TEATRO (XXXIII, p. 353)
Il teatro di prosa (p. 369). - Nella storia del teatro di prosa, mai come in questi ultimi lustri gli appassionati della vita teatrale hanno lamentato la povertà o decadenza della scena del loro tempo, sia riferendosi a reali o immaginarî splendori del passato, sia auspicando per l'avvenire un teatro più degno delle aspirazioni nuove. A un enorme fervore d'intraprese teatrali, e di iniziative editoriali riguardanti la storia e i problemi del teatro, la divulgazione di opere antiche e straniere, e di attività svariatissime in centri di studio e d'avviamento professionale, e in congressi nazionali e internazionali, si accompagna oggi, infatti, la deplorazione della cosiddetta "crisi" del teatro, con la volenterosa indicazione dei mezzi per risolverla. Nella maggior parte dei paesi civili, lo stato è intervenuto nelle sorti della scena nazionale, dalle sue forme più tradizionali (custodite in istituti di venerabile ortodossia) alle più appariscenti (cfr. la diffusa voga dei grandi spettacoli all'aperto), ai teatri studenteschi, universitarî, dilettantistici, ecc., e ai piccoli teatri per iniziati. Alle iniziative già ricordate (XXXIII, p. 369) va aggiunta quella del "Convegno Volta" per il teatro, tenutosi in Roma nel 1934 ad iniziativa dell'Accademia d'Italia sotto la presidenza di Luigi Pirandello, riunioni che si ricordano soprattutto come sintomi del disagio che la scena di prosa accusava in parecchi paesi europei. Vero è che questo disagio va inteso in senso relativo, come in senso relativo si può accogliere l'accusa lanciata contro la concorrenza che il cinema parlato farebbe alla scena drammatica. È innegabile che nei paesi slavi, particolarmente nell'URSS, e anche in quelli di lingua tedesca il teatro drammatico ha continuato a contare su un crescente concorso di folle, nonostante la sopravvenuta passione per lo schermo. E in altri paesi (Stati Uniti) si è assistito addirittura al fatto che, contemporaneamente alla diffusione del cinema, è apparso e si è sviluppato un grande teatro nazionale, sino allora inesistente.
Di essenziale gravità, invece, la crisi che si è registrata in Italia. Qui il regime fascista, che dopo il lungo periodo d'assenteismo dello stato liberale cominciò, specie dal 1935, a svolgere una diretta attività in pro del teatro, non riuscì tuttavia a salvare la situazione; anzi d'anno in anno vide diminuire, con la frequenza del pubblico, la popolarità dell'arte drammatica. Malgrado il fervore dei funzionarî preposti all'apposito ufficio, all'utilità dell'intervento statale nocquero probabilmente certi gretti principî politici (e da ultimo raziali) imposti dall'alto, il protezionismo nazionalistico esercitato con criterî non qualitativi ma quantitativi, le ingerenze di industriali interessati a difendere la bottega contro l'arte, l'incomprensione delle esigenze d'una scena moderna contrastate dall'attaccamento a una consuetudine secolarmente gloriosa, ma ormai inaridita, come quella delle compagnie girovaghe. Caduto il fascismo, il bilancio dei suoi atti anche positivi apparve viziato da tare irrimediabili: si era istituita in Roma una scuola d'arte scenica con sistemi moderni, ma senza il suo logico sbocco che sarebbe dovuto essere un nuovo teatro; si erano promossi grandi spettacoli all'aperto, ma riservati a un piccolo pubblico di facoltosi; si erano lanciati per l'Italia i cosiddetti "Carri di Tespi", ma affidandoli ad artisti mediocri, che eseguivano un cattivo repertorio. Cessate le sovvenzioni alle ultime compagnie, queste si dispersero senza che gli invocati ma non mai fondati teatri stabili ne prendessero il posto. D'altra parte, morto nel 1936 L. Pirandello, e cioè l'autore italiano che - a parte D 'Annunzio - aveva maggior prestigio e risonanza mondiale, gli altri drammaturghi parvero per qualche tempo chiudersi in uno smarrito silenzio e, mentre nella massima parte delle città italiane quasi tutti i teatri di prosa offrivano ospitalità al cinema e alla rivista, nelle città maggiori (Roma, Milano) le formazioni più o meno improvvisate da attori anche illustri si dettero a rappresentare quasi esclusivamente il più moderno repertorio straniero, fino allora combattuto o precluso.
