Teologia
Nonostante che in D. scarseggino esplicite affermazioni sulla T. in quanto tale, è comunque possibile delineare ciò che egli intese per scienza divina (Cv II XIII 8), desumendolo in particolare da alcuni passi del Convivio, della Monarchia e, naturalmente, della Commedia (integrata dall'epistola XIII).
Convivio. - Scopo dichiarato del Convivio è quello d'impartire i primi rudimenti di filosofia a quanti, in questo mondo, sono dediti alla vita attiva (I I 4 e 13, IX 5). A ciò D. fu spinto da una duplice ragione ideale: dalla convinzione della sublime dignità della filosofia, e dall'altrettanto energica convinzione della sua utilità pratica, dalla fiducia cioè che il diffondersi della cultura filosofica (almeno nella forma dell'etica) fosse una delle due condizioni indispensabili - assieme all'Impero - per l'instaurazione sulla terra di una società giusta e felice (cfr. IV VI 17-20). La filosofia, se per un aspetto della sua natura è ‛ divina ' in quanto, per essenza, è partecipazione a quell'amore della Sapienza che è primamente di Dio e secondariamente de l'altre intelligenze separate (in quelle celesti, gli angeli, per continuo sguardare, e nella mente umana per riguardare discontinuato, III XIII 7; cfr. B. Nardi, Nel mondo di D., Roma 1944, 215), per altro verso, considerata in rapporto alla vita umana - in particolare attraverso l'Etica dell'Aristotele maestro e duca de la ragione umana, in quanto intende a la sua finale operazione (Cv IV VI 8) -, essa rappresenta la sola luce in grado di guidare gli uomini, sia individualmente che nel loro insieme, verso la beatitudine terrena, al cui possesso essi possono e devono tendere. Se è per tale beatitudine, consistente nel sereno godimento della propria vita, che l'uomo fu creato, egli fu creato altresì per il godimento della beatitudine eterna, da attingere nell'aldilà, con la diretta visione di Dio (IV IV 4, VI 6-20; cfr. III XV 4, IV XVII 9, XXII 11-18).
Una volta chiarita la concezione di D. intorno alla natura e all'importanza della filosofia, non è difficile comprendere il perché del ruolo tanto limitato e marginale assegnato alla T. nel Convivio. Da credente qual era, D. non poteva né semplicemente ignorare la T., né subordinarla alla filosofia (come un puro averroista avrebbe potuto fare), o assorbirla in essa. Ciò che D. compie è la separazione della T. dalla filosofia, sottraendola non soltanto, e implicitamente, a ogni cura puramente terrena dell'uomo, ma anche a ogni attività discorsiva della ragione, a ogni ricerca e dibattito razionale. Nella correlazione di scienze e sfere celesti, D. fa corrispondere le nove sfere, conoscibili a opera della ragione naturale, alle scienze che compongono il corpo della filosofia, mentre alla T., la Divina Scienza, lascia il cielo estremo, conoscibile grazie alla sola fede; si tratta dell'Empireo, cielo assolutamente privo di moto e pieno di pace. Cos'è allora la T., in sé? Essa non è altro che la dottrina lasciata da Cristo al mondo, come legato di pace; un corpo dottrinale sul quale non è dato argomentare - e tanto meno dibattere - proprio per la eccellentissima certezza del suo subietto, lo quale è Dio. La T. è la colomba mia e la perfetta mia, secondo le espressioni profetiche di Salomone; colomba per la sua quiete serena (sanza macula di lite) e perfetta in quanto ci mostra perfettamente il vero... nel quale si cheta l'anima nostra (II XIII-XIV; in particolare XIII 8, XIV 19-20).
Sarà opportuno analizzare più da vicino questi due attributi della T., in quanto fornisce una perfetta visione della verità e in quanto non è turbata in alcun modo dal conflitto delle opinioni.
