memoria, tecnologie di
memòria, tecnologìe di. – Le memorie elettroniche hanno beneficiato dei progressi avutisi soprattutto nell’ambito della nanotecnologia, sia per quanto riguarda l’individuazione di nuove tecniche di archiviazione, sia per l’aumentata capacità d’immagazzinamento dati. Tra le memorie a semiconduttore, i dispositivi a floating gate nanocristallina offrono, rispetto alle tradizionali flash, densità notevolmente superiori e consumi più ridotti. Altre linee di sviluppo riguardano le memorie ovoniche (memorie a cambiamento di fase), le memorie MRAM (Magnetoresistive random access memory), le memorie ferroelettriche e così via. Un esempio singolare di nanomemoria è la millipede realizzata nei laboratori IBM di Zurigo, una rivisitazione in chiave nanotecnologica delle vecchie schede perforate le cui celle sono costituite unicamente da fori, ciascuno di dimensione inferiore al nanometro, ricavati in un sottilissimo strato di materiale plastico mediante microindentazione con micropunte di silicio. Per creare la microindentazione viene forzata una corrente elettrica attraverso una micropunta che ne riscalda l’estremità fino a 400 °C, sufficiente per fondere il polimero. Una serie di tali impulsi di corrente produce quindi una sequenza di microfori i cui vuoti e pieni rappresentano gli stati logici 0 e 1 (fase di scrittura). Per poter leggere quest’informazione, l’estremità della micropunta, mentre si sposta sulla superficie del polimero, è mantenuta a una temperatura costante di 350 °C (al di sotto, dunque, del punto di fusione della plastica); quando la micropunta scende in una microindentazione la dissipazione del calore che ne consegue provoca una diminuzione di temperatura dell’estremità della punta stessa e un corrispondente cambiamento della sua resistenza elettrica che può essere rilevata ossia letta. Il dispositivo è costituito da 1024 puntine (da cui il nome) distribuite su un’area di soli tre millimetri di lato ed è in grado di fornire una densità di memorizzazione che è quasi 20 volte maggiore di quella di qualsiasi hard disk. Nell'ambito delle memorie flash, recenti studi relativi al controllo di elettroni immagazzinati hanno condotto alla commercializzazione di un particolare tipo multilivello. Una memoria flash è una memoria non volatile, permanente e riscrivibile in cui è possibile immagazzinare dati in forma binaria mantenendoli anche in assenza di alimentazione. Le informazioni sono registrate in un array di transistor chiamati celle, ognuna delle quali conserva il valore di un bit. Ogni cella è simile a un MOSFET (Metal oxide semiconductor field effect transistor) ma con due gates anziché uno soltanto: la control gate e, completamente isolata da uno strato di ossido, la floating gate, posta fra la control gate e il substrato. La scrittura o la cancellazione della cella avviene inserendo o estraendo, per effetto tunnel, gli elettroni dalla floating gate. La lettura del contenuto della cella è effettuata polarizzando normalmente il transistor e rilevando la tensione in uscita: se la floating gate non contiene elettroni, il MOSFET risulterà in conduzione (stato logico 1); diversamente il MOSFET risulterà interdetto (stato logico 0) a causa della maggiore tensione di soglia necessaria per la conduzione. Nelle celle delle memorie flash commerciali il numero di elettroni presenti sulla floating gate si aggira intorno a 300.000; il circuito di lettura della memoria deve discriminare tra 0 e 300.000 elettroni, ovvero fra due tensioni di soglia del transistor MOSFET che differiscono di circa 4-5 V. Sulla floating gate delle celle di memoria delle flash multilivello vengono conservati pacchetti costituiti da un numero di elettroni più esiguo. In alcune memorie commerciali, per es., vengono immagazzinati quattro pacchetti con un numero approssimativo di 0, 105, 2×105 e 3×105 elettroni. Un opportuno amplificatore di lettura, integrato nel chip, riesce a discriminare i quattro livelli corrispondenti alle quattro tensioni di soglia che differiscono di circa 1 V e a cui sono associate le combinazioni di bit 00, 01, 10 e 11, ottenendo in pratica l’immagazzinamento di 2 bit per cella. In tale modo è possibile raddoppiare l’informazione immagazzinata in una data area o in modo equivalente dimezzare la dimensione della cella a parità d’informazione. Le memorie flash e quelle flash multilivello, in virtù del fatto che non richiedono alcuna alimentazione elettrica per mantenere i dati e che occupano poco spazio, sono molto usate nei dispositivi che necessitano