Conviene tuttavia riconoscere, di fronte a questi fatti negativi, uno positivo di notevole importanza; e cioè l'avvento, inusitato in Italia, di alcuni registi moderni che, grazie a una nuova sensibilità e a una seria preparazione, inscenarono a Roma e a Milano spettacoli d'eccellente classe. Purtroppo ciò avvenne sporadicamente, senza iniziare un vero e proprio costume; ma fu cosa bastevole a suscitare l'interesse d'una parte dell'intelligenza italiana, specie giovanile. Autori anziani delle più varie tendenze e autori nuovi cominciarono a riaccostarsi alle scene; a sua volta lo stato ed enti privati bandirono concorsi drammatici; piccole ma utili iniziative teatrali ripresero a fiorire presso le più importanti università. Il "Piccolo teatro della città di Milano", fondato nel maggio 1947 col favore di quel municipio, e poi sussidiato anche dal governo, ha dato spettacoli di prim'ordine, sia classici (Shakespeare, Molière, Calderón, Goldoni, ecc.) sia moderni (Gorkij, Pirandello, Anouilh, ecc.). A Roma (dove nel 1948 è sorto un analogo "Piccolo Teatro") e a Milano si son tenuti convegni ispirati a tendenze nuove. Lo stato si è deciso ad assumere l'iniziativa d'una nuova legislazione, ricreando presso la presidenza del Consiglio una direzione generale dello spettacolo, ufficio che si propone fra l'altro di ricomporre la frattura che sembra essersi prodotta fra la scena drammatica e la vita culturale italiana e nello stesso tempo riportare a quella scena non già un piccolo gruppo di iniziati, ma il favore del gran pubblico che l'ha disertata. Rinascono speranze nuove. E tra le ultime opere drammatiche riaffiorate sulle nostre scene si avverte, pur nel clima di sbigottimento ovvio in quest'ora grave, la segreta aspirazione a un ordine nuovo, il nascosto ma insopprimibile bisogno d'una fede (che fu poi, a guardar bene, il fascino dello stesso poeta la cui tragedia nichilista continua tuttavia a esercitare così vasto influsso sul dramma contemporaneo, non soltanto italiano: Luigi Pirandello). E motivi pirandelliani percorrono addirittura le ultime e applauditissime commedie napoletane del più pregiato fra i nostri drammaturghi d'oggi, l'attore-autore Eduardo De Filippo.
Ben diverso significato può avere la parola "crisi" in un paese come la Francia. È vero che la sua drammaturgia non fornisce più, come già nell'Ottocento, la massima parte del repertorio alla restante Europa, né all'America; ma rimane tuttavia espressione, non solo del facile edonismo d'un vecchio pubblico borghese tuttora uso alle residue costumanze fine Ottocento, ma anche delle ansie di spiriti più nobili, vigili, allarmati. E i teatri drammatici parigini dei più varî colori riboccano tuttavia, come una volta, di un pubblico sovrabbondante. Nel periodo corso fra le due guerre, quei teatri potevano sommariamente dividersi in tre categorie: i teatri sovvenzionati (Comédie-Française, Odéon) dove si rappresentava il grande repertorio classico e moderno, quasi esclusivamente nazionale; i teatri boulevardiers, mostra delle più applaudite vedettes e degli autori a gran successo; i maggiori e minori teatri d'arte, campo degli autori più audaci e della più innovatrice regìa moderna. Dopo la breve quanto feconda attività del Vieux-Colombier di Jacques Copeau e dopo quella del cosiddetto "cartel" costituito da Charles Dullin, Louis Jouvet, Gaston Baty e Georges Pitoëff, l'influenza della nuova arte scenica si fece sentire al punto che, negli ultimissimi anni precedenti la guerra, il nuovo direttore (administrateur) Édouard Bourdet aprì il chiuso tempio della Comédie ai nuovi registi, invitando Copeau, Dullin, Jouvet e Baty a mettere in scena, coi vecchi sociétaires e pensionnaires del teatro, opere classiche e contemporanee, ottenendo vario successo. La guerra scompigliò i piani del riformatore. Il suo successore Copeau, chiamato a dirigere da solo lo storico teatro, se ne dimise quando, occupata Parigi dai Tedeschi, fu imposto agli artisti della Comédie di recarsi a dare alcuni spettacoli a Berlino. Parimenti Jouvet, pur di non recitare agli occupanti, si recò nell'America del Sud. Morto Pitoëff, dedicatosi Baty alle marionette, solo dell'antica schiera rimase Dullin. D'altre figure della scena francese, quella intorno a cui durante un tale periodo più si acuì il pettegolezzo fu l'attore-autore Sacha Guitry, accusato di collaborazione coi Tedeschi, infine prosciolto ma senza poter riacquistare l'incondizionata popolarità d'una volta. In questi ultimi tempi, accanto a Jouvet tornato in patria, la più importante rivelazione quanto ad arte scenica è forse quella dell'attore e regista Jean-Louis Barrault che, non ancora quarantenne, è da un pezzo considerato con aperta predilezione dal pubblico e con estrema attenzione dalla critica.