Quanto al vero che la T. ne fa vedere, la soluzione è chiara. Questo vero in primo luogo è Dio, sommo intelligibile, nel percepire il quale il nostro intelletto, nostra nobilissima parte, avrà perfettamente lo suo uso (IV XXII 13) nell'‛ altra ' vita, la vita eterna. In secondo luogo, questo vero si riferisce a quelle certe cose diverse da Dio - quali la etternitate e la prima materia (III XV 6, cfr. IV XIII 7), gli angeli (II IV 16-17, V 2-3) e l'immortalità dell'anima (II VIII 14-16) -, cose della cui esistenza possiamo avere certezza in questa vita, o per ragionamento filosofico o per rivelazione, ma la cui natura trascende talmente la nostra ragione da non poterne avere adeguata comprensione finché rimarremo legati al corpo. Certo, anche se le questioni suddette non sono l'unico oggetto della T., come D. ben sapeva (cfr. ad esempio l'allusione al metodo esegetico dei teologi di II I 4; v. TEOLOGO), tuttavia è proprio su queste che egli richiama l'attenzione, ed è soprattutto il modo di prospettarle a rivelarci quale fosse la sua concezione della natura fondamentale della Teologia. Tali questioni, infatti, hanno in ogni caso a che vedere con realtà che l'uomo, in questa vita mortale, o non può conoscere naturalmente o può conoscere solo in maniera assai imperfetta. In breve, la T. ha a che vedere con conoscenze rivelate da Dio, essa cioè è fondata sulla rivelazione. Fin qui, non c'è dubbio, si tratta del consueto insegnamento cattolico, ma tuttavia importanti differenze emergono non appena andiamo più a fondo; differenze, per inciso, che nulla hanno a che vedere con ciò che D. sembra dire in II XIV 20, a proposito della dottrina di Cristo che già ci mostra, qui sulla terra, la verità ultima nella quale si cheta l'anima nostra. I passi prima citati, e specialmente IV XXII 13-18, mostrano infatti pienamente che, per D., questo vero sarà perfettamente rivelato solo nella vita eterna avvenire. Dove invece c'è differenza è nel modo in cui D. mette rivelazione cristiana e T. in rapporto con l'operare della ragione naturale in questa vita.
Con questo giungiamo al secondo attributo della T., che a D. appare piena... di tutta pace, proprio come quella dottrina di cui Cristo disse ai suoi discepoli la pace mia do a voi, la pace mia lascio a voi (II XIV 19), e dove pace sta per libertà da ogni disputa o controversia (non soffera lite alcuna d'oppinioni... è sanza macula di lite, §§ 19 e 20). Ebbene, questa nozione di T. è, a dir poco, assai inconsueta, totalmente diversa ad esempio da quella di Tommaso d'Aquino. Per quest'ultimo, come del resto per tutti i teologi del suo tempo, presupposto fondamentale della sacra doctrina (come egli preferisce chiamare la T.) è la rivelazione divina quale fu trasmessa nella Scrittura ed esposta dalla Chiesa negli articuli fidei (Sum. theol. I I 1 8 ad 2, II II I 8 e 9, 2 6). Ma tutto ciò - revelatio, Scrittura, articuli fidei - costituisce soltanto i principia della T. in senso tecnico, soltanto il punto di partenza da cui essa inizia a operare. In questo operare, la ricerca e il dibattito razionale svolgono un ruolo pur sempre subordinato, ma indispensabile: " sacra doctrina est argumentativa " (Sum. theol. I I 8, cfr. In Boet. de Trinitate 3, 7). Non è il caso di distinguere in questa sede le varie funzioni assegnate da Tommaso all'argomentazione teologica; è sufficiente comunque riconoscere - e basta uno sguardo alla Summa per convincersene - che l'atteggiamento complessivo di Tommaso, su questo punto, differisce " toto coelo " da quello adottato da D. nel Convivio. La differenza di fondo è che, diversamente da D., per Tommaso il compito del teologo comporta un'utilizzazione estremamente approfondita della ragione nella chiarificazione e persino, fin dove è possibile, nella giustificazione razionale dei dati di fede. Questo punto è autorevolmente riassunto da Yves Congar: " La teologia, quale fu intesa e praticata da Tommaso, ci appare come una considerazione di tipo razionale e scientifico del dato rivelato tendente a procurare allo spirito del credente una certa intelligenza di questo dato. Essa, se vogliamo, è un correlato della fede scientificamente elaborato. Quanto di oggettivo la fede trasmette in un semplice atto di adesione, la teologia lo sviluppa lungo una linea di conoscenza umanamente costruita, cercando la ragione dei fatti; in breve ricostruendo ed elaborando, nelle forme di una scienza umana, i dati ricevuti dalla fede.... Così, con lo spirito orientato dalla fede, l'uomo acquisisce un'intelligenza propriamente umana dei misteri, utilizzando i nessi e l'armonia che tali misteri hanno col mondo della sua conoscenza naturale; egli fa riverberare l'insegnamento rivelato entro la sua psicologia umana con tutte le sue legittime e autentiche acquisizioni, anch'esse, in ultima analisi, dono di Dio " (Dictionnaire de Théologie Catholique, XV 1, 385). Tenuto conto che Tommaso fu il più ‛ razionale ' dei grandi scolastici, a uno sguardo superficiale potrebbe sembrare che la nozione della T. in D., certamente non tomista, abbia una qualche affinità con quella sostenuta dalla tradizione agostiniana, per esempio da Bonaventura. In realtà D., a dir poco, non è meno distante da Bonaventura che da Tommaso. Anzitutto perché Bonaventura attribuisce scarso valore alla filosofia separata dalla T., e in secondo luogo perché per lui, come per Tommaso (pur con diversa accentuazione), quello della T. è un " modus ratiocinativus sive inquisitivus " (I Sent. proem. 2, sol.) " per discursus et inquisitionem " (III Sent. XXXIV I 2 3) in quanto esso verte sul " credibile " proprio perché " transit in rationem intelligibilis per additionem rationis " (I Sent. proem. 1). In sostanza, la ricerca razionale rappresenta anche per Bonaventura una parte essenziale della T., una ricerca, beninteso, controllata e guidata dal soprannaturale donum intellectus (De Donis Spir. Santi coll. 4, 8, 9).
