TEODOSIO I il Grande, imperatore
Imperatore romano dal 19 gennaio 379 al 17 gennaio 395. Figlio del magister equitum Teodosio (v.), nacque nella Spagna, a Cauca, secondo il Seeck l'11 gennaio 347. Sposò prima Elia Flaccilla che gli diede Arcadio, Pulcheria e Onorio, poi Galla, figlia di Valentiniano I, dalla quale ebbe Galla Placidia.
Partecipò alle spedizioni del padre in Europa; si distinse come dux della Mesia Prima. Dopo la disgrazia del padre si era ritirato a vita privata nel suo paese natio, quando in seguito al disastro di Adrianopoli Graziano chiese la sua cooperazione per la difesa dell'impero e lo nominò magister militum. Dopo la vittoria riportata da T. sui Sarmati in Pannonia alla fine del 378, Graziano lo elevò a Sirmio il 19 gennaio 379 alla dignità di Augusto, affidandogli l'Oriente, a cui fu unito temporaneamente l'Illirico Orientale. Nel 379 T. combatté contro i Goti prima insieme a Graziano, ottenendo alcuni successi; recatosi il suo collega sul Reno, attese nel suo quartier generale di Tessalonica a rafforzare l'esercito principalmente con arruolamenti fatti fra i barbari; verso la fine dell'anno era riuscito a respingere Goti, Alani e Unni verso il Danubio. Ma nel 380 i Visigoti di Fritigerno, penetrati nella Macedonia, sconfiggevano gravemente T. e si davano a saccheggiare l'intera diocesi macedonica. T., ricevuti da Graziano rinforzi comandati dai generali franchi Bautone e Arbogaste, li costringeva a ritirarsi di nuovo al dilà dei Balcani. Ritornato a Tessalonica, dopo essersi incontrato a Sirmio con Graziano, cadde gravemente ammalato nell'autunno del 380 (secondo altre notizie la malattia lo avrebbe colpito nell'inverno 379-380). Nel novembre trasferì la sua residenza a Costantinopoli, dove entrò in trionfo il 24 del mese. Qui l'11 gennaio del 381 egli accolse coi più grandi onori l'antico rivale di Fritigerno Atanarico, rifugiatosi presso di lui; gli uomini di Atanarico, alla sua morte, avvenuta 14 giorni dopo, passarono al servizio dell'imperatore. Il trattamento fatto ad Atanarico e ai barbari messisi agli ordini di T. esercitò l'impressione desiderata sui Visigoti di Fritigerno, coi quali dopo lunghe trattative condotte da Saturnino fu concluso a Costantinopoli un trattato di pace (3 ottobre 382): essi ebbero domicilio nella parte della diocesi tracica situata a nord dei Balcani, T. garantì loro piena autonomia, esenzione dalle tasse e alte paghe; in contraccambio i barbari s'impegnavano a difendere la frontiera dalle incursioni nemiche e a partecipare come federati sotto i proprî capi alle guerre dell'imperatore. T. ristabiliva così la tranquillità nella Penisola Balcanica se pure non pienamente, come provano avvenimenti posteriori, e accresceva di molto gli effettivi dell'esercito, però con gravi conseguenze di ordine militare e finanziario.
Nei primi anni del suo governo egli svolse un'attività molto importante nel campo religioso. Adottò la politica proclamata da Graziano nel 379 e dichiarò guerra all'arianesimo fino allora vittorioso in Oriente, facendosi campione dell'ortodossia nicena: con l'editto di Tessalonica del 28 febbraio 380 ordinava che si seguisse il simbolo di Nicea, secondo l'insegnamento dei vescovi Damaso di Roma e Pietro d'Alessandria. Riconduceva così l'Oriente all'unità di confessione con l'Occidente sul terreno di Nicea. Quanto ai rapporti fra Stato e Chiesa T. seguì la strada di Costantino, subordinando la Chiesa alla sua autorità.
