TAIDO
– Non risultano dati sicuri circa il luogo di origine né tantomeno la data di nascita di questo longobardo «civis Bergome», figlio di un certo Teuderolfo. È noto unicamente dal suo testamento, introdotto da un’arenga retoricamente elaborata e rilasciato a Bergamo nel maggio del 774, alla vigilia della caduta di Pavia e della fine del regno longobardo indipendente per opera del soverchiante esercito franco guidato da Carlo Magno.
L’appellativo di civis Bergome, come sembrano indicare altri casi più o meno coevi, potrebbe alludere alla semplice residenza entro la iudiciaria, il distretto amministrativo imperniato sulla civitas (De Angelis, 2015, pp. 173 s.). Nel suo testamento, «riflettendo sulla varietà delle sventure che continuano a crescere di giorno in giorno» («pensans varietatem insurgentium calamitatum», Codice diplomatico longobardo, II, a cura di L. Schiaparelli, 1933, n. 293), Taido dava certamente voce alle inquietudini di un’élite sociale che vedeva seriamente minacciate, a un tempo, le basi di potere economico e la propria posizione politica.
Taido ebbe in moglie una donna di nome Lamperga, alla quale, sub condicione viduitatis, affidò in usufrutto tutti i suoi beni perché vigilasse sulla loro trasmissione. Sembra che al momento della stesura della pagina ordinationis non avesse figli, il che porterebbe a congetturare che fosse ancora giovane, e magari solo da poco legato in matrimonio. Nessuna discendenza diretta, difatti, risulta dall’elenco dei molti lasciti disposti da Taido, nel quale va invece annoverato il suo dilectus germanus Teudoald, beneficiario delle porzioni di alcuni beni che con lui il testatore possedeva indivisi. Un altro fratello, Rodoald, escluso invece dall’asse ereditario, dovette in tutta evidenza avere precedentemente acconsentito all’alienazione di certe quote di sua spettanza: di lui il testo del documento fa menzione solo in quanto comproprietario dell’estesa curtis di Bonate Sotto e di talune pertinenze di questa (due casae massariciae e la parte di domocoltile situate presso Filago), che Taido assegnò per intero («tam mea portione quamque et Rodoaldi germano meo»), rispettivamente, alle chiese di S. Alessandro e di S. Vincenzo di Bergamo, e alla chiesa di S. Giuliano di Bonate. In un momento imprecisato Taido entrò in relazioni strette con l’ultimo re longobardo, Desiderio, tanto da essere nominato suo gasindio, uomo di fiducia nel novero di coloro «qui palatio regis custodiunt» (tale la definizione di una glossa dell’art. 62 delle leges di Liutprando, Cava de’ Tirreni, Biblioteca statale del monumento nazionale della abbazia benedettina della Ss. Trinità, Codices Cavenses, 4, c. 168r).
Rafforzato proprio durante il regno di Liutprando (ma il termine gasindium, nell’accezione di «servizio» nei confronti di un pubblico ufficiale o di uomini comunque potenti, era già comparso nell’editto di Rotari, Le leggi dei Longobardi..., a cura di C. Azzara - S. Gasparri, Roma 2005, p. 70), il gasindiato ricevette ulteriore impulso sotto Ratchis, il quale giunse a potenziare e rendere a tal punto autonomi i gasindi da emanciparli da qualsiasi azione diretta degli iudices (pp. 272-274). Nel passaggio dall’età longobarda a quella carolingia, il gasindiato rappresenta una «istituzione clientelare che sopravvive a fianco delle nuove fedeltà» vassallatiche di importazione franca (del resto per un periodo breve e quasi soltanto in area lucchese e spoletina: Gasparri, 1998, p. 151; Castagnetti, 2010).
Nel testamento, Taido assegnò una delle sue proprietà – la curtis di Berzo S. Fermo, in Val Cavallina, con tutte le sue pertinenze dislocate dal territorio dell’attuale Casazza alla Val Camonica – al vescovo di Bergamo, a condizione che la vendesse e distribuisse il ricavato fra sacerdoti e poveri. Al pari delle restanti parti del suo patrimonio, anche di questa Taido mantenne l’usufrutto. Fu forse una misura cautelativa di fronte all’incertezza del quadro politico-istituzionale, presa al fine di riservarsi una valutazione definitiva una volta verificato se e in che modo avesse conservato la sua posizione.