Di contro alle opinioni dei due grandi teologi, la nozione dantesca di T. può essere caratterizzata, negativamente, come la rimozione della ragione dall'ambito della T., e positivamente, come l'identificazione della T. con l'insegnamento di Cristo, cioè come una sorta di adombramento sulla terra, accolto solo per fede, di verità che trascendono la ‛ presente ' capacità della ragione e che saranno svelate in una vita futura. La perfezione dell'anima umana, dal punto di vista conoscitivo, si attua infatti a due diversi livelli (o ‛ felicitadi ', o ' beatitudini '): il primo, nella vita presente, mediante il doppio uso del nostro animo... cioè pratico e speculativo (ma dove l'uso pratico è realizzabile con maggior perfezione dello speculativo), e il secondo, nella vita futura, in uno stato di purezza speculativa o contemplativa (Cv IV XXII 10-18, cfr. XVII 9-11). Le realtà presentate dalla T. saranno comprese solo nella vita futura, mentre nella presente sono semplicemente ‛ credute '.
Posizione inconsueta, si diceva; ma forse il segno più evidente dell'originalità dantesca risiede nel modo veramente singolare in cui D. prospetta i servigi che la filosofia può rendere alla fede cristiana. Tradizionalmente si riteneva che la filosofia servisse la fede e svolgesse il proprio ruolo di ancilla theologiae, anzitutto col dimostrare alcuni praeambula fidei (ad esempio l'esistenza di Dio) e poi col chiarificare parzialmente, ma senza mai dimostrarli in senso stretto, i dogmi di fede (v. Y. Congar, art. cit., pp. 382-383; e cfr. P. E. Persson, Sacra Doctrina. Reason and Revelation in Aquinas, Oxford 1970, 151, 225-241).
Tuttavia, secondo l'opinione tradizionale, le prove principali e dirette a sostegno dell'atto di fede non erano, ovviamente, proposizioni di natura filosofica, ma erano quelle azioni di Dio che i teologi usavano definire miracoli. Questo però non soddisfece Dante. Dal suo entusiasmo per la filosofia derivò che egli vedesse proprio in essa il principale, nel senso di più efficace, miracolo a sostegno della fede cristiana; più efficace persino dei miracoli di Cristo, in quanto mentre questi ultimi appartengono al passato, essa è qui, visibile e presente: E la nostra fede aiuta; però che, con ciò sia cosa che principalissimo fondamento de la fede nostra siano miracoli fatti per colui che fu crucifisso... e fatti poi nel nome suo... e molti siano sì ostinati che di quelli miracoli per alcuna nebbia siano dubbiosi, e non possano credere miracolo alcuno sanza visibilmente avere di ciò esperienza; e questa donna sia una cosa visibilmente miraculosa... manifesto è che questa donna, col suo mirabile aspetto, la nostra fede aiuta (III VII 16; cfr. XIV 13-14). E questo aiuto alla fede, la filosofia lo arreca semplicemente con l'essere sé stessa: per il solo fatto di ricondurre la maraviglia di questo mondo naturale a un ordine razionale, la filosofia, infatti, ci aiuta a credere che quanto d'insolito ci è proposto per fede dal cristianesimo, sarà di per sé razionale, e perciò reale, dal punto di vista di un più alto intelletto, cioè Dio (XIV 14). Con ciò la filosofia prende il posto che il cristianesimo tradizionalmente assegnava ai miracoli (v. É. Gilson, D. et la philosophie, Parigi 1939, 119-120; mentre B. Nardi, Nel mondo di D., cit., p. 215, manca in questo caso di notare la singolarità della posizione di Dante).