Quanto al presente repertorio delle scene francesi, accanto ai classici di cui i teatri sovvenzionati offrono le interpretazioni tradizionali e i registi moderni le interpretazioni moderne, e accanto alle riprese dei più acclamati autori di ieri (da segnalare il fervore d'un ritorno a Paul Claudel), gli autori più ricercati sulle ribalte parigine provengono dalle origini più diverse: da François Mauriac, già ben noto come romanziere, e da Jean Cocteau che, d'esperienza in esperienza, è arrivato a quella dei più chiassosi pastiches, a Jean Anouilh, ad Armand Salacrou, agli scandalismi dell'esistenzialista Jean-Paul Sartre, ai violenti schematismi del translucido Albert Camus, ai problemi psicologici ed etici di IIenry de Montherlant.
Ma proprio in Francia si è detto che, durante questo periodo di ripiegamento della vecchia Europa su sé stessa, i creatori più veri nel teatro drammatico sono stati non tanto gli autori quanto i registi. Ciò sembra fuor di dubbio non solo in paesi come la Polonia e la Cecoslovacchia - dove la idolatria del teatro, favorita anche da ragioni patriottiche, aveva dato il risultato di spettacoli squisitissimi - o come in genere nei minori paesi slavi e balcanici, ma addirittura nell'URSS, dove la mania pressoché morbosa per il teatro e la teatralità, da innumerevoli scuole e da migliaia di sale grandi e piccole sboccata per tutta l'Unione in una sorta di furore nazionale, ha dato luogo, sotto la guida di maestri delle più disparate e anche paradossali teorie, a rappresentazioni d'una assai varia ma spesso portentosa genialità, mentre s'attende - sembra invano - la rivelazione di grandi autori nuovi. È noto che la sovietizzazione delle lettere e delle arti russe ha praticamente imposto anche al teatro l'obbligo di trasformarsi in strumento di educazione politica: donde non solo la tendenziosa riduzione dei classici a una morale antiborghese, marxista, ecc., ma anche il tacito o esplicito obbligo, agli autori nuovi, di scrivere secondo i dettami della propaganda. Non pare che, almeno fino a oggi, ciò abbia dato i frutti sperati. Già nel 1937, all'Esposizione internazionale di Parigi, la massima troupe russa, quella del Teatro d'Arte di Mosca condotta da Vladimir Ivanovič Nemirovič Dančenko, dava al pubblico la sensazione di un'arte che si esauriva splendidamente ma aridamente nello spettacolo. E, almeno a giudicare dalle traduzioni degli autori sovietici succeduti al Gor′kij e giunte in questi ultimi tempi fino a noi, appare giustificato il rimpianto dei più acclamati registi russi - da Konstantin Sergeevič Stanislavskij (m. nel 1938), a Vsevolod Emil′evič Meyerhold, ad Aleksandr Jakovlevič Tajrov, e addirittura Nikolaj Nikolaevič Evrejnov, profeta del "teatro teatrale" e dei grandi spettacoli di masse - ché le loro geniali o ingegnose teorie, applicate nei modi più sbalorditivi, non bastano a dare al teatro un contenuto, se il profeta non esiste.