I fatti, se questa lettura fosse corretta, s’incaricarono di mostrare quasi subito l’illusorietà dei calcoli di Taido: avocata a sé come parte del fisco regio l’intera Val Camonica dal passo del Tonale sino al territorio di Bergamo, Carlo Magno la trasferì senz’altro al monastero di S. Martino di Tours con un diploma dato da Pavia il 16 luglio 774.
Non è dato sapere quando e come Taido abbia accumulato beni così cospicui. Dai legami con il re dipesero forse le terre che dichiarò di possedere non lontano dalla corte pavese, a Gravanate sul Po; indivise con i fratelli sono invece le curtes di Bonate e di Bocchere entro la iudiciaria Sirmionensis, nell’ampia circoscrizione comprendente il bacino del Garda e una larga fascia di territorio sulla sua sponda sud-orientale dove sono peraltro documentate alla fine dell’VIII secolo estese proprietà della corona. Di origine fiscale o meno che fosse (almeno in certe sue parti), il patrimonio di Taido risulta comunque tra i più cospicui di quelli documentati nell’Italia longobarda (Wickham, 2009, p. 242).
Centrato sul territorio bergamasco (con fulcro nell’Isola, fra Adda e Brembo, ma con alcune appendici a ridosso del capoluogo – a Curnasco, Treviolo – e sino alla Val Camonica), si distribuiva, come visto, dall’Oltrepò pavese alla iudiciaria di Verona, dall’attuale Cremonese (Casaletto Vaprio, Voltido) all’alto Mantovano. Di estensione imprecisabile (solo il lascito alla chiesa di S. Michele di Voltido è quantificato in cinque iugeri «de terra mediocre de curte domoculta» ivi situata), comprendeva tre curtes (di cui due in indivisa) e un numero di casae massariciae non definito ma senza dubbio sufficiente a porre Taido almeno al livello dei minori vassi regi franchi (Pasquali, 2015, p. 474).
Il patrimonio di Taido, del resto, non si esauriva in una cospicua dotazione fondiaria, ma comprendeva altresì oggetti preziosi, abiti e cavalli («aurum et argentum simul et vestes atque et cavalli»): un insieme di beni mobili costituenti la tipica scherpa delle élites longobarde, e di norma presente nelle donazioni testamentarie di VIII secolo.
Disporne la distribuzione ai sacerdoti e ai poveri attraverso la mediazione del vescovo di Bergamo rispondeva, nel caso di Taido, a una duplice esigenza: stabilire un legame privilegiato con il vertice ecclesiastico locale e perpetuare il ricordo del munifico donatore attraverso la trasmissione di oggetti di grande valore economico e sicuro prestigio sociale. Questa strategia di conservazione della memoria procedeva in parallelo con le donazioni pro anima et luminaria alle numerose chiese beneficiate nel testamento, ben quindici enti che disegnano una mappa della devozione e delle scelte religiose non priva di una qualche progettualità.
Se è assai significativa la menzione, in testa all’elenco, delle concattedrali di Bergamo (S. Vincenzo e S. Alessandro, in regime di chiesa doppia, rispettivamente, con S. Maria e S. Pietro), beneficiarie peraltro del lascito più ampio (la curtis di Bonate), e interessanti, per comprendere il forte radicamento locale di Taido, le donazioni a due chiese capo-pieve delle zone ove era concentrato il nucleo dei suoi possedimenti bergamaschi (S. Vittore di Terno, nell’Isola Brembana, e S. Lorenzo di Arzago, centro della pieve della Gera d’Adda), in altri casi le scelte sembrano rispondere a precise motivazioni cultuali: così per S. Grata di Bergamo e per S. Zeno di Verona, intitolate a santi il cui culto si rafforzò proprio nell’VIII secolo longobardo, e, soprattutto, per la basilica di S. Michele Arcangelo «intra civitate Ticinensium», in cui si aveva occasione di coniugare esaltazione del culto micaelico e identificazione di un edificio centrale nella topografia ecclesiastica della capitale del regno.
