Svevi
La dinastia sveva ebbe il potere imperiale nei secoli XII e XIII coi titoli di re di Germania, d'Italia, poi di Arles, a cui si aggiunse, per unione personale, dal 1190, quello di re di Sicilia.
Fu suo primo rappresentante Corrado III che regnò (1138-1152) tra molte difficoltà, per le lotte intestine che travagliarono la Germania divisa fra i ghibellini (fautori della dinastia sveva, così detti dal castello di Weiblingen in Svevia) e i guelfi (chiamati così da Guelfo, capostipite della casa di Baviera, avversaria appunto degli S.); suo unico successo fu la partecipazione alla II crociata per la quale venne anche in Italia, trattenendosi tra l'altro a Firenze.
Fu suo successore Federico I di Hohenstaufen, detto Barbarossa, che regnò dal 1152 al 1190. Eletto senza opposizioni, conciliando in sé, per un complesso intreccio di legami familiari, le aspirazioni delle più grandi famiglie tedesche, venne subito in Italia per ottenere la corona imperiale (1154) e per affermarvi la sua suprema autorità. Costretto a combattere i comuni ostili alle sue aspirazioni, ribadite con l'appoggio dei giuristi bolognesi alla dieta di Roncaglia (1158), distrusse i più riottosi, tra cui Milano; ma vide, allora, formarsi contro la sua potenza la Lega Lombarda, che riunì la più gran parte dei comuni dell'Italia settentrionale (dal 1167) e che ebbe l'appoggio del papa Alessandro III. Ne seguì una serie di operazioni militari che culminarono nella battaglia di Legnano (1176), in cui Federico, duramente sconfitto, dové chiedere una tregua (Venezia, 1177) cui seguì la pace di Costanza (1183). Conclusa la lotta con i comuni, Federico Barbarossa poté coronare trionfalmente la sua politica italiana unendo in matrimonio suo figlio Enrico VI con l'erede del regno normanno di Sicilia, Costanza d'Altavilla, figlia postuma di Ruggero Il. Sensibile ai suoi doveri religiosi, Federico, alla notizia della caduta di Gerusalemme ad opera del Saladino, prese parte alla III crociata, ma morì durante la spedizione, annegando nel fiume Salef, in Asia Minore (1190).
Enrico VI (1190-1197), dopo aver superata e duramente colpita una forte opposizione nel regno di Sicilia, si sforzò di realizzare un accordo permanente col Papato, ma morì prima che i complessi negoziati arrivassero alla conclusione.
Seguì un periodo di rinnovate lotte intestine in Germania tra il fratello di Enrico VI, Filippo di Svevia, e il suo competitore guelfo, Ottone di Brunswick, che fu anche, per breve tempo, imperatore; ma la dinastia sveva ebbe la sua più alta affermazione con Federico II (re di Sicilia dal 1197, a quattro anni, imperatore dal 1220 al 1250). Re di Germania, d'Italia, di Arles, di Sicilia, poeta, scrittore, mente direttiva della più varia e complessa realtà statale del suo tempo, nella decisa volontà di affermazione del suo potere imperiale entrò in lotta, come già Federico Barbarossa, coi comuni, uniti nella seconda Lega Lombarda, e poi col papa Gregorio IX, vincendo a Cortenuova. Ma, per la tenace resistenza di Milano, sconfitto sotto le mura di Parma ribelle, fu poi solennemente condannato da Innocenzo IV nel primo concilio di Lione.
Mentre preparava la rivincita morì nella sua Puglia prediletta lasciando di sé un ricordo di abbagliante grandezza, che affascinò a lungo i contemporanei, che lo dissero " stupor mundi " e " immutator orbis ". Ebbe inoltre particolare importanzanella storia letteraria d'Italia, perché la sua corte fu il centro della Scuola poetica siciliana.
I sovrani svevi compaiono nell'opera di D. ricordati sia nel loro complesso sia per la loro opera personale e individuale, offrendo quindi motivo a una duplice serie di considerazioni.
Prima di tutto la dinastia sveva, come il poeta stesso ha occasione di precisare a proposito dell'imperatrice Costanza nel primo cielo del Paradiso, è colta unicamente e solamente nei suoi imperatori: Quest'è la luce de la gran Costanza / che del secondo vento di Soave / generò 'l terzo e l'ultima possanza (III 118-120). Viene poi messa in evidenza quella che a giudizio del poeta ne costituisce la caratteristica fondamentale: la forza impetuosa, addirittura irresistibile, designata biblicamente nel vento, e il fatto che tre ne furono gli esponenti: Federico I, Enrico VI e Federico II, ultima possanza, ultimo cioè a rappresentare la gloria e la grandezza della sua famiglia.
