TEODORO II Paleologo, marchese di Monferrato
TEODORO II Paleologo, marchese di Monferrato. – Terzogenito di Giovanni II Paleologo e della sua seconda moglie Elisabetta di Maiorca, nacque nel 1364; fu affidato (si ignora esattamente quando e a che titolo) in ‘protezione e custodia’ ai Visconti di Milano.
Venuto a morte il fratello Giovanni III Paleologo a Napoli il 25 agosto 1381, Teodoro, allora diciassettenne, gli subentrò regolarmente nel governo e i sudditi gli giurarono la prescritta fedeltà il 27 settembre. Il nuovo marchese rimaneva di fatto sotto la ‘protezione’ di Gian Galeazzo Visconti al quale, stringendo ufficialmente alleanza il 16 gennaio 1382, dovette riconoscere il definitivo possesso della città di Asti, ma da allora lo vediamo agire liberamente nei suoi territori; non sarà pertanto da prendere alla lettera l’affermazione che il Visconti «lo ritenne ancora in governo suo e appresso di sé per fino all’anno 1395» (Sangiorgio, 1780, p. 244).
Attenendosi a quanto avevano fatto i suoi predecessori, Teodoro sollecitò nel 1384 la conferma dei privilegi presso l’imperatore Venceslao IV e, in quello stesso anno, cominciò ad avanzare rivendicazioni nei riguardi di Amedeo VII di Savoia e del principe di Acaia; ma in agosto, di fronte all’intervento di preponderanti forze sabaude, dovette rassegnarsi a chiedere una tregua. Nel luglio del 1388 tornò a rivendicare, questa volta giuridicamente, le inadempienze e le indebite occupazioni di luoghi da parte di Amedeo VII; la controversia fu rimessa all’arbitrato di Gian Galeazzo, ma la sentenza, divenuta definitiva il successivo 17 marzo, lasciò le parti insoddisfatte e non sanò i dissensi. Le ostilità fra il marchese (sempre appoggiato in modo indiretto dal condottiero Facino Cane operante di preferenza nel basso Canavese), il conte di Savoia e il principe di Acaia, presto ripresero e tesero anzi a perpetuarsi nei decenni successivi attenuate da tregue regolarmente violate da entrambe le parti.
Il 5 luglio 1392 Teodoro si assicurò l’omaggio dovutogli dal Comune di Mondovì e fra aprile e giugno del 1393 ottenne la dedizione dei diversi rami dei marchesi Del Carretto insediati fra Piemonte e Liguria. Nel frattempo, lasciata cadere l’offerta di unirsi in matrimonio con la sorella di Ladislao d’Angiò Durazzo re di Napoli, accettò invece l’8 settembre 1393 di sposare Giovanna di Lorena, figlia del duca di Bar e di Maria di Francia, assicurandosi così «l’amicizia e la parentela del duca di Borgogna» (Cognasso, 1929, p. 17). Dal matrimonio, celebrato l’anno dopo in Chivasso, nacquero il 23 marzo 1395 il figlio Giangiacomo e nel 1402 la figlia Sofia; è invece «priva di ogni fondamento» (Haberstumpf, 1995, p. 132, nota 76) l’esistenza di una seconda figlia di nome Sibilla, e tale va considerata anche la notizia di un matrimonio che Teodoro avrebbe contratto con un’Argentina Malaspina, del tutto ignoto alla documentazione monferrina e probabile frutto di un equivoco storiografico con l’omonimo avo Teodoro I.
A peggiorare la situazione di cronica ostilità con il principe d’Acaia contribuì la notizia di una grave congiura, rivelata il 12 luglio 1394 dall’interrogatorio di un servo di Teodoro, in seguito rifugiatosi nel territorio dell’avversario: essa avrebbe avuto l’intento di sterminare mediante l’avvelenamento dei cibi il marchese e l’intera sua famiglia. Il principe non mancò di sottoporre a giudizio il servitore accusato, ma questi negò sempre recisamente il suo coinvolgimento nella vicenda pur senza fugare in proposito ogni dubbio. Tra i contendenti, il 16 ottobre 1394, per impulso del duca di Orléans, venne firmata ad Asti una lega e l’anno dopo Teodoro partecipò a Milano alle grandiose celebrazioni in onore di Gian Galeazzo Visconti allora insignito del titolo ducale: per la sua abilità di giostratore egli si impose all’ammirazione generale (insieme con il fratello Guglielmo e con lo scudiero Giovanni di Robella) vincendo i ricchi premi in palio.