Monarchia. - Lungo tutto il Convivio l'unione dell'intelletto umano con il proprio ‛ bene ', cioè la verità (Cv II XIII 6, IV XV 11), è presentata come il compimento di un desiderio naturale (I I 1, IV XXII 4-15; cfr. XII 14-18). Persino là dove si tratta del compimento ultimo del desiderio intellettuale nella vita futura (IV XXII 13) l'attenzione è tutta rivolta all'elemento dinamico ‛ interno ' di tale processo. Ma, dal punto di vista dell'ortodossia cristiana, ciò equivaleva a omettere l'essenziale elemento ‛ esterno ', rappresentato dalla grazia divina. Si tratta di quel divino principio " de sursum descendens " che, durante la vita, solleva la mente a una comprensione in qualche modo reale, anche se ancora imperfetta, di cose rivelate da Dio e da noi ricevute per fede (Tomm. Sum. theol. II II 8 1 e 2; cfr. 45 1, 2 e 4; I 1 6) e che, nella vita futura, mediante il lumen gloriae, solleverà ancora la mente fino alla visione diretta della stessa " essentia Dei " (ibid. I 12 5). Queste integrazioni soprannaturali dei poteri naturali della ragione - quali la " gratia illuminans ", i " dona intellectus et sapientiae ", il " lumen gloriae " - sono totalmente ignorate nel Convivio. Ma neppure la Monarchia sopperisce a tale carenza, almeno per quanto attiene all'elevazione della mente mediante la grazia in questa vita, e cioè l'elevazione da cui dipende l'adeguata realizzazione del compito della Teologia.
Nella Monarchia manca qualsiasi affermazione esplicita che valga a modificare o correggere la posizione adottata nel Convivio nei riguardi della natura della scienza divina. Eppure un cambiamento c'è; l'atteggiamento di D. nei confronti della T. non rimane, e non può rimanere, quello di prima. Non può rimanere quello di prima per la semplice ragione che da Mn II X alla fine del III libro D. ragiona da teologo (anche se poco ortodosso) e non semplicemente da filosofo. Per la verità, temi teologici fanno la loro comparsa nello stesso I libro e in II I-IX, con frequenti citazioni bibliche e con l'uso occasionale di nozioni teologiche a sostegno o a chiarimento dell'argomentazione razionale (I XI 14, XII 5-7, XVI 1-2, II IV 1-3, e specialmente VII 4-9). In Mn II X e XI gli argomenti impiegati, oltre che presupporre la fede cristiana del lettore, sono, almeno formalmente, strettamente teologici. Lo stesso vale per gran parte del III libro che, dedicato principalmente alla confutazione della tesi della dipendenza dell'autorità imperiale dalla Chiesa, costituisce in effetti un breve trattato De Ecclesia. È in questa parte che l'argomentare di D. diviene schiettamente, e con quanta sicurezza, teologico. Basti pensare alla teoria del triplice rapporto della Scrittura con la Chiesa (III III 11-17), alla discussione esegetica dei capp. IV-IX, alle affermazioni sulla natura della Chiesa (III IV 14-15, X 7 e 14-17, XIII 3, XIV 3) e alla sintesi conclusiva di XV 7-15, che, proprio in quanto presuppone il concetto della fruitio divini aspectus a cui l'uomo con la propria virtus ascendere non potest, nisi lumine divino adiuta, si presenta non già come filosofia ma come T. vera e propria.