di un’elevata portabilità e di una buona capacità di memoria per il salvataggio dei dati come, per es., le fotocamere digitali, i cellulari e i moderni personal computer portatili. Una nuova classe di memorie potrebbe essere derivata dalle flash tradizionali sostituendo la floating gate di polisilicio con un insieme di nanocristalli. L’idea è stata proposta in un lavoro pionieristico dall’indiano naturalizzato statunitense Sandip Tiwari nel 1995. Sono molti i potenziali vantaggi offerti da questa struttura, primo fra tutti l’affidabilità del dielettrico. Quando l’ossido inizia a subire una degradazione, l’effetto sulla ritenzione di carica sarebbe meno drastico e più graduale; si ritiene che inizialmente, a causa della degradazione, siano pochi i grani connessi con il substrato a perdere elettroni. La cella di memoria però complessivamente continuerebbe a funzionare. Al crescere del numero di cicli di scrittura/cancellazione, la degradazione dell’ossido si estenderebbe e altri nanograni perderebbero ritenzione, ma la cella tenderebbe a perdere funzionalità solo gradualmente. Questa gradualità non può aversi in una memoria con una singola floating gate macroscopica, in quanto non appena si crea, a causa della degradazione, un solo cammino conduttivo, esso è sufficiente a impedire la ritenzione di tutto il sistema e la cella perde immediatamente funzionalità. Un altro vantaggio della memoria a nanocristalli è che essa possiede una struttura estremamente adatta a una forte riduzione delle dimensioni e risulta, per questo motivo, indicata per la realizzazione di matrici di memoria di grande capacità. Infine, la fisica dell’immagazzinamento di carica in un cristallo di dimensioni nanometriche è molto diversa da quella che regola il caso di una floating gate macroscopica e potrebbe fornire utili indicazioni sia per la riduzione della potenza dissipata sia per il miglioramento nelle procedure di scrittura e cancellazione. Negli ultimi anni, in molti sistemi che richiedono elevate velocità ma basse potenze nelle operazioni di lettura e di scrittura, sono state impiegate le memorie ferromagnetiche. Le memorie ferroelettriche (FeRAM, o anche FRAM, Ferroelectric random access memory) sono memorie non volatili con una struttura molto simile a quelle volatili DRAM (Dinamic RAM), ma che, a differenza di queste, impiegano particolari condensatori, detti ferroelettrici, in grado di mantenere una polarizzazione residua e quindi di immagazzinare informazioni anche dopo la rimozione della tensione di alimentazione. Una FeRAM offre numerosi vantaggi rispetto alla memoria flash: minore consumo, velocità di scrittura più elevata e un numero di cicli di scrittura/cancellazione molto maggiore. Il condensatore ferroelettrico, cuore della memoria, si ottiene sostituendo il normale dielettrico di un condensatore con un materiale ferroelettrico. In un normale condensatore, quando si applica una tensione esterna e quindi un campo elettrico, si ha il fenomeno della polarizzazione e, sulle superfici del dielettrico che si affacciano alle armature del condensatore, appaiono cariche di segno opposto (cariche di polarizzazione) a quelle presenti sulle corrispondenti armature del condensatore. Tali cariche scompaiono quando il campo elettrico applicato si annulla. Al contrario, nei condensatori ferroelettrici permane una certa carica residua Q anche quando il campo elettrico viene annullato; in altre parole, il condensatore ferroelettrico presenta un’isteresi. Per una tensione nulla sono possibili due stati stabili: +Q oppure −Q, corrispondenti rispettivamente agli stati logici 1 e 0. Proprio per questo motivo le FeRAM sono maggiormente impiegate nei cosiddetti RFID, dispositivi che permettono l’identificazione di oggetti, animali o persone mediante la lettura di dati da un chip via radio. Le memorie magnetiche (MRAM, Magnetic RAM), non volatili, sono costituite da una matrice di celle di memoria analogamente alle vecchie memorie a nuclei di ferrite e alle DRAM; a differenza delle DRAM, però, le celle non sono costituite da condensatori, ma da giunzioni MTJ (Magnetic tunnel junction), realizzate fisicamente da due strati ferromagnetici separati da un materiale isolante molto sottile. La corrente di tunnel che attraversa la sottile barriera di isolante dipende dalla disposizione dei momenti magnetici degli atomi contenuti nei due strati di materiale ferromagnetico ed è massima quando i momenti sono paralleli tra loro (stato logico 1) e minima quando sono antiparalleli (stato logico 0). Secondo alcuni