Surrealismo
di Vicente Aguilera Cerni
Surrealismo
sommario: 1. Genesi, natura e irradiazione del movimento. 2. Il surrealismo e l'arte. 3. Conclusione. □ Bibliografia.
1. Genesi, natura e irradiazione del movimento
Circoscrivere il surrealismo nei limiti di un fenomeno puramente artistico equivarrebbe a sbarrare la strada per una sua corretta interpretazione. Se ogni evento che si verifichi nei diversi campi dell'arte appartiene per definizione alla fenomenologia della cultura e, di conseguenza, a un contesto che è allo stesso tempo storico, sociale ed esistenziale, nel caso del surrealismo sembra particolarmente indispensabile la considerazione della sua natura dialettica e contraddittoria, nel quadro di una civiltà i cui principî, basi e valori vengono attaccati da molteplici versanti.
Nell'odierna prospettiva interpretativa dei comportamenti socioculturali, il surrealismo si presenta come un tipico caso di ciò che alcuni sociologi come Boorstin hanno chiamato pseudoavvenimento, cioè come una sfida gettata nell'agone culturale non semplicemente come una fra le altre tendenze artistiche e proposte creative -, dando per scontato che le sue affermazioni o negazioni costituivano fatti fondamentalmente rivoluzionari e innovatori. Rinnegando i propri precedenti storici lo pseudoavvenimento si presenta con la serietà e l'aggressività di una profezia, la quale si adempie nel momento stesso della sua formulazione e le cui realizzazioni e conferme non dipendono che dai suoi stessi autori. Questa tecnica di presentazione, tipica dei ‛lanci culturali' contemporanei, comporta di solito la sottomissione alla dinamica del consumo, fatta di apparizioni fulminee e rapide scomparse. Il surrealismo che profittò della lezione dadaista fu però l'eccezione che conferma la regola, tra l'altro perché seppe perfezionare i metodi atti a imporre una prospettiva culturale.
Benché possa sembrare inutile, conviene ricordare che l'arte contemporanea si è sviluppata attraverso la successione ininterrotta di tendenze, autodefinitesi ‛rivoluzionarie', che negavano la validità e il perdurare di tutte le altre. Ma tali continue negazioni erano formulate nel riconoscimento dei fondamenti del sistema nel quale si erano prodotte e del quale si nutrivano. Era normale, quindi, che il ‛rivoluzionarismo' restasse meramente verbale. Sotto questo aspetto, ci è possibile oggi constatare che il dadaismo e il surrealismo furono i soli movimenti che, proponendo negazioni totali, prospettassero una distruzione della vecchia cultura o almeno una sua drastica revisione. È risaputo che dada costituì il rifugio e la protesta di alcune minoranze intellettuali, che si rifiutarono di partecipare al grande massacro della prima guerra mondiale, nella quale le nazioni si fronteggiavano inalberando principi identici o simili. Ecco quindi che determinati valori in lotta fratricida - alibi di un'orgia di sangue potevano e dovevano essere negati in blocco, tra l'altro perché mettevano a nudo la propria mistificazione, combattendosi senza cambiare maschera in entrambe le trincee contrapposte. Dada era, nella sua stessa essenza, spirito di rivolta e distruzione di quelle falsità. E cos'era il falso ? Il falso era, semplicemente, la cultura occidentale. Era la storia. Era la Gioconda, che bisognava fornire di baffi. Erano i grandi valori, rispettati, paterni, benevoli, moralizzatori, magniloquenti, che avevano seminato di fiori e allori le strade per le quali sarebbero passati i cannoni. La sola possibile nvoluzione consisteva nell'uscire dalle regole del gioco. La semplice negazione sembrava insufficiente. Bisognava distruggere tutto. ‟Dada non è follia, né saggezza, ne' ironia, guardami, gentile borghese" (Tr. Tzara, Manifeste de Monsieur Antipyrine, in Sept manifestes dada, Paris 1924). Contro l'assurdo sacralizzato, legalizzato e istituzionalizzato, si sviluppava un altro assurdo contestatario, distruttore e insultante. Si scopre quindi che dada non era semplicemente un ‛ismo', ma un atteggiamento di fronte alla storia, il quale si rivelava in un dato comportamento verso il presente. A questo punto sta a noi decidere se tale atteggiamento e tale comportamento hanno perso o no validità di fronte alle nuove stragi, ai nuovi miti, alle nuove sciocchezze ampollose e alle nuove osservanze emananti dai vertici del potere.
Se il dadaismo fu un fenomeno del periodo bellico, il surrealismo fu un prodotto del dopoguerra. In dada tutto era esteriore: lo scandalo, l'insulto, l'assurdo. Nel surrealismo vi fu un'interiorizzazione e un ‛metodo'; non poteva però esser negata l'origine da una costola di dada, una costola doppiamente e dialetticamente scissa, poiché ogni negazione implica un'affermazione e ogni distruzione comporta una speranza (v. dada).