Tuttavia sussiste una certa incoerenza tra il concreto argomentare teologico di D. nel corso di tutto il III libro (e in II XXI) e la teoria generale sulla natura umana qual è affermata in chiusura del trattato. Questa teoria è chiaramente dualistica. L'uomo in quanto partecipe di due nature, una mortale l'altra immortale, ha di fronte a sé due fini (hominis duplex finis... in duo ultima ordinetur, III XV 4 e 6). Verso tali fini egli muove lungo due diversi sentieri, uno illuminato dalla filosofia, l'altro dai documenta spiritualia (principalmente la Bibbia; v. III III 12-13); al primo fine muove mediante l'esercizio delle virtù intellettuali e morali, al secondo mediante quello delle tre virtù teologali (XV 7-8). Ma ciò che D. non nega, né può negare, è che l'anima umana rimanga una in sé stessa: l'anima che è congiunta temporaneamente al corpo mortale è la stessa anima che approderà all'eterno; quindi, se la prima anima è dotata d'intelletto - in quanto deve esercitare le virtù intellettuali -, lo sarà anche la seconda. Tuttavia, stando alle esplicite affermazioni di III XV 7-8, l'intera attività intellettuale di quest'unica anima rationalis - cioè l'acquisizione delle virtù intellettuali - dovrebb'essere limitata a questo mondo, e finalizzata alla beatitudo huius vitae. All'anima in quanto destinata alla vita ultraterrena (e in quanto dotata d'intelletto) non rimane che la nuda fede, una fede a cui non corrisponde alcuna virtù intellettuale, una fede, cioè, priva di Teologia. E ciò sta a significare che la teoria dantesca sulla T. è rimasta esattamente la stessa del Convivio; solo che adesso, dopo tanto concreto argomentare teologico, l'artificialità dell'intera struttura, di cui tale teoria è parte, appare pienamente manifesta. Come può infatti un'anima razionale aver fede, senza ragionare su questa fede, senza cioè argomentare teologicamente? E che sorta di lumen divinum è quello che eccita e stimola l'intelletto solo dopo la morte del corpo? La verità è che lo schema dantesco, con la sua separazione tra vita naturale e soprannaturale dell'anima, risulta assolutamente inaccettabile sia per il cristiano ortodosso che per il senso comune. D. stesso, del resto, oltre averlo rigettato in pratica, finì col non sostenerlo più, a quanto pare, neppure in teoria (v. J. Goudet, D. et la politique, Parigi 1969, 128-134, 165-166).
Commedia. - Nella Commedia il termine T. non compare mai e, nonostante i molti contenuti teologici, le riflessioni esplicite intorno alla scienza sacra - se si eccettua la sola chiara considerazione di Pd XXIV 76-78 - sono ben poche. La nostra ricerca, pertanto, dovrà procedere in gran parte per via indiretta, al fine d'individuare quale idea o teoria della T. sia presente nella Commedia. È chiaro che tale presenza va ricercata principalmente in due ordini di dati: quelli desumibili (1) dalle esposizioni dottrinali e (2) da alcune figure che, con ogni probabilità, andranno intese come simboli della T. o di qualche aspetto di essa (Beatrice, Tommaso, Bernardo, ecc.).
1. Anche laddove parla in qualità di dottore (If VII 70-96, XI 22-111, Pg III 28-45, VI 34-48, XV 46-78, XVII 91-135, XVIII 16-75), Virgilio non parla ovviamente da teologo. Il suo ambito, com'egli stesso riconosce alludendo al più alto insegnamento di Beatrice (Pg XVIII 46-48; cfr. vv. 73-75, VI 46, XV 76-77), è limitato ad alcuni praeambula fidei (cfr. Tomm. Sum. theol. II II 2 10 ad 2). Altrettanto si dica per il discorso di Stazio di Pg XXV 37-107, che, pur andando al di là della veduta di Virgilio (cfr. vv. 31-33), è inteso come discorso filosofico; filosofico nel senso in cui poteva esserlo, ad esempio, il De Unitate intellectus contra averroistas di Tommaso o i corrispondenti capitoli della Summa contra Gentiles (II 56-78) nei quali l'intenzione di Tommaso fu certamente quella di offrire delle dimostrazioni filosofiche che non presupponessero la fede in coloro a cui erano indirizzate. Lo stesso, mutatis mutandis, può dirsi del discorso di Marco Lombardo in Pg XVI.
Di T. vera e propria - cioè di un ragionamento intorno ai misteri di fede partendo da premesse ritenute per fede - si può parlare solo a partire dal Paradiso. Ma neppure qui la differenza è sempre chiara. Alcuni dei discorsi pronunciati da Beatrice sembrano infatti poggiare soltanto su praeambula fidei: è il caso di Pd I 103-141, dove l'ordine cosmico è inteso come partecipazione universale al desiderio di Dio; o di II 64-148, dove lo stesso ordine è considerato come relazione reciproca di materia e spirito (cfr. anche XXVIII 58-78); o di XXIX 10-36, dove la creazione è considerata dal punto di vista metafisico. Anche il discorso di Carlo Martello in VIII 94-148 è, scolasticamente parlando, puramente filosofico; per non dire poi dei lunghi excursus storici dei canti VI e XV-XVI.
Per altro verso, esposizioni teologiche - anche se contrassegnate dall'uso di concetti e argomenti tratti dalla filosofia - sono quelle di Piccarda a proposito della carità dei beati (III 70-87), di Beatrice a proposito della redenzione (VII 52-120), di Tommaso a proposito della ‛ derivazione ' delle creature dalla Trinità (XIII 52-108), di Salomone a proposito della resurrezione della carne (XIV 37-60), dell'aquila a proposito del mistero della divina giustizia (XIX-XX) e, ancora, di Beatrice a proposito della caduta degli angeli ribelli e dell'elevazione alla grazia e alla gloria di quelli rimasti fedeli (XXIX 49-66). Altri importanti luoghi dove l'argomentazione, o esplicitamente o sotto velo figurale, risulta sicuramente teologica, sono quelli sulla fede, sulla speranza e sulla carità dei canti XXIV-XXVI, quello sul lumen gloriae del canto XXX, quello sulla condizione dei beati dei canti XXXI-XXXII e l'intero canto XXXIII.
