. 262). Aprire gli occhi sul mondo, infatti, significava sperimentare l’esistenza del proprio «non essere»: l’«errore» o la «colpa», il «dolore» o il «male» da cui ciascuno di noi era chiamato a prendere le distanze, sprigionando la vera gioia di un’adesione alla legge dello spirito come imperativo morale. Per questo verso, l’esperienza storica dell’uomo doveva esibire le sembianze di una contemplazione del mondo come creazione del valore oggettivamente e universalmente condiviso.
D’altra parte, una storia consapevole di sé, quando la storia abbracciava la totalità dell’essere, alludeva alla convivenza dell’artista e del credente, destinati così a spartirsi astrattamente la coscienza del vero che Gentile affidava alla filosofia. Certo, l’arte rinviava all’originale prodursi del gesto estetico, proprio del soggetto, così come la religione, dettando all’uomo una misura indisponibile, evidenziava l’imporsi dell’oggetto, ma arte e religione, concretamente intese, rappresentavano soltanto i margini immutabili della storia che apparteneva in proprio alla filosofia. L’arte e la religione, infatti, come tali, non godevano della storicità filosofica che aveva bensì bisogno di entrambe, ma appunto perché, insieme, esse esibivano il farsi di Dio come divenire del soggetto creante sempre e comunque l’oggetto destinato a sovrastare la scena del mondo. Stando così le cose, Gentile, anche rispondendo a chi, come Benedetto Croce (Conversazioni critiche, serie II, 1918, 19242, pp. 68-73), vedeva l’attualismo pericolosamente esposto a un esito mistico, poteva osservare che la sua dottrina congiungeva certamente l’uomo a Dio, nella misura in cui Dio era la vera e assoluta realtà, ma solo in quanto era attraverso l’uomo e la sua fatica che Dio giungeva a se stesso. Per questo verso, occorreva riconoscere che «l’idealismo ha il pregio, non il difetto del misticismo. Ha ritrovato Dio, e ad esso volgesi, ma non ha bisogno di rifiutare nessuna delle cose finite; ché, anzi, senza di esse riperderebbe Dio». Moltiplicandosi, l’unità di Dio scaturiva da sé, piena tuttavia del mondo sublimato così in una «teogonia eterna, che si adempi[va] nell’intimo del nostro essere» (Teoria generale dello spirito come atto puro, cit., p. 265). «Autoctisi» (p. 94) o creazione di sé, ma senza che il sé da onorare alludesse a qualcosa di più di un dover essere all’altezza dell’eterno. Ci si avviava così lungo un sentiero che, condotta la filosofia dinanzi a un «mondo […] essenzialmente morale» (p. 259), giungeva in vista di quella che sarebbe dovuta apparire come «la concezione più radicale, logica, sincera del Cristianesimo» (p. 262), annuncio e presagio del «Dio che si genera in noi, ed è noi stessi, in quanto noi, con tutto l’esser nostro, ci eleviamo a lui» (p. 259).
G. Bontadini, Studi sull’idealismo, Urbino 1942, Milano 1995.
A. Carlini, Studi gentiliani, Firenze 1958.
U. Spirito, Giovanni Gentile, Firenze 1969.
E. Garin, introduzione a G. Gentile, Opere filosofiche, Milano 1991, pp. 7-79, 447-52.
A. Negri, L’inquietudine del divenire. Giovanni Gentile, Firenze 1992.
G. Sasso, Filosofia e idealismo, 2° vol, Giovanni Gentile, Napoli 1995.
V. Vitiello, Hegel in Italia. Dalla storia alla logica, Milano 2003.
M. Visentin, Il neoparmenidismo italiano, 1° vol., Le premesse storiche e filosofiche: Croce e Gentile, Napoli 2005.
D. Spanio, Gentile, Roma 2011, pp. 159-93.
E. Severino, introduzione a G. Gentile, L’attualismo, Milano 2014, pp. 7-69.