Tecniche chirurgiche
Le innovazioni nella chirurgia di inizio millennio
Il continuo e rapido sviluppo tecnologico iniziato negli anni Cinquanta del 20° sec. ha consentito alla chirurgia un progresso tecnico sorprendente. Ma se al di là del mero aumento dello strumentario a disposizione del chirurgo si cerca di individuare alcuni tratti caratteristici distintivi della chirurgia dei primi anni del 21° sec., essi possono essere identificati con due parole chiave: riduzione e integrazione. Di grande significato la riduzione della traumaticità dell'atto operatorio, che è ottenuta con accessi chirurgici ridotti e con un'estensione eccezionale per le indicazioni alla chirurgia cosiddetta mininvasiva. Questo processo è assistito dalla tecnologia ottica che fornisce sistemi di visualizzazione degli spazi interni del corpo di dimensioni sempre più minute (ottiche da 2 mm), nonché dalla robotica applicata alla chirurgia che equipaggia il chirurgo con appendici automatizzate delle sue mani, tali da consentirgli il superamento delle limitazioni di movimento che impone l'agire in spazi angusti e senza contatto diretto con i visceri sui quali si sta lavorando. La frontiera estrema dell'espansione funzionale dei sensi e delle capacità del chirurgo al servizio della riduzione di invasività è la realtà aumentata, in cui sofisticate tecniche di ricostruzione di immagine immergono l'operatore in un ambiente virtuale con visione diretta delle strutture anatomiche, corredato da informazioni provenienti dalle altre tecniche di imaging. Tale approccio consente di valutare, prima di aver causato danni, rapporti anatomici potenzialmente pericolosi, ma non evidenti alla sola osservazione o di conoscere in anticipo la funzionalità del tessuto su cui si sta intervenendo, come nella 'neuronavigazione'. Anche il processo di integrazione sta caratterizzando in maniera sempre più spinta l'evoluzione della chirurgia moderna. Il chirurgo è ormai stabilmente parte di una rete di relazioni professionali che precedono, accompagnano e seguono l'atto operatorio vero e proprio. Ciò non è vero solo da un punto di vista organizzativo sanitario; sono ormai abituali tecniche chirurgiche in cui l'operatore si avvale in tempo reale delle competenze degli esperti di imaging, come nella chirurgia mininvasiva cardiovascolare, dei medici nucleari, come nella chirurgia radioguidata, o fa ampio ricorso a biomateriali preparati ad hoc per uno specifico paziente, con processi di ingegneria tissutale. Esaminiamo qui di seguito con maggior dettaglio alcune delle più importanti tecniche a cui si è appena accennato.
Chirurgia mininvasiva e chirurgia robotica
Non esiste campo della chirurgia nel quale non siano state elaborate tecniche operatorie che si avvalgono di incisioni e di accessi miniaturizzati, delle dimensioni di pochi centimetri, ma anche inferiori. Se l'asportazione di colecisti per via mininvasiva è ormai considerata il gold standard per questo tipo di procedura, si eseguono comunemente interventi mininvasivi per molti interventi su altri organi addominali, nonché in chirurgia ginecologica, urologica ed endocrina. La dimensione degli strumenti che consentono la visione e le manovre chirurgiche si è ridotta fino a 2 mm, tanto che si parla di needlescopy (letteralmente agoscopia). I vantaggi di un accesso mininvasivo sono non di carattere estetico, ma anche funzionale: la degenza è più breve e il recupero più rapido. Questo progresso naturalmente ha un prezzo in termini di aumento di difficoltà tecnica, perché la mano del chirurgo non agisce più a diretto contatto con il viscere, ma sempre mediante interposizione di strumenti manipolati dall'esterno del corpo, sotto visione televisiva. Le conseguenze sono una limitata escursione dei movimenti, una perdita di sensibilità tattile e, anche, una visione che è prevalentemente bidimensionale del campo operatorio. L'ordinario addestramento alle tecniche mininvasive è sufficiente a superare queste limitazioni, ma se la complessità dell'intervento aumenta o la miniaturizzazione della strumentazione si accentua, allora è necessario che la tecnologia entri in gioco per espandere le possibilità dell'operatore. I sistemi robotici sono stati ideati allo scopo precipuo di assistere le manipolazioni dall'esterno, riguadagnando la grande libertà e finezza di movimento che una mano possiede. I primi sistemi sono entrati in uso nel 1998 e una delle piattaforme robotiche più usate in chirurgia è il 'sistema Da Vinci', prodotto da un'azienda californiana. Operando su manopole esterne, il chirurgo può far agire mani robotizzate in grado di muoversi con grande libertà (su-giù, destra-sinistra, dentro-fuori, rotazioni) e con rapporti di demoltiplica che vanno da 2:1 fino a 10:1, il che consente di far compiere al braccio robotizzato movimenti finissimi di estrema accuratezza. Naturalmente è calibrabile anche la forza di presa. Il chirurgo indossa un casco-visore per visione tridimensionale che ricostruisce le immagini prese simultaneamente da due telecamere indipendenti, permettendogli di immergersi in un ambiente quasi virtuale, con possibilità di ingrandire la rappresentazione a suo piacere. Si parla di 'realtà aumentata' quando con tecniche digitali si combinano le immagini televisive riprese dalle telecamere che si usano in chirurgia mininvasiva con immagini biomediche prodotte in precedenza sullo stesso paziente come, per es., immagini di tomografia computerizzata (CT) o di risonanza magnetica (MR). Le informazioni morfologiche e i rapporti spaziali vengono sovraimposti elettronicamente alle immagini 'reali' televisive, così da poter vedere quasi per trasparenza la presenza di strutture anatomiche che non si vogliono danneggiare in prossimità di quelle sulle quali si sta al momento lavorando. Un'applicazione particolare della realtà aumentata è la neuronavigazione, utilizzata in neurochirurgia. Immagini che mostrano l'attivazione funzionale di diverse aree della corteccia cerebrale vengono utilizzate intraoperatoriamente per guidare la demolizione che si accompagna all'asportazione di tumori, così che il sacrificio di aree funzionalmente importanti sia il più limitato possibile, compatibilmente con la radicalità dell'intervento stesso.
