TARGŪM (aramaico e neoebraico targūm: plurale neoebraico targūmīm "traduzione", poi la "traduzione" per eccellenza)
Questo nome designa le traduzioni della Bibbia in aramaico giudaico.
A quando risalgano i più antichi targūmīm non è possibile dire con sicurezza. Le asserzioni dei dottori del Talmūd circa l'alta antichità dei targūmīm esistenti al loro tempo non hanno valore storico. Certo è comunque che fin da quando, nell'epoca posteriore al ritorno dalla cattività di Babilonia, con un graduale processo le cui particolarità e la cui precisa cronologia sono difficilmente determinabili, la lingua aramaica venne a sostituirsi a quella ebraica come lingua d'uso, e il popolo non comprese più i testi biblici nell'originale, si sarà cominciato a spiegare nella lingua parlata i testi biblici che si solevano leggere in pubblico nelle riunioni cultuali della sinagoga. Ma poiché non ci è dato poter fissare con sicurezza il tempo in cui questo processo venne a svolgersi, e poiché a ogni modo esso dovette essere assai lento, tanto meno ci è dato di poter fissare la cronologia dei primi inizî delle traduzioni aramaiche. A ogni modo nell'epoca dei Maccabei esse erano indubbiamente già in uso. Certo è che la traduzione veniva fatta oralmente: dopo che l'anagnoste (ebr. qōrē) aveva letto dal rotolo scritto che teneva davanti un versetto o alcuni versetti del testo originale, un apposito traduttore (tōrgĕmān o mĕtōrgĕmān, meno esattamente mĕturgĕmān), traduceva oralmente il versetto o i versetti nella lingua parlata e compresa dal popolo.
Accanto alla pubblica lettura sinagogale, un'altra occasione per la traduzione dei testi biblici in aramaico doveva aversi nell'insegnamento elementare della Bibbia e della lingua ebraica ai fanciulli: per insegnare a questi il significato del testo originale e quello delle voci e delle forme grammaticali in esso usate era necessario tradurre a loro il testo, e abituarli a tradurlo, nella lingua da loro conosciuta.
Quale fosse la storia di queste traduzioni anteriormente ai più antichi manoscritti che ce le fanno conoscere, è cosa naturalmente assai difficile a determinare. Ma può aiutarci molto a questo proposito l'analogia delle più tarde traduzioni giudaiche nelle lingue europee, delle quali per la maggior documentazione possiamo più particolareggiatamente e più sicuramente seguire gli sviluppi successivi nel tempo; e in modo particolare l'analogia delle traduzioni giudaiche latine e poi italiane, la cui evoluzione ci è pressoché ininterrottamente documentata per un lunghissimo periodo di tempo, dagl'inizî dell'età cristiana ai giorni nostri. Le più recenti ricerche sulle traduzioni aramaiche a noi note, i numerosi testi ultimamente venuti in luce, e più ancora il loro esame alla luce delle suddette analogie, possono permetterci di ricostruire come segue le grandi linee del divenire e dell'evolversi dei targūmīm.
La frequente e continua ripetizione delle traduzioni aramaiche nella sinagoga e nella scuola diede certamente origine assai presto a una tradizione continuativa in proposito; vennero a poco a poco a fissarsi determinate norme di traduzione, determinati vocaboli aramaici per rendere determinati vocaboli ebraici, e determinati costrutti aramaici per rendere determinati costrutti ebraici: il tutto collegato in un sistema organico abbastanza complesso. Come tutte le tradizioni orali, questa tradizione per la traduzione della Bibbia non poteva essere rigidamente fissa nei suoi particolari; non erano escluse singole deviazioni personali dei diversi autori, e tanto meno erano escluse, anzi era naturale che avvenissero, una lenta e insensibile evoluzione attraverso il tempo e una parziale modificazione nei passaggi da un paese a un altro di differente carattere dialettale. Tuttavia, nelle grandi linee, il sistema costituito dalle suaccennate norme di traduzione e dal suaccennato uso di determinati vocaboli e costrutti aramaici in corrispondenza di determinati vocaboli e costrutti nel testo ebraico dovette conservarsi con una certa costanza attraverso i secoli e le migrazioni.
