tenebra
Il vocabolo è presente quattro volte nel Convivio e otto nella Commedia (accanto a queste occorrenze si registrano quelle del termine latino, distribuite fra la Monarchia [cinque] e le epistole [tre]). Largamente prevalente è l'uso della forma plurale (nove volte). In un solo caso (Pd XIX 65) e per ragioni di rima (t.: latebra: crebra) la parola è impiegata come parossitona.
Nel sistema semantico dantesco t. ha una notevole rilevanza per i valori simbolici ed escatologici che vi sono connessi: valori chiaramente derivati dalle Sacre Scritture e in particolare dal Vangelo di s. Giovanni, citato esplicitamente in Cv II V 3 ‛ Lo qual [Cristo] fu luce che allumina noi ne le tenebre ', sì come dice Ioanni Evangelista (v. Ioann. 1, 5 " lux in tenebris lucet ", e 9 " Erat lux vera, quae illuminat omnem hominem venientem in hunc mundum "), e implicitamente in VIII 14 la dottrina veracissima di Cristo, la quale è via, verità e luce... luce, perché allumina noi ne la tenebra de la ignoranza mondana (v. Ioann. 14, 6 " Ego sum via et veritas et vita "; 8, 12 " Ego sum lux mundi: qui sequitur me non ambulat in tenebris "; e cfr. anche 1, 9, sopra citato).
È appunto sull'autorità dei testi scritturali e particolarmente giovannei, magari attraverso la mediazione interpretativa di s. Tommaso (cfr. infatti In Ioan. I lect. III " Primo vero accipiamus tenebras naturalem defectum ac creatae mentis... Alio modo... pro naturali insipientia hominum "), che si fondano i valori metaforici di t. nell'opera di D.: ignoranza naturale, ma anche cecità della mente ottenebrata dal senso (si ricordi: la tenebra de la ignoranza mondana), e quindi errore, in opposizione ai valori metaforici della luce: sapienza, verità, grazia. In un ambito ancora vicino al modello giovanneo, ma con significato puramente intellettuale (l'ignoranza come prodotto dell'incultura) si colloca l'immagine delle t. di Cv I XIII 12, richiamata per celebrare la missione del linguaggio volgare, e specificamente del commento in prosa delle canzoni, presso coloro che sono ignari di latino: Questo sarà luce nuova, sole nuovo, lo quale surgerà là dove l'usato tramonterà, e darà lume a coloro che sono in tenebre e in oscuritade per lo usato sole che a loro non luce (ma cfr. anche Esth. 8,16 " Iudaeis autem nova lux oriri visa est ", e Is. 9,2 " Populus, qui ambulabat in tenebris, vidit lucem magnam, habitantibus in regione umbrae mortis lux orta est eis ": quest'ultimo passo ripreso da Matt. 4, 16 e da Luc. 1,79). Con più chiare implicazioni etico-teologiche la metafora delle t. ricorre due volte nel poema: Pg XV 66 Però che tu rificchi / la mente pur a le cose terrene, / di vera luce tenebre dispicchi (" trahis dubitationem ex veritate, quae est clarior luce, si reflecteres mentem ad aeterna spiritualia ", Benvenuto); Pd XIX 65 Lume non è, se non vien dal sereno / che non si turba mai; anzi è tenèbra / od ombra de la carne o suo veleno (esposizione delle cause che viziano le operazioni dell'intelletto: " o la sua debolezza intrinseca [tenèbra], o l'ombra prodotta dalla sua convivenza col corpo, o la sopraffazione dei sensi e dell'anima concupiscibile [veleno] ", Mattalia; il quale ravvisa nel passo un riecheggiamento del cantico di Zaccaria: Luc. 1,79 " illuminare his qui in tenebris et in umbra mortis sedent "). Per usi metaforici affini del latino t., v. Mn II IX 1 humanum iudicium... ignorantiae tenebris involutum; Ep V 29 ‛ Non... ambuletis... in vanitate sensus ' tenebris obscurati (ma cfr. Paul. Ephes. 4,17 ss.); VI 21 Quam in noctis tenebris malesanae mentis pedes oberrent; con maggiore vicinanza al senso escatologico delle Scritture: Mn III I 3 in brachio Illius qui nos de potestate tenebrarum liberavit in sanguine suo. Altri usi metaforici: Mn II V 15 mortis tenebras; Ep V 2 tenebras diuturne calamitatis.
