Sviluppo politico
Non esiste una definizione comunemente accettata di ciò che si deve intendere per sviluppo politico e di che cosa lo costituisca effettivamente. Esiste, però, una lista di definizioni variamente utilizzate nonché un accordo di fondo su alcune componenti essenziali di qualsiasi sua definizione. La lista delle definizioni stilata da uno degli studiosi maggiormente accreditati (v. Pye, 1966, pp. 33-45) comprende dieci possibili significati. Lo sviluppo politico: 1) è il prerequisito politico dello sviluppo economico; 2) è la politica tipica delle società industriali; 3) è modernizzazione politica; 4) è il funzionamento dello Stato-nazione; 5) è sviluppo amministrativo e giuridico; 6) è mobilitazione e partecipazione di massa; 7) è costruzione della democrazia; 8) è stabilità e mutamento nell'ordine; 9) è mobilitazione e potere; 10) è un aspetto di un processo multidimensionale di mutamento sociale.
Secondo Huntington e Dominguez (v., 1975, pp. 3-5), l'espressione 'sviluppo politico' è stata utilizzata in quattro modi diversi: 1) per riferirsi alla politica dei paesi definiti sottosviluppati dell'Africa, dell'Asia e dell'America Latina; 2) per rendere conto delle conseguenze politiche di alcuni processi di mutamento sociale ed economico; 3) per indicare il punto d'arrivo di quei processi, si tratti della società industriale o della democrazia politica; 4) per identificare le società e i sistemi politici, per l'appunto, sviluppati. Se nella terza variante lo sviluppo politico è la conseguenza politica della modernizzazione, nella quarta esso contribuisce a identificare "i requisiti politici di una società moderna effettivamente funzionante". Qualsiasi definizione dello sviluppo politico, come appare chiaro dai due significativi elenchi qui presentati, deve evitare alcuni rischi: non può identificare lo sviluppo politico con fenomeni di natura esclusivamente occidentale; non può, quindi, individuare come suo tratto distintivo né la formazione di Stati-nazione né, in via di principio, la costruzione di regimi democratici, anche se entrambi gli esiti possono contribuire allo sviluppo politico stesso; infine, non può far leva né esclusivamente né essenzialmente su dinamiche sociali ed economiche. Deve, invece, avere al suo centro fenomeni di natura fondamentalmente e, se possibile, essenzialmente politica e deve riuscire a render conto di processi che non siano né idiosincratici né etnocentrici, ma che si producano un po' in tutti i sistemi politici e non soltanto in quelli occidentali.
Tenendo conto delle possibili obiezioni, soprattutto di genericità, lo stesso Pye (v., 1966, pp. 45-48) - ma anche altri autori, ad esempio James Coleman (v., 1971) - ha proposto una definizione a tre dimensioni. Più precisamente, lo sviluppo politico sarebbe la conseguenza di un processo di interazione fra la differenziazione strutturale, gli imperativi dell'eguaglianza e la capacità di integrazione, di risposta e di adattamento di un sistema politico. Cosicché un sistema politico può essere definito sviluppato quando ha dato vita a una differenziazione fra le varie sfere di attività e a strutture e ruoli specializzati; quando ha prodotto eguaglianza fra i componenti del sistema, un ordine giuridico universalistico e norme che premino i meriti e non lo status (l'achievement contro l'ascription), garantendo pertanto l'eguaglianza di opportunità; infine, quando possiede e dimostra la capacità di assorbire le domande di partecipazione, di produrre innovazione e di adattarsi alle sfide, e fa questo su larga scala, con efficacia e con razionalità in senso weberiano sia rispetto allo scopo che rispetto ai valori, dotandosi di efficienti strutture burocratiche. Questa definizione multidimensionale dello sviluppo politico ha il merito non soltanto di indicare secondo quali percorsi un sistema politico si sviluppi, ma anche di suggerire la possibilità di rovesciamenti di tendenza, di mancato sviluppo, in sintesi di decadenza politica.