Infatti nel dare esecuzione alla condanna dell'arianesimo pronunciata dal concilio di Costantinopoli del 381 (importantissimo anche perché tolse alla chiesa di Alessandria il primo posto fra quelle orientali, assegnandolo alla sede di Costantinopoli, il cui vescovo doveva venire nella cristianità subito dopo il papa), T. usava una forma con cui veniva in sostanza ad affermare che spettava in ultima istanza all'imperatore decidere sull'ortodossia dei vescovi: era la Chiesa di stato di Costantino che appariva in piena luce (Caspar). La sua politica ecclesiastica provocava un urto con l'episcopato occidentale, a cui T. non volle permettere di intervenire nelle questioni delle chiese orientali. Invano S. Ambrogio protestò contro la deliberazione presa dal concilio di Costantinopoli che nessun vescovo doveva ingerirsi negli affari ecclesiastici di altre diocesi dell'impero diversa da quella dove aveva la sua sede e chiese che la decisione definitiva per le sedi vescovili di Costantinopoli e di Antiochia fosse riservata a un concilio ecumenico da tenersi a Roma. L'episcopato orientale, riunito separatamente da quello occidentale in un concilio a Costantinopoli nel 382, confermava quanto era stato deciso l'anno precedente sulla competenza dei vescovi e la scelta di Nectario per Costantinopoli, di Flaviano per Antiochia. Nel 383 T. invitò a un nuovo concilio, convocato a Costantinopoli, anche i vescovi eretici e ne riconfermò in persona la condanna. La sua opera dal 381 in poi fu diretta instancabilmente alla soppressione dell'eresia.
Gravi misure prese contro i manichei e gli apostati dal cristianesimo. Quanto al paganesimo si limitò dapprincipio a interdire i sacrifici cruenti (25 dicembre 381).
Nel 383 avveniva in Occidente l'usurpazione di Magno Massimo e la conseguente uccisione di Graziano. T., ricevuta nell'inverno dal 383 al 384 un'ambasceria di Massimo, accettò le sue richieste e lo riconobbe come imperatore, ottenendo che si accontentasse della Britannia, delle Gallie e della Spagna, mentre la parte centrale dell'impero doveva restare a Valentiniano II, di cui si considerava ormai il protettore. Alcuni fra i moderni sostengono che T. fosse fin da principio d'accordo con l'usurpatore, ma la condotta di T. può essere spiegata anche col fatto ch'egli voleva evitare una guerra che poteva riuscirgli pericolosa in quel momento (fra l'altro la sua attenzione doveva volgersi alla Persia, dove proprio in quel tempo era salito sul trono Sapore III, la cui politica era ancora un'incognita).
La situazione interna negli anni che precedettero l'urto decisivo con Massimo lasciò molto a desiderare. Irritati erano i pagani ancora numerosi in Oriente, di nuovo colpiti da una legge del 25 maggio 385 che ripeteva aggravandone le pene contro i trasgressori del divieto del 381, e la loro ostilità al governo crebbe dopo che ebbe assunto nell'inverno 383-384 la prefettura del pretorio Materno Cinegio, il quale durante il viaggio intrapreso per dare esecuzione alla legge del 385, anche istigato dalla moglie, favorì e decretò la chiusura e perfino la distruzione di templi, oltrepassando i limiti della disposizione legislativa.
La pressione fiscale produceva un crescente malcontento, che trovò la sua più chiara manifestazione nella violenta rivolta scoppiata ad Antiochia nel gennaio del 387. Il movimento fu represso dalle autorità locali; presso gl'inviati dell'imperatore Cesario e Ellebico intercedette in favore della sua patria Libanio; T., pregato dal patriarca Flaviano, recatosi personalmente a Costantinopoli, condonò alla città la punizione già decretata contro di essa. Avvenimento notevole e caratteristico per la politica di T. verso i barbari fu quello che si svolse presso la foce del Danubio nel 386. Una turba di Ostrogoti guidati da Odoteo, che avevano chiesto di essere accolti nel territorio dell'Impero, fu per la maggior parte distrutta mediante uno stratagemma del magister militum Promoto; T., da parte sua diede libertà ai prigionieri e concesse loro di stabilirsi in Asia Minore.