All'indicazione della potenza turbinosa degli S. il poeta non aggiunge altri elementi di considerazione e di giudizio; ed è certo assai significativo che non vengano neppure ricordati nella Monarchia, che è tutta una celebrazione dell'idea imperiale, né nel canto VI del Paradiso, ove sistematicamente, del resto, vengono ignorati tutti gl'imperatori dopo Carlo Magno. Affiora quindi, proprio per questo silenzio, la fede guelfa di D. che, seguendo del resto la tradizione cronachistica fiorentina, considera come decisamente ostili alla propria Parte gli Svevi.
Ne nasce un singolare stato d'animo del poeta, portato dalla sua fede nella provvidenziale necessità dell'Impero a sottolineare ed esaltare l'azione degl'imperatori e insieme indotto dall'amore per la sua città a tacere proprio di quelli che l'autorità imperiale più validamente avevano rappresentato, nell'epoca a lui più vicina e senza che a loro succedesse nessuno che ne riprendesse, almeno per quanto riguardava l'Italia, l'azione ordinatrice e la forza capace di ridurre all'obbedienza i riottosi.
Non si può, tuttavia, fare a meno di osservare, al di là del silenzio di D., come la sua concezione dell'Impero riprenda, teorizzandola, proprio l'esperienza politica degli S., e come finisca con l'approvarne decisioni e atti, che la tradizione della più gran parte dei comuni italiani ricordava con odio e con terrore.
Così, a proposito del Barbarossa, si afferma, certo, che Milano ancora dolente lo ricorda, ma egli è detto ‛ buono ', cioè " valente ", " valoroso " (Pg XVIII 119-120); e questo epiteto ci viene esattamente chiarito da un passo dell'epistola VI (19 ss.) ai Fiorentini intrinseci, in cui, esaltando la potenza imperiale, s'invitano i Fiorentini stessi a ricordare i ‛ fulmini ' di Federico I e la sua distruzione di Milano e di Spoleto, che puniva le due città per la loro ribellione alla più alta autorità umana.
Il guelfismo del poeta si viene così attenuando nella considerazione della realtà politica concreta, specialmente quando la venuta di Enrico VII e le vicende spesso drammatiche della sua spedizione italiana dovettero porre D. di fronte al grave problema del diritto di resistere o meno all'autorità suprema dell'imperatore, decidendo, senza alcun dubbio, per il rifiuto di quel diritto e riaffermando il dovere dell'obbedienza in vista dei fini di superiore human civilitas e della realizzazione di una giustizia universale.
Da questo punto di vista si comprende il significato del ‛ silenzio ' su Enrico VI e del biasimo che lo colpisce a proposito della violenza usata a Costanza, figlia di Ruggero II, la quale per motivi politici fu costretta, secondo la tradizione che D. riprende, a uscire dal chiostro per sposarlo: non a caso Piccarda Donati ricorda Costanza, come sua compagna, nella forzata rinuncia alla pace e alla serenità del chiostro.
Non sappiamo se questa violenza che marchiava di negazione di giustizia chi della giustizia doveva essere il più alto rappresentante, abbia indotto il poeta a tacere sull'offerta che al papa fece Enrico VI: questo si dichiarava pronto a provvedere con ogni larghezza ai bisogni della Chiesa se il papa e tutta la gerarchia della Chiesa avesse rinunciato alla propria potenza mondana e ad ogni e qualsiasi attività sul piano politico.
Le offerte e le trattative che ne seguirono furono interrotte dalla morte di Enrico VI e di Celestino III; furono però abbastanza note ai contemporanei: rimane perciò da domandarsi se D. le abbia conosciute: certo il suo ideale politico e religioso, autonomia dei due poteri, rinuncia alla politica da parte della Chiesa e, soprattutto, povertà della Chiesa stessa, è singolarmente vicino a quel piano di Enrico VI.
Comunque il poeta ha taciuto sul destino eterno di Federico Barbarossa e di Enrico VI, non su quello di Federico II, che è condannato all'Inferno tra gli Epicurii, insieme con Farinata degli Uberti, Cavalcante de' Cavalcanti e il cardinale Ottaviano degli Ubaldini (If X 118-120). Dopo quanto si è detto, basterà appena sottolineare che non la politica ghibellina, ma solo la personale posizione religiosa di Federico, che venne sempre vivacemente combattuta dalla propaganda guelfa, indussero il poeta a porre nell'Inferno un uomo per il quale aveva la più alta ammirazione.
Egli era infatti ultimo degli S., ma anche ultimo imperadore de li Romani - ultimo dico per rispetto al tempo presente, come osserva D. nel Convivio (IV III 6) parlando della sua teoria della nobiltà. L'esaltazione dantesca (If XIII 75 che fu d'onor sì degno) è posta in bocca a Pier della Vigna anche per liberarlo dalla diceria di cattiveria e d'ingiustizia, venutagli dalla crudele condanna del suo più intimo e fidato collaboratore.
