Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Folengo è Il più famoso rappresentante di quell’“espressionismo” maccheronico e dialettale che nel corso del Cinquecento si esprime in numerose opere parodistiche, dove l’uso di un latino grossolano mescolato al volgare porta a esiti fortemente dissacratori anche dei contenuti della letteratura ufficiale, sempre più irrigidita dalla repressione ideologica controriformistica e dalla selezione stilistica promossa dal Bembo. Così nella sua opera principale, le Maccheronee, Folengo affianca alla parodia dei temi e delle strutture linguistiche dei poemi classici la valorizzazione di un immaginario folclorico, con streghe e magie, di riti e usanze contadini, di proverbi e massime di saggezza popolare.
La linea espressionistica
Nel corso del Cinquecento si assiste a un progressivo irrigidimento nella letteratura. Convergono infatti la stretta ideologica dovuta alla reazione controriformistica e la canonizzazione linguistica e in generale formale e stilistica promossa dalla riforma bembiana. Ciò da un lato provoca una minor disponibilità di temi e di strutture, e stringe il cerchio delle libertà concessa alla iniziativa letteraria dei singoli, ma dall’altro provvede a indicarne con maggior chiarezza l’alternativa, la scelta cioè di una strada esplicitamente divergente, o per temi (si pensi alla letteratura bernesca), o per lingua (la produzione dialettale su tutte). Per tutte queste manifestazioni si parla di espressionismo (o espressivismo), un termine che in origine designava un movimento artistico del primo Novecento caratterizzato dalla ribellione ai canoni classici e dalla ricerca di oltranza espressiva, ma che oggi, a partire da un famoso saggio di Gianfranco Contini, viene utilizzato per indicare una linea che va dalle prime manifestazioni cinquecentesche (quando l’adozione di canoni non classicistici non può essere più considerata spontanea ma invece “riflessa”: ossia “consapevole”, prodotta da una precisa scelta anticlassicistica) e giunge a Gadda e ai suoi continuatori.
Il latino maccheronico
In questo panorama la lingua maccheronica adottata da Folengo rappresenta uno degli esiti più originali e innovativi. Una lingua mescidata, mista di latino e volgare, è testimoniata in numerose opere fine quattrocentesche-primo cinquecentesche, soprattutto di ambito goliardico, dove la commistione fra termini tecnici (giuridici o ecclesiastici) e lessico volgare, ricco di espressioni oscene e scatologiche, è consapevolmente attuata a fini umoristici e satirici. In particolare tale produzione caratterizza l’ambiente universitario padovano, con il quale il Folengo ha modo di venire in contatto negli anni della sua permanenza presso il monastero di Santa Giustina di Padova (1513-1516 ca.). Padovani sono infatti certamente l’anonimo autore del Nobile Vigonze opus, e Tifi Odasi autore di una Macharonea, e esplicitamente citato da Folengo come suo diretto precursore. Ma ancora in questi autori, che rivelano certo una maggiore ambizione artistica rispetto ai predecessori, il maccheronico si configura a un livello artistico piuttosto rozzo, realizzandosi in sostanza nella semplice giustapposizione di termini latini e volgari, col cui contrasto si genera l’effetto di straniamento e di parodia. Ben diversa la ricetta folenghiana che prevede una vasta gamma di interferenze fra le due lingue, ottenuta non soltanto con l’immissione nel latino di lessico e di sintassi volgari e dialettali, ma anche con una continua mescolanza all’interno di ogni singola parola (con deformazione morfologica, suffissale ecc.), ogni singolo periodo, ogni singolo verso, con diversa dosatura a seconda dell’effetto stilistico che si vuole ottenere. Non a caso la forma linguistica sarà oggetto da parte del Folengo di una strenua ricerca di equilibrio, che darà esiti diversi nelle varie redazioni della sua opera.