Peraltro molti autori - troppi - si sono cullati nell'illusione che, una volta iniziato, il processo di sviluppo politico conduca a esiti positivi, e sono poi finiti in un pessimismo politico-analitico che ha loro reso difficile comprendere le cause della decadenza politica. Non sono, invece, pochi i sistemi politici che non riescono a produrre e ad accettare la differenziazione strutturale e diventano fragili; che concentrano le risorse e riducono l'eguaglianza di opportunità; che accentrano i processi decisionali e perdono in efficacia, in efficienza, in razionalità; e che, quindi, decadono. Naturalmente, come lo sviluppo politico anche la decadenza politica può essere arrestata, rovesciata e riportata al perseguimento della differenziazione, dell'eguaglianza, della capacità. Infine la definizione utilizzata, proprio perché è multidimensionale, consente di valutare i diversi sistemi politici con riferimento al loro livello di sviluppo misurato per l'appunto secondo la differenziazione strutturale, l'eguaglianza di opportunità, le capacità burocratico-amministrative. Rimangono - purtroppo - alcune, forse irresolubili, ambiguità. Ad esempio, la differenziazione strutturale spinta all'estremo è sintomo di disgregazione, non di sviluppo; un'eccessiva eguaglianza di opportunità a scapito delle ricompense ai meriti può rallentare lo sviluppo fino ad arrestarlo; un'estesa e penetrante capacità burocratico-amministrativa può retroagire negativamente sulla differenziazione strutturale e persino sull'eguaglianza di opportunità. Al fine di superare alcuni degli inconvenienti derivanti dalle definizioni proposte non resta che passare all'esame del problema centrale al quale gli studi sullo sviluppo politico hanno cercato di dare soluzione.
L'origine degli studi che in senso lato possono essere attribuiti alla scuola della modernizzazione e dello sviluppo politico risale grosso modo alla fase della decolonizzazione, quindi all'incirca alla fine degli anni cinquanta. La costruzione di Stati indipendenti attirò l'attenzione di molti studiosi di settori disciplinari diversi, sociologi, economisti, antropologi e politologi, per svariate ragioni - non ultime quelle attinenti al conflitto su scala mondiale fra i due modelli, statunitense e sovietico, e alle sue ramificazioni all'interno di molti paesi che aspiravano a diventare Stati indipendenti o lo stavano diventando. L'obiettivo scientifico e, in fondo, anche politico degli studi prodotti nella prima fase consisteva nell'individuare le condizioni che permettono la stabilità istituzionale e la crescita economica degli Stati di recente indipendenza. All'uopo vennero formulate numerose tesi, le più influenti delle quali furono quelle di Karl W. Deutsch e di Samuel P. Huntington. Il primo collegò la mobilitazione sociale allo sviluppo politico. Il secondo sostenne, invece, l'esistenza di un legame fra l'istituzionalizzazione delle procedure e delle organizzazioni politiche e l'ordine politico.
Deutsch individua una pluralità di mutamenti, nell'ambito socioeconomico, per i quali è ipotizzabile una soglia al di sopra della quale essi diventano irreversibili e producono conseguenze politicamente rilevanti. Ne risulta, di conseguenza, che lo sviluppo politico è la variabile dipendente dei mutamenti socioeconomici e culturali. Più precisamente, i mutamenti significativi riguardano l'alfabetizzazione, l'urbanizzazione, l'esposizione ai mezzi di comunicazione di massa, la mobilità geografica, l'occupazione nell'industria, il reddito pro capite, l'irruzione della modernità (sotto forma, ad esempio, del servizio militare, della medicina, dei consumi). Alcuni di questi mutamenti sono irreversibili: una volta alfabetizzati, infatti, gli individui continueranno nella maggior parte dei casi a saper leggere e scrivere per tutta la vita; una volta urbanizzati, essi vivranno nella maggior parte dei casi in città tutta la loro vita; una volta ottenuto un lavoro nel settore industriale, non torneranno, non potranno tornare, ad attività agricole; una volta esposti ai mezzi di comunicazione di massa, vi resteranno esposti tutta la vita. Secondo Deutsch, la mobilitazione sociale crea la disponibilità a nuove