Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Ricerca e sviluppo da un lato, e innovazione dall’altro, rappresentano i due poli fra i quali si muove la produzione industriale tecnologicamente attrezzata: con il blocco dei due primi termini si indica la ricerca scientifica e tecnologica pura, con il terzo si indica invece la ricerca applicata alla produzione. Questi tre termini hanno dato luogo a una letteratura davvero consistente: non a torto, sono considerati i punti chiave per comprendere la dinamica che conduce dall’invenzione al successo di tale invenzione e al suo inserimento stabile nella produzione di beni o di servizi basati su un supporto tecnico (l’innovazione), e dunque per affrontare il rapporto che lega tecnica ed economia.
Spesso e a lungo le scienze sociali hanno concepito la tecnica un elemento esterno allo sviluppo economico, da considerare solo per gli effetti che produceva. L’economista austriaco Friedrich von Hayek esprime perfettamente questa posizione quando afferma: “Finché lavora sui suoi problemi, l’ingegnere non partecipa a un processo sociale nel quale altri attori possono prendere decisioni indipendenti, ma vive in un mondo tutto suo e separato. [...] Non deve preoccuparsi di quali siano le risorse disponibili, né conoscere l’importanza relativa dei diversi bisogni. [...] È detentore di conoscenze sulle proprietà delle cose, che non cambiano in nessun luogo e in nessun momento e che sono indipendenti da ogni situazione umana contingente”. La tecnica, dunque, è indipendente dalla società. La teoria neoclassica ha condiviso questa impostazione fino a quando l’economista americano Robert Solow, nel 1957, ha proposto di considerare il mutamento tecnico all’interno della produzione. Lo stesso Joseph Schumpeter, economista molto interessato alla tecnica, separa nettamente l’invenzione dall’innovazione e vede l’imprenditore come colui che è in grado di scegliere fra un catalogo di invenzioni disponibili. Ma, dal momento che le invenzioni sono un prodotto raro, le imprese tendono a produrre in proprio invenzioni a cui attingere: è appunto il settore della ricerca e sviluppo. In questo quadro, non si può parlare solo di scelta dell’economia rispetto alla tecnica, ma occorre tener presente anche il processo inverso.
Analizzando il modo in cui una innovazione si diffonde, gli economisti hanno proposto una schematizzazione matematica del fenomeno che dà luogo a una curva a esse (una partenza lenta, una forte crescita, e infine la stagnazione) e hanno considerato l’oggetto tecnico come un fattore secondario o come una costante, o entrambe le cose. In realtà, anche quando l’invenzione ha fatto il suo ingresso stabilmente nella produzione, essa continua a modificarsi per dar luogo a un prodotto migliore.
L’economista Kenneth Arrow ha definito l’apprendimento che si genera attraverso il processo produttivo learning by doing: la produttività aumenta grazie a questa maggiore capacità di produrre che deriva dalla produzione ripetuta di un bene. Nathan Rosenberg ha opposto a questo modello un apprendimento attraverso l’uso (learning by using). In entrambi i casi, la tecnologia nel momento in cui è impiegata nella produzione non è più tale da garantire una redditività costante. Rosenberg ha dato contributi notevolissimi a una nuova concezione della tecnica in ambito economico. A suo parere l’invenzione non va separata dall’innovazione, e la ricerca è un elemento interno all’adozione di una tecnologia e alla sua diffusione. In questo modo, Rosenberg cerca di entrare dentro la “scatola nera” che fino a quel momento era stata la tecnica, di portarne alla luce la dinamica e di collegarla al processo economico.
Gli sviluppi recenti della teoria economica che riflettono sulla tecnica sottolineano anche un legame diverso rispetto al passato fra tecnica e politica e reclamano la necessità di istituzioni che governino il progresso tecnico. I meccanismi del mercato non appaiono infatti in grado di regolare il ritmo e la natura delle innovazioni in modo da soddisfare al meglio un obiettivo di efficacia globale. Con l’espressione “cambiamento tecnico” alcuni autori intendono un fenomeno sistemico che comprende non solo la scienza e la tecnica, ma anche la creazione e la diffusione di conoscenze e competenze nell’insieme dell’economia. Da questo punto di vista, il cambiamento tecnico coinvolge il sistema di educazione e formazione, le infrastrutture pubbliche, i sistemi finanziari. Si tratta dei “sistemi sociali d’innovazione”: un insieme di routines, procedure e istituzioni che reggono i comportamenti di innovazione e diffusione dei piani economici. In questo quadro le istituzioni risultano determinanti, tant’è vero che non viene concepito un cambiamento tecnico in astratto: esso appare influenzato a tal punto dalle istituzioni da poter parlare di differenti vie nazionali al cambiamento tecnico.