Di non dissimili fini politici si era parlato, nel periodo nazista, anche per il teatro tedesco: ed è possibile che si sia esagerato. In paesi dove da un secolo e mezzo si è diffusa con ritmo crescente la passione per il teatro e dove ancora durante l'ultima-guerra esistevano oltre 300 teatri sovvenzionati dallo stato o dagli enti locali, era ovvio che un regime totalitario come il nazionalsocialismo si proponesse di esercitare, ai proprî fini, una enorme pressione. Ma ciò è avvenuto non tanto programmando e imponendo opere di diretta propaganda faziosa, quanto escludendo quelle sospette di una morale opposta. La persecuzione raziale fece piazza pulita degli autori, degli attori, dei critici e dei registi di razza semita (si pensi ad Alfred Kerr e a Max Reinhardt, costretti all'esilio) o di fede comunista (si ricordi per tutti il prestigioso Erwin Piscator). Nonostante ciò la religiosa mania tedesca per il teatro ha resistito con pertinacia anche a questo ovvio impoverimento: le nuove scuole, ereditate in gran parte dal citato Reinhardt e da altri maestri in prevalenza ebrei, avevano fatto proseliti, anche ariani, capaci di spettacoli di buona e d'ottima classe. La riverenza tedesca verso il fenomeno "teatro" è perdurata anche durante la guerra: fin sotto i bombardamenti, le sale degli spettacoli hanno continuato ad essere affollate, e ancora oggi la popolazione malnutrita e disorientata continua a gremire sia gli antichi teatri superstiti, sia quelli eretti con mezzi di fortuna fra i ruderi. Ciò che tuttavia non si conosce ancora è la parola che in quei luoghi si dispensa alla folla, e quali autori nuovi vi annuncino il loro messaggio.
Ingenua ricerca d'un piacere ingenuo è la caratteristica del vasto pubblico che affolla gli spettacoli inglesi, nelle metropoli e nelle città minori. I vantati successi londinesi, le serie di repliche che durano anni, si riferiscono il più delle volte a spettacoli di gradevoli e anche sontuose apparenze, ma di povero, se non infantile contenuto. Continua tuttavia, e anzi in certo senso si è irrobustita, la vena di quelle ricerche che, tra la fine dell'Ottocento e il principio del nostro secolo, ha interessato una élite britannica. Non possiamo dimenticare che dal teatro inglese ci son venuti i nomi sia del maggior rivoluzionario del dramma europeo (che, però, è nato in Irlanda), G. B. Shaw, sia dell'apostolo della regìa moderna, Gordon Craig. Là dove si è parlato del periodo antecedente alla prima Guerra mondiale, si è illustrata l'opera dell'autore e regista Harley Granville-Barker. Certo, dopo lo Shaw, non si è conosciuto altro autore britannico della sua statura. Ma non sono mancati i commediografi inglesi, tradotti e rappresentati con larga simpatia anche in Europa e in America, non soltanto per merito del loro evidente virtuosismo scenico, ma anche come esponenti d'una società e d'un costume: basti ricordare William Somerset Maugham, l'autore-attore-regista Noel Coward, il Priestley, ecc. Oggi, accanto alla ininterrotta tradizione degli spettacoli cari a quel grande pubblico di cui s'è detto, rifiorisce, con gli studî shakespeariani, il culto di Shakespeare anche sulla scena. E oltre ai teatri universitarî e a quelli d'arte raffinata - ricordiamo fra tutti il Mercury di Londra - la scena inglese registra il successo, non soltanto nazionale ma mondiale, dell'Old Vic e del suo insigne regista e attore, Laurence Olivier.
Da registrare a parte anche il fenomeno - iniziatosi già dal 1899 a Dublino con la fondazione dell'Abbey Theatre, ma continuato a svilupparsi e a fiorire anche ai nostri giorni - dell'ormai ben noto teatro irlandese. I nomi della sua triade - Lady Gregory, John Millington Synge, e William Butler Yeats - erano celebri in Europa già avanti la prima Guerra mondiale: ma, fra l'una e l'altra guerra, l'importanza anche sociale e politica del singolare istituto e della attività dei drammaturghi che da esso presero le mosse, fu riconosciuta nelle vicende attraverso le quali l'Irlanda riacquistò la sua indipendenza dall'Inghilterra. Irlandesi protestanti - come i tre già citati, e come Lennox Robinson, autore, regista e critico - si sono affratellati coi cattolici, come T. C. Murray (presidente della Associazione dei drammaturghi irlandesi), in questa fioritura. Fra gli altri nomi, notevole quello di Sean O' Casey, rappresentatore colorito, in drammi e commedie d'aspetto corale, della varia, multiforme e spesso contraddittoria anima irlandese.
