comportamento, sviluppo del
Per sviluppo del comportamento si intende l’insieme dei cambiamenti riguardanti la sfera del comportamento che si verificano dalla nascita all’età adulta e che accompagnano il processo di maturazione del sistema nervoso centrale. Alla nascita un individuo è dotato della quasi totalità dei neuroni; tuttavia, il processo di maturazione del cervello è ancora lontano dall’essere completo e l’ontogenesi delle strutture cerebrali è accompagnata dallo sviluppo cognitivo e dall’emergere delle facoltà mentali. Molti sono stati i tentativi di descrivere e interpretare i meccanismi alla base di questo fenomeno durante l’infanzia (come nel caso delle teorie di Sigmund Freud, di Jean Piaget o di John Bowlby) e durante l’adolescenza, anche essa caratterizzata da una serie di importanti cambiamenti che danno forma al cervello adulto. In questo contesto per decenni si è avuto un acceso dibattito sul contributo relativo di fattori genetici e ambientali nel determinare lo sviluppo del comportamento, per giungere oggi alla conclusione che sia i geni sia l’ambiente (con correlazioni e interazioni biunivoche tra loro) partecipano nel determinare le fasi di crescita che danno forma all’individuo adulto. [➔ ambiente e cervello; attaccamento, neurobiologia dello; emozioni; cervello, sviluppo del; plasticità neurale]. Il periodo dell’infanzia (➔) è compreso tra la nascita e i 6 anni di età ca. ed è seguito dalla fanciullezza che va dai 7 a ca. 10÷12 anni (da alcuni considerato ancora infanzia), quando comincia l’adolescenza. Il repertorio comportamentale di un neonato è limitato, essendo composto quasi esclusivamente da riflessi semplici, come quello della ricerca del capezzolo o della suzione. Tale repertorio però si espande rapidamente e già durante il primo anno di vita il bimbo inizia a gestire il proprio corpo, imparando a stare seduto, a gattonare e a interagire con il mondo fisico. È anche in grado di comunicare con gli altri in modo efficace, modificando la propria espressione facciale ed emettendo vocalizzazioni. Durante il secondo anno di vita, impara a camminare e a dire le prime parole. Da questo momento in poi, lo sviluppo è notevolmente rapido. Fra i tre e i cinque anni, il bambino impara a compiere movimenti complessi che richiedono equilibrio e coordinazione, inizia a fare discorsi sufficientemente articolati e perfettamente comprensibili ed è in grado di fare calcoli elementari. Tali cambiamenti sono accompagnati dalle varie tappe di sviluppo del cervello.
Il sistema nervoso centrale nell’uomo inizia a svilupparsi intorno alla terza settimana di gestazione. Da allora la sua crescita è estremamente celere e, alla nascita, un individuo è dotato della quasi totalità dei neuroni previsti dal corredo genetico (> 1011). Tuttavia, il processo di maturazione di questo organo è ancora lontano dall’essere completo. Infatti, i neuroni devono migrare dalle regioni dove vengono generati a quelle in cui si integrano nelle reti neuronali. Inoltre, le sinapsi devono in larga parte ancora formarsi. Ciò avverrà durante l’infanzia, tra i primi mesi e i quattro anni di vita, quando si formerà un numero di sinapsi pari a circa centomila miliardi (1014). Il processo di sviluppo non si verifica contemporaneamente in tutte le aree del nostro cervello perché alcune aree come il tronco encefalico e il mesencefalo, che regolano le funzioni corporee essenziali alla sopravvivenza (respirazione, digestione, escrezione, termoregolazione), ossia le funzioni autonome, raggiungono per prime la maturazione. In seguito, si sviluppano altre aree, quali il sistema limbico e la corteccia cerebrale, deputate alla regolazione di aspetti più complessi del comportamento e cioè le emozioni e il pensiero astratto.
L’emergere delle facoltà mentali. L’ontogenesi delle strutture cerebrali è accompagnata dallo sviluppo cognitivo e dall’emergere delle facoltà mentali. Molte teorie hanno tentato di descrivere e interpretare i meccanismi di questo fenomeno.