Nella politica estera T. ottenne un successo, se pure non splendido, riuscendo a stabilire rapporti amichevoli con la Persia e a risolvere come meglio era possibile l'annosa questione armena: egli strinse, verosimilmente nel 387, con Sapore III un trattato di pace e di amicizia, per il quale l'Armenia era divisa in due sfere di influenza, cadendo così per poco più di un quinto sotto la sovranità romana. Le relazioni con Massimo rimasero immutate fino al 387, quando Massimo s'impadronì dell'Italia e Giustina col figlio Valentiniano II fuggiva a Tessalonica, chiedendo aiuto a T. Dapprima non si venne a una rottura aperta; T. si limitò a tenere a bada una ambasceria inviatagli da Massimo; ma un segno del suo atteggiamento è dato dal matrimonio che egli celebrò nel 387 a Tessalonica con Galla, sorella di Valentiniano (la prima moglie era morta l'anno precedente). Passò ancora quasi un anno dall'occupazione dell'Italia prima che scoppiassero le ostilità. L'offensiva fu iniziata da Massimo che fece avanzare le sue truppe nell'Illirico fino a Siscia; egli tentò di indebolire le forze teodosiane con l'indurre alla ribellione i barbari federati, ma con poco successo, perché i barbari solo in parte gli diedero ascolto e, scoperti, furono massacrati in gran numero. T., che al principio del 388 aveva nominato prefetto del pretorio d'Oriente, al posto del morto Cinegio, il pagano Flavio Eutolmio Taziano, lasciato a Costantinopoli il figlio Arcadio, elevato alla dignità di Augusto l'11 gennaio del 383, si mise in movimento nel giugno 388 verso la Sava con un esercito composto principalmente di barbari; comandante della fanteria era Timasio, della cavalleria Promoto. Egli aveva inviato una parte delle sue forze, sotto il comando nominale di Valentiniano, per mare alla volta dell'Italia e tale mossa riuscì di grave danno a Massimo. Durante la marcia promulgò a Stobi il 14 giugno una legge con la quale annullava i favori concessi agli ariani nel suo dominio da Valentiniano. T. mise in fuga l'esercito di Massimo nel primo scontro avvenuto presso Siscia e lo sconfisse pienamente nella battaglia decisiva presso Petovio; poi con una rapida marcia giunse dinnanzi ad Aquileia. Massimo, arresosi, fu costretto da T. a ritrattare l'affermazione che si era sollevato d'accordo con lui e fu poi trascinato dai soldati al supplizio che avvenne il 28 agosto 388. T. inviò nella Gallia Arbogaste, che ancor prima della fine dell'anno vinceva le ultime resistenze e provocava la morte del figlio di Massimo, Flavio Vittore. In Africa Gildone, che era passato dalla parte di Massimo, si sottomise e fu lasciato nella sua carica. T. era ormai il vero signore dell'Impero, quantunque questo dipendesse nominalmente da tre Augusti. Mandò Valentiniano in Gallia, ponendogli accanto Arbogaste, nelle cui mani stava effettivamente il potere.
T. si fermò in Italia fino al 391. Tale periodo della sua vita è molto notevole per la politica da lui svolta e particolarmente per i rapporti che ebbe con S. Ambrogio, con cui venne in conflitto due volte. La prima per l'affare di Callinico. Siccome i cristiani si erano abbandonati in questa importante città sull'Eufrate ad eccessi soprattutto contro i Giudei, incendiandone la sinagoga, nell'autunno del 388 T. ordinò al comes d'Oriente che oltre a punire i colpevoli imponesse al vescovo, istigatore del movimento, di ricostruire a sue spese la sinagoga.
