Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’indagine sulle comunicazioni di massa nel Novecento porta a ipotesi e prospettive di riflessione diverse sul rapporto tra i mezzi e la società, sul tipo di effetti e di influenza esercitati dai mass media, insieme al ruolo e all’importanza degli attori (emittente, messaggio e pubblico) del processo comunicativo. Nella storia del Novecento, a partire dagli anni Settanta, in seguito alla necessità di concettualizzare gli effetti a lungo termine e il ruolo dei media nella costruzione della realtà sociale, si procede a una revisione del paradigma della teoria dell’informazione, che conduce la communication research a concentrarsi sugli effetti cumulativi dei mass media, e quindi verso l’elaborazione di modelli comunicativi attenti sia ai processi di significazione, sia alla dipendenza cognitiva dai media e quindi allo studio dei processi di comprensione e di fruizione propri dell’audience.
Gli orientamenti della communication research
Se il “secolo breve”, come lo storico Eric Hobsbawn ha definito il Novecento, è stato caratterizzato dalle guerre mondiali e dalla guerra fredda, esso è anche il secolo contraddistinto dall’espansione e dalla diffusione delle tecnologie della comunicazione di massa, dalla radio e il cinema negli anni Venti, fino ai satelliti e internet negli anni Novanta, che delle guerre sono stati non solo strumenti di propaganda, ma attori a pieno titolo. Nel giro di pochi decenni i mezzi di comunicazione – le cui tecnologie, peraltro, provengono dalla ricerca in campo bellico – sono giunti a rappresentare, al tempo stesso, un settore industriale, un universo simbolico oggetto di forte consumo, un investimento tecnologico, un’esperienza individuale quotidiana, un terreno politico, un sistema di mediazione culturale, una maniera di passare il tempo – Mauro Wolf. Nel Novecento i mass media divengono soprattutto istituzioni che partecipano alla produzione, riproduzione e distribuzione della conoscenza: ci permettono di dare un senso alla nostra esperienza del mondo, modellandone la percezione, e contribuendo così alla conoscenza del passato, come alla comprensione del presente. Se accettiamo questa definizione, sui cui concordano alcuni dei principali autori della communication research, è facile comprendere come non esista, né possa esistere, un unico approccio ai mezzi di comunicazione di massa, una sola disciplina in grado di occuparsene, un limitato insieme di questioni e problemi sollevati dalla consistente letteratura sull’argomento. Non è dunque possibile tentare una sintesi esauriente dei diversi filoni di ricerca sulle comunicazioni di massa, di cui, ogni volta, si dovrebbero considerare il contesto sociale, storico ed economico in cui si collocano, il tipo di teoria sociale che presuppongono, o richiamano, il modello di processo comunicativo a essi sotteso. In alcuni casi, inoltre, il termine teoria dei media definisce effettivamente un insieme di proposizioni, ipotesi e acquisizioni verificate, mentre in altri designa solamente una tendenza di riflessione e ricerca. Quel che si può però brevemente ripercorrere sono le ipotesi e le prospettive più consolidate che hanno caratterizzato l’indagine sulle comunicazioni di massa nel Novecento, le quali, nel complesso, si sono dedicate all’esame del rapporto tra i mezzi e la società, e quindi al tipo di effetti e di influenza che i mass media sono in grado di esercitare, assegnando, di volta in volta, un ruolo e un’importanza diversi agli attori (emittente, messaggio e pubblico) del processo comunicativo.
I paradigmi che hanno contraddistinto la communication research del Novecento sono stati tradizionalmente divisi tra quelli nati nell’ambito della ricerca "amministrativa", sviluppatasi per lo più negli Stati Uniti, di stampo empirico e caratterizzata da committenti interni al sistema dei media, e quelli nati in seno alla ricerca critica, europea, orientata teoricamente, e attenta alle relazioni tra sistema sociale e mass media. Questa divisione investe anche la definizione dell’oggetto stesso di studio: nel caso delle analisi empiriche i mezzi stessi di comunicazione di massa, nel caso delle teorie critiche, invece, la cultura di massa.