forme di comportamenti ma, in assenza di integrazione politica, conduce alla disgregazione. Più in particolare, oltre una certa soglia di ciascun mutamento, che Deutsch arriva a quantificare, gli individui mobilitati rivolgeranno le loro domande e le loro critiche al governo, ma se per l'assenza di una burocrazia efficiente non riusciranno a ottenere risposte soddisfacenti, il sistema sarà scosso da tensioni e da conflitti. Dunque, la mobilitazione sociale crea il presupposto, la domanda di sviluppo politico, ma tale sviluppo si avrà soltanto con l'emergere e il consolidarsi di istituzioni politiche apposite. Nel 1961 la previsione di Deutsch, largamente avveratasi in seguito, era che le unità politiche culturalmente ed etnicamente omogenee sarebbero state avvantaggiate nel risolvere i problemi dell'integrazione politica e nello sfruttare le opportunità della mobilitazione sociale. Unità politiche meno omogenee, solcate dalla mobilitazione sociale, sarebbero quasi inevitabilmente incorse negli ostacoli di conflitti particolaristici e di tensioni disgregative, come è puntualmente avvenuto e continua ad avvenire in molti paesi dell'Asia e dell'Africa.Insoddisfatto dell'analisi di molti sociologi, economisti e politologi che sembrano sostenere l'esistenza di una serie irresistibile di cambiamenti positivi - che peraltro non aveva riscontro nella realtà dei paesi in via di sviluppo, spesso caduti nella trappola della decadenza politica -, Huntington formulò la sua tesi proprio per mettere in rilievo i fattori politici dello sviluppo. Egli individuò tre relazioni possibili: 1) quando la mobilitazione sociale è superiore allo sviluppo economico ne consegue la frustrazione sociale; 2) quando la frustrazione sociale è superiore alle opportunità di mobilità ne consegue la partecipazione politica; 3) quando la partecipazione politica è superiore all'istituzionalizzazione politica ne consegue l'instabilità politica. Poiché è difficile che i dirigenti politici dei paesi in via di sviluppo abbiano sia la capacità che la volontà di produrre adeguati livelli di sviluppo economico, di tenere sotto controllo la mobilitazione sociale, o di contenere la partecipazione politica, l'unico modo plausibile per evitare l'instabilità consiste nell'istituzionalizzare le procedure e le organizzazioni politiche. Una volta istituzionalizzate, e quindi 'sviluppate', queste procedure e queste organizzazioni produrranno ordine politico. Lo sviluppo politico è, in questa spiegazione, la variabile indipendente e l'ordine politico, presupposto a sua volta di mutamenti sociali ed economici positivi, la variabile dipendente.
Secondo Huntington, è possibile misurare il grado di istituzionalizzazione delle procedure e delle organizzazioni politiche facendo riferimento a quattro componenti: complessità, autonomia, adattabilità e coesione. Un'organizzazione è complessa quando si compone di più elementi, di più unità e di più livelli gerarchici; è autonoma quando si dà proprie regole di funzionamento, ha propri canali di reclutamento, dispone di proprie fonti di funzionamento; è adattabile quando dura nel tempo, effettua ricambi generazionali, supera le crisi di successione, riesce a cambiare funzioni e a svolgere nuovi compiti; è coesa quando ha definito i suoi confini, e li sa difendere, ha stabilito le norme con le quale risolvere i conflitti e le fa rispettare. Organizzazioni e procedure istituzionalizzate sono in grado di assorbire anche l'impatto di improvvise e consistenti impennate della partecipazione politica. Dunque, produrranno situazioni di ordine politico che sole sono in grado di condurre allo sviluppo politico, identificato con l'aumento, per l'appunto, del grado di istituzionalizzazione delle organizzazioni e delle procedure politiche.A questo proposito, Huntington e Dominguez (v., 1975, pp. 53-54) rilevano come il problema centrale dello sviluppo politico sia costituito dalle modalità con le quali i sistemi politici concentrano, ampliano e diffondono il potere politico. Naturalmente esistono differenze significative nelle modalità e nelle capacità di concentrazione, ampliamento e diffusione, che i due autori sintetizzano efficacemente nella tab. I.