ricercatori, le MRAM promettono di riunire in un’unica tecnologia la densità delle DRAM, la velocità delle SRAM (Static RAM) e la non volatilità delle flash RAM, oltre consumi bassissimi e altissima affidabilità. Secondo altri ricercatori esisterebbero non pochi inconvenienti, fra i quali l’impossibilità di ridurre la cella oltre un certo limite per evitare false scritture da parte del campo magnetico. Una soluzione al problema sembrava essere l’introduzione di celle circolari e l’utilizzo dell’effetto magnetoresistivo gigante (GMR, Giant magnetoresistance) per la lettura e scrittura, ma questa linea di sviluppo sembra al momento abbandonata. Sviluppi hanno riguardato anche le memorie a cambiamento di fase (PCM, Phase-change memories), non volatili e costituite da una lega calcogenura di germanio (Ge), antimonio (Sb), tellurio (Te), nota con la sigla GST, che ha la proprietà di cambiare fase (cristallina o amorfa) in modo reversibile e controllato per mezzo di un riscaldamento locale provocato dalla corrente di programmazione che attraversa la cella di memoria. Come si è osservato sperimentalmente, le due fasi – cristallina o amorfa – sono caratterizzate da valori di resistività elettrica differenti, utilizzati come stati logici di memorizzazione: 0 per lo stato cristallino, a minor resistività, e 1 per lo stato amorfo, a maggior resistività. Il materiale e il concetto d’immagazzinamento digitale di informazione sono stati usati a partire dai primi anni Novanta del 20° sec. nelle applicazioni per dischi ottici (CD e DVD), nei quali il cambiamento di fase comporta quello locale di riflettività. A differenza di ciò che accade per tali supporti di tipo ottico, il cui cambiamento di stato è controllato da un laser, nelle memorie a cambiamento di fase viene impiegato un semplice transistor in grado di consentire un’occupazione di spazio piuttosto ridotta e tempi di lettura/scrittura estremamente veloci. Inoltre, le PCM sono garantite per resistere a cicli di cancellazione e memorizzazione che arrivano fino all’ordine del milione, a differenza delle memorie flash la cui affidabilità è garantita soltanto per migliaia di cicli di lettura/scrittura. Nel campo delle memorie ottiche planari bidimensionali, lo stato dell’arte della tecnologia è rappresentato da dispositivi quali il CD, il DVD e il blu-ray disc, di larghissimo impiego anche nelle apparecchiature audio e video di uso comune e con capacità d’immagazzinamento dati di 0,7 GB per il CD, fino a 17 GB per il DVD e 50 GB per il blu-ray. Capacità ancora maggiori sono proprie dei dispositivi magnetoottici (MOD, Magneto optical disk) introdotti alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, basati sull’effetto magnetoottico di Kerr e utilizzanti laser rossi per l’indirizzamento. L’uso di laser blu-violetto, che consente maggior risoluzione spaziale, e di materiali a cambiamento di fase ha portato allo sviluppo delle unità UDO (Ultra density optical), le cui capacità sono dell’ordine delle centinaia di gigabyte. L’uso di macromolecole sintetiche e di proteine fotocromiche per la realizzazione di memorie ottiche, anche tridimensionali, potrebbe aprire prospettive rivoluzionarie nel settore, così come l’avvento di dispositivi di immagazzinamento a tre dimensioni e di tecniche di registrazione olografica, che potrebbero portare a capacità di memoria dell’ordine di terabyte per centimetro cubo. Una memoria olografica (v. anche ) è un dispositivo optoelettronico di archiviazione tridimensionale delle informazioni, realizzato su supporti polimerici ad altissima densità (polimerasi). Si tratta di una tecnologia di sola lettura o lettura/scrittura alternativa a quella ottica, usata per produrre DVD e blu-ray. Con la tecnologia olografica si arriva a memorizzare oltre 300 GB di informazioni su un supporto da 5 pollici. La generazione di ologrammi 3D avviene attraverso l’interazione di due fasci coerenti di luce laser. Uno funziona come elemento di riferimento mentre l'altro, modulato con i segnali da registrare, illumina la zona di incisione venendo in collisione con il precedente. L'interferenza tra i due raggi laser produce un pacchetto di byte (pattern) memorizzato successivamente all’interno del disco. Variando l’inclinazione del raggio incidente, modificando la lunghezza d’onda del laser oppure alterando la posizione fisica del supporto, si memorizzano ologrammi (quindi pattern) differenti anche nella stessa unità di superficie, ottenendo di conseguenza un’elevatissima capacità di memorizzazione delle informazioni.