Con modalità, scopi e prospettive differenti, a partire dalla fine degli anni Venti entrambi questi orientamenti contribuiscono al superamento della prima riflessione compiuta sugli effetti dei media, la cosiddetta teoria ipodermica (o bullet theory) sintetizzabile nell’assunto che “ogni membro del pubblico di massa è personalmente e direttamente attaccato dal messaggio che riceve”. La teoria ipodermica si presenta come un primo approccio globale ai media, del tutto indifferente alle diversità tra i singoli mezzi, e risponde alle domande: quale effetto e, soprattutto, quale potere hanno i media in una società di massa? Che effetto ha la propaganda sulla formazione dell’opinione pubblica? Si tratta di preoccupazioni che emergono in un contesto storico particolare, segnato dall’avvento dei regimi totalitari e dal loro uso della propaganda. La bullet theory reagisce a tale contesto attraverso il filtro di una teoria della società di massa che rappresenta il versante comunicativo di una teoria psicologica dell’azione behaviorista, per cui il comportamento va inteso come un insieme di risposte agli stimoli dell’ambiente esterno. La società – su cui i mass media avrebbero così tanta influenza – sarebbe perciò composta da individui totalmente isolati e alienati, privi di ogni legame sociale e perciò facili prede di messaggi, che, come la puntura di un ago ipodermico, li "colpiscono" direttamente. In questa posizione è facile intravedere non solo la negatività e la sfiducia dell’epoca storica, ma anche l’eredità di quel pensiero politico ottocentesco e conservatore che aborriva la diffusione degli ideali di uguaglianza e democrazia, oltre a riflessioni sulla qualità dell’uomo di massa come quella elaborata da José Ortega y Gasset . La massa è considerata in sé un soggetto, o meglio una nuova formazione sociale costituita da un aggregato omogeneo di individui tra loro indistinguibili, di cui andrebbero indagate le dinamiche. La bullet theory dà quindi per scontati gli effetti dei media: vi è una connessione diretta tra esposizione ai messaggi e comportamento dei destinatari, che risultano così facilmente manipolabili.
Il primo tentativo di superamento di un tale atteggiamento, interno al filone "amministrativo", nasce nel momento in cui si prova a trasformare la bullet theory in modello di ricerca empirica. Si tratta del cosiddetto schema di Harold Dwight Lasswell, elaborato negli anni Trenta come applicazione di un paradigma per l’analisi sociopolitica. “Un modo appropriato per descrivere un atto di comunicazione”, scrive Lasswell, è rispondere alle seguenti domande: “chi dice cosa, attraverso quale canale, a chi, con quale effetto?” È facile notare come ognuna di queste variabili ritagli una dimensione specifica di ricerca: chi parla (cioè l’emittente), di che cosa (cioè i contenuti), attraverso quali mezzi, e con quali risultati. Lo schema di Lasswell contribuisce a organizzare l’allora nascente ricerca empirico-sperimentale sulle comunicazioni di massa intorno a due questioni principali: l’analisi degli effetti e quella del contenuto. In ambito psicologico-sperimentale, i primi studi empirici sul pubblico dei media si preoccupano quindi, in primo luogo, di differenziare la "massa" e di comprenderne il ruolo e la composizione. Tra lo stimolo e la risposta vi sono i processi psicologici degli individui che non solo ricevono i messaggi, ma li rielaborano, mediando la realizzazione dell’effetto, che diviene una variabile dipendente, per esempio, dall’interesse ad acquisire informazione, dalla percezione selettiva dei contenuti e dall’esposizione selettiva ai mezzi. L’approccio empirico sperimentale di carattere psicologico è prevalentemente interessato ai diversi elementi in grado di determinare l’efficacia persuasiva di un messaggio, da fattori legati all’audience, la cui attitudine rispetto al messaggio risente di effetti di assimilazione e di contrasto (percepire un’opinione come più vicina alla propria, o più lontana, di quanto in realtà non lo sia), a fattori legati invece al messaggio, tra cui la credibilità della fonte, l’ordine delle argomentazioni e la loro completezza, l’esplicitazione delle conclusioni.
