TENTATIVO di delitto
Il concetto di "reato tentato" (tentativo, conato) si contrappone a quello di "reato consumato". Il reato è consumato quando l'azione o l'omissione colpevole giunge a concretare, nella completezza dei suoi elementi costitutivi, il fatto astrattamente previsto nella norma penale. Si ha, invece, il tentativo, se l'azione o l'omissione, idoneamente diretta a commettere un reato (delitto) non giunge a completarsi, o, se compiuta, non produce l'evento consumativo del reato stesso. Ad es., l'omicidio è consumato quando l'azione, diretta a uccidere, ha cagionato la morte dell'uomo; è tentato se, p. es., la vittima designata, presa da sospetto, non ingerisce la bevanda avvelenata che il colpevole le presenta, oppure se, ingerito il veleno, riesce, mediante un contravveleno, a salvarsi. Il tentativo non è un reato imperfetto, né una circostanza diminuente (v. articoli 157, 1° cap., cod. pen.; 32 cod. proc. pen.), ma un reato di grado inferiore, un titolo a sé di reato.
Un saggio criterio di politica criminale impone al legislatore di punire il reato tentato, non solo, ma di punirlo con minor pena in confronto al reato consumato. Minore è, infatti, nel tentativo, l'offesa arrecata al bene giuridico, e d'altra parte evidente è l'interesse dello stato di evitare, con la più lieve sanzione, il ripetersi del tentativo da parte del reo. Nondimeno vi sono codici che prevedono il tentativo soltanto di fronte a certi reati, e codici, come quello francese, che parificano il tentativo alla consumazione. Storicamente la dottrina del tentativo trova notevole sviluppo nelle opere dei pratici italiani (A. Gandino e A. Alciato).
Il codice penale del 1889 distingueva due gradi di tentativo: il tentativo semplice (non compimento, per circostanze indipendenti dalla volontà dell'agente, di tutto ciò che era necessario alla consumazione del delitto) e il tentativo perfetto, o delitto mancato o frustrato (mancata produzione dell'evento, per circostanze indipendenti dalla volontà del reo, malgrado il compimento di tutto ciò che era necessario per la consumazione del delitto), e per quest'ultimo maggior pena di quella che per il primo era comminata. Questa distinzione, ammessa anche dall'attuale codice canonico (can. 2212, § § 2; 2213, § § 3) è stata abolita dal codice del 1930, non essendovi ragioni obiettive (attinenti, cioè, all'entità della violazione giuridica), né subiettive (vale a dire relative alla pericolosità del reo) che potessero in ogni caso giustificarla. Dispone, infatti, l'art. 56, primo comma cod. vig.: "Chi compie atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto tentato, se l'azione non si compie o l'evento non si verifica"; e nel secondo comma aggiunge: "Il colpevole di delitto tentato è punito: con la reclusione da 24 a 30 anni, se dalla legge è stabilita per il delitto la pena di morte; con la reclusione non inferiore a 12 anni, se la pena stabilita è l'ergastolo; e, negli altri casi, con la pena stabilita per il delitto, diminuita da un terzo a due terzi".
Dal chiaro disposto dell'art. 56 si rileva che il tentativo non è un qualsiasi atto compiuto in relazione a un proposito criminoso. Non è reo di tentato omicidio, per es., colui che, dopo avere acquistato il veleno da propinarsi alla designata vittima (atto meramente preparatorio), non può, poi, a questa somministrarlo. Occorrono atti con i quali si pone in moto il mezzo prescelto per il conseguimento del voluto effetto (es.: cercare dì somministrare il veleno, tentare di aprire la cassaforte), non equivoci (nel senso che da per sé stessi, o in unione con elementi di prova desunti aliunde, devono rivelare l'intenzione del colpevole) e capaci di produrre l'evento (idoneità). Gli atti possono essere inidonei come tali (es.: somministrazione di sostanza perfettamente innocua) o per la mancanza dell'oggetto contro cui sono diretti (es.: sparare nel buio della camera un colpo di rivoltella contro il letto dove si crede che stia a dormire la vittima designata, che invece per caso non vi sia). Poiché nel tentativo si punisce il pericolo corso dal bene giuridico, il tentativo inidoneo (o tentativo impossibile), pur potendo costituire altro reato a sé stante, non è punito come tentativo; ma il giudice, se lo ritenga opportuno, può ordinare (art. 49) che il prosciolto sia sottoposto a misura di sicurezza (libertà vigilata). Partendo, invece, dal criterio subiettivo della pericolosità dell'agente, la scuola positiva sostiene, de iure condendo, che il tentativo inidoneo possa talora essere incriminabile e talora non esserlo a seconda che riveli o meno temibilità nell'agente (E. Florian). Si noti, infine, che per aversi tentativo inidoneo o impossibile, la inidoneità deve essere riconoscibile ex ante (es.: uso di sostanza in ogni caso innocua), non soltanto attraverso la mancata produzione dell'evento (es.: resistenza del soggetto passivo all'azione del veleno). Questo concetto viene espresso dalla dottrina - ma inesattamente, a nostro avviso - distinguendo una inidoneità assoluta da una inidoneità relativa, oppure la inidoneità dalla mera insufficienza, e la mancanza assoluta dalla mancanza relativa dell'oggetto dell'azione.