Meno influente delle analisi di Deutsch e di Huntington, ma molto letto e discusso e persino più rappresentativo, poiché fondato su ricerche empiriche condotte in Africa, è il modello formulato da David Apter (v., 1965). Il problema dello studio dello sviluppo politico, ovvero della modernizzazione politica, espressione che Apter preferisce, consiste nell'individuare anzitutto in che modo si combinino i valori con le strutture di autorità; in secondo luogo, a quali sistemi queste combinazioni diano vita; infine, quali di questi sistemi siano meglio in grado di accettare, acquisire, produrre modernizzazione. Le combinazioni possibili fra i valori e le strutture di autorità e i tipi di sistemi cui danno vita sono presentate nella tab. II.
Secondo Apter, i sistemi di conciliazione producono modeste dosi di modernizzazione accompagnate dal consenso. All'estremo opposto, i sistemi di mobilitazione possono produrre notevoli dosi di modernizzazione attraverso l'imposizione dall'alto. La combinazione di autorità gerarchica e valori strumentali-secolari può dar vita a tre sottotipi di sistemi burocratici: autocrazie modernizzanti, oligarchie militari, società neomercantiliste. L'autore non esclude, anzi sostiene che i diversi sistemi cambiano nel corso del tempo entro certi limiti. Questi limiti sono determinati dalle modalità con le quali "i differenti sistemi politici utilizzano differenti combinazioni di coercizione e di informazione nel tentativo di mantenere l'autorità, acquisire stabilità e aumentare l'efficienza" (ibid., p. 40). L'ipotesi centrale di Apter è che esista una correlazione inversa fra coercizione e informazione. Quanto più elevato è il ricorso alla coercizione tanto più bassa sarà la quantità di informazione a disposizione dei governanti: quindi, è la logica deduzione, tanto più difficile sarà guidare il processo di modernizzazione. L'analisi di Apter costituisce uno dei primi, e dei migliori, tentativi di costruzione di tipologie e di teorie, un tentativo utile ed efficace, anche se un po' astratto, che ha colto alcuni dei punti nodali, come quello dei rapporti fra i valori e le strutture d'autorità, dei processi di modernizzazione politica.
La maggior parte degli autori ha, inevitabilmente, individuato nella democrazia politica, variamente definita, il punto d'arrivo dello sviluppo politico, anche se con qualche imbarazzo e qualche riserva nel raccomandare il modello statunitense come la democrazia perseguibile e conseguibile. Per quanto non faccia direttamente parte degli studi sullo sviluppo politico, vogliamo citare un'influente analisi dei rapporti fra mutamenti socioeconomici e democrazia, apparsa proprio nel periodo in cui vi fu la grande fioritura di quegli studi. Seymour M. Lipset (v., 1959) riscontrò l'esistenza di una stretta relazione fra il livello di sviluppo socioeconomico e la democrazia politica. La tesi di Lipset fu variamente interpretata e criticata, anche perché si prestava a una molteplicità di letture. Erano possibili, e ne furono fatte, almeno tre: una lettura causale, secondo la quale lo sviluppo socioeconomico produce democrazia politica; una lettura probabilistica, secondo la quale è probabile che, acquisiti determinati livelli di sviluppo socioeconomico, si affermi la democrazia politica; una lettura legata all'esistenza/sopravvivenza della democrazia, secondo la quale, una volta conseguita in qualsiasi modo, anche per imposizione esterna, la democrazia politica ha enormi possibilità di durata, in special modo se si è instaurata in sistemi già sviluppati dal punto di vista socioeconomico. Przeworski e Limongi, che sono i sostenitori di quest'ultima interpretazione, aggiungono un'altra osservazione basata su un'approfondita ricerca statistica: "Quello che destabilizza i regimi sono le crisi economiche, e le democrazie, in particolare le democrazie povere, sono estremamente vulnerabili a cattive prestazioni economiche" (v. Przeworski e Limongi, 1997, p. 169). Dopo aver variamente, ma anche vagamente, definito l'obiettivo dello sviluppo politico come il conseguimento di un regime stabile e possibilmente democratico, gli studiosi cercarono di capire in qual modo si fossero sviluppati i sistemi politici europei e quali insegnamenti se ne potessero trarre per quelli non europei. A tale proposito, i concetti più ampiamente utilizzati furono tre: soglie, stadi, crisi.