La teoria psicoanalitica dello sviluppo. Una prima teoria, la cosiddetta teoria psicoanalitica dello sviluppo, che concerne prevalentemente lo sviluppo di tipo emotivo, è stata enunciata nei primi anni del 20° sec. da Sigmund Freud, il fondatore della psicoanalisi. In base a tale teoria, ogni individuo è dotato di una forma di energia psicologica (➔ libido) che rivolge, a seconda dell’età, verso un oggetto differente (parti del corpo o persone). In partic., durante il primo anno di vita, definito fase orale, la libido è concentrata sulla bocca e sulle attività basate sull’uso di quest’organo: per es., il neonato prova piacere nella suzione del pollice. Nell’arco del secondo anno di vita, definito fase anale, la fonte di eccitazione principale è rappresentata dalla regione deputata alle funzioni corporali e il bambino prova soddisfazione, per es., nel controllo della defecazione. Successivamente, nel periodo che va dai tre a sei anni, definito fase fallica, l’attenzione è attratta da ciò che stimola la regione genitale, mentre il periodo dai 7 ai 12 anni circa, prima della pubertà, è detto fase di latenza. Infine, la cosiddetta fase genitale rappresenta un passo chiave verso la maturità che porta l’individuo a cercare soddisfazione in una relazione eterosessuale con un’altra persona. Freud riteneva che una deprivazione o gratificazione eccessiva durante le fasi orale, anale o fallica potesse avere effetti che perduravano per l’intero arco della vita rappresentando una vulnerabilità potenziale all’insorgenza di problemi psicopatologici. Le diverse fasi teorizzate da Freud sono accompagnate dallo sviluppo dell’Io, ossia della porzione della personalità che gestisce le problematiche relative al mondo reale. L’Io (➔), una volta raggiunta l’età adulta, controbilancia un altro aspetto della personalità, definito Es, che consiste nelle forze innate che spingono verso un’immediata soddisfazione dei bisogni di tipo istintuale (sessuale, aggressivo, affettivo, ecc.). L’Io quindi media tra quelle che sono le esigenze del mondo reale e quelle dell’Es, utilizzando processi mentali coscienti e incoscienti. Tale complessa teoria, sebbene abbia rivelato diverse incongruenze, ha comunque fornito una base concettuale importante per l’elaborazione di quadri teorici mirati allo studio dello sviluppo del comportamento.
Il lavoro di Jean Piaget. Una seconda teoria, sviluppata dal pedagogista ed epistemologo svizzero Jean Piaget negli anni Trenta del secolo scorso, ha alla base il principio che lo sviluppo cognitivo consista nella capacità di adattarsi, costruendo nuove strutture mentali che hanno lo scopo di permettere la comprensione dell’ambiente e di relazionarsi con esso con successo. Piaget sostenne che tale processo è continuo, in quanto governato da funzioni invarianti di adattamento ma, allo stesso tempo, anche discontinuo in quanto organizzato in stadi di sviluppo, ognuno dei quali basato su una data organizzazione psicologica. In partic., la teoria di Piaget identifica diversi stadi di sviluppo. Nel periodo sensomotorio (da 0 a 2 anni) il bambino esplora il mondo attraverso attività sensoriali e motorie. Nel periodo preoperazionale (da 2 a 6 anni) il bambino è in grado di produrre immagini mentali; supera i limiti dell’ambiente percettivo con un’attività rappresentativa che gli permette di evocare oggetti, eventi, persone non presenti; sviluppa il gioco simbolico, ossia acquisisce la capacità di utilizzare un oggetto per evocarne un altro (per es., una matita può rappresentare un razzo). Nel periodo delle operazioni concrete (dai 7 agli 11 anni), il bambino diviene capace di produrre immagini mentali e di metterle in relazione tra loro. Nel periodo delle operazioni formali (dai 12 ai 15 anni), infine, il pensiero diviene sempre più indipendente dalla percezione. Emerge la capacità di compiere ragionamenti logici complessi sulla base di ipotesi, anche in contrasto con la realtà del momento. Nonostante che il contributo di Piaget sia un mattone fondamentale delle teorie dello sviluppo cognitivo, le sue idee sono state successivamente riviste. Una delle critiche maggiori al pensiero di Piaget è stata l’aver trascurato il ruolo delle esperienze, e in partic. di quelle emotive. Infatti, oggi è ben chiaro come le esperienze emozionali (➔ emozioni), e in partic. quelle vissute con e attraverso la madre e i genitori in genere, giocano un ruolo chiave durante i primi anni di vita.