Intervenne allora S. Ambrogio il quale non si accontentò nemmeno della mitigazione apportata da T. al suo ordine con l'escludere l'umiliazione del vescovo, ma chiese e ottenne che l'imperatore revocasse completamente i suoi ordini. T., dopo una scena per lui umiliante, svoltasi nella basilica di Milano, cedette per evitare una crisi, pericolosa in quel tempo in cui la sua autorità non si era ancora consolidata in Occidente.
Nel 389 T. si recò a Roma col figlio Onorio e vi sostò dal 13 giugno al 30 agosto, visitando i monumenti antichi e rendendo omaggio al senato. Il contatto con la società pagana non fu certo senza influenza sull'animo di T. il quale d'altra parte doveva essere irritato per le pretese degli ecclesiastici d'intromettersi negli affari dello Stato. Ma più che per questo fu per opportunismo politico (egli credette necessario nel periodo in cui andava stabilendo la sua signoria in Occidente guadagnarsi il favore dell'elemento pagano) che onorò eminenti personaggi pagani, nominando nel 390 Virio Nicomaco Flaviano prefetto del pretorio d'Illirico, Italia e Africa, e affidando il consolato del 391 a Taziano e all'ex-prefetto di Roma Simmaco. Tuttavia oppose un rifiuto, che non è proprio necessario attribuire all'influenza di S. Ambrogio, alla richiesta, presentatagli a Milano da una delegazione del senato, perché fossero abolite le misure prese da Graziano contro il culto pagano. Nel 390 in difesa degl'interessi statali promulgava leggi sfavorevoli alla Chiesa; fra esse quella del 2 settembre che vietava ai monaci la dimora nelle città. Lo stesso anno vide il nuovo e principale conflitto con S. Ambrogio.
Lo determinò la terribile strage di Tessalonica, dove il popolo fu massacrato nel circo, in seguito all'ordine dato dall'imperatore, preso da uno dei suoi impeti di collera, di reprimere severamente un movimento sedizioso scoppiato nella città. Le vicende che ne seguirono non possono essere ricostruite con assoluta certezza nel loro svolgimento. Alla notizia dell'eccidio, che un contrordine di T., giunto troppo tardi, non aveva potuto impedire, S. Ambrogio mandò all'imperatore una lettera, nella quale, pur usando molto tatto, lo invitava alla penitenza e gli diceva che finché non l'avesse fatta non avrebbe potuto celebrare il Santo Sacrificio alla sua presenza. Non è sicuro se T. cedette subito o se invece resistette per un certo tempo all'ingiunzione del vescovo. Sembra che tentasse anche di far recedere S. Ambrogio dal suo atteggiamento per mezzo di Rufino, i cui sforzi però per arrivare ad un compromesso fallirono. Alla fine in T. il rimorso del peccatore ebbe il sopravvento sull'orgoglio del monarca: egli fece nella basilica di Milano pubblica ammenda della sua colpa e fu quindi riammesso nella comunità dei fedeli nel Natale del 390. L'episodio, anche spoglio di quei colori con cui la leggenda lo ha abbellito, anche se non ebbe il significato politico che gli si è voluto attribuire, resta sempre di grande importanza: da una parte il sovrano finì col riconoscere la superiorità della legge di Dio, dall'altra il sacerdote affermò il suo diritto di punire e assolvere lo stesso imperatore.