Accanto a queste posizioni si sviluppa, negli stessi anni, un approccio sul campo sociologico, conosciuto anche come teoria degli effetti limitati. Questo modello non considera gli effetti né in termini di manipolazione (come nel caso della teoria ipodermica), né in quelli della persuasione (come nel caso dell’approccio psicologico-sperimentale), ma come processi di influenza entro cui il ruolo dei mass media va di pari passo a quello giocato dai rapporti comunitari. Il nucleo di tale modello – il più famoso e influente del filone "amministrativo" – è perciò la connessione tra processi di comunicazione di massa e caratteristiche del contesto sociale in cui hanno luogo. È Paul Felix Lazarsfeld che, in uno studio sulla radio del 1940, ipotizza come un mezzo di comunicazione, più che influenzare direttamente il proprio pubblico, lo selezioni. Per ottenere un effetto bisogna innanzitutto che vi sia stata una preselezione, e cioè un’abitudine di consumo che dipende e si differenzia a seconda della diversa stratificazione sociale degli ascoltatori, e quindi in base a caratteristiche quali l’età, il sesso, la professione e il livello di scolarità. Del 1944 è invece The People’s Choice, in cui sempre Lazasrfeld – insieme a Bernard Berelson e Hazel Guadet – si propone di individuare, attraverso lo studio della campagna presidenziale del 1940, le modalità con cui si formano le attitudini politiche, evidenziando il ruolo del leader di opinione, e cioè di quella parte dell’opinione pubblica che prova e riesce a influenzare il resto dell’elettorato, e che inoltre mostra più reattività e una risposta più immediata agli eventi della campagna elettorale. Il flusso della comunicazione a due livelli che si viene così a creare in un processo comunicativo (il two-steps flow of communication) è determinato proprio dalla mediazione che i leader svolgono tra i media e gli altri individui della comunità. Questo, più in generale, significa che gli effetti dei media dipendono dalle reti di interazione che stabiliscono e regolano i legami interpersonali. L’apporto delle ricerche empirico-sperimentali è dunque quello di situare i processi comunicativi entro cornici sociali complesse, in cui variabili economiche, sociologiche e psicologiche si influenzano a vicenda.
La prospettiva funzionalista e l’industria culturale nella Scuola di Francoforte
Nel dopoguerra, e in particolare a partire dagli anni Sessanta, l’attenzione si sposta dall’influenza dei mass media alle loro funzioni. È il periodo in cui in ambito sociologico si sviluppa la teoria funzionalista, momento di snodo tra teorie amministrative, che si limitavano allo studio empirico di effetti a breve termine, rispetto a situazioni comunicative particolari (quali una certa campagna presidenziale o uno specifico programma radiofonico), e modelli con cui si tenta un approccio a situazioni comunicative "normali", vale a dire ricerche sulla produzione e la diffusione quotidiana dei messaggi, con uno spostamento di interesse verso gli effetti a lungo termine. Per la teoria funzionalista è allora importante comprendere i mass media in quanto attori sociali, e quindi indagare che cosa essi ci permettono di fare a livello collettivo (per esempio, sorvegliare l’ambiente, interpretare eventi, trasmettere prodotti culturali o intrattenere), e a livello individuale (per esempio, attribuire status, prestigio e legittimità a particolari individui o rafforzare le norme sociali).
La prospettiva funzionalista è quella che conduce all’ipotesi degli usi e gratificazioni: la domanda non è più “che cosa fanno i media alla gente?”, bensì “che cosa fa la gente con i media?” Gli effetti dipendono dalla gratificazione dei bisogni del fruitore, mentre l’efficacia dei messaggi si configura come qualcosa di attribuito, in base all’esperienza e alle situazioni che il pubblico si trova a vivere al momento del consumo. Il destinatario diviene così un soggetto comunicativo a tutti gli effetti. Ma benché tale ipotesi fosse già anticipata da lavori risalenti alla fine degli anni Quaranta (come quelli di Lasswell), è solo negli anni Settanta che essa prende piede, contrastando, anche in Europa e non solo più in ambito amministrativo, l’eredità della teoria critica, che assegnava invece al destinatario un ruolo del tutto passivo. Solitamente si identifica la teoria critica con le posizioni del gruppo di studiosi che fecero