Integrazioni multidisciplinari
Una delle integrazioni più feconde degli ultimi anni è stata quella fra chirurgia e medicina nucleare nella chirurgia radioguidata. Essa consente al chirurgo di identificare tessuti marcati in precedenza con elemento radioattivo che abbia un'affinità specifica di legame per il tessuto che interessa. Questa tecnica espande fortemente le capacità ispettive del chirurgo, basate altrimenti solo sulla vista e sul tatto. Un'applicazione standard della chirurgia radioguidata è la ricerca del linfonodo sentinella in molti tipi di tumore, come per la mammella, le neoplasie della testa e del collo, i melanomi cutanei. Iniettando una minuscola quantità di tracciante radioattivo nel tumore poche ore prima dell'intervento, si è poi in grado di identificare il linfonodo che per primo ha drenato l'isotopo dal tumore stesso e che rappresenta quindi il primo della catena di drenaggio del tumore. Esso è perciò il primo candidato a essere raggiunto da eventuali metastasi. La sua escissione con esame istologico intraoperatorio consente di conoscere in anticipo il grado di estensione della malattia e calibrare l'estensione dell'intervento necessario. Un'altra applicazione della chirurgia radioguidata è, per es., l'identificazione di piccoli tumori funzionanti delle paratiroidi, che per le loro dimensioni minute possono sfuggire all'osservazione diretta intraoperatoria, specie se l'intervento è eseguito con tecnica mininvasiva. Un utile rapporto si è realizzato fra chirurghi vascolari e radiologi, in merito alla possibilità di trattare molte malattie delle arterie attraverso piccoli accessi e l'introduzione di protesi (stent) che possono allargare tratti ristretti dall'arteriosclerosi o che tutelano tratti di parete indeboliti dalla presenza di una dilatazione aneurismatica. Il chirurgo vascolare cura l'accesso all'arteria nella quale si introduce il dispositivo, guidato da un catetere. Il radiologo monitorizza la progressione del catetere fino alla zona dell'intervento, dove lo stent, costituito da una rete metallica a molla, viene fatto scattare e aperto. I materiali da cui è rivestita la protesi ne consentono poi un'effettiva incorporazione nella parete dell'arteria stessa. Ed è proprio il ruolo svolto dai materiali a costituire l'ultimo approfondimento che riguarda l'integrazione delle discipline bioingegneristiche e genetiche con la chirurgia. Infatti, alcuni dei progressi maggiori sono stati compiuti proprio nel campo della chirurgia ricostruttiva, mediante l'utilizzo di polimeri e altri materiali di derivazione biologica. Fra questi spiccano gli innesti di epidermide o derma ottenuti tramite semina di fibroblasti (cellule che costruiscono l'impalcatura del derma) o di cheratinociti (cellule dell'epidermide) su una matrice tridimensionale di un polimero di origine biologica. Dopo un periodo opportuno di crescita si ottengono sottili film cellulari che, apposti su vaste ferite croniche o zone ustionate, consentono una guarigione fisiologica. Le cellule necessarie per poter realizzare l'innesto vengono prelevate dal paziente stesso con biopsia di un solo centimetro quadrato. Una possibile evoluzione prevede il ricorso alle cellule staminali estratte dall'epidermide per la riparazione di estese lesioni cutanee. Le cellule staminali provenienti da tessuti di adulto (per es., dal tessuto adiposo), ancor più se opportunamente attivate dal punto di vista genico, sono al centro dell'attenzione per le loro applicazioni nella chirurgia riparativa delle lesioni ossee, in cui vengono iniettate all'interno di un reticolo di ceramica, colonizzandolo e riproducendo osso. Lo stesso tipo di cellule si è dimostrato in grado di riparare fistole intestinali croniche in pazienti affetti da morbo di Crohn.
bibliografia
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