John Bowlby e la teoria dell’attaccamento. John Bowlby, nella seconda metà del 20° sec., studiò lo sviluppo di un individuo da una prospettiva diversa, mettendo al centro del processo di crescita le relazioni sociali ed emotive. Bowlby sostiene come l’attaccamento, ossia quel legame che un individuo sviluppa durante il primo anno di vita nei confronti della figura materna o di un suo sostituto, sia cruciale per una crescita armoniosa, in quanto gli permette di soddisfare i bisogni sia fisiologici sia psicologici. Tale teoria, definita dell’attaccamento, si contrappone alle idee freudiane secondo le quali il legame che unisce un bambino alla figura di riferimento è conseguenza del soddisfacimento del bisogno di nutrizione. In collaborazione con la collega Mary Ainsworth, ispirato anche dagli esperimenti condotti sui macachi da Harry Harlow, Bowlby osservò come la madre fornisca una «base sicura», dalla quale il piccolo può allontanarsi ed esplorare il mondo circostante e, nel caso di potenziali pericoli, farvi ritorno. L’aver sperimentato tale base sicura durante la prima infanzia è un evento determinante nello sviluppo della personalità e rappresenta l’elemento necessario per la maturazione delle capacità necessarie per relazionarsi con gli altri. Al contrario, esperienze negative che non permettono a un individuo di sviluppare un appropriato legame di attaccamento potranno poi, nell’età adulta, sfociare in disturbi psichiatrici, quali la depressione o l’ansia.
Lo sviluppo nell’adolescenza. L’adolescenza (➔) inizia intorno ai 10÷12 anni e finisce con l’inizio dell’età adulta. Sebbene l’infanzia sia stato il periodo della vita studiato in modo più approfondito, anche l’adolescenza rappresenta una fase assai rilevante per lo sviluppo del comportamento in quanto durante questo stadio avvengono rapidi cambiamenti di natura sia biologica sia psicologica. L’adolescente sperimenta una serie di ruoli e vari modelli di comportamento, attraversa la fase in cui smette di definirsi soltanto in rapporto agli adulti presenti in casa e a scuola, ricercando altre figure come modello o guida. In questa fase dell’esistenza, l’individuo, nella continua ricerca di un affrancamento dal precedente modello di riferimento, sposta il baricentro delle proprie interazioni sociali dall’ambiente familiare al gruppo dei coetanei. In questa fase della vita, il cervello va incontro a una serie di importanti cambiamenti che danno poi forma al cervello adulto. A grandi linee, il volume della materia grigia, che era aumentato prima della pubertà, comincia a ridursi, in parallelo con l’emergere delle abilità cognitive tipiche dell’adolescenza. Tale processo di selezione dei neuroni porta all’eliminazione dei collegamenti ridondanti, preservando quelle capacità cerebrali che serviranno durante la vita adulta. Inoltre, le diverse aree cerebrali non maturano con gli stessi tempi. Le zone che controllano funzioni di base, come quelle motorie e sensoriali, maturano rapidamente. Altre aree, come la corteccia prefrontale, che giocano un ruolo chiave in aspetti complessi del comportamento, quali la programmazione delle azioni e il controllo dell’emotività, si sviluppano più lentamente, non raggiungendo lo stadio adulto fino a circa i venti anni di età. Inoltre, i centri legati al piacere, che si attivano in risposta a stimoli positivi, sono più attivi durante l’adolescenza che nell’età adulta. Si è ipotizzato che tale asincronia nel profilo di maturazione delle varie aree durante l’adolescenza sia alla base della relativamente ridotta inibizione che porta gli adolescenti ad assumere comportamenti rischiosi.
Influenza dei geni e dell’ambiente sullo sviluppo del comportamento. Il secolo scorso è stato caratterizzato da un acceso dibattito sul contributo relativo di fattori genetici e ambientali nel determinare lo sviluppo del comportamento. Tale disputa, anche nota con l’espressione nature vs nurture (ossia, inclinazione naturale contro educazione), vide l’affermazione di una fazione o dell’altra a seconda dei periodi storici. Solo negli ultimi 15÷20 anni, la consapevolezza che sia i geni sia l’ambiente partecipino nel determinare le traiettorie di crescita che danno forma all’individuo ha cominciato ad affermarsi. Oggi si parla infatti di nature via nurture, a significare che la natura si esprime attraverso l’educazione. Geni e ambiente possono influenzarsi vicendevolmente mediante diverse modalità, che includono correlazioni e interazioni.