I metodi della traduzione potevano essere due diversi, e in un certo senso contrastanti fra loro: contrastanti però più in teoria che in pratica. Uno è quello della traduzione letteralissima, calco dell'originale. Siccome la traduzione non aveva altro intento che quello di aiutare a comprendere con precisione il testo originale, e non era mai considerata una sostituzione di esso, tanto meglio rispondeva al suo scopo quanto più strettamente aderiva al testo e ne riproduceva i più piccoli particolari, fosse pure a scapito della purezza della lingua aramaica, della quale non si pensava minimamente a preoccuparsi. L'altro metodo era quello di chi si proponeva di esporre non tanto la lettera del testo, quanto piuttosto l'interpretazione che di esso si dava nelle scuole giudaiche, nel campo della hălākáh (v.) e in quello della haggādāh (v.). I targūmīm che preferiscono questo metodo si discostano quindi spesso dal testo, sia sostituendo un concetto a un altro, sia introducendo aggiunte esplicative, e acquistano pertanto il carattere di parafrasi piuttosto che quello di traduzioni. Taluni di essi, specialmente quelli che dànno larga parte alla haggādāh, giungono ad essere larghissime amplificazioni dei testi. Il contrasto fra i due metodi non è effettivamente così grande come può sembrare in teoria, perché la strettissima adesione al testo ebraico è spesso intesa, specialmente dopo il prevalere della scuola e dei principî di Rabbī'Ăqībā (v.), a permettere di trarre anche dalla traduzione le stesse deduzioni che dal testo ebraico si solevano dedurre nelle scuole rabbiniche, sicché nelle traduzioni fatte con questo metodo l'esegesi rabbinica, se non è esplicita, è implicita. E spesso i due metodi s'intrecciano fra loro: anche nei targūmīm di solito letterali s'incontrano qua e là singoli passi parafrasati secondo l'interpretazione adottata nelle scuole rabbiniche.
La lingua dei targūmīm non corrisponde se non in parte alla fresca e spontanea lingua parlata dal popolo. Creati nelle scuole e in parte per le scuole, essi risentono assai dell'uso dotto; costretti spesso a modellarsi anche nei particolari sulla forma del testo ebraico, sono pieni di ebraismi e di costrutti artificiali; influenzati moltissimo dalla tradizione, presentano spesso vocaboli e forme usati solo in tempi anteriori a quello in cui furono redatti, o in luoghi diversi da quelli al cui popolo essi si rivolgono. In nessun tempo e in nessun luogo sono stati parlati dialetti aramaici del tutto eguali a quelli dei targūmīm.
Un'altra conseguenza dell'essere le traduzioni destinate esclusivamente ad aiutare a comprendere il testo, e del non venire esse mai considerate come sostituzione del testo a nessun effetto, fu che esse per lungo tempo non venissero poste per iscritto. Il loro compito si esauriva nel momento stesso in cui il tōrgĕmān o il maestro le aveva esposte al pubblico della sinagoga o ai discepoli; una successiva volta questi o i loro successori avrebbero dovuto fare un'altra traduzione, la quale sarebbe stata bensì similissima alla precedente, ma distinta da essa, che non esisteva ormai più, e non necessariamente eguale ad essa, anzi inevitabilmente differente da essa almeno in qualche particolare. E quando in progresso di tempo le traduzioni furono poste per iscritto per aiuto della memoria, questi manoscritti rimasero destinati soltanto all'uso privato. Non poterono neppure considerarsi opera effettiva di coloro che li avevano redatti, perché questi non avevano fatto altro che porre per iscritto la traduzione tradizionale, o se si vuole la forma che nella loro bocca o sotto la loro penna la traduzione tradizionale veniva in quel momento ad assumere. E naturalmente non ci furono due manoscritti che concordassero fra loro nella misura in cui sogliono concordare due manoscritti della stessa opera.
