sviluppo sostenibile
Espressione entrata nel linguaggio dei mass media, dei politici, delle imprese e del pubblico, assumendo significati in parte diversi, anche per l’uso inappropriato che ne è stato fatto, per proprio tornaconto (greenwashing), da parte di politici e imprese. Dichiarando di ispirare le proprie scelte alla sostenibilità, si acquisiscono meriti agli occhi dell’opinione pubblica che inizia a percepire la serietà dei problemi dello s. economico. Il modello fin qui seguito, dalla rivoluzione industriale in poi, ha condotto l’umanità a eccezionali risultati, quali la crescita (esponenziale) della popolazione, del PIL globale e l’allungamento della vita media. Dai 2 miliardi di abitanti del 19° sec. si è infatti passati agli odierni 7 miliardi e, ciò nonostante, il modello di produzione e consumo adottato, è stato capace di assicurare la crescita del prodotto pro capite. Su questi straordinari risultati si sono formate aspettative di crescita continua e un’incondizionata fiducia nel progresso tecnico. Ma fatti incontestabili mostrano che tale successo ha avuto un costo: il surriscaldamento globale legato alle emissioni dei gas serra e al cattivo uso delle risorse naturali. C’è dunque da chiedersi se il trend passato possa continuare in futuro e cioè se lo s. (o la crescita, termini usati spesso come sinonimi) sia sostenibile.
La prima presa di coscienza del problema da parte della comunità internazionale si è avuta con la dichiarazione di Stoccolma del 1972 (➔ Stoccolma, conferenza di), ma solo con il Rapporto Brundtland (1987) si è avuta una definizione globalmente riconosciuta, sulla base della quale è stato elaborato, con l’Agenda 21, scaturita dalla Conferenza ONU su ambiente e sviluppo di Rio de Janeiro (1992), un programma di azione. La sostenibilità dello s. richiede che le scelte di produzione e consumo delle generazioni presenti non pregiudichino quelle delle genearazioni future. Numerosi economisti hanno cercato di tradurre tale definizione in criteri operativi, cercando di verificare sotto quali condizioni essi possano essere implementati. Gli studi, teorici ed empirici si sono moltiplicati, ma un corpo consolidato di concetti e metodi di analisi circa l’uso ottimo delle risorse naturali, in grado di distinguere tra quelle rinnovabili e quelle non rinnovabili, ha radici più profonde (H. Hotelling ➔, P.S. Dasgupta ➔, K. Krutilla) e trova agganci anche in alcuni economisti classici come D. Ricardo (➔), T.R. Malthus (➔), W.S. Jevons (➔) e nel dibattito cresciuto intorno al libro di D.H. Meadows, D.L. Meadows, J. Randers, The limits to growth (1972).
Molte istituzioni internazionali hanno preso atto dei problemi ambientali, mettendo al centro delle loro attività e strategie la sostenibilità della crescita. Tra queste la Commissione europea, l’OCSE, l’Agenzia europea dell’ambiente (European Environment Agen-cy, EEA). I criteri per l’operatività della definizione sono due: sostenibilità ‘forte’ e ‘debole’. Per far sì che le generazioni future possano soddisfare i propri bisogni è necessario, secondo il primo criterio, che il capitale naturale non si riduca, mentre, per il secondo, occorre che non si riduca quello totale, composto da capitale naturale, capitale prodotto dall’uomo e capitale umano. Nella misura in cui le generazioni presenti usano le risorse naturali non rinnovabili, determinano una riduzione del capitale naturale che deve essere compensata da incrementi nelle altre due forme di capitale, affinchè quello totale resti immutato, sempre e ammesso che la sostituibilità sia possibile. Scartando il criterio di sostenibilità forte, economicamente illogico (non si dovrebbero usare le risorse non rinnovabili), ci si concentra sulle condizioni che soddisfano il criterio di sostenibilità debole. La regola di Hartwick, il genuine saving, il safe minimum standard of conservation, non sono che esempi. Alcuni di questi permettono anche di misurare la sostenibilità della crescita dei vari Paesi e di farne una graduatoria.
Rispetto alla teoria economica sull’uso ottimo delle risorse naturali, gli studi sulla sostenibilità aggiungono il concetto di capacità di carico della Terra. Accanto alle condizioni per l’allocazione ottima delle risorse occorre sapere quante se ne possono utilizzare senza interferire sugli equilibri naturali (non basta allocare ottimamente merci e passeggeri su una nave ma occorre sapere quante merci e passeggeri essa possa trasportare). Se si scarica in un fiume una certa quantità di prodotti chimici, l’acqua è in grado di smaltirli senza che le condizioni di vita del fiume siano compromesse, ma se si supera questa capacità naturale, il fiume ‘muore’ e in esso non vi sarà più vita; ugualmente, le emissioni di gas serra, oltre certe soglie, non sono più neutralizzate e producono danni alla salute e al clima. La crescita economica ha portato a questi costi ambientali.
Studiosi e istituzioni, come la Commissione europea, si sono indirizzati verso l’individuazione di modelli di s. o di crescita caratterizzati da minore intensità di uso di risorse naturali e minori esternalità negative, quali le emissioni di CO2. Se ciò fosse possibile, la crescita economica sarebbe ‘disaccoppiata’ (decoupling) dall’attuale crescente uso di risorse naturali. Il disaccoppiamento sarebbe ideale perché eliminerebbe le contrapposizioni tra s. e protezione ambientale, tra tenore di vita delle generazioni presenti e quelle future. L’evidenza empirica mostra però come il (decoupling) si sia (parzialmente) realizzato solo localmente e non a livello globale. In Europa certe emissioni inquinanti si sono ridotte solo perché alcune produzioni sono state delocalizzate in altre aree geografiche. In ogni caso le possibilità di (decoupling) dipendono dal progresso tecnico, che è dunque l’elemento centrale per la sostenibilità. Prendere atto di ciò non giustifica però le aspettative di crescita illimitata. Il progresso tecnico infatti non è, rispetto alle risorse naturali, sempre ‘positivo’: spesso ne accelera l’estinzione e per questo motivo la sua evoluzione secondo le spinte di mercato non assicura la sostenibilità della crescita. Il mercato, infatti, è un potente meccanismo per allocare efficientemente certe risorse, ma non incorpora molti e rilevanti aspetti del meccanismo di crescita e deve essere indirizzato verso gli obiettivi della sostenibilità. La sostenibilità è dunque un problema di scelte politiche: richiede un consenso generalizzato sulla ristrutturazione del modello di produzione e consumo. Le probabilità di una sua riuscita sono limitate, non solo per la mancanza di un accordo globale, ma soprattutto perché implica decisioni di lungo periodo che contrastano con quelle politiche, spesso miopi perché vincolate alle scadenze elettorali.