Correlazioni geni-ambiente. La correlazione si verifica quando i geni condizionano le risposte a specifici stimoli ambientali. Per es., la scelta dell’ambiente in cui vivere è in parte determinata dal corredo genetico. Ipotizziamo che un individuo abbia geni che creano una predisposizione verso la timidezza e una bassa socievolezza; come conseguenza, l’individuo tenderà a vivere in un ambiente socialmente poco stimolante, esacerbando la propria naturale tendenza all’isolamento. Simile sarebbe la condizione di un individuo geneticamente dotato di talento per una determinata attività, come quella matematica, musicale o atletica. Questo individuo dedicherà più tempo e maggiore dedizione a tale attività, con ulteriore sviluppo di questa inclinazione. Quindi, i geni giocano un ruolo primario nella scelta dell’ambiente di crescita e, in generale, di vita. Tuttavia, sarà la combinazione degli effetti di entrambi i fattori (geni e ambiente) a determinare il comportamento di un dato individuo.
Interazioni geni-ambiente. Il fenomeno dell’interazione tra geni e ambiente è normalmente complesso in quanto implica anche modifiche a livello cerebrale e molecolare. Un primo meccanismo di interazione è quello per cui i geni creano le condizioni affinché si verifichino i cambiamenti, ma la direzione di tali cambiamenti è data dall’ambiente. Per es., sebbene una persona possa possedere i geni che predispongono a spiccate capacità musicali, queste ultime non saranno mai sviluppate se l’individuo non avrà la possibilità di venire a contatto con uno strumento o con un ambiente musicale appropriato. Per assurdo, si può ipotizzare che probabilmente il talento di Mozart non si sarebbe mai palesato se fosse cresciuto in una famiglia senza alcuna istruzione musicale (o, per meglio dire, in un contesto storico-familiare lontano da esperienze musicali) invece che in una famiglia con un padre musicista, in quanto, nonostante fosse ‘geneticamente’ estremamente portato per la musica, non ci sarebbe stato nessuno pronto a istruirlo in questo campo. Più di recente, è stato identificato un ulteriore meccanismo che determina l’interazione tra geni e ambiente, tale per cui le esperienze sono in grado di esercitare un’azione diretta sull’attività dei geni. Fino a pochi anni fa si riteneva che le condizioni ambientali non potessero indurre cambiamenti nella struttura dei geni e nel loro livello di espressione. Effettivamente la sequenza dell’acido deossiribonucleico (DNA), ossia l’ordine delle coppie di basi che codifica l’informazione ereditaria necessaria per la costruzione di un organismo, non può essere modificata dall’ambiente. Tuttavia, lo può essere l’espressione genica: per meglio illustrare questo fenomeno possiamo portare l’esempio di come le esperienze negative durante le prime fasi dello sviluppo siano in grado di alterare il livello di espressione di geni chiave nel controllo dell’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi- surrene, alla base della risposta allo stress. In partic., Michael Meaney, dell’Università McGill di Montreal in Canada, ha mostrato come traumi precoci modifichino l’espressione genica in modo tale da rendere l’asse più reattivo quando i soggetti sono esposti a eventi stressanti, creando così una vulnerabilità verso la psicopatologia. Quindi, l’interazione non è dovuta unicamente alla sovrapposizione o meno di determinati assetti genetici e specifiche condizioni ambientali, ma i due fattori si influenzano in modo diretto e bidirezionale.
I periodi critici delle modifiche cerebrali. È importante sottolineare come le esperienze non esercitino costantemente lo stesso tipo di influenza sull’individuo, in quanto la capacità del cervello di cambiare la propria struttura e funzione in base agli stimoli ambientali si modifica nel tempo ed è particolarmente accentuata durante i periodi critici. Un periodo critico è una finestra temporale durante la quale l’esperienza è richiesta per il corretto sviluppo di un dato circuito o di un insieme di circuiti neurali, l’insieme di neuroni interconnessi tra loro che controllano una data funzione, come la vista o la risposta emotiva. Durante il periodo critico, tali circuiti sono sensibili all’arrivo di stimolazioni prodotte dalle esperienze per continuare a svilupparsi in modo appropriato. Le stimolazioni provocano un’attività neurale e fanno sì che un preciso schema di connessioni tra cellule nervose sia selezionato per far parte del futuro cervello adulto. Gli altri schemi neuronali non stimolati vengono persi con la crescita (fenomeno chiamato pruning, potatura). Una volta terminato il periodo critico, che ha una durata diversa per le diverse funzioni, l’esperienza non ha più lo stesso effetto. Quindi, se i circuiti cerebrali non sono stati indotti o stimolati in modo appropriato durante queste finestre di opportunità, è molto difficile recuperare in seguito. Igor Branchi