La conclusione che, a nostro avviso, può desumersi dall'insieme di questi dati, è che la concezione dantesca della T. (e della filosofia, per quel tanto che essa inerisce ai problemi teologici), quale appare nella Commedia, non differisce sostanzialmente da quella espressa da Tommaso in Cont. Gent. I 9, dove viene definito, nelle sue linee generali, il compito del sapiens cristiano. Questo sapiens, afferma Tommaso, deve rivolgersi " circa duplicem veritatem divinorum... ad quarum unam investigatio rationis pertingere potest, alia vero omnem rationis excedit industriam... Ad primae igitur veritatis manifestationem per rationes demonstrativas.... procedendum est. Sed quia tales rationes ad secundam veritatem haberi non possunt, non debet esse ad hoc intentio, ut adversarius rationibus convincatur, sed ut eius rationes... solvantur, quum veritati fidei ratio naturalis contraria esse non potest, ut ostensum est. Singularis vero modus convincendi adversarium contra huiusmodi veritatem, est ex auctoritate Scripturae divinitus confirmata miraculis. Quae enim supra rationem humanam sunt, non credimus, nisi Deo revelante. Sunt tamen, ad huiusmodi veritatem manifestandam, rationes aliquae verisimiles inducendae, ad fidelium quidem exercitium et solatium non autem ad adversarios convincendos; quia ipsa rationum insufficientia eos magis in suo errore confirmaret, dum aestimarent nos, propter tam debiles rationes, veritati fidei consentire ". Il D. della Commedia, a nostro avviso, avrebbe sottoscritto senza esitazione un'affermazione come questa in cui è contenuto, punto per punto, quanto è detto, in una forma o nell'altra, nella Commedia: la chiara distinzione tra fede e ragione, con in più la fiduciosa certezza che, derivando ambedue da una stessa origine, non possono trovarsi in contraddizione (Virgilio e Beatrice); l'intolleranza verso le pseudo-prove dei misteri cristiani (cfr. Pd VII 58-60, XIX 40-57, 79-84, XXIV 70-75); lo sforzo di rendere, nonostante tutto, questi misteri in qualche misura ‛ manifesti ' ai fideles mediante l'impiego di rationes verisimiles o, come dice altrove Tommaso, " ad notificandum per aliquas similitudines ea quae sunt fidei " (In Boet. de Trinitate 2,3); tali similitudines, mentre in un teologo assumono la forma di argomenti per analogia ed ex convenientia, in D., oltre che tale forma, assumono naturalmente anche quella, concreta, di espressioni poetiche (cfr. Pd I 70-72, IV 37-48). In sostanza, mediante il ‛ modo ' che gli era proprio, il modo poetico, il D. della Commedia - specialmente nel Paradiso - attese allo stesso compito che Tommaso aveva indicato ai teologi, compito consistente nel rendere il più possibile ‛ manifesto ' il dogma cristiano, assumendo a servizio della fede ogni capacità della mente umana. Questo non vuol dire che, in tutte le sue ‛ conclusioni ' teologiche, D. coincida con Tommaso; differenze, al riguardo, ce ne sono senz'altro: è riguardo alla ‛ natura ' stessa della T. e al compito del teologo che si può dire invece con sicurezza che il D. della Commedia è tutt'uno, in via di principio, con Tommaso.