Il colpevole di tentativo non è punito come tale (salvo a punirsi per gli atti compiuti qualora questi costituiscano per sé un reato diverso) se volontariamente, ossia senza esservi né materialmente né moralmente coartato desista dall'azione (v. art. 56, 3° comma). É la cosiddetta desistenza volontaria. Pertanto, risponderà di violazione di domicilio, ma non di furto tentato, colui che, introdottosi clandestinamente a scopo di furto nell'altrui abitazione, pentito, rinuncia volontariamente a rubare. Se, invece, il colpevole, compiuta intieramente l'azione, ossia compiuto tutto quel che era necessario alla consumazione del delitto, volontariamente impedisca il verificarsi dell'evento, soggiacerà alla pena stabilita per il delitto tentato, diminuita da un terzo alla metà. È questo il cosiddetto ravvedimento attuoso di cui all'ultimo comma dell'articolo 56. Es.: il colpevole, pentito, salva la persona alla quale a scopo omicida aveva propinato il veleno, somministrandole un contravveleno. Quindi, mentre la desistenza volontaria è circostanza esimente, il ravvedimento attuoso è circostanza attenuante: entrambe circostanze soggettive (art. 70, n. 2°), non comunicabili ai concorrenti (articoli 118, 119).
Non tutti i reati comportano la figura giuridica del tentativo. Vi sono reati, come le contravvenzioni (v. art. 56), che non comportano la figura del tentativo per volontà di legge. Altri reati non la consentono a causa della loro particolare struttura. Così, non consentono il tentativo i delitti semplici (i delitti che unico actu perficiuntur) ossia i delitti a processo esecutivo non suscettivo di frazionamento, consumabili con un solo atto (come, ad es., l'ingiuria verbale). Non consentono il tentativo i delitti di mera omissione (da distinguersi dai delitti commessi mediante omissione), in quanto in essi l'affermazione giuridica della illecita omissione è istantanea e coincide con la scadenza del termine utile entro il quale può compiersi l'atto imposto dalla legge; come non lo consentono i delitti abituali (es.: articoli 534, 572), nei quali, pure, non esiste un iter criminis, non costituendo le singole azioni, prima di concretare la condotta abituale, principio di esecuzione del delitto. Non ammettono il tentativo i delitti nei quali la punibilità (ossia la penale illiceità) del fatto è subordinata al verificarsi di una condizione obiettiva (v. art. 44) successiva all'evento consumativo (es.: il delitto d'incesto - art. 564). Non lo ammettono i delitti colposi e i delitti preterintenzionali; infine i delitti cosiddetti a momento consumativo anticipato, ossia i delitti corrispondenti a precetti penali così formulati: "non compiere atti diretti a ledere il bene giuridico x" (es.: articoli 241, 276), oppure: "non adoperare mezzi diretti, ecc." (es.: art. 267).
Bibl.: W. Valsecchi, Reato putativo e tentativo impossibile, Torino 1912; E. Massari, Il momento esecutivo del reato, Pisa 1923; A. D. Tolomei, Il pentimento nel diritto penale, Torino 1927; V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, ivi 1933, II, pp. 358-406; O. Vannini, Valore e limiti di applicazione della norma riguardante il tentativo, in Suppl. Riv. pen., XIII; id., Il valore del pericolo nel tentativo, ibid., XVIII; id., Lineamenti di diritto penale, Firenze 1933, p. 162 segg.; E. Florian, Parte generale del diritto penale, Milano 1934, I, p. 641 segg.; C. Civoli, Del tentativo, nella Enciclopedia del diritto penale di E. Pessina, V.