Dada volle fare tabula rasa perché sbocciò in pieno delirio distruttivo: mentre gli obici esplodevano nelle trincee, i valori che stavano dietro alla catastrofe - mortiferi nonostante la loro cappa di ‛rispettabilità' - diedero per così dire fuoco alla miccia culturale, e la cultura e l'arte saltarono in aria, frantumandosi nell'ingiuria, nell'arbitrarietà e nella sfrontatezza. Il surrealismo apparve invece come un emanazione dello spirito postbellico che - per una crudele maledizione della storia - fu un fenomeno interbellico. Volle trasformare la vita; volle cambiare il mondo: ‟Per noi, l'ideale di Rimbaud, ‛cambiare la vita', e quello di Marx, ‛trasformare il mondo', sono una cosa sola", affermava Breton (v., 1962). In ciò vi era un atto di fede. Il movimento credette nella libertà per gli strati profondi della psiche umana, ma - inevitabilmente - non riuscì che a ottenere aperture nel campo dell'arte; trascurò la lezione delle sue stesse scissioni e contraddizioni, dei suoi successi e dei suoi fallimenti, sempre in attesa che le vicende dello sviluppo storico tornassero a renderlo attuale e risuscitassero la pregnanza dell'opposizione tra atteggiamenti irrazionalisti e proposte razionali.
Nel Primo manifesto del 1924 furono delineati i tratti essenziali del surrealismo: ‟Automatismo psichico puro col quale ci si propone di esprimere sia verbalmente, sia per iscritto, sia in qualsiasi altro modo, il funzionamento reale del pensiero. Dettato del pensiero, in assenza di ogni controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica o morale". ‟Il surrealismo si fonda sull'idea di un grado di realtà superiore connesso a certe forme di associazione finora trascurate, sull'onnipotenza del sogno, sul gioco disinteressato del pensiero. Tende a distruggere definitivamente tutti i rimanenti meccanismi psichici, e a sostituirli nella risoluzione dei principali problemi della vita" (ibid.).
Oltre all'evidente, diretta parentela con il dadaismo, il movimento surrealista non ha mai negato il suo legame con altri precursori. Così, nello stesso Primo manifesto si diceva: ‟Le Notti di Young sono surrealiste da un capo all'altro; disgraziatamente è un prete che parla, un cattivo prete, è vero, ma un prete".
‟Swift è surrealista nella cattiveria. / Sade è surrealista nel sadismo. / Chateaubriand è surrealista nell'esotismo. / Constant è surrealista in politica. / Hugo è surrealista quando non è stupido. / La Desbordes-Valmore è surrealista in amore. / Bertrand è surrealista nella morte. / Poe è surrealista nell'avventura. / Baudelaire è surrealista nella morale / Rimbaud è surrealista nella pratica della vita e altrove. / Mallarmé è surrealista nella confidenza. / Jarry è surrealista nell'assenzio. / Nouveau è surrealista nel bacio. / SaintPol-Roux è surrealista nel simbolo. / Fargue è surrealista nell'atmosfera. / Vaché è surrealista in me. / Reverdy è surrealista a casa sua. / Saint-John Perse è surrealista a distanza. / Roussel è surrealista nell'aneddoto. / Eccetera" (ibid.).
Tuttavia, questa maniera ‛surrealista' di riconoscere i propri precedenti verrà modificata in dichiarazioni posteriori. Indipendentemente da quanto riconoscono testi ‛ufficiali' del surrealismo, le sue radici affondavano nel terreno dell'arte fantastica, dalla torturata immaginazione di Bosch sino ai Capricci di Goya. D'altro canto, l'esperienza del simbolismo non poteva rimanere estranea ai progetti surrealisti, dalla proposta del poeta Moréas (‟rivestire l'Idea di una forma sensibile") sino alle opere di Odilon Redon. La lista degli eventuali precursori può essere tanto ampia quanto disparata: Rimbaud e Lautréamont (la ribellione contro i limiti della condizione umana e contro il conformismo spirituale), Bergson (i privilegi dell'intuizione), Freud (l'indagine dell'inconscio), Apollinaire (convivenza di immagini diverse).
