macinato, tassa sul
Imposta sulla macinazione del grano e dei cereali in genere chiamata anche dazio sulla macina. Ebbe carattere di imposta indiretta, ma fu a volte tramutata in diretta, sia mettendo una tassa sui mulini sia esigendo una somma fissa per bocca, in luogo di un tanto per misura di grano macinato. In Italia, per fare fronte a difficoltà di bilancio, fu proposta dapprima da Q. Sella nel 1862 e successivamente da A. Scialoia sotto la forma larvata di tassa di consumo sulle farine (22 gennaio 1866) e l’anno seguente da F. Ferrara. Divenne legge dello Stato il 7 luglio 1868, quando il ministero Menabrea la fece approvare con l’intesa che si sarebbe tolta, non appena assicurato il pareggio finanziario. I difensori dell’imposta sostenevano essere la sola a larga base, che assicurasse un introito facile e immediato, e aggiungevano che, ripartita a carico di tutti i cittadini, se ne sarebbe sentito meno gravemente il peso, mentre la concorrenza dei grani forestieri avrebbe assicurato il consumatore dal pericolo di un eccessivo rincaro del pane. Secondo gli oppositori si trattava, invece, di una tassa eminentemente affamatrice del povero. In Italia entrò in vigore dal 1° gennaio 1869, ma non essendosi provveduto tempestivamente a distribuire i contatori necessari per misurare la farina e applicare la tassa, si dovettero chiudere in molte parti i mulini e venne a mancare il pane. Scoppiarono tumulti in Val di Sieve, in Romagna e nell’Emilia, sfruttati dai partiti d’opposizione, sia repubblicani sia clericali, per combattere il governo. Raggiunto il pareggio del bilancio statale, la legge fu prima modificata, esentando dalla tassazione i cereali inferiori, quindi abolita dal gabinetto Cairoli-Depretis (1880), non senza danno per il bilancio faticosamente pareggiato.