La vittoria di S. Ambrogio è ritenuta da molti decisiva e si considera dovuta alla sua influenza la legislazione religiosa di T. del 391 e anche del 392. Certo l'accordo fra lui e l'imperatore divenne stretto, tanto che si è perfino supposto che al suo ritorno in Oriente T. affidasse al vescovo la direzione ufficiosa della parte centrale dell'Impero, riservata a Onorio. Ma questo non vuol dire che la politica religiosa di T. fosse da allora dettata dal grande vescovo. Piuttosto, per quanto era avvenuto a Milano, l'imperatore dovette sentirsi indotto ad appoggiare sempre più lo Stato alla Chiesa e perciò a favorirla; il motivo poi del cambiamento che consiste essenzialmente nella misura diretta contro il culto pagano in Occidente può essere trovato nel fatto che T. credette di poterlo colpire senza pericolo, ritenendo di aver ormai anrmato la sua signoria anche in quella parte dell'Impero; per il resto egli non fece che sviluppare con maggior decisione un programma già iniziato da gran tempo. Nel 391 aggravava le pene contro l'apostasia dal cristianesimo e prendeva due importanti provvedimenti contro il culto pagano: il 24 febbraio vietava per Roma i sacrifici cruenti, l'accesso ai templi pagani, l'adorazione degli idoli divini e comminava gravi multe contro i funzionarî che si permettessero pratiche cultuali pagane; in seguito a una rivolta sanguinosa dei pagani di Alessandria, pur graziando i ribelli, estendeva il divieto all'Egitto, il 16 giugno, da Aquileia, dove si trovava, essendo in viaggio alla volta dell'Oriente. Qui egli ritornò forse perché richiamatovi dal grave disaccordo nato fra Arcadio e Galla, dopo aver restituito formalmente il governo sull'Italia, l'Illirico e l'Africa a Valentiniano, il quale però continuò a restare nella Gallia, trattenutovi da Arbogaste per ordine, si crede giustamente, di T., che aveva già allora destinato quella parte dell'Impero a Onorio e voleva crearvi la situazione favorevole al suo piano.
Subito dopo il ritorno dall'Italia T. dovette occuparsi dei barbari: i resti dei federati ribellatisi all'inizio della campagna contro Massimo, rifugiatisi nella Macedonia, si erano dati al saccheggio; Goti, Bastarni e altri barbari erano entrati nella Tracia. Dopo successi iniziali T. corse un grave pericolo presso l'Ebro (Marica); lo salvò l'intervento tempestivo di Promoto, che, recatosi l'imperatore a Costantinopoli, dove giunse il 10 novembre, continuò la guerra ma fu sconfitto e ucciso; solo il suo successore Stilicone riuscì a vincere i barbari; la loro piena distruzione fu impedita da T., che preferì stringere con loro un trattato nel 392. Nello stesso anno l'imperatore, oltre a una serie di disposizioni in favore del cristianesimo (il 17 aprile aboliva il divieto emanato contro i monaci) e contro gli eretici, portava al suo compimento la politica avversa al paganesimo con l'editto di Costantinopoli dell'8 novembre, col quale vietava a tutti i sudditi senza distinzione non solo i sacrifici cruenti e le pratiche divinatorie ma anche di onorare in privato le divinità con libazioni o incenso.
Colpo grave per i pagani era stata anche la caduta del prefetto del pretorio Taziano avvenuta nel settembre per opera di Rufino, che gli successe nella carica.