Saremmo dunque di fronte a una forte rivendicazione identitaria, insieme religiosa e politica, che fa il paio con quel richiamo a quanto stabilito nelle leggi «dai sovrani di questo popolo cattolico dei Longobardi» («sicut a principibus huius gentis catholice Langubardorum in aedicti pagina est institutum») circa la liberazione dei servi; Taido, infatti, dopo la morte sua e di quella della moglie, dispose che fossero condotti davanti all’altare di S. Alessandro e qui affrancati per mano del vescovo di Bergamo. La cattolicità, precisatasi quale paradigma ideale a partire dall’età liutprandea – il riferimento, nel testamento di Taido, era al capitolo 23 delle leggi di Liutprando – e posta recentemente da Paolo Delogu (2015) come «connotazione essenziale della gens Langobardorum» (p. 29), trovava al tramonto del regno un’ultima, orgogliosa esibizione.
Non vi sono indizi sulla data di morte.
Fonti e Bibl.: Cava de’ Tirreni, Biblioteca statale del monumento nazionale della abbazia benedettina della Ss. Trinità, Codices Cavenses, cod. 4; Die Urkunden Pippins, Karlmanns und Karls des Grossen, a cura di E. Mühlbacher, Hannover 1906, n. 81, pp. 115-117; Codice diplomatico longobardo, II, a cura di L. Schiaparelli, Roma 1933, n. 293, pp. 429-437 (e Chartae Latinae Antiquiores, s. 2, Ninth Century, XCVIII, a cura di M. Modesti, Dietikon 2017, n. 34, pp. 126-133); Le leggi dei Longobardi. Storia, memoria e diritto di un popolo germanico, a cura di C. Azzara - S. Gasparri, Roma 2005, pp. 70 s., 174 s., 268-275.
J. Jarnut, Bergamo 568-1098. Verfassungs-Sozial-und Wirtschaftsgeschichte einer lombardischen Stadt im Mittelalter, Wiesbaden 1979 (trad. it. Bergamo 1980), ad ind.; G. Tabacco, Egemonie sociali e strutture del potere nel medioevo italiano, Torino 1979, pp. 135 s.; C. La Rocca, Segni di distinzione. Dai corredi funerari alle donazioni ‘post obitum’, in L’Italia centro-settentrionale in età longobarda, a cura di L. Paroli, Firenze 1997, pp. 31-54; S. Gasparri, Les relations de fidélité dans le royaume d’Italie au IXe siècle, in La royauté et les élites dans l’Europe carolingienne, a cura di R. Le Jean, Lille 1998, pp. 150 s.; G. Albertoni - L. Provero, Storiografia europea e feudalesimo italiano tra alto e basso medioevo, in Quaderni storici, XXXVIII (2003), 112, pp. 246 s., 254; S. Gasparri, I testamenti nell’Italia settentrionale tra VIII e IX secolo, in Sauver son âme et se perpétuer. Transmission du patrimoine et mémoire au haut Moyen Âge, a cura di F. Bougard - C. La Rocca - R. Le Jean, Roma 2005, pp. 100 s.; C. Wickham, Froming the early Middle Ages-Europe and the Mediterranean 400-800, Oxford 2005 (trad. it. Le società dell’alto medioevo. Europa e Mediterraneo (secoli V-VIII), Roma 2009, pp. 242-244); A. Chavarria - A. Crosato, Chiese rurali nel Mantovano tra tardo antico e alto medioevo, in Le origini della diocesi di Mantova e le sedi episcopali dell’Italia settentrionale (IV-XI secolo), a cura di G. Andenna - G.P. Brogiolo, Trieste 2006, pp. 390 s.; A. Castagnetti, I vassalli imperiali a Lucca in età carolingia, in Il patrimonio documentario della chiesa di Lucca. Prospettive di ricerca, a cura di S. Pagano - P. Piatti, Firenze 2010, pp. 224 s., 261; S. Gasparri, Italia longobarda. Il regno, i Franchi, il papato, Roma-Bari 2012, pp. 58 s., 62, 165-167; G. De Angelis, Cittadini prima della cittadinanza. Alcune osservazioni sulle carte altomedievali di area lombarda, in Urban identities in Northern Italy, 800-1100 circa, a cura di C. La Rocca - P. Majocchi, Turnhout 2015, pp. 172-174; P. Delogu, Ritorno ai Longobardi, in Desiderio. Il progetto politico dell’ultimo re longobardo, a cura di G. Archetti, Spoleto 2015, pp. 19-50; G. Pasquali, L’economia delle curtes tra Longobardi, Bizantini e Carolingi, ibid., pp. 474 s.