Si potrà obiettare che, dal momento che nella Commedia il pensiero teologico di D. è posto in bocca ad anime ormai assunte alla vita eterna, non è legittimo ritenere che egli intenda questa T. come tipo o modello di quella che può venir praticata sulla terra. Ma si tratta di un'obiezione speciosa: tutte le anime beate che si rivolgono a D. in termini di T., lo fanno dopo esser scese, implicitamente (ma vedi però Pd XV 37-48), al livello umano. Difatti esse parlano a D. come se fosse un uomo sulla terra, racchiuso in un corpo mortale. Esse, in pratica, ignorano la distinzione che tale obiezione presuppone. Che la distinzione tra una T. propriamente celeste e un'altra puramente terrena sia irrilevante lo provano ulteriori indizi, e cioè: la funzione di Virgilio che, in qualità di dottore di D., non fa altro che prepararlo a Beatrice mediante una sapienza tratta dall'esperienza umana; il modo in cui il grifon (Cristo) si riflette negli occhi di Beatrice (in Pg XXXI 121-126) or con altri, or con altri reggimenti, a significare certamente il procedimento analitico-discorsivo proprio della T. ‛ terrena ' (cfr. Sum. theol. I 3 3 ad 1); ancora, l'espressione pan de li angeli di Pd II 10-15, che sicuramente designa la T. (e non, come in Cv I I 7, la filosofia), la T. cioè che si studia su questa terra, la quale però, vuol dire D., non è di tipo diverso da quella che verrà esposta nel corso del Paradiso; e infine, l'argomentare teologico di Pd XXIV 61-78, che, sebbene riferito direttamente alla mente di un cristiano che opera sulla terra, può venir altrettanto ben riferito ai discorsi teologici del Paradiso, che sono tutti un silogizzar a partire dal dato di fede.
La chiarezza con cui i vv. 76-78 riferiscono il sillogizzare teologico alla mente del cristiano in statu viatorum risulta di specifica importanza per lo studio del concetto di T. in D.: ciò che è particolarmente notevole è l'accento posto sull'argomentare sillogistico come procedimento conseguente alla fede (E da questa credenza ci convene / silogizzar, vv. 76-77), un accento che ci consente di misurare il mutamento operatosi nel pensiero di D. a partire da Cv II XIV 19. E andrà pure notato che s. Pietro, in Pd XXIV 79-81, passa a confrontare la correttezza dell'esposizione che D. fa della ben nota definizione della fede di Hebr. 11, 1, con i sofismi che, sulla terra, passano per Teologia. Non è chiaro chi siano i cattivi teologi a cui si allude qui; è chiaro però che non dovrebbero comprendere coloro che, sulla scia di Tommaso, si sforzavano per quanto possibile d'integrare la ragione nella fede, pur rispettando la trascendenza di quest'ultima. Altre critiche nei confronti di teologi contemporanei si ritrovano in Pd IX 133-135 (in forma implicita) dov'è biasimato l'abbandono delle fonti della T., l'Evangelio e i dottor magni (cfr. Mn III III 13, Ep XI 16), e in Pd XXIX 70-87 dov'è biasimato l'uso deteriore della filosofia.
L'Ep XIII a Cangrande - presunto che sia autentica - se getta qualche luce sulla T. dell'ultimo D. (specialmente ai §§ 53-62, 77-82), non aggiunge però niente di significativo quanto all'idea che D. aveva di essa.
2. Non è questa la sede per discutere la funzione più o meno simbolica dei personaggi nella Commedia. Nellà misura in cui la T. vi è coinvolta, tale funzione sembra appartenere, in modi e gradi diversi, a Beatrice, ad alcuni spiriti sapienti del cielo del Sole (Pd X-XIV) e a s. Bernardo.
Premesso che l'estensore di questa voce accetta l'interpretazione che della figura di Beatrice ha dato F. Mazzoni nella sua lettura del canto XXXI del Purgatorio (Lect. Scaligera II 1139-1184), diremo che Beatrice non è un'allegoria, ma un'anima umana realmente vivente, che sta godendo della gloria celeste ed è pertanto colma della conoscenza di Dio in ogni suo aspetto. Da questo punto di vista la sua condizione assomiglia a quella di tutti gli altri beati. Ciò che fa di lei il simbolo più evidente della T. nella Commedia è solo il suo particolare e duplice rapporto con D.: anzitutto, perché fu Beatrice, dalla Vita Nuova in poi, a incarnare in modo tutto particolare l'interesse di D. per la vita eterna e il soprannaturale, e, in secondo luogo, perché ora, nello svolgimento narrativo del poema, è lei la guida che conduce D. nel Paradiso. Se il primo aspetto è predominante negli ultimi canti del Purgatorio, il secondo lo è lungo tutto il Paradiso. Tratto essenziale di questo secondo aspetto è lo stretto rapporto che accomuna Beatrice tanto a Cristo che a D., un rapporto, va notato, di natura ‛ conoscitiva '. È infatti nei suoi occhi e nel suo sorriso che D. vede riflettersi Cristo (Pg XXXI 121-145; cfr. Pd XXIII 1-72); Beatrice, per così dire, funge da medium nel quale D. contempla il Logos fattosi carne. Ed è in conseguenza di ciò che, nella sua veste di guida di D., essa impartisce a più riprese degl'insegnamenti al poeta (Pd I, II, IV, VII, XXVIII-XXIX, XXX).