L’ironia fagocitante
A questa apertura linguistica corrisponde naturalmente una pari apertura tematica. Escluse infatti le manifestazioni di “latino grosso” irriflesso (cioè involontario) o mirato a fini di comunicazione, come poteva essere per le prediche, la scelta di un linguaggio di questo genere mostra di principio una volontà parodistica, che può esaurirsi in una semplice invettiva goliardica o toccare invece temi più seri e importanti e addirittura posizioni ideologicamente eretiche, mascherate sotto l’apparente levità e ironia. Su questo punto di fatti si presentano le maggiori divergenze nella interpretazione della critica. Superata ormai l’ingenua lettura di tipo romantico (e ancora di Francesco De Sanctis, che pure contribuì al recupero critico di Folengo) che vedeva nell’artista mantovano l’interprete di una letteratura spontanea e sentimentalmente vicina al mondo popolare, resta però ancora in discussione la corretta interpretazione dei testi folenghiani almeno a due livelli principali: la sua posizione nei confronti della questione della lingua, centro del dibattito letterario italiano nel Cinquecento, e quella ideologico-religiosa, data la forte satira presente nelle sue opere nei riguardi della corruzione del clero. Per quanto riguarda la lingua in particolare si assiste a letture estremamente divergenti: se cioè l’opzione maccheronica vada letta come opposizione alla soluzione della lingua proposta dal Bembo (l’adozione cioè di un canone ristrettissimo, vincolante tanto a livello formale quanto tematico a fronte cui si contrappone l’estrema apertura del maccheronico), o se invece essa vada misurata piuttosto in riferimento al latino (cui in effetti è più strettamente imparentata) e nasca come coerente e perseguita satira appunto del “latino grosso”, ossia di quelle forme involontarie di commistione presenti tanto nelle prediche quanto negli atti notarili e in parte in produzione letteraria latina di livello non eccelso. Così opposte letture si devono al procedimento che Segre ha qualificato come “ironia fagocitante”: una parodia che investe ogni aspetto dell’opera e che “autoavvolgendosi” su se stessa rende difficile percepire con esattezza gli obiettivi polemici e la eventuale presenza di un programma alternativo coerente. Una posizione più equilibrata porterebbe tuttavia a ritenere la scelta del maccheronico come più confacente al gusto poetico dell’autore che, senza con questo voler dare alcuna indicazione normativa, con ciò stesso dimostra la sua estraneità alla poetica selettiva e astratta del classicismo cinquecentesco.
Le opere italiane e religiose
Le difficoltà interpretative che abbiamo elencato nascono in parte anche dalla natura a sua volta complessa ed enigmatica delle altre opere, nonché dalla mancanza di precise notizie sui contatti biografici e culturali di Folengo. Nato nel 1491 a Mantova da una famiglia della piccola nobiltà decaduta, Teofilo (ma il nome di battesimo è Gerolamo) entra a 16 anni nell’Ordine benedettino al quale apparterrà fino alla morte (nel 1544 a Campese di Bassano), a eccezione di un breve periodo, tra il ’25 e il ’34 quando, espulso per motivi non chiari insieme al fratello Giambattista, si trasferisce a Venezia dove si mantiene prima attraverso l’attività editoriale poi entrando a servizio di Camillo Orsini, capitano della Repubblica. Qui pubblica nel ’26 due opere in volgare italiano, l’Orlandino (una parodia del poema cavalleresco dedicato agli amori di Milone e Berta e all’infanzia del figlio Orlando), e Il Caos del Triperuno un testo allegorico di difficilissima interpretazione. Riammesso nell’ordine nel ’34 trascorre tre anni di vita eremitica a San Pietro di Crapolla in Campania, e qui scrive Janus e il Varius poema e il poema sacro L’umanità del figliuolo di Dio, in parte probabilmente per fare riparazione della vis polemica e trasgressiva delle opere precedenti. Agli anni successivi, trascorsi perlopiù in Sicilia, appartengono ancora opere di edificazione in latino e in volgare: un poema sacro in terzine La Palermitana, la sacra rappresentazione Atto della Pinta e il poema latino rimasto incompiuto Hagiomachia (vite di martiri).
Le Maccheronee
Teofilo Folengo
Baldus
Phantasia mihi plus quam phantastica venit
historiam Baldi grassis cantare Camoenis.