La più influente analisi basata sulle soglie è quella dello studioso norvegese Stein Rokkan (v., 1970; tr. it., p. 142), secondo il quale lo sviluppo democratico passa attraverso quattro soglie. La prima è la soglia della legittimazione, per superare la quale sono necessari il riconoscimento dei diritti di petizione, di critica e di dimostrazione contro i governanti e la tutela dei diritti di riunione, di espressione e di pubblicazione. La seconda soglia è quella dell'incorporazione, per il cui superamento è necessario che ai movimenti di opposizione sia concessa la libertà di scegliere autonomamente i loro rappresentanti nei confronti dei governanti, dell'establishment. La terza soglia è quella della rappresentanza, per superare la quale è necessario che i rappresentanti dei movimenti di opposizione siano ammessi su un piede di parità a concorrere con i rappresentanti delle forze di governo per ottenere seggi nelle assemblee elettive. Infine, la quarta soglia è quella del potere esecutivo, che viene superata non soltanto quando i detentori del potere esecutivo diventano sensibili alle domande e alle pressioni degli oppositori, ma soprattutto quando gli oppositori ottengono l'accesso diretto, seppur non necessariamente esclusivo, al potere esecutivo stesso. A questo punto il processo di espansione della politica di massa competitiva è completato e la democrazia è praticabile e, con tutta probabilità, praticata. Nonostante le critiche, questo modello non è né teleologico né univoco né lineare, poiché l'esito non è affatto garantito; il superamento delle soglie può avvenire in modi e in tempi diversi, anche con la sovrapposizione/combinazione di due soglie; e il procedimento può essere rovesciato e sovvertito, ad esempio, con l'esclusione forzata dell'opposizione dal potere esecutivo, con la revoca dei diritti di partecipazione, e così via.
La maggioranza degli studiosi dello sviluppo politico era interessata alla costruzione di organizzazioni e procedure politiche che non fossero buone di per sé, ma utili per lo sviluppo economico. Pertanto, fra le diverse analogie prospettabili prendeva risalto quella fra una società industriale matura e la democrazia politica, insieme all'analisi dei passaggi attraverso i quali pervenire a entrambi gli esiti. Prendendo le mosse dall'influente saggio di Walt W. Rostow sugli stadi dello sviluppo economico, Organski (v., 1965) cercò di individuare gli stadi dello sviluppo politico. Questi stadi, che corrispondono grosso modo agli stadi dello sviluppo economico individuati da Rostow, sarebbero quattro: 1) unificazione primitiva; 2) industrializzazione; 3) Stato assistenziale; 4) abbondanza. Nel primo stadio si creano le condizioni preliminari per il decollo; nel secondo avviene il decollo dell'industrializzazione; nel terzo si ha il passaggio alla maturità di un'economia industriale; nel quarto si afferma la società dei consumi di massa. Organski non si avventura, come aveva fatto Rostow, a definire i problemi politici della società postindustriale (v. Huntington, 1974); il suo contributo consiste piuttosto nel tentativo di collegare a ogni stadio di sviluppo specifiche configurazioni o forme di potere politico.