Qualcuna delle diverse redazioni tradizionali dei targūmīm, per qualche motivo più fortunata delle altre, e collegata, a ragione o a torto, con qualche nome insigne, giunse ad avere un riconoscimento assai largo, che poté in certi casi avvicinarsi al carattere di ufficialità. Ma anche per queste redazioni tipiche non si giunse a una forma definitiva o invariabile nei particolari: fintantoché il targūm fu qualche cosa di vivo, fu anche, per i motivi suddetti, variabile nelle sue forme esteriori, e ogni manoscritto ebbe una individualità propria. Soltanto quando la lingua aramaica era ormai spenta da lungo tempo e il targūm si era ormai cristallizzato, si copiarono meccanicamente e si riprodussero con la stampa certi determinati manoscritti, e si ebbe così l'apparenza di targūmīm fissi nella loro forma; ma era un'apparenza. E gli studiosi del secolo XIX che di questi targūmīm cercarono di determinare autore, patria, e tempo, giunsero a risultati differentissimi fra loro, come era inevitabile, essendo la questione posta male. Nessuno dei targūmīm ha un determinato autore, né una determinata età, e per molti di essi non si può nemmeno parlare di una determinata patria. Ciascun targūm rispecchia a suo modo una tradizione largamente diffusa nel tempo e spesso anche nello spazio, e contiene quindi elementi dovuti a una quantità d'individui, anzi a una quantità di generazioni e quindi a una quantità di epoche diverse, e talvolta anche a paesi diversi dotati di peculiarità dialettali diverse. Ciò premesso, passiamo a dare un cenno dei diversi targūmīm o tipi di targūmīm.
I. Targūmīm al Pentateuco. - 1. Targūm Onqĕlōs. - È quello dei targūmīm al Pentateuco che ottenne maggior diffusione, e che presso gli Ebrei di Babilonia nell'età degli Amorei (v. āmōrā) raggiunse un riconoscimento quasi ufficiale, della cui portata si può ragionevolmente dubitare, ma che comunque valse ad assicurargli anche più tardi, e dovunque, la preminenza sugli altri targ?ūmīm. La fortuna di cui godé in Babilonia, e che lo fece designare anche col nome di Targūm bablī o Targūm babilonese, non significa che esso fosse stato composto colà: la sua origine palestinese è indubbia (per il dialetto, v. sopra). Il suo nome è dovuto al fatto che il Talmūd babilonese ne attribuisce la paternità a un proselita Onqĕlōs, che sarebbe stato scolaro di tannaiti (v.) della seconda generazione (secondo un'altra opinione espressa nello stesso Talmūd babilonese questo targūm sarebbe assai più antico, risalendo ai tempi di ‛Ezrā). Ma le notizie talmudiche circa Onqĕlōs non sono che un'eco erronea di ciò che si riferisce ad Aquila e alla sua traduzione greca. Il Targūm Onqĕlōs è una traduzione di solito letteralissima; si distacca però dal testo quando questo, parlando di Dio o di cose in rapporto con la divinità, adopera espressioni antropomorfiche, che esso attenua, e anche in altri casi qua e là, quando si vuole esporre una determinata interpretazione del testo o introdurre un'aggiunta halakica o haggadica. A. Sperber ha oggi accertato che col nome di Targūm Onqĕlōs non si indicava un'entità unitaria e invariabile: i manoscritti antichi e le antiche stampe presentano differenze notevolissime fra loro.
Fu stampato per la prima volta a Bologna nel 1482, col testo ebraico, e infinite volte di poi. L'edizione di A. Berliner, Berlino 1884, riproduce quella di Sabbioneta 1557. Un'edizione critica viene preparata da A. Sperber; v. Proceedings of the American Academy for Jewish Research, VI (1934-1935), pp. 309-351.