Altisonam cuius phamam, nomenque gaiardum
terra tremat, baratrumque metu sibi cagat adossum.
Sed prius altorium vestrum chiamare bisognat,
o macaroneam Musae quae funditis artem.
An poterit passare maris mea gundola scoios,
quam recomandatam non vester aiuttus habebit?
Non mihi Melpomene, mihi non menchiona Thalia,
non Phoebus grattans chitarrinum carmina dictent;
panzae namque meae quando ventralia penso,
non facit ad nostram Parnassi chiacchiara pivam.
Pancificae tantum Musae, doctaeque sorellae,
Gosa, Comina, Striax, Mafelinaque, Togna, Pedrala,
imboccare suum veniant macarone poëtam,
dentque polentarum vel quinque vel octo cadinos.
Hae sunt divae illae grassae, nymphaeque colantes,
albergum quarum, regio, propiusque terenus
clauditur in quodam mundi cantone remosso,
quem spagnolorum nondum garavella catavit.
Grandis ibi ad scarpas lunae montagna levatur,
quam smisurato si quis paragonat Olympo
collinam potius quam montem dicat Olympum.
Non ibi caucaseae cornae, non schena Marocchi,
non solpharinos spudans mons Aetna brusores,
Bergama non petras cavat hinc montagna rodondas,
quas pirlare vides blavam masinante molino:
at nos de tenero, de duro, deque mezano
formaio factas illinc passavimus Alpes.
Credite, quod giuro, neque solam dire bosiam
possem, per quantos abscondit terra tesoros:
illic ad bassum currunt cava flumina brodae,
quae lagum suppae generant, pelagumque guacetti.
Hic de materia tortarum mille videntur
ire redire rates, barchae, grippique ladini,
in quibus exercent lazzos et retia Musae,
retia salsizzis, vitulique cusita busecchis,
piscantes gnoccos, fritolas, gialdasque tomaclas.
Res tamen obscura est, quando lagus ille travaiat,
turbatisque undis coeli solaria bagnat.
T. Folengo, Baldus, a cura di Emilio Faccioli, Torino, Einaudi, 1989
Certo l’opera cui è legata la fama e la gloria di Folengo sono le Maccheronee, soggette da parte dell’autore a un lungo lavoro di rielaborazione: pubblicate per la prima volta a Venezia nel 1517 (redazione Paganini) sono infatti ristampate in forma notevolmente variata nel 1521 (redazione Toscolana), ancora intorno al 1535 (redazione Cipadense) e infine postume nel 1552 (redazione Vigaso Cocaio). Fin dalla loro struttura esterna le Maccheronee mostrano l’impegno ambizioso e per nulla estemporaneo dell’autore (che si presenta sotto lo pseudonimo di Merlin Cocai), nella ripresa parodica di tutti i generi maggiori della tradizione omerica e virgiliana. Nella forma definitiva infatti sono costituite da Baldus, poema epico in esametri equivalente all’Eneide, Zanitonella, una raccolta di 17 componimenti lirici e eglogistici dedicati all’amore tra i due contadini Zanina e Tonello, corrispettivo delle Bucoliche, Moscheide poema eroicomico in distici elegiaci che narra, sul modello della Batracomiomachia pseudo-omerica, la guerra tra mosche e formiche, e infine una serie di Epigrammata, che riprendono le forme dell’Appendix Virgiliana, ossia di quei testi che nelle edizioni quattro-cinquecentesche venivano raccolte in appendice al corpus di Virgilio. Il tutto preceduto da una corposa presentazione de vita et moribus come era d’uso appunto nelle raccolte dei classici. In questo modo l’autore intende cioè mostrare le potenzialità del linguaggio maccheronico, capace di svariare attraverso tutti i registri della maggior tradizione letteraria.