Questo tentativo discende direttamente dalla sua definizione operativa dello sviluppo politico, inteso come "un costante aumento della capacità dello Stato di utilizzare le risorse umane e materiali del paese al servizio degli obiettivi nazionali" (v. Organski, 1965; tr. it., p. 13). Più precisamente, Organski ritiene che lo stadio dell'unificazione primitiva possa essere portato a compimento sia da monarchie tradizionali assolute che da potenze coloniali, sia da élites postcoloniali, fra le quali anche i militari, che da élites tradizionali di paesi non colonizzati che sappiano modernizzarsi. Nello stadio dell'industrializzazione si affermano tre tipi di regimi politici: borghese, stalinista, fascista. L'autore preferisce definire i regimi di quest'ultima categoria, in maniera meno negativa dal punto di vista valutativo, con il termine sincratici, per indicare la condivisione del potere da parte di élites agricole ed élites industriali. La teoria di Organski sulla natura delle élites che assumono la guida nello stadio di industrializzazione precede di poco quella - che diventerà molto più famosa, ma sarà anche molto controversa - di Barrington Moore (v., 1966) sui percorsi che hanno portato alla modernità: per l'appunto, borghese, capitalista-reazionario, comunista. Significativamente Moore dichiara di non riuscire a collocare nel suo quadro storico-comparato il non marginale caso dell'India. Le forme politiche del terzo stadio, quello dello Stato assistenziale, sono secondo Organski essenzialmente democrazie di massa con due eccezioni certe, il nazionalsocialismo e il Giappone imperialista, e tre eccezioni probabili, la Cecoslovacchia divenuta comunista, la Germania dell'Est e, al limite, l'Unione Sovietica. Poiché le modalità di trasferimento del potere sociale, politico ed economico dalle campagne alle città e le loro conseguenze sulla formazione dei regimi sono al centro dell'analisi di Moore, è utile qui effettuare una digressione che ne renda conto.
Nella sintesi di Moore (ibid.; tr. it., pp. XIX, XX e XXI) l'aspetto decisivo delle rivoluzioni borghesi è "la formazione di un gruppo sociale dotato di una base economica indipendente, che aggredisce e travolge gli ostacoli che allo sviluppo della versione democratica del capitalismo frappongono le eredità del passato agrario". La strada capitalistica e reazionaria venne intrapresa quando "settori di una classe mercantile e industriale relativamente debole si affidarono a elementi dissidenti delle vecchie classi dominanti ancora al potere, prevalentemente rurali, per realizzare i cambiamenti politici ed economici necessari per costruire una moderna società industriale, nel quadro di un regime semiparlamentare. Lo sviluppo industriale può procedere con rapidità lungo questa strada, ma lo sbocco, dopo un periodo di democrazia breve e instabile, è stato il fascismo". La terza strada è quella comunista, caratterizzata dalla forza delle grandi burocrazie agrarie, dalla debolezza delle classi urbane e infine dal fatto che la classe contadina "fornì la principale forza distruttiva alla rivoluzione che rovesciò il vecchio ordine e proiettò questi paesi verso l'età moderna sotto la leadership comunista, che fece poi dei contadini le sue prime vittime". Tornando a Organski, l'ultimo stadio da lui individuato, quello dell'abbondanza, vedrà l'affermarsi del socialismo democratico come la forma politica meglio preparata a risolvere i problemi della distribuzione delle risorse e delle ricchezze, di una produttività enormemente elevata, di un'accentuata efficienza della macchina bellica e di una considerevole riduzione della necessità di forza lavoro. In maniera lungimirante Organski aggiunge che i problemi politici dello stadio dell'abbondanza potranno richiedere la formazione di organizzazioni sovrastatali e sovranazionali. Il discorso di Organski, elegante nella struttura e parsimonioso nell'uso delle variabili, offre una ricostruzione convincente di processi avvenuti o in corso e una previsione suggestiva di processi che si stanno manifestando alla fine del secondo millennio. Il suo punto di forza si trova nel collegamento fra gli imperativi ovvero le necessità economiche e sociali dello sviluppo e le modalità di organizzazione, concentrazione e distribuzione del potere politico statale che meglio soddisfino quegli imperativi.
L'ultima teoria degna di attenzione è quella formulata collettivamente dagli autori che hanno fatto parte del Committee on Comparative Politics del Social Science Research Council. Essa si concentra sulle crisi che tutte le unità politiche assimilabili a Stati debbono affrontare e superare per potersi definire, per l'appunto, politicamente sviluppate. In estrema sintesi le crisi, vale a dire i punti di svolta e di potenziale rottura/superamento, sono essenzialmente sei. Viene qui riprodotta, tra le tante possibili e variamente elaborate, la tabella riassuntiva di Rokkan (v., 1970), il quale peraltro dichiara esplicitamente di aver preso visione dei testi poi pubblicati nel volume a cura di Binder e altri (v., 1971) e di esserne debitore.