Se nella teoria economica e nella storia dell’economia fino a qualche anno fa il cambiamento tecnico era, come abbiamo visto, un elemento esogeno e dunque poco importante, oggi invece si cerca di correlare innovazione tecnica, crescita e competitività facendo dell’innovazione tecnica un elemento endogeno. Il legame fra innovazione e crescita economica è stato lungamente discusso: per alcuni il legame è indubbio e piuttosto lineare, per altri invece non si può dire che esista un legame diretto fra innovazione tecnica e crescita economica: secondo il paradosso di Solow (“Vediamo computer dovunque, meno che nelle statistiche della produttività”), infatti, dagli anni Ottanta del Novecento si sono moltiplicate le innovazioni (microprocessori, microelettronica) senza che la produttività ne sia stata influenzata. Le relazioni fra tecnica ed economia devono probabilmente essere pensate in modo non lineare e tenendo conto della molteplicità dei fattori in gioco. La revisione del modello neoclassico che ha condotto a considerare la tecnica un fattore endogeno rispetto alla crescita ha messo in moto una riflessione che oggi assegna grande importanza a elementi come l’azione delle autorità pubbliche: si ritiene in modo abbastanza condiviso che accesso al credito, sovvenzioni pubbliche, incoraggiamento della formazione scientifica e tecnica diano una spinta verso il cambiamento tecnico e dunque verso la crescita. Si ritiene cioè che le istituzioni economiche regolino l’intensità e la direzione delle innovazioni.
Nel corso dell’ultimo decennio si è trasformata sia la concezione economica del cambiamento tecnico sia l’immagine del rapporto che esiste fra il momento dell’invenzione e il momento dell’innovazione. Il cambiamento tecnico non è più concepito come un progresso della conoscenza già pronto per aumentare la produttività; l’innovazione non è più l’atto isolato di inventori dal comportamento irriducibile a spiegazioni d’ordine economico. Viene sottolineata la circostanza per la quale le innovazioni avvengono soprattutto nelle aziende private, e per ragioni economiche. La ricerca industriale si svolge prima di tutto nei laboratori interni alle aziende e in collegamento con gli altri dipartimenti di esse. La concezione lineare dell’innovazione è stata abbandonata per mettere in rilievo le fasi a monte e a valle del processo di innovazione, gli incitamenti legati al mercato e le possibilità offerte dai progressi scientifici. In questa nuova concezione dell’innovazione svolgono un ruolo centrale le interazioni fra scienza e tecnica da un lato, e quelle tra produzione e commercializzazione dall’altro. Si afferma un modello interattivo della innovazione che lega e mette in relazione dinamica la percezione di opportunità economiche da parte dell’azienda con l’esistenza di possibilità tecniche. Le spiegazioni deterministe sia dal lato della tecnica sia dal lato della produzione – proposte, discusse e contestate negli ultimi vent’anni – hanno cercato tutte una maggiore comprensione della dinamica che collega il settore ricerca e sviluppo con il settore economico, mettendo alla fine in evidenza che sono proprio le aziende che investono in R&D quelle che hanno maggiori vantaggi competitivi e, viceversa, che le novità provenienti dal settore R&D sono colte più prontamente dalle aziende che conoscono bene il proprio mercato.