2. Targūm palestinese. - In Palestina, a differenza della Babilonia, si preferì il metodo parafrastico, facente larga parte alla interpretazione rabbinica, specialmente nel campo della haggādāh, e inserente a tale scopo numerose aggiunte. Del targūm palestinese, o meglio dei targūmīm palestinesi, scritti in un dialetto che con le riserve su espresse si può ritenere assai vicino all'aramaico parlato in Palestina, possiamo oggi farci un'idea chiara grazie agli ampî frammenti recentemente trovati tra le carte della gĕnīzāh, e pubblicati e studiati dal Kahle e dalla sua scuola. Questi targūmīm, notevolmente diversi da manoscritto a manoscritto, continuano ad aver favore e ad essere affidati alla scrittura ancora nel sec. IX. Più tardi, quando l'autorità del Targūm Onqĕlōs che veniva sempre più affermandosi fece porre in disparte questi targūmīm, si volle da alcuno conservare almeno le aggiunte haggadiche in essi contenute, e se ne copiarono in alcuni manoscritti i relativi frammenti. Questi erano già conosciuti da tempo sotto il nome di Targūm frammentario, ovvero di Targūm Yĕrūshalmī II e III (gerosolimitano o palestinese II e III; per il I v. appresso: 3); oggi i testi della gĕnīzāh ci hanno dimostrato che esistevano targūmīm completi, di cui quelli non erano che estratti.
Testi della gĕnīzāh: P. Kahle, Masoreten des Westens, II, Stoccarda 1930, pp.1*-13*, 1-65; S. Wohl, Das palästinische Pentateuchtargum, Zwickau 1935. Edizioni di frammenti del cosiddetto Targūm frammentario: nelle Bibbie stampate a Lisbona 1491 e Venezia 1516-17, e molte volte dipoi; M. Ginsburger, Das Fragmententhargum, Berlino 1899.
3. Targūm dello Pseudo-Yōnātān. - È, a quanto pare, una specie di contaminazione del Targūm Onqĕlōs con elementi degli antichi targūmīm palestinesi. A differenza di questi esso ci è giunto per tradizione manoscritta ininterrotta. Deve il suo nome probabilmente a una erronea risoluzione dell'abbreviazione T. Y., che significava Targūm Yĕrūshalmī, cioè Targūm palestinese, e che, essendo noto il nome di Yōnātān ben ‛Uzzī'ēl come quello di un traduttore dei Prafeti in aramaico, fu erroneamente intesa come Targūm Yōnātān.
Fu stampato per la prima volta nella Bibbia di Venezia 1590-1591, e molte volte dipoi; con introduzione e note di M. Ginsburger, Berlino 1903.
Per il Targūm samaritano al Pentateuco, v. samaritani.
II. Targūmīm ai Profeti. - 1. Targūm Yōnātān. - Anch'esso di origine palestinese, ebbe in Babilonia un riconoscimento analogo a quello del Targūm Onqĕlōs al Pentateuco, e com'esso ebbe poi dovunque la preminenza assoluta sugli altri targūmīm degli stessi libri. Una tradizione accolta nel Talmūd babilonese lo attribuisce a Yōnātān ben ‛Uzzī'ēl, discepolo di Hillēl, il quale lo avrebbe composto in base all'insegnamento trasmesso dagli ultimi profeti. Tuttavia esso è citato spesso nel Talmūd babilonese in nome dell'āmōrā Yōsēf, capo dell'accademia di Pum-Bĕdītā (sec. IV), e talvolta anche a nome di altri dottori. Evidentemente non si avevano notizie precise sulla sua origine, e volta a volta per la traduzione di un singolo passo ci si richiamava all'autorità di chi lo citava. Questo Targūm, che non ebbe mai neppur esso una redazione definitiva e ci appare quindi in forme assai diverse, ha in complesso caratteri simili a quelli del Targūm Onqĕlōs, ma assai più di questo fa posto agli elementi haggadici.