Le ostilità ripresero con rinnovata violenza l’8 maggio 1396: dopo aver lanciato al principe d’Acaia la rituale sfida, Teodoro, con il consueto aiuto di Facino Cane, attraversò con un’audace scorreria l’intero territorio nemico colpendo Torino, Collegno, il Chierese e altri luoghi che egli rivendicava come suoi per conferma imperiale, e concluse l’azione impadronendosi di Osasco presso Pinerolo. Ma ben maggiore successo conseguì la pronta reazione del principe che, con la complicità di una fazione interna, l’11 luglio sottrasse al marchese l’importante centro di Mondovì. Teodoro, di rimando, nel febbraio dell’anno successivo, si accanì per alcuni mesi nell’assedio di Gassino Torinese e in marzo tentò inutilmente la riconquista della perduta Mondovì. I combattimenti proseguirono senza interruzione fino al 3 luglio 1397 quando, per intervento di Gian Galeazzo Visconti, le due parti giunsero a una tregua garantita dalla presentazione di ostaggi. La sentenza, pronunciata dopo lunghe consultazioni dal duca di Milano il 30 gennaio 1399, ancora una volta non fu sufficiente a impedire la ripresa della guerra che cessò soltanto grazie a un’ulteriore tregua. Per interrompere il ciclico ripetersi delle ostilità tra Acaia e Monferrato e delle razzie di Facino Cane si propose allora come arbitro Amedeo VIII di Savoia il quale non esitò a promettere a Teodoro la restituzione di Mondovì e altre allettanti prospettive garantite dal matrimonio del figlio Giangiacomo con una figlia dei principi di Acaia, rimasto però inattuato.
Nel marzo del 1401, allo scadere della tregua, Amedeo rifiutò di pronunciarsi e lo stato di guerra riprese, interrotto solo dalla partecipazione di Teodoro e di Facino Cane alla battaglia di Brescia vinta il 20 settembre 1401 da Gian Galeazzo contro Roberto di Baviera, e poi da un’ulteriore tregua concordata il 29 novembre.
Maturavano intanto altri avvenimenti luttuosi: il 15 gennaio 1402 Teodoro perse la consorte Giovanna di Bar, e il successivo 3 settembre l’intero equilibrio politico italiano fu sconvolto dalla morte di Gian Galeazzo Visconti. Per consolidare la nuova tregua, Teodoro si risposò il 18 ottobre 1403 con Margherita, figlia di Amedeo d’Acaia, ma capì che poteva ‘fare da solo’ nel groviglio politico provocato in Lombardia dalla scomparsa di Gian Galeazzo (Valeri, 1935): nel 1404 recuperò così Casale e Saluggia e, benché imbrigliato il 7 giugno da Amedeo VIII in un’alleanza contro Giovanni Maria Visconti, il 3 ottobre, con l’aiuto di Facino Cane, divenuto signore di Alessandria, ottenne Vercelli in concessione decennale e, in gara con il conte di Savoia, ne occupò parte del territorio; il 26 gennaio 1405 progettò inoltre il matrimonio, poi non avvenuto, della figlia Sofia con Filippo Maria Visconti.