Non vi è accordo fra gli studiosi né sulla sequenza con cui si sono effettivamente presentate le crisi né sulla sequenza ottimale, quella che favorirebbe la costruzione di un sistema politico sviluppato. Anche la sequenza di Rokkan si presta dunque a critiche, poiché, secondo alcuni autori, la crisi di identità dovrebbe precedere sia quella di integrazione che quella di partecipazione. Prima è opportuno che vengano definiti coloro che fanno parte di un'entità, poi si procederà alla loro integrazione nella comunità e si conferiranno i diritti di partecipazione. Ad esempio, Dankwart Rustow (v., 1967, pp. 120-132 e 267) ha affermato che la sequenza più efficace per lo sviluppo politico consiste nello stabilire prima l'unità nazionale, affermare poi l'autorità del governo, e infine estendere l'eguaglianza politica. Dal canto suo, Eric Nordlinger (v., 1968, p. 500) ha sostenuto che "le probabilità che un sistema politico si sviluppi in maniera non violenta, non autoritaria e, alla fine, stabilmente democratica sono massimizzate quando prima emerge l'identità nazionale, seguita poi dall'istituzionalizzazione di un governo centrale e infine dalla comparsa di partiti di massa e di un elettorato di massa".
Questi dissensi sulle sequenze, tutt'altro che marginali e ininfluenti, segnalano le carenze e le difficoltà della formulazione di un paradigma condivisibile dello sviluppo politico persino tra gli autori più colti e avvertiti. Più o meno flessibilmente utilizzato, questo paradigma con le sue varianti costituiva sostanzialmente il punto d'arrivo delle analisi dei processi di sviluppo politico promosse dal Committee on Comparative Politics nel lontano 1954 (v. Almond e Coleman, 1960), ma non era riuscito a improntare nuove ricerche né a porre le basi di una vera e propria teoria dello sviluppo politico. Anzi, è corretto affermare che il volume sulle crisi e sulle sequenze dello sviluppo politico pubblicato dal Committee on Comparative Politics costituì concretamente il suo canto del cigno. Fra l'altro - come si vede chiaramente confrontando le sequenze di Rokkan con quelle di Binder (v. Binder e altri, 1971, p. 65): identità, legittimità, partecipazione, distribuzione, penetrazione - non si era raggiunto neppure l'accordo su quali fossero le crisi decisive e le sequenze ottimali. In effetti, la sequenza con la quale si presentano le crisi di distribuzione e di penetrazione costituisce essa stessa un problema. Joseph La Palombara, che nel libro curato da Binder e altri è l'autore dei due capitoli dedicati a queste crisi, preferisce la sequenza che vede prima la crisi di penetrazione e poi quella di distribuzione, e le definisce rispettivamente una crisi di capacità governativa e una crisi di gestione delle risorse. Ancora, e da ultimo, senza pretese di approfondimento, poco o nessuno spazio è dato all'influenza dei fattori internazionali sulle modalità con le quali le crisi dello sviluppo sono affrontate ed eventualmente risolte. Questa tematica è stata sostanzialmente consegnata a studiosi neomarxisti che, con maggiore (v. Cardoso e Faletto, 1969) o minore abilità e intelligenza, hanno attribuito il mancato sviluppo, non soltanto politico, dei paesi dell'Africa, dell'Asia e dell'America Latina all'incidenza determinante di rapporti e di scambi internazionali essenzialmente dominati da un attore: gli Stati Uniti d'America. Peraltro è ipotizzabile che il cosiddetto sottosviluppo non sia dovuto esclusivamente al 'fattore USA', ma in larga misura alla disponibilità delle élites politiche dei paesi del Terzo Mondo a sfruttare quel fattore per mantenersi al potere, affrontando e risolvendo più o meno temporaneamente alcune crisi di sviluppo. Le convulsioni di molti sistemi politici asiatici e africani dimostrano che le loro élites continuano a sfruttare condizioni favorevoli al loro potere senza, però, risolvere le crisi. D'altronde, come suggeriscono ad esempio le esperienze pur lontanissime e diversissime della Birmania, oppressa da un regime militare, e della Corea del Nord, controllata da un regime comunista, anche nell'isolamento dal sistema internazionale alcune élites politiche, pur godendo di ampi spazi di autonomia e di opportunità, preferiscono mantenere il potere politico piuttosto che tentare di produrre sviluppo.