Il Baldus
Il testo più ambizioso delle Maccheronee è rappresentato dal poema epico Baldus, così intitolato dal nome del suo protagonista, il giovane Baldo, figlio di Baldovina, figlia del re di Francia, e del cavaliere Guidone di Montalbano. Baldo è l’erede della tipologia dell’eroe dei poemi cavallereschi, di cui vengono seguite la progressiva avventura formativa dall’infanzia a Cipada (cui è dedicata tutta la prima parte del poema, nella versione definitiva i capp. I-XI) dove si accompagna a una eterogenea combriccola costituita dall’amico furfante Cingar, dal gigante Fracasso e dal mezzo-uomo e mezzo-cane Falchetto, alle gesta successive che lo condurranno attraverso una serie di peripezie addirittura a sfidare il regno ultraterreno, per concludere il proprio percorso all’interno di una allegorica zucca dove sono rinchiusi tutti i facitori di fandonie, gli astrologhi insieme ai poeti fra cui lo stesso Merlin Cocai. Il poema, aperto con l’invocazione alla Phantasia, si conclude quindi circolarmente lasciando aperta la possibile interpretazione del suo significato più profondo. Il tutto in un insieme di avventure fantastiche e paradossali in cui si assommano le memorie più colte della tradizione epica latina e di quella volgare con la ripresa di temi popolari e folclorici, sottoposti alla stessa mescidanza che parallelamente investe il latino e il volgare. Notevole l’incremento che il poema subisce nel corso delle diverse edizioni, passando dai 17 libri della Paganini ai 25 della redazione definitiva con importanti ristrutturazioni che non soltanto dilatano ma in parte anche correggono e riformulano le direttive poetiche dell’opera. Sul piano della lingua anzitutto si passa dal maccheronico ancora acerbo, più vicino ai modelli padovani, della prima edizione, agli esiti più oltranzistici e sperimentali della Toscolana (per la quale si è parlato di “maccheronico fiammeggiante”), alla castigatezza e al ritorno all’ordine della Cipadense, con inserti addirittura di interi brani in latino umanisticamente corretto, infine alla soluzione di mediazione e sintesi della Vigaso Cocaio. Parallelamente dal punto di vista contenutistico si assiste a un potenziamento della struttura e della distribuzione narrativa dell’opera e insieme alla ricerca di una maggior coerenza e tenuta dei personaggi, su tutti il protagonista, che pur conservando i tratti umoristici e oltranzistici presenti fin dalla prima stesura (soprattutto nella prima parte Baldo è certamente eroe atipico, beone e prepotente) si arricchisce nelle revisioni successive di una dimensione eroica e morale ben maggiore, in taluni casi addirittura ricalcata su modelli cristologici, quasi a suggerire infine una lettura del testo come raffigurazione allegorica dell’esperienza umana.
Elementi folclorici e carnevaleschi
Al di là di quanto si è detto sulla letterarietà dell’operazione folenghiana, e dunque sulla sua posizione colta e riflessa, e non priva di satirico e spesso feroce distacco dal mondo rusticano, è certo però che nelle Maccheronee vengono usufruiti e portati a centralità temi appartenenti alla tradizione popolare, da riti e usanze contadine (le feste, i balli, il cibo, la celebrazione della sensualità corporea), a proverbi e massime di saggezza popolare, a motivi appartenenti all’immaginario folclorico, come ad esempio streghe e magie. Tutto ciò contribuisce alla godibilità del testo che innesta su schemi e topoi di origine letteraria, ricavati tanto dalla tradizione classica quanto da quella volgare sia nelle sue manifestazioni più colte (le riprese dantesche ad esempio) sia in quelle più popolari (forti sono gli echi ad esempio di certa produzione canterina, ma non mancano anche precisi agganci al Morgante del Pulci, all’Innamorato del Boiardo e soprattutto al Furioso ariostesco), tratti di robusto realismo che offrono interessanti elementi di studio anche dal punto di vista della cultura materiale. Non a caso il maggior continuatore dell’esperienza folenghiana, a lungo negletta in Italia, sarà François Rabelais che offre con il Gargantua et Pantagruel la più alta espressione artistica di quella che Bachtin ha qualificato come la letteratura carnevalesca.