Per un intreccio molto stretto fra tecnica e società si sono pronunciate tutte quelle correnti non identiche fra loro ma riconducibili tutte al costruttivismo, sulla scia del “programma forte” definito da David Bloor agli inizi degli anni Settanta e applicato prima di tutto alla storia della scienza: lì la validità di una teoria scientifica non viene più considerata la sua coerenza o il numero di fatti che riesce a spiegare, ma il suo significato sociale; diventa importante nell’affermarsi di una teoria non tanto la sua verità ma il modo in cui i vari soggetti all’opera (ricercatori, finanziatori, produttori, utenti) riescono a imporla con le armi della retorica. Tale prospettiva si è allargata in seguito anche alla storia della tecnica. Una conseguenza importante di tale programma (applicato in modo assai diverso dai vari studiosi: Trevor Pinch, Wiebe Bijker, Bruno Latour) è la caduta della differenza fra teorie vere e false, fra invenzioni che hanno avuto successo e invenzioni che sono fallite. Le teorie considerate false, le mancate adozioni di una invenzione, dicono quanto i successi poiché in azione c’è sempre un meccanismo non lineare di negoziato sociale che collega ricerca applicata, sviluppo tecnologico e produzione.
Molto importante diventa il concetto di quadro tecnologico (technological frame), a indicare l’ambiente sociale e cognitivo nel quale si muovono scienziati, inventori, produttori, pubblico, istituzioni. Tra gli elementi che influiscono sulla adozione o non adozione di una soluzione scientifica e tecnica vi sono le domande sociali degli attori, i loro interessi, ma anche elementi quali lo stato delle conoscenze scientifiche e tecniche in quel momento (che rappresenta un vincolo molto forte), l’immaginario relativo a scienza e tecnica che spesso proviene da settori esterni a tali discipline ma assai influenti, come la letteratura di fantascienza. Una scelta viene compiuta solo quando sia stato raggiunto un accordo fra tutti i soggetti interessati.
Nel modello reticolare di Michel Callon, professore all’École nationale supérieure des mines di Parigi, la circolazione della tecnologia avviene fra i tre poli rappresentati da scienza, tecnica e mercato. La rete viene definita da Callon come “un insieme coordinato di attori eterogenei: laboratori pubblici, centri tecnici di ricerca, imprese, organismi finanziari, utenti e poteri pubblici che partecipano collettivamente all’elaborazione, alla produzione-diffusione di procedimenti di produzione, di beni e servizi alcuni dei quali daranno luogo a una transazione mercantile”. Anche in questo caso l’ambiente istituzionale svolge un ruolo di importanza primaria: la creazione e la morfologia delle reti dipendono infatti dall’ambiente istituzionale nel quale esse si trovano. Si giunge così al concetto di sistema sociale d’innovazione.
Un tema che ha impegnato in particolare gli studiosi è quello della rivoluzione tecnologica, cioè del salto brusco nello sviluppo tecnico. Per darne conto, si è fatto riferimento alla teoria di Thomas Kuhn, avanzata negli anni Sessanta, che distingue fra epoche normali ed epoche rivoluzionarie nella storia della scienza e che spiega la discontinuità con il passaggio da un paradigma accettato dalla comunità scientifica a un altro. Secondo Kuhn sono elementi esterni alle teorie, e di tipo sociale, che spiegano l’accettazione e la permanenza di una teoria anche difettosa, come pure la sua brusca sostituzione. Una volta trasferita alla storia della tecnica, questa prospettiva ha avuto un’influenza enorme anche se spesso non riconosciuta. Di paradigmi tecnologici si sono occupati in particolare Edward Constant e Giovanni Dosi, rimodulando in termini diversi e più attenti alle discontinuità il rapporto fra ricerca e sviluppo da un lato e mercato dall’altro e finendo per assegnare un ruolo non determinante alla domanda.
Nel suo volume del 1995, L’innovation technique, dedicato all’innovazione Patrice Flichy ha scritto, presentando la sua prospettiva (che potremmo definire del quadro socio-tecnico): “In definitiva, il processo innovativo consiste in una stabilizzazione di relazioni fra le diverse componenti di un artefatto, da un lato, e fra i vari attori dell’attività tecnologica dall’altro. [...] Contrariamente a ciò che si è sempre pensato, l’innovazione non è la somma di un geniale eureka e di un processo di diffusione. Al contrario, essa è l’incontro di storie parallele, adeguamenti successivi, confronto e negoziazione, riduzione dell’incertezza. Un processo di stabilizzazione che riguarda tanto il funzionamento operativo della macchina quanto gli usi, tanto i progettisti quanto i fruitori, tanto i produttori quanto i venditori. L’obiettivo della sociologia della tecnica è sapere come si costruisce il legame sociale nella macchina e attraverso la macchina”.