Sontag, Susan
Sontag, Susan. – Scrittrice statunitense (New York 1933 - ivi 2004). Attivista politica radicale e docente universitaria, è stata autrice di romanzi, saggi e articoli, film e adattamenti teatrali. Tra i suoi scritti più noti, Against interpretation (1966); Styles of radical will (1969); Illness as metaphor (1978); Under the sign of Saturn (1980); AIDS and its metaphors (1988); Where the stress falls (2001). Ha avuto un ruolo particolare nell’attuale dibattito sulla fotografia, legato soprattutto a due volumi: la raccolta di saggi On photography (1977; trad. it. Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società, 1978) e il libro Regarding the pain of others (2003; trad. it. Davanti al dolore degli altri, 2003). Se le riflessioni sviluppate nel primo libro – sulla natura estetica, etica e mediale della fotografia – possono ormai essere considerate un importante snodo delle moderne teorie visuali, è in particolare il secondo, che ritorna su alcuni temi già trattati, ad aver suscitato le maggiori reazioni nell’ultimo decennio. Tra le idee centrali nei saggi degli anni Settanta, quella secondo cui le rappresentazioni fotografiche del dolore «paralizzano» e «anestetizzano» e «quando si è stati ripetutamente esposti alle immagini, esse diventano anche meno reali». A quasi trent’anni di distanza la posizione di S. muterà in modo drastico, spingendola a denunciare l’ipocrisia implicita nell’idea postmodernista di uno statuto, del tutto sganciato dalla realtà delle rappresentazioni mediatiche. S. definisce «conservatrice questa tesi perché essa si limita a denunciare l’erosione del senso della realtà, non della realtà stessa, che continua a esistere al di là dei tentativi di indebolirne l’autorità». Questa idea viene dunque ora ridimensionata. Secondo la scrittrice il pericolo insito in questa direzione è nel fatto che essa equivale «a universalizzare il modo di pensare di una piccola popolazione istruita che vive nei paesi ricchi del mondo, dove l’informazione è stata trasformata in intrattenimento» e, soprattutto, «presume che tutti siano spettatori. E implica, in modo perverso e poco serio, che al mondo non ci sia reale sofferenza».