Anche se non tutti questi insegnamenti sono di natura squisitamente teologica, purtuttavia Beatrice, nell'insieme, costituisce il personaggio singolo che con maggior evidenza rappresenta l'idea della T. nella Commedia (v. in particolare Pg XXXI 121-126, Pd IV 118-142, V 1-12, VII 19-24, XXVIII 4-12, XXIX 1-9).
Le due corone di sapienti che, nel cielo del Sole, circondano D. e Beatrice, comprendono in tutto dodici personaggi che sembra stiano a rappresentare diversi aspetti della T.: Tommaso e Bonaventura, Alberto Magno, Pietro Lombardo, Anselmo di Aosta e Dionigi l'Areopagita, Riccardo e Ugo di San Vittore, Crisostomo, Beda, Rabano Mauro e Gioacchino da Fiore, ai quali forse si può aggiungere Salomone, in virtù del discorso da lui pronunciato in Pd XIV 37-60. Ma, qui, il rappresentante di maggior spicco della T. è certamente Tommaso, non soltanto in conseguenza del grande discorso di XIII 52-141, ma anche in conseguenza dell'elevato tono ‛ magistrale ' delle sue parole in X 82-138.
Quanto a s. Bernardo, va notato che proprio la sua funzione, analoga e consecutiva a quella di Beatrice, ci consente di considerarlo come il simbolo di un determinato aspetto della T., quello cioè della T. mistica, posta alle soglie della contemplazione finale, dopo l'ascesi paradisiaca. La T. mistica, infatti, in quanto ha per oggetto la teoria e la pratica della vita contemplativa (Bernardo è colui che 'n questo mondo, / contemplando, gustò di questa pace, Pd XXXI 110-111) è la via con cui s'inizia l'ultimo grado della perfezione cristiana (Acciò che tu assommi / perfettamente... il tuo cammino..., vv. 94-95) e che consente, in virtù di una grazia straordinaria superaddita alle capacità naturali (di qui l'invocazione alla Vergine di XXXIII 1-39; per la mariologia di Bernardo, cfr. Dictionnaire de spiritualité, I, Parigi 1937, coll. 1485 ss.), di accedere all'unione mistica con Dio, in un atto soprannaturale di contemplazione semplice e intuitiva (" simplex intuitus veritatis ", Tomm. Sum. theol. II II 180 1 e 6; e cfr. Pd XXXIII 55 ss.).
In tal senso Bernardo, una volta sostituita Beatrice nel XXXI canto, si accinge a preparare D. alla visione finale, intercedendo in suo nome presso la Vergine affinché ottenga, per il pellegrino, questa grazia conclusiva. In tal modo due aspetti della T. sembrano in particolare affiorare nella figura del Bernardo dantesco: quello del suo fine, che è (o dovrebb'essere) l'unione con Dio nella visione estatica, e quello del raggiungimento di questo fine, che consiste essenzialmente in una grazia de sursum descendens, come esaudimento di una preghiera.
Uno studio più attento di queste varie incarnazioni simboliche della T. nella Commedia, se potrebbe aggiungere profondità e contenuto alle considerazioni esposte nella prima parte della voce, non dovrebbe, così almeno crediamo, variare nella sostanza le conclusioni a cui esse ci hanno condotto.
Bibl. - Oltre le opere citate nel corso della voce, per un chiarimento sui vari aspetti dell'argomento trattato saranno da vedere: E. Moore, Studies In D., Second Series, Oxford 1899, Rist., Ibid. 1968, 1-161; M. D. Chenu, La théologie comme science au XIIIe Siècle, Parigi 1957³; Dictionnaire de spiritualite, A C. Di M. Viller, F. Cavallero, J. De Guibert, I, ibid. 1937, 1454-1499; J. Bonnefoy, La nature de la théologie selon saint Thomas d'Aquin, ibid. 1939; M. Grabmann, Die theologische Erkenntnis und Einleitungslehre des hl. Thomas von Aquin auf Grund Seiner Schrift ‛ In Boethium de Trin. '. Im Zusammenhang der Scholastik des 13 und beginnenden 14 Jahrhunderts dargestellt (" Thomistische Studien " 4), Friburgo (Svizzera) 1948; B. Nardi, Filosofia e teologia ai tempi di D. in rapporto al pensiero del Poeta, in Atti Congresso internazionale di studi danteschi, Firenze 1965, 79-175 (rist. in Saggi e note di critica dantesca, Milano-Napoli 1966, 3-109); G.G. Meersseman, D. come teologo, ibid., 177-195; E. Guidubaldi, D. europeo, III: Poema sacro come esperienza mistica, Firenze 1968.