Soddisfatto dei nuovi acquisti, il 23 marzo 1407 Teodoro venne a un nuovo accordo con Amedeo VIII, cedendo i diritti su Mondovì in cambio di nuove terre nel Vercellese e di una tregua di tre anni da sanzionare con il matrimonio tra il figlio Giangiacomo e la sorella del conte. Nell’aprile del 1409 si aprì per lui e per Facino Cane, ora capitano generale visconteo, la possibilità di nuovi acquisti in Lombardia: dopo essersi scontrati il 2 aprile a Rovagnate con Pandolfo III Malatesta si accordarono con lui per marciare su Milano; in difesa dei Visconti accorse il governatore francese di Genova Jean Le Meingre, sire di Boucicault; Teodoro e Facino Cane, con il favore della locale fazione ghibellina, poterono così impadronirsi della città ligure dove il 6 settembre il marchese assunse il potere in qualità di capitano del Popolo.
Nonostante le cure del nuovo incarico egli assistette il 21 aprile 1411 in Chivasso al matrimonio del figlio da lungo tempo progettato, ma esso si rivelò insufficiente per interrompere la perdurante conflittualità con il principe d’Acaia. La difficoltà di governare contemporaneamente il Marchesato (dove si giovò anche del figlio Giangiacomo) diventò evidente nel marzo del 1413 allorché fu costretto a intervenire militarmente per sedare le gravi lotte civili scoppiate a Savona; tra il 20 e il 21 di quel mese Tommaso Fregoso potè così scacciare da Genova il luogotenente del marchese il quale, dopo aver tentato di occupare Savona e Vado, si rassegnò alla sconfitta e cedette il potere accontentandosi dei 24.000 genoini di salario arretrato che gli erano dovuti.
La sua politica doveva ora oscillare, a seconda delle circostanze, fra il conte di Savoia e la risorgente potenza del nuovo duca di Milano Filippo Maria Visconti mentre si affacciava in Italia il re dei romani Sigismondo di Lussemburgo. Questi già il 12 gennaio 1413 aveva confermato a Teodoro i privilegi dei precedenti imperatori; dopo averlo incontrato nel novembre a Cantù, il 5 febbraio 1414 Teodoro ottenne da lui un nuovo diploma e lo ospitò poi da marzo a giugno in Trino, Moncalvo, Pontestura e Acqui dove il 26 marzo 1414 Giangiacomo ebbe il titolo di comes Aquesane. Insieme con Amedeo VIII Teodoro accompagnò quindi Sigismondo alla Dieta di Spira; il 20 settembre fu da lui nominato vicario in Lombardia e presenziò quindi il 9 novembre all’incoronazione regia in Aquisgrana. L’appoggio imperiale gli consentì di mantenere per il momento il possesso di Vercelli reclamato da Visconti.
Nel gennaio del 1415 Teodoro, come vicario imperiale, tornò a intromettersi nelle lotte interne di Genova procurando il dogado a Giorgio Adorno; nello stesso mese la fazione ghibellina gli offrì la Signoria di Alessandria, ma il successo fu di breve durata poiché già nel febbraio successivo le truppe del Carmagnola recuperarono la città alla signoria viscontea.
Dopo anni di contrasti con il duca di Milano, il 20 marzo 1417 Teodoro si rassegnò a stipulare con lui una tregua cinquantennale e a restituirgli la città di Vercelli in compenso della cessione definitiva di Casale e di un certo numero di località vicine. Nell’inverno seguente tentò quindi, con il nuovo alleato, di ritornare in possesso di Genova, ma senza successo: fu l’ultima impresa prima della morte, registrata dall’obituario di S. Maria di Lucedio sotto la data del 25 aprile 1418; il suo corpo ebbe sepoltura nella chiesa di S. Francesco di Moncalvo.