parte dell’Institut für Sozialforschung di Francoforte (noto come la Scuola di Francoforte), fondato nel 1923 e diretto da Max Horkheimer. Al centro del lavoro dei suoi esponenti – Theodor W. Adorno, lo stesso Horkheimer, Herbert Marcuse, durante il regime di Hitler costretti a emigrare negli Stati Uniti per approdare all’Institute for Social Research di New York; successivamente Habermas – vi è il tentativo di coniugare la proposta politica di una riorganizzazione razionale della società, in grado di superare la “crisi della ragione”, con un atteggiamento critico nei confronti dei processi di costruzione e di produzione della conoscenza. La ricerca della Scuola di Francoforte si fonda su di una teoria della società intesa come totalità, e quindi su di un’ottica, per l’appunto, "critica", nei confronti della settorializzazione delle discipline e, più in generale, della subordinazione del sapere alla ragione strumentale. L’atteggiamento critico si oppone all’ideologia di quella scienza che considera come dati di fatto fenomeni che sono in realtà il prodotto di una specifica situazione storico-sociale. Tanto i fatti che percepiamo, quanto la nostra stessa percezione, hanno carattere storico e sono “formati attraverso l’attività umana”, scrive Horkheimer nel 1937. L’annosa contrapposizione tra individuo e società, riscontrabile in molte prospettive interne al paradigma amministrativo, per la teoria critica è il risultato del processo storico della divisione di classe. Con un’impostazione chiaramente ispirata al materialismo marxiano, la teoria critica individua perciò nell’analisi dell’economia politica il proprio punto di partenza, al fine però di indagare le nuove forme di produzione, e le dinamiche sociali a essa contemporanee, tra cui l’affermazione dell’industria culturale, la trasformazione dei conflitti sociali e le forme di autoritarismo. Come afferma Gian Enrico Rusconi nel 1968: “Attraverso i fenomeni sovrastrutturali della cultura o del comportamento collettivo, la teoria critica intende penetrare il senso dei fenomeni strutturali, primari, della società contemporanea, il capitalismo e l’industrializzazione”. È in questo senso che la sociologia diventa critica di una vita sempre più "offesa", come dice Adorno, dalla “trasformazione del progresso culturale nel suo contrario”. Al termine cultura di massa, che implica una produzione in qualche modo spontanea da parte delle masse, Adorno e Horkheimer nella Dialettica dell’Illuminismo (1947) preferiscono quello di industria culturale, intesa come sistema (cinema, radio, settimanali) assoggettato alle regole di un mercato di massa che impone la standardizzazione e l’organizzazione, a cui rispondono, in un circolo oramai vizioso, i gusti e i bisogni altrettanto stereotipati del pubblico. La stratificazione dei prodotti culturali, la loro stessa gerarchizzazione estetica, è funzionale al mercato, alla logica del sistema produttivo: “la razionalità tecnica è la razionalità del dominio stesso”, scrivono Adorno e Horkheimer, quello dell’industria culturale sugli individui. Il consumo è quindi totalmente condizionato da un tale sistema, è una pratica attraverso cui gli individui aderiscono in modo acritico ai valori imposti dal mercato, assorbendo ordini e prescrizioni sotto forma di generi e stili attraverso cui le stesse aspettative sono preconfezionate. Tale visione apocalittica dipinge una società di massa in grado di paralizzare l’immaginazione, la spontaneità e la creatività tanto della produzione, quanto della fruizione dei propri prodotti culturali, per la maggior parte costruiti in modo da suscitare un consumo distratto, e da riflettere il modello stesso del meccanismo economico che domina sia il tempo del lavoro, sia quello dell’ozio. Lo studio dei mass media per la teoria critica deve quindi dar conto di questo meccanismo, e del modo in cui si iscrive nei prodotti culturali, della stratificazioni di significati per lo più latenti con cui l’ideologia dell’industria culturale si diffonde. Questa teoria è quindi anche fortemente critica nei confronti di quelle procedure amministrative proprie della ricerca sociale che si affida, come scrive Adorno, alle “reazioni dei soggetti come se esse fossero una fonte primaria di conoscenza sociologica”, inchinandosi in ultima analisi all’industria culturale, e dunque partecipando essa stessa alla manipolazione delle masse.