Da questo punto di vista il canto di Pier della Vigna è anche esaltazione della dignità del Cesare e dell'Augusto, che ha potuto essere ingannato da invidi e malvagi, ma non ha ceduto all'ingiustizia, rimanendo così sempre all'altezza della sua dignità.
La stessa lotta col Papato e coi comuni è sentita come una necessità di difesa e, insieme, come un'esigenza di ripristinare la legalità offesa: così Marco Lombardo, ricordando nostalgicamente la sua terra, la designa come quella ove solea valore e cortesia trovarsi, / prima che Federigo avesse briga (Pg XVI 116-117); son versi nei quali il biasimo per lo sconvolgimento causato in Lombardia viene evidentemente a cadere su coloro - il Papato appunto e i comuni guelfi - che volevano turbare l'ordine che Federico intendeva instaurare. Ancor più significativamente (Ep VI 19) D. cerca addirittura di togliere ogni importanza e valore alla famosa sortita con cui i Parmensi distrussero l'accampamento imperiale di Vittoria, avvertendo che da quell'episodio non bisogna trarre argomento per esaltarsi nella speranza di poter resistere all'imperatore.
Federico II è, poi, per D. il più importante degli S. e il più vicino al suo ideale, anche perché si era sforzato di creare un equilibrio fra la sua dignità d'imperatore, che era universale, e quella di re di Sicilia, che era italiana e legata a fatti, ideali ed esigenze italiane.
Così non manca di sottolineare l'importanza che venne ad avere per l'Italia la Magna Curia di Sicilia, esaltata nella persona dei suoi sovrani Federico II e Manfredi, che fu però solo re di Sicilia; in obprobrium ytalorum principum... qui non heroico more, sed plebeio secuntur superbiam; Federico e Manfredi, invece, illustres heroes... nobilitatem ac rectitudinem suœ formœ pandentes... human secuti sunt, brutalia dedignantes (VE IXII 3-4).
In tal modo la dignità imperiale e regia, che potrebbe anche toccare a inetti, è stata in loro ancor più elevata ed esaltata dall'ultima grandezza, che essi seppero raggiungere.
Tra gli S. dunque Federico II emerse, per D., di propria eccezionale grandezza, che si riversa anche sul figlio Manfredi: entrambi hanno, anche, il merito di essere stati gl'iniziatori e i sostenitori di una lingua ‛ curiale ' che superasse le brutture e le particolarità dei singoli linguaggi locali. Manfredi, nell'opera di D., ha invece importanza più che come membro della famiglia sveva, come personalità singola, affascinante e sfortunata, vittima degl'intrighi della Curia e del tradimento dei Pugliesi.
Non manca infine il poeta di ricordare l'ultimo degli S., l'infelice Corradino; è un accenno appena, quando si ricorda Tagliacozzo, la battaglia che pose fine a ogni speranza di rialzare le sorti della dinastia (If XXVIII 17-18), e quando si bolla d'infamia l'iniqua esecuzione del giovanissimo principe ad opera di Carlo d'Angiò (Pg XX 67-68).
Bibl. - Sulla storia degli S. si vedano le due opere generali: C. Hampe, Kaisergeschichte in der Zeit der Salier und der Staufer, Darmstadt 1963 (1a ediz.) e R. Morghen, Il tramonto della potenza sveva in Italia, Milano-Roma 1936. Per quanto riguarda gli S. si veda in particolare: I. Del Lungo, La figurazione storica del Medio Evo italiano nel poema di D., in Dal secolo e dal poema di D., Bologna 1898, 149-308; H. Finke, Dante als Historiker, in " Historische Zeitschrift " 104 (1910) 473-503; F. Torraca, La storia nella Divina Commedia, in Studi Danteschi, Napoli 1912, 79-107 (attenta discussione del Del Lungo); ID., Il regno di Sicilia nelle opere di D., in op. cit., pp. 346-381. Hanno poi trattato specificamente la questione W. Cohn, Die Hobenstaufen im Urteil Dantes und der neueren Geschichtschreibung, in " Deutsches Dante-Jahrbuch " XV, n.s. VI (1933) 146-184; F. Schneider, Dante und die Staufer, in " Arch. Stor. Pugliese " XIII (1960) 97-113; H. Löwe, Dante und die Staufer, in Speculum historiale, Monaco, s. a. [ma 1965] 316-333 (dove viene anche discusso [pp. 319-320] il problema dell'imperador Currado, col quale partì Cacciaguida); F. Giunta, Dante e i sovrani di Sicilia, in " Bollettino del Centro di Studi Filologici e Linguistici Siciliani " X (1966) 5-21.