«Dignissimo principe, di bella statura, espertissimo nel mestiere dell’armi, eccellente giostratore e amatore della giustizia e religione» (Sangiorgio, 1780, p. 244). Tale breve elogio, tributato da Benvenuto di Sangiorgio al nostro marchese, non manca di effettivi riscontri con la realtà: Teodoro II come politico seppe destreggiarsi con indubbia sagacia, abilità e doppiezza, qualità quest’ultima che, nel ricordo delle sue origini familiari, indusse qualcuno a tacciarlo di ‘fede greca’. Sotto di lui il Marchesato avviò con profitto una graduale riorganizzazione della Cancelleria, perfezionò la registrazione degli atti ed emanò nuove norme in materia civile ponendo particolare attenzione alla prassi giudiziaria. Egli non dimenticò gli originari legami con l’Impero d’Oriente per quanto si presentassero ormai in forma «sempre più evanescente e sfumata» (Haberstumpf, 1995, pp. 135-142): negli anni 1409 e 1410 si interessò infatti del principato di Acaia e nel 1418 procurò una ricca dote alla figlia Sofia destinata a sposare l’imperatore bizantino Giovanni VIII Paleologo.
Radunò il Parlamento con continuità e regolarità soprattutto, è vero, per richiedere con cadenza annuale sussidi alle comunità dipendenti, ma talora anche per discutere questioni di ordine generale come la necessità di ovviare al disordine della circolazione monetaria, un problema affrontato dal marchese legiferando in particolare contro le falsificazioni. Solo a cominciare da lui la moneta marchionale (della quale si conoscono almeno trentatré sue coniazioni) circolò con abbondanza e venne acquistando sicura visibilità documentaria. Affrontò lo spinoso problema dell’autofinanziamento richiedendo alle comunità prestiti anticipati sulle future taglie, non senza ricorrere a obbligazioni come quella di 12.000 fiorini stabilita il 14 giugno 1399 con i Borromeo e liquidata l’anno dopo (Corio, 1978, p. 955).
Insieme con la costante cura riservata all’organizzazione militare delle comunità dipendenti, spesso chiamate a fornire contingenti nelle frequenti missioni di guerra, raccomandò la manutenzione e la custodia delle fortificazioni locali promovendo in tempi diversi lavori edilizi tanto nelle sedi marchionali di Chivasso, Moncalvo, Trino, Pontestura e Casale, quanto in località minori come Vico di Mondovì e San Raffaele. Particolare impegno richiesero le ‘cerche’ realizzate a difesa di Chivasso nel 1390.
Volto alla valorizzazione economica di ampie porzioni dello stesso territorio fu lo scavo della roggia Camera intrapreso l’anno successivo, e non minore impegno richiese la rettifica del corso del Po in corrispondenza di Castagneto, sconvolto nel 1415 da una violenta alluvione. Intento economico ebbero anche, nel 1411, la ricostruzione di Desana per garantire un rapido rifornimento della città di Vercelli e, il 22 agosto 1416, l’istituzione della fiera di S. Luca di Trino. Dimostrano poi il suo costante interesse religioso le iniziative di nuove importanti fondazioni ecclesiastiche come S. Caterina di Trino nel 1403, S. Maria di Chivasso nel 1415 e S. Maurizio di Conzano nel 1418.
Una testimonianza del 1397 ci assicura che Teodoro era «pulcher homo, albus, rubeus» a differenza del fratello Guglielmo «non ita magnus et brunus» (Settia, 2014, p. 155). L’eccellenza delle sue qualità militari trova una conferma, per esempio, nelle parole del genovese Giorgio Stella il quale (fatta la tara dell’opportunismo politico che le dettava) non esita a definirlo con gli aggettivi audax e intrepidus, e loda la sobrietà, la competenza e la mancanza di faziosità da lui mostrate nel non facile governo della città ligure.
Alla prodezza individuale sfoggiata tanto nelle giostre quanto nei veri combattimenti, non corrisposero, in verità, successi militari concreti, sia per difetto di fortuna sia, soprattutto, per la scarsità delle risorse che poteva mettere in campo cui solo in parte supplì la perdurante solidarietà con Facino Cane. Si può pertanto condividere la valutazione che diede di lui Nino Valeri: «Grandi ambizioni, adeguate alla politica seguita tradizionalmente dai Paleologi con rinnovato ardimento e stoica indifferenza di fronte all’accumularsi dei rovesci e di rovine» (1940, p. 150), ai quali il Marchesato era costantemente sottoposto di fronte agli appetiti dei più forti Stati vicini.
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