La contrapposizione tra il filone amministrativo e l’atteggiamento critico, tra integrati e apocalittici, viene finalmente superata verso la fine degli anni Settanta, da un lato grazie alla necessità di concettualizzare questioni a cui la stessa ricerca empirica è interessata, quali gli effetti a lungo termine e il ruolo dei media nella costruzione della realtà sociale, dall’altro con la revisione del paradigma della teoria dell’informazione (Claude E. Shannon e Warren Weaver, The Mathematical Theory of Communication, 1949), grazie anche all’apporto di discipline quali la semiotica e la psicologia cognitiva. È noto come la teoria dell’informazione fosse in realtà una teoria matematica sulla trasmissione ottimale dei messaggi, per cui l’informazione è un’entità misurabile in termini quantitativi, generata da una fonte, attraverso un apparato trasmittente che emette un segnale, il quale viaggia attraverso un canale che può essere disturbato da un rumore; uscito dal canale, il segnale è raccolto da un ricevente che lo trasforma nel messaggio che sarà trasmesso, e come tale compreso, dal destinatario – questa la nota sintesi che si trova in Eco, Lector in fabula (1979). Tale modello considera perciò i messaggi veicolati dai diversi media come un sistema chiuso, un’entità (l’informazione, per l’appunto) astrattamente separabile dall’effettivo processo comunicativo, e dunque dalle intenzioni dell’emittente, dalle caratteristiche del canale e da quelle del ricevente. Più in specifico, trattandosi di un modello che non contempla l’esistenza di contenuti semantici dei messaggi, esso tralascia il problema della trasmissione dei significati. L’operazione di codifica, e cioè la produzione del messaggio, segue una logica binaria sviluppata nella cibernetica (ad A corrisponde B), entro cui il codice si presenta come un sistema di organizzazione, una sintassi volta ad assicurare l’ottimizzazione del processo di trasmissione. Per la semiotica, che entra così nello studio delle comunicazioni di massa, il codice è invece un insieme strutturato di regole in grado di correlare un’unità del piano dell’espressione (il significante), con un’unità del piano del contenuto (il significato), costituendo così un sistema semantico. È dunque con la critica al modello informazionale che il problema della significazione diviene centrale per una teoria della comunicazione attenta alle dinamiche che si instaurano tra emittente e ricevente. Ed è seguendo tale prospettiva che Umberto Eco e Paolo Fabbri, in Progetto di ricerca sull’utilizzazione dell’informazione ambientale del 1978, definiscono il modello semiotico-informazionale, nel quale a partire da una diversa nozione di codice, si considera il più generale problema della comunicazione del significato. Acquista così importanza la nozione di decodifica, non più intesa come un’operazione complementare alla codifica, ma come una forma d’interpretazione che può produrre effetti anche molto diversi da quelli previsti dall’emittente. Tra messaggio codificato alla fonte e messaggio ricevuto come significato possono cioè intercorrere importanti difformità, dal momento che non esiste solo un codice di codifica o di decodifica, bensì più codici e sottocodici dipendenti dalle diverse situazioni socio-culturali in cui avviene la produzione e la ricezione della comunicazione. Fondamentale è allora la caratterizzazione delle difformità e delle differenze, vale a dire di ciò che nel passaggio dell’informazione può trasformare il messaggio, oramai inteso come sistema semantico. Il modello semiotico-informazionale colloca così al centro della riflessione sui processi comunicativi, e quindi delle dinamiche tra media e opinione pubblica, le competenze che possono variamente caratterizzare emittente e ricevente. Tali competenze comunicative riguardano sia la comprensione e l’uso del linguaggio, sia le conoscenze enciclopediche dei due partecipanti all’interazione, la loro conoscenza del mondo, il loro bagaglio culturale, le diverse variabili della loro identità socio-culturale, ma anche quegli elementi – già messi in luce dalle teorie empiriche degli anni Quaranta – che definiscono la mediazione tra comunicazione di massa e individuo, quali il ruolo dei leader d’opinione, le abitudini di fruizione ecc. E tante appaiono le variabili, quanti possono essere i diversi gradi di possibile incomprensione o rifiuto del messaggio, a seconda che il codice dell’emittente non venga compreso, oppure venga solo parzialmente compreso, oppure venga totalmente compreso, ma rifiutato per ragioni ideologiche, e dunque per delegittimazione dell’emittente, conducendo a ciò che Eco, nel 1973, definisce “guerriglia semiologica”, o, più in generale, ai diversi fenomeni di decodifica aberrante.
