tenebroso
Il vocabolo occorre quattro volte nell'opera dantesca. In Rime XC 13 esso è impiegato all'interno di una similitudine: senza la virtù di Amore rimane allo stato potenziale, non viene all'atto, la nostra capacità di operare il bene, come pintura in tenebrosa parte, / che non si può mostrare / né dar diletto di color né d'arte, ossia " come un dipinto, rimanendo immerso nelle tenebre, non può esplicare le caratteristiche del suo essere, cioè la varietà e la bellezza dei colori e la maestria con cui è stato disegnato " (Barbi-Pernicone). Ma è implicita nel paragone, fondato sulle prerogative della luce, l'equazione Amore-sole, già proposta all'inizio della lirica (Amor, che movi tua virtù dal cielo, / come 'l sol lo splendore, / che là s'apprende più lo suo valore / dove più nobiltà suo raggio trova..., vv. 1-4) e proseguita nella seconda strofa (Feremi ne lo cor sempre tua luce, / come raggio in la stella, vv. 16-17).
Anche in Cv III Amor che ne la mente 80 l'aggettivo è incluso in un paragone, diretto a giustificare un'apparente contraddizione fra la qualifica di fera e disdegnosa attribuita alla donna in una ballata precedente (Voi che savete; cfr. Rime LXXX 23 e 3) e le lodi di umiltà ad essa tributate in questa canzone: Tu [canzone] sai che 'l ciel sempr'è lucente e chiaro, / e quanto in sé, non si turba già mai; / ma li nostri occhi per cagioni assai / chiaman la stella talor tenebrosa. / Così, quand'ella [la ballata] la [donna] chiama orgogliosa, / non considera lei secondo il vero, / ma pur secondo quel ch'a lei parea: passo così parafrasato: Dico: Tu sai che 'l ciel sempr'è lucente e chiaro, cioè sempr'è con chiaritade; ma per alcuna cagione alcuna volta è licito di dire quello essere tenebroso (IX 5; il rapporto tra cielo e stella [da intendersi come singolare collettivo; ma il Pézard intende diversamente: v. STELLA] è dunque puramente metonimico; Barbi-Pernicone si richiamano a Cv IV Le dolci rime 103-104 sì com'è 'l cielo dovunqu'è la stella, / ma ciò non e converso). L'affermazione è motivata nel seguito della pagina con un elenco di cagioni per cui talvolta il cielo e le stelle possono parere al riguardante meno lucenti di quanto in realtà siano. Ma anche in questo caso, oltre i termini specifici del paragone è da cogliere l'implicita equazione donna-luce, dichiarata esplicitamente in altri punti della lirica (vv. 34-35 li occhi di color dov'ella luce / ne mandan messi al cor pien di desiri; vv. 59-60 Elle [le cose che appariscon ne lo suo aspetto] soverchian lo nostro intelletto, / come raggio di sole un frale viso; ecc.).
L'ultima occorrenza del vocabolo è in If VI 11, entro la descrizione della pioggia maladetta che si rovescia sulle anime nel cerchio dei golosi: Grandine grossa, acqua tinta e neve / per l'aere tenebroso si riversa; dove l'aggettivo, pur così potentemente evocativo di un paesaggio concreto, s'iscrive a sua volta in un complesso di termini esprimenti l'idea del buio e dell'oscuro (v. TENEBRA), impiegata a raffigurare analogicamente la realtà infernale come privazione della grazia (identificata con la luce).