Invece in Occidente il paganesimo credette di poter trionfare quando si schierò dalla parte di Eugenio l'uomo che il 22 agosto Arbogaste aveva fatto proclamare Augusto al posto di Valentiniano II, morto il 15 maggio. Eugenio inviò una delegazione a T. per essere riconosciuto come imperatore (è supposizione moderna che già prima della sua proclamazione Arbogaste avesse mandato un'ambasceria a Costantinopoli). T. rispose scegliendosi come collega nel consolato del 393 uno dei suoi generali e non Eugenio; altro segno della sua poca disposizione ad approvare i cambiamenti avvenuti in Occidente l'aveva dato col deporre dalla carica Virio Nicomaco Flaviano. Eugenio, viste fallite le speranze di un accordo, fece atto di sovranità sull'Italia, dove si recò nel 393, accettò l'appoggio dei pagani e lasciò libero campo a Roma e in tutta l'Italia a una violenta reazione pagana, che fu diretta da Nicomaco Flaviano. Il conflitto fra T. e l'usurpatore assunse il carattere di una guerra di religione. T., nonostante le insistenze di Galla perché si affrettasse a vendicare il fratello, impiegò molto tempo nei preparativi per l'urto decisivo, giacché ben valutava le qualità di Arbogaste. Quindi, affidato alla guida di Rufino il figlio Arcadio lasciato a reggere l'Oriente, verso la fine dell'estate del 394 si mise in marcia con un esercito composto per la maggior parte di barbari; teneva il comando, accanto all'imperatore, Timasio, coadiuvato fra gli altri da Stilicone. La battaglia avvenne presso il Frigido (Vippacco) in una località che riesce difficile stabilire con certezza e fu battaglia durissima, che prese l'aspetto di una lotta in cui gli dei pagani cercarono di trionfare sul Dio cristiano. Durò due giorni: il 5 settembre la sorte delle armi fu avversa a T., il quale però il 6, aiutato dalla bora, riportava piena vittoria sui nemici, che avevano anche ricevuto gravi danni dal tradimento. Eugenio, fatto prigioniero, fu ucciso dai soldati; Arbogaste si uccise due giorni dopo; Virio Nicomaco Flaviano era morto prima dell'inizio del vero combattimento. T. usò clemenza verso i vinti, anche per l'intercessione di S. Ambrogio, con cui si incontrò ad Aquileia. Morti i capi della reazione pagana, egli ne fece scomparire le tracce e diede applicazione nell'Occidente all'editto dell'8 novembre 392. Secondo una tradizione antica, che però è stata messa in dubbio, si recò a Roma e vi pronunciò in senato un discorso, invitando i senatori pagani ad abbracciare la vera fede (pur negando la visita a Roma, alcuni ammettono la storicità del discorso, facendolo tenere da T. davanti a una delegazione del senato). T. fece venire da Costantinopoli Onorio, che aveva ricevuto la dignità di Augusto nel gennaio 393 e che doveva reggere l'Occidente. Ammalatosi gravemente a Milano, in seguito agli strapazzi della guerra, T. vi morì come un pio cristiano il 17 gennaio del 395.
La personalità di T. doveva inevitabilmente nel passato essere oggetto di giudizî contrastanti: esaltata eccessivamente dagli uni, diminuita con non minore parzialità da altri, per effetto di pregiudizî di natura religiosa. Un contrasto di pareri esiste anche fra i moderni, alcuni dei quali non sono però sereni nel giudicarlo, mettendone in troppo rilievo i difetti indiscutibili e dipingendolo come un essere mediocre che poco operò e fu docile strumento nelle mani di consiglieri e di vescovi. T. non fu certamente un grande nel vero senso della parola, la sua opera non ottenne sempre i risultati sperati e fu anche causa di conseguenze dannose. Per quanto la sua legislazione appaia informata a principî di magnanimità e di giustizia, e dominata dalla preoccupazione di sanare i mali dell'Impero, egli non seppe trovare per questi i rimedî veramente efficaci e molte volte le sue buone intenzioni ebbero scarsa efficacia pratica: così invano tentò di impedire gli abusi dei curiali e quelli dei grandi proprietarî terrieri; cercò di rafforzare ed epurare la burocrazia ma non seppe rinnovarla. Nel campo finanziario finì con l'aumentare in maniera insopportabile la pressione fiscale anche per la politica seguita verso i barbari. Questa fu filobarbarica con l'intento di accrescere le forze militari in difesa dell'Impero e degl'interessi della dinastia; lo scopo fu ottenuto, ma il problema barbarico non fu affrontato né tanto meno risolto e il processo di imbarbarimento dell'esercito (di cui va ricordato che T. decentrò l'alto comando equiparando i magistri militum) raggiunse il suo culmine con gravissime conseguenze di ordine militare.