Alla fine degli anni settanta la generale impasse teorico-analitica degli studi sullo sviluppo politico si presentava molto grave. Nel migliore dei casi, il Committee on Comparative Politics era riuscito soltanto a individuare i maggiori problemi dello sviluppo politico e a fornirne una griglia interpretativa. Esso terminò il suo faticoso percorso, iniziato con grande entusiasmo, senza aver formulato vere e proprie teorie sottoponibili alla procedura scientifica della falsificazione (per una critica severissima v. Holt e Turner, 1975). Il bilancio è complesso e diversificato. Gli studi fondati su una prospettiva funzionalistica e sistemica, come quelli del Committee on Comparative Politics (v. Almond, 1970; v. Almond e altri, 1973), sembrano oramai invecchiati e superati. Gli studi che hanno tentato il collegamento fra fenomeni socioeconomici e strutture politiche, o che hanno analizzato l'incidenza della mobilitazione sociale sullo sviluppo politico, come quelli di Deutsch (v., 1961) e di Organski (v., 1965), mantengono un loro interesse e una loro validità. Gli studi più importanti, quelli che hanno lasciato una traccia indelebile nell'analisi delle problematiche della costruzione dei regimi, non soltanto democratici, e del loro funzionamento, hanno utilizzato una prospettiva storico-comparata. Sono da menzionare, in special modo, i lavori di Lipset (v., 1963), Moore (v., 1966), Huntington (v., 1968) e Rokkan (v., 1970). Alcuni di questi studi, relativamente eccentrici rispetto al percorso indicato e seguito dal Committee on Comparative Politics, forse proprio per questo hanno aperto più o meno consapevolmente, qualche volta anche per alcune loro feconde inadeguatezze, la strada alle analisi delle transizioni dai regimi autoritari e della democratizzazione (v. Linz e Stepan, 1996; per una visione critica v. Cammack, 1997).
Paradossalmente, non è stato l'etnocentrismo, spesso rimproverato, dei cultori dello sviluppo politico, e neppure la mancata considerazione o l'accantonamento del ruolo dei fattori religiosi nello sviluppo politico, come sostiene Bartlett (v., 1996), a riverberarsi negativamente sulle analisi prodotte, quanto, al contrario, una sorta di applicazione prematura dei principî della 'correttezza politica'.
Se sviluppo politico vuol dire, con Huntington e con Organski, "istituzionalizzazione delle procedure e delle organizzazioni politiche" e "capacità dello Stato nazionale di utilizzare le risorse umane e materiali", o, più in generale differenziazione strutturale, eguaglianza di opportunità, capacità governative, è chiaro che sono i regimi democratici, pur nella loro rimarchevole diversità, a mostrare queste caratteristiche congiuntamente e in più alto grado. Clamorosamente crollate tutte le proposte praticabili di alternative ai regimi democratici, tranne quella dei fondamentalismi, è risultato evidente che lo studio dello sviluppo politico è anche lo studio delle modalità con le quali vengono in essere i sistemi politici, ma può soprattutto essere lo studio delle modalità con le quali si costruiscono, si mantengono, funzionano e si trasformano i regimi democratici, e degli strumenti con i quali è possibile valutarne e migliorarne il rendimento. Per conseguire questi obiettivi, però, non c'è più bisogno di ricorrere a un settore separato e specifico di analisi: è sufficiente rivolgersi alle teorie della scienza politica comparata. La scuola dello sviluppo politico si è esaurita e non può essere fatta rivivere. Di sviluppo politico, dei sistemi politici e della loro qualità, invece, si parlerà ancora molto, e giustamente. (V. anche Partiti politici e sistemi di partito; Sistema politico; Sistemi politici comparati).
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