Dai valori metaforici sopra illustrati discende poi quel sistema di equivalenze analogiche (tenebre = privazione di Dio = dannazione, in opposizione a luce = grazia = beatitudine) che è alla base della concezione figurativa della Commedia. In questo senso la parola t. va collegata con tutti gli altri termini in cui si esprime l'idea del buio e dell'oscuro (notte, buio, oscuro, nero, perso, fosco, tetro, ecc.), e messa in relazione oppositiva coi vari termini esprimenti l'idea della luce (lume, sole, ecc.: v. LUCE). I primi trovano naturalmente il loro impiego tematico nella raffigurazione della realtà infernale: ed è in particolare la parola t., per la sua stessa ascendenza scritturale, che sembra caricarsi di più evidenti significati allusivi. Così, se in If XXXI 23 Però che tu trascorri / per le tenebre troppo da la lungi, / avvien che poi nel maginare abborri (ossia: " Volendo guardare troppo lontano in quest'aria tenebrosa, ti figuri di vedere quel che non è ", Scartazzini-Vandelli) il valore analogico delle t. è del tutto disciolto in una concreta situazione narrativa; nell'apostrofe minacciosa di Caronte alle anime raccolte sulle rive dell'Acheronte (If III 87), Non isperate mai veder lo cielo: / i' vegno per menarvi a l'altra riva / ne le tenebre etterne, in caldo e 'n gelo, l'immagine di un'eterna oscurità, nella sua stessa assolutezza (concretamente, com'è stato notato, nell'Inferno vige una condizione di fioco lume: cfr. G. Di Pino, La figurazione della luce nella D.C., Messina-Firenze 1952) e nella sua opposizione alla precedente immagine del cielo, fisica e teologica insieme, si pone come allusiva anche alla condizione dell'anima dannata. Ancora più esplicito è questo significato analogico delle t. infernali nella notizia che dà Virgilio a Sordello della sua condizione di anima del Limbo: Pg VII 29 Luogo è là giù non tristo di martìri, / ma di tenebre solo; indicazione che se rapportata a quella di If IV 41-42 semo... sol di tanto offesi / che sanza speme vivemo in disio, istituisce una chiara equivalenza fra t. e privazione della grazia divina: " Perché i due luoghi si accordino... Bisognerà pensare che queste tenebre simboleggino anche la tenebra dell'anima che non sarà mai illuminata dalla luce divina del Vero " (Porena). Quanto al fatto che qui Virgilio non ponga nessuna distinzione tra la sua condizione privilegiata di spirito magno, vivente nel nobile castello illuminato, e quella delle altre anime del Limbo, varrà la spiegazione fornita a suo tempo dal Serravalle (e ripresa dal Tommaseo): " dicas quod omnis splendor, quem possent habere dampnati, esset tenebra densissima, respectu splendoris gloriae supernalis ". Il che ci rimanda alla figurazione di If IV 69 vidi un foco / ch'emisperio di tenebre vincia, la quale, comunque interpretata (il foco " vinceva ", fugava un emisfero di tenebre, oppure quest'ultimo ‛ vinciva ', ossia " avvinceva " [dal latino vincire] il foco) si rivela anch'essa carica di una significazione analogica: " bene fingit auctor quod ignis vincebat hemisperium superius, quod est hemisperium tenebrarum, quia gloria istorum [ossia degli spiriti magni] claret per totum, et vincit tenebras ignorantiae et viciorum aliorum ", Benvenuto (ciò che rende più attendibile la prima interpretazione di vincia: " il foco vince la tenebra in modo da formare una calotta sferica luminosa [la tenebra soprastante e avvolgente non può far emisfero] ", Mattalia).
Anche la rappresentazione delle t. notturne nel Purgatorio legata alla stessa possibilità di ritrarre le vicende della luce nella sue varie fasi, si riempie di particolari significati simbolici, sì da dar luogo a una vera e propria invenzione strutturale: l'impossibilità di procedere di notte su per la montagna, ossia di proseguire nelle t. l'opera della purificazione. Tale impossibilità è così motivata da Sordello: non... ch'altra cosa desse briga, / che la notturna tenebra, ad ir suso; / quella col nonpoder la voglia intriga. / Ben si poria con lei tornare in giuso / e passeggiar la costa intorno errando, / mentre che l'orizzonte il dì tien chiuso (Pg VII 56). La fonte dell'invenzione è da ricercarsi nel noto luogo giovanneo in cui Cristo esorta i discepoli: " Ambulate dum lucem habetis, ut non vos tenebrae comprehendant; et qui ambulat in tenebris nescit quo vadat " (Ioann. 12,35; il passo è riecheggiato in Ep V 29, sopra riportato, dove la citazione diretta è però da Paul. Ephes. 4,17 ss.). Il valore simbolico del fenomeno è evidente: " Il Sole rappresenta la grazia divina, e il non poter salire in assenza della sua luce significa che non si può procedere nell'espiazione senza l'aiuto di quella grazia " (Porena). Anche nella solenne figurazione dell'alba vittoriosa della notte (E già per li splendori ante-lucani / ... le tenebre fuggian da tutti lati, Pg XXVII 112) l'opposizione t.-luce si pone al di là di una pura notazione descrittiva, coinvolgendo la stessa vicenda di redenzione di D., giunto ormai alle soglie del Paradiso terrestre: per questo aspetto l'immagine può essere avvicinata a quella di Ep V 2-3, dove il valore metaforico dell'alba e della notte diventa del tutto esplicito: dies nova splendescit ab ortu auroram demonstrans, quae iam tenebras diuturnae calamitatis attenuat... Et nos gaudium expectatum videbimus, qui diu pernoctitavimus in deserto.
La parola ha un valore esclusivamente fisico in un passo scientifico del Convivio: III V 21 volta la spera del sole e tornata a uno punto, questa palla dove noi siamo in ciascuna parte di sé riceve tanto tempo di luce quanto di tenebre. Usi letterali del termine latino (le t. della notte): Mn I XIV 6 e II IV 7.