Ma il fenomeno più nuovo da registrare nel teatro drammatico contemporaneo in quest'ultimo ventennio, è la nascita del dramma nordamericano. Fino al primo decennio del nostro secolo il teatro di prosa negli Stati Uniti viveva quasi esclusivamente d'accatto. Col nostro secolo, si erano fatti sempre più numerosi i teatrini degli intellettuali rivolti a un pubblico speciale: tale, ancora durante la prima Guerra, quello dei Provincetown Players a Greenwich Village presso New York, dove furono varati i primi drammi marini di Eugene O'Neill. Fra la prima e la seconda Guerra mondiale l'America del Nord s'afferma anche con un teatro di caratteri originali, suscitando il genuino interesse del paese che vi si riconosce, e poi invadendo rapidamente l'Europa. Influssi europei, ma già trasfigurati, si avvertivano nell'opera di O'Neill, ma nessun dubbio che, negli autori a lui succeduti, si trovino espressi, con maggiore o minore energia, sensi e personaggi ormai tipici del loro paese e della loro età. Siamo ben lontani da quel materialistico ottimismo, energetico e soddisfatto di sé, cui sino a qualche tempo fa l'europeo si riferiva pensando all'America: la sua letteratura, e più che mai questo suo novissimo teatro, appaiono il fiore d'una desolazione, di un dissolvimento, di un'angoscia espressa in una quantità di gamme; la denuncia di atroci ingiustizie sociali; la delusa, romantica ricerca d'un introvabile ubi consistam. Paralleli al più crudo romanzo americano, di cui spesso non sono che riduzioni sceniche, i drammi di Erskine Caldwell, di John Steinbeck, di Ernest Hemingway, esprimono le stesse truci disperazioni. Non tutta la scena americana è su questo stesso tono: una immensa fortuna ha pure arriso, con migliaia di repliche, alla superficiale ironia di Clara Boothe, o a quella più o meno bonaria di Edna Farber, di George F. Kaufman, di Lilian Helmann, di Tennessee Williams, o al malinconico ottimismo di William Saroyan. Da queste note a quelle delle più o meno aspre accuse di Irvin Shaw, di Clifford Odets, di Maxwell Anderson, di Sidney Kingsley, il teatro americano ha ormai percorso una tastiera assai vasta, a uso del pubblico più grosso come del più intelligente. Né è da stupire che in questi successi abbia avuto la sua parte anche il sentimento religioso, sia nel folclore negro di Marc Connelly, sia nel dramma gesuitico di Emmet Lavery, sia nella tragedia cattolica di Thomas Stearns Eliot (benché quest'ultimo poeta, nato in America, sia oggi considerato inglese). Forse, il moderno drammaturgo americano che più ha colpito la fantasia europea, o almeno l'italiana, è stato Thornton Wilder, grazie ai significati che si son visti nell'ultrasintetismo di Our Town, di The long Christmas dinner, ecc. Insomma, oggi, i rapporti fra le due scene, l'americana e l'europea, sembrano rovesciati: la prima non è più la succube, bensì ha ormai cominciato a esportare i suoi prodotti in Europa, spesso scacciandone quegli indigeni.
Sarebbe prematuro dare un giudizio sul valore estetico e sociale, che sta lentamente acquistando il teatro drammatico anche nei paesi dell'America del Sud dove, accanto a una mediocre produzione locale, si rappresenta un po' di tutto, specie quella spagnola: e d'altra parte è noto che oggi la Spagna non sembra occupare, in questo campo, un posto preminente.
Nel vecchio e nel nuovo continente, la scena di prosa attira ancora, e forse più di ieri, sia il gran pubblico, sia gli spettatori intellettuali: erra chi in Italia, da una situazione dovuta a circostanze di estrema complessità, e sperabilmente transitorie, insiste nel considerare diminuita, o addirittura cessata, la funzione del teatro drammatico nella vita dei popoli moderni. Tutto anzi fa ritenere che la predilezione del nostro secolo verso il costume collettivo induca sempre più la società contemporanea al gusto di quest'arte per cui interpreti sempre meglio scaltriti e raffinati si fanno tramite alla comunione d'una folla con la parola d'un poeta, espressa nella sua forma più sintetica e suggestiva: il Dramma.
Bibl.: Oltre a saggi ed articoli apparsi nei periodici europei ed americani, non soltanto teatrali ma anche letterarî e culturali e negli stessi quotidiani, cfr.: N. Evrejnov, Le Théâtre en Russie soviétique, trad. franc. Parigi 1946; E. Dent, A theatre for everybody, Londra 1945; H. Clark, History of American Theatre, New York 1945; S. d'Amico, Il Teatro non deve morire, Roma 1945.