Stampato per la prima volta (per i Profeti Anteriori) col testo a Leiria 1494, per intero nella Bibbia di Venezia 1516-17, e molte volte dipoi. Edizione dal codice Reuchliniano: P. de Lagarde, Prophetae chaldaice, Lipsia 1872 (successivamente ediz. di singoli libri, da diversi mss., a cura di diversi studiosi). Un'edizione critica è preparata da A. Sperber; v. Zeitschrift für alttestamentl. Wissenschaft, 1926, pp. 175-176; 1927, pp. 267-287.
2. Targūm palestinese. - Anche dei Profeti si ebbero targūmīm palestinesi, con numerosi ampliamenti haggadici simili a quelli dei targūmīm palestinesi al Pentateuco. Ci son pervenuti in diversi manoscntti frammenti di questi targūmīm in forma di aggiunte al Targūm Yōnātān, registrate per non lasciar perdere il materiale haggadico in esse contenuto; altri frammenti si hanno in citazioni.
Tali frammenti si trovano: nella suddetta ediz. dei Profeti Anteriori, Leiria 1494; in un ms. del Jews' College di Londra; nel ms. Reuchliniano (vedi l'introduzione all'op. cit. del De Lagarde). Raccolti presso W. Bacher, in Zeitschr. der deutschen morgenl. Gesellsch., XXVIII (1874) pp.1-72; cfr. P. Churgin, Targum Yonathan to the Prophets, New Haven 1907 (da leggere 1927), pp. 126-145, 151-52. Le citazioni soprattutto nei commenti di Dāwīd Qimḥī.
III. Targūmīm agli Agiografi. - Ne possediamo per tutti gli Agiografi all'infuori dei libri di Ezra-Nehemia e Daniele, dei quali è già in parte aramaico il testo biblico. Non ottennero mai riconoscimenti come quelli del Targūm Onqĕlōs e del Targūm Yōnātān, anzi il Talmūd babilonese (Mĕgillāh, 3a) sembra presupporre che targūmīm agli Agiografi non si avessero ancora. Ciò ha fatto supporre a molti che non esistessero traduzioni aramaiche degli Agiografi se non in epoca relativamente tarda, il che non è probabile: per lo meno in forma orale e tradizionale essi dovevano esistere contemporaneamente a quelli degli altri libri biblici.
I targūmīm agli Agiografi, pur essi di origine palestinese, hanno caratteri diversi l'uno dall'altro. Quello al Salterio presenta alcuni salmi tradotti letteralmente, altri ampliati con aggiunte haggadiche. Il Targūm ai Proverbî è assai affine alla Pĕshīttā siriaca. Quello a Giobbe dà spesso due o tre traduzioni di uno stesso verso. Quelli alle cinque Mĕgillōt sono ampie parafrasi haggadiche: notevoli per tale rispetto quello al Cantico dei Cantici e il secondo a Ester. Il targūm ai Paralipomeni è analogo ai targūmīm palestinesi al Pentateuco e ai Profeti.
La prima edizione complessiva (eccetto però il Targūm ai Paralipomeni) è quella della Bibbia di Venezia, 1516-17; poi molte edizioni successive. Il Targūm ai Paralipomeni fu pubblicato per la prima volta da M. F. Beck, Augusta 1680. Edizione per tutti gli Agiografi, a cura di P. de Lagarde, Hagiographa chaldaice, Lipsia 1873 (successivamente ediz. di singoli libri da diversi mss., a cura di diversi studiosi).
Bibl.: L'ampia bibliografia sui Targūmīm può vedersi indicata presso E. Schürer, Gesch. des jüd. Volkes im Zeitalter Jesu Christi, I, § 3, E, III, e in Encycl. Judaica, IV, Berlino 1929, coll. 570-581. Per le recenti pubblicazioni di testi e di studî, v. più sopra.