D'altra parte però non si può contestare a T. il merito di aver ridato ordine all'Oriente, dove egli aveva raccolto una pesante eredità e dove seppe affermare la sua autorità senza contrasti; così pure di aver risolto nel miglior modo possibile il problema delle relazioni con la Persia. Egli riuscì a conseguire pienamente uno dei suoi fini principali, la creazione di una nuova dinastia. Infine completa vittoria riportò nella politica religiosa, nella quale non fu sottomesso alla Chiesa ma ad essa favorevole, per ottenerne l'appoggio a vantaggio dello Stato, e perciò lottò con successo per creare quell'unità di fede che doveva rafforzare la compagine dell'Impero. In tale campo va ricercata soprattutto la grande importanza storica dell'uomo che fu il perfezionatore dell'opera iniziata da Costantino, validamente contribuì al trionfo della fede cattolica e colpì a morte il paganesimo.
Bibl.: A. Güldenpenning e J. Ifland, Der Kaiser Theodosius der Grosse, Halle 1878; G. Rauschen, Jahrbücher der christlichen Kirche unter dem Kaiser Theodosius dem Grossen, Friburgo in B. 1897; N. H. Baynes, in Cambridge Mediaeval History, I, Cambridge 1911, p. 235 segg. (con bibl. precedente); O. Seeck, Geschichte des Untergangs der antiken Welt, V, Berlino 1913, p. 123 segg.; id., Regesten der Kaiser und Päpste für die Jahre 311 bis 476 n. Chr. Stoccarda 1919, p. 251 segg.; E. Stein, Geschichte des spätrömischen Reiches, I, Vienna 1928, p. 295 segg.; id., in Byzantion, IX (1934), pp. 333-35, 345-46 (cfr. J. R. Palanque, ibid., pp. 707, 709-710; M. J. Higgins, ibid., X [1935], pp. 631-33, 638-39); A. Solari, La crisi dell'impero romano, II, Milano 1933, passim; III, Milano 1935, p. i segg.; id., in Klio, XXVII (1934), p. 165 segg. - Cfr. C. Jullian, Histoire de la Gaule, VII, Parigi (1926), p. 282 segg.; L. Schmidt, Geschichte der deutschen Stämme. Die Ostgermanen, Monaco 1934, pp. 259 segg. e 414 segg.; R. Grosse, Römische Militärgeschichte von Gallienus bis zum Beginn der byzantinischen Themenverfassung, Berlino 1920, pp. 186 eg., 253; W. Ensslin, Zum Heermeisteramt des spätrömischen Reiches, II, in Klio, XXIV (1931), p. 136 segg.; E. J. Holmberg, Zur Geschichte des Cursus Publicus, Uppsala 1933, p. 140 e passim; A. Piganiol, in Revue Historique, CLXXVI (1935), p. 12. Per la battaglia del Frigido, cfr. O. Seeck-G. Veith, in Klio, XIII (1913), p. 451 segg.; K. Pick e W. Schmid, in Jahreshefte d. österr. arch. Inst., XXI-XXII (1922-24), Beibl. coll. 307-308; Veith, ibid., col. 489 segg.; Schmid, ibid., col. 503 segg. Per la politica religiosa e i rapporti con S. Ambrogio, cfr. G. Boissier, La fin du paganisme, II, Parigi 1903; J. Geffcken, Der Ausgang des griechisch-römischen Heidentums, 2a ed., Heidelberg 1929, p. 153 segg.; H. von Campenhausen, Ambrosius von Mailand als Kirchenpolitiker, Berlino-Lipsia 1929, p. 222 segg.; E. Caspar, Gechichte des Papsttums, I, Tubinga 1930, p. 232 segg., 274 segg.; J.-R. Palanque, Saint Ambroise et l'empire romain, Parigi 1933, specialmente p. 193 segg.