A partire dalla fine degli anni Settanta alla nozione di messagio si sostituisce però quella di testo, con l’elaborazione del modello semiotico-testuale (Eco-Fabbri, Dal messaggio al testo, 1978). Pensare a competenze che si esercitano su "messaggi" implica infatti l’idea riduttiva che nella comunicazione massmediatica il passaggio dei contenuti avvenga solamente a livello esplicito e manifesto. La nozione di testo comporta invece il riferimento a più sostanze e a più codici, ma soprattutto a livelli differenti di analisi, a seconda che ci si concentri sulle argomentazioni e le presupposizioni implicite dell’emittente, su ciò che gli stessi emittenti attribuiscono ai riceventi e viceversa, sulle intenzioni che questi ultimi assegnano all’emittente, che costituiscono, nel complesso, le tracce del processo di produzione che rimangono iscritte nel testo stesso. In questo senso, la competenza in gioco in ogni produzione e ricezione di messaggi non si esaurisce nella sola comprensione di codici e sottocodici, bensì definisce una più generale competenza testuale.
È in questa direzione che la communication research inizia ad aprirsi ad approcci interdisciplinari, come dimostrano inoltre le ricerche dei cultural studies, formatasi in Gran Bretagna a partire dagli anni Sessanta, in cui la prospettiva sociologica si affianca a metodi propri della critica letteraria e della semiotica, e dunque a concetti quali quello di testo. Per quanto l’impostazione dei cultural studies sia prevalentemente critica nei confronti delle ideologie e delle forme di produzione dominanti, essa costituisce comunque una reazione al riduzionismo proprio delle teorie marxiste: se è vero che i valori e i significati dei gruppi dominanti condizionano le rappresentazioni dei media, è anche vero che l’audience non è un insieme omogeneo di persone passive. Il pubblico interpreta testi, e nella loro decodifica può anche giungere a posizioni, per l’appunto, del tutto aberranti rispetto ai significati imposti dall’industria culturale, come afferma Stuart Hall (1975) in un noto studio sulla televisione, riprendendo il concetto di Eco. L’effetto ideologico complessivo della riproduzione del sistema culturale condotta attraverso i mass media va perciò decostruito nell’analisi, empirica ma teoricamente informata, delle varie determinazioni che vincolano o liberano i testi mediatici entro e attraverso le pratiche produttive, riproducendo, ovvero ridefinendo, identità e differenze, gruppi sociali e subculture. I mass media, in quanto serbatoio di rappresentazioni, e le loro istituzioni, contribuiscono quindi alla riproduzione della stabilità sociale e culturale, ma sono anche l’unico luogo in cui questi stessi significati e queste stesse norme possono essere contestate.
Il Novecento si chiude non tanto con la supremazia di una teoria o di un’ipotesi sull’altra, quanto su di un generale passaggio di interesse dagli effetti limitati agli effetti cumulativi dei mass media, che implica, lo abbiamo visto, la diffusione di un modello della comunicazione incentrato sui processi di significazione, e quindi sui concetti di testo e di rappresentazione. È in questo senso che i media svolgono un ruolo preponderante nella costruzione della realtà; essi sono influenti perché ci permettono di strutturare l’immagine della realtà sociale nel lungo periodo, intervenendo nella formazione di nuove opinioni e credenze, e influenzando, più che il comportamento, lo stesso patrimonio cognitivo dell’audience. Non si tratta più di isolare gli effetti intenzionali dei mass media (ciò che un emittente intende comunicare), ma a quelli latenti, vale a dire il modo e le strategie retoriche e discorsive che conducono i destinatari verso un certa interpretazione dei testi mass mediatici, e dunque del mondo di cui parlano. In questa prospettiva, da alcuni denominata come teoria della dipendenza cognitiva dai media, si colloca l’ipotesi di Donald Shaw dell’ agenda setting (agenda delle priorità), in Agenda Setting and Mass Communication del 1979, che sostiene come “in conseguenza dell’azione dei giornali, della televisione e degli altri mezzi di informazione, il pubblico è consapevole o ignora, dà attenzione oppure trascura, enfatizza o neglige elementi specifici degli scenari pubblici”. L’individuo tende cioè a includere nelle proprie conoscenze ciò che i media includono nei loro contenuti, e a far dipendere il grado di importanza o rilevanza di eventi, questioni o persone dall’enfasi che i mass media alternativamente vi attribuiscono, rispetto a logiche che sovente dipendono dalle routines produttive che regolano il funzionamento dei mezzi stessi. La comprensione della realtà sociale è oggi, in sostanza, mutuata dai media, che non ci dicono direttamente che cosa pensare, ma in che modo e con quali priorità.