Secondo la testimonianza di A. Breton, tra i personaggi che esercitarono un'influenza decisiva nella gestazione delle nozioni basilari del surrealismo vi fu J. Vaché, che Breton conobbe in un ospedale di Nantes agli inizi del 1916. ‟In primo luogo, per lui, tutto era una sfida". ‟Nella persona di Vaché un principio di insubordinazione totale minava segretamente il mondo, riducendo tutto quanto avesse importanza a una dimensione infima, dissacrando ogni cosa al suo passaggio" (v. Breton, 1952). Naturalmente, l'arte e gli artisti erano anch'essi bersaglio del suo atteggiamento di sfida. In quell'epoca (dal 1912 al 1915) A. Cravan, un pugile professionista, pubblicò la rivista ‟Maintenant". Nel 1916, la rivista ‟Sic" contribuì, nella prospettiva del futurismo, alla ricerca di nuovi indirizzi artistici. Nel 1917, P. Reverdy fondò ‟Nord-Sud", alla quale collaborarono Apollinaire, Jacob, Aragon, Braque, Soupault, Tzara e Breton. Ma il momento chiave nella formazione del movimento surrealista fu la creazione della rivista ‟Littérature", diretta da Breton, Ph. Soupault e L. Aragon. Vi collaborarono anche alcuni scrittori sui quali gravava ancora l'eredità simbolista - Gide, Valéry e Fargue -, come anche i poeti nell'orbita di Apollinaire: Salmon, Jacob, Reverdy, Cendrars. Intorno al 1921 si venne alla rottura con dada ed ebbe inizio l'elaborazione del metodo surrealista. Da quella data, sino al manifesto del 1924, Breton si vide circondato da un numero crescente di seguaci, che si aggiungevano ai nomi di Aragon, Eluard, Soupault: J. Baron, R. Desnos, M. Ernst, P. de Massot, M. Morise, P. Unik, R. Vitrac, M. Alexandre, A. Artaud, J. Delteil, F. Gérard, A. Masson, P. Naville, M. Noll.
In coincidenza con la pubblicazione del Primo manifesto, fu fondato il Bureau de recherches surréalistes e, quasi contemporaneamente, il primo dicembre iniziò le pubblicazioni la rivista ‟La révolution surréaliste" che, diretta da P. Naville e B. Péret, fu attiva sino al 1929, l'anno del Secondo manifesto, nel quale Breton precisò la sua posizione politica. Da questo momento, la rappresentanza ‛ufficiale' del surrealismo fu assunta da Breton, Aragon, Éluard e Unik; si allontanarono Artaud, Soupault e Desnos. Nel 1930, Breton pubblicò con Eluard L'Immaculée Conception, in cui tentava di riunire l'esigenza di azione sociale e l'attività spirituale.
Frattanto, ‟La révolution surréaliste" mutò nome in ‟Le surréalisme au service de la révolution", sopravvivendo sino al 1933. Durante questi anni si produsse una scissione fondamentale, poiché Aragon, in opposizione al trotzkismo di Breton, aveva aderito incondizionatamente al comunismo ‛ortodosso' sovietico.
Nel 1935, in una conferenza tenuta a Praga su invito del gruppo Fronte di Sinistra, Breton parlò della ‛posizione politica dell'arte contemporanea'. ‟L'automatismo psichico non ha mai costituito per il surrealismo un fine in sé; pretendere il contrario è commettere un atto di malafede". ‟Si trattava di sbaragliare per sempre la coalizione delle forze che vegliano acciocché l'inconscio sia incapace di qualunque irruzione violenta: in effetti, una società che si sente minacciata da ogni parte come la società borghese pensa, e non a torto, che una tale irruzione possa esserle fatale" (ibid.). Al tempo, i surrealisti collaboravano alla rivista d'arte ‟Minotaure": si faceva sempre più evidente lo slittamento dell'attività creatrice surrealista verso il terreno della pittura, ove avevano già acquisito forte personalità uomini come Dalì, Ernst, Tanguy, Arp, Giacometti, Magritte, Man Ray e Mirò; il resto erano continue dichiarazioni - e precisazioni - di principio, discussioni e atteggiamenti polemici.
Lo scoppio della seconda guerra mondiale causò l'emigrazione di molti membri del movimento surrealista: Péret andò in Messico (dove Artaud aveva operato nel 1936 e dove Breton si era incontrato con Trotzki nel 1938), mentre Dalì, Tanguy, Masson e Breton si recarono negli Stati Uniti, dove quest'ultimo pubblicò a New York, nel 1942, Les prolégomènes à un troisiéme manifeste du surréalisme ou non, seguiti da Arcane 17.
Terminata la guerra, il centro delle iniziative surrealiste tornò nuovamente in Europa. Sparirono alcuni nomi attorno a Breton e ne apparvero altri J. Schuster, A. -P. de Mandiargues, Ch. Estienne, R. Benayoun. Vennero allestite mostre internazionali, come quella di Parigi nel 1960, dedicata all'erotismo. Anche in precedenza erano state realizzate altre memorabili esposizioni. Proliferarono le pubblicazioni più o meno effimere. Ma l'evoluzione storica del surrealismo era entrata in una fase in cui era già difficile distinguere ciò che gli apparteneva da ciò che apparteneva alla sua eredità, ciò che era surrealismo in senso stretto e ciò che continuava il grande filone dell'arte fantastica e introspettiva. Precisamente in ciò risiede in grande misura la chiave della sua sopravvivenza.
Questo breve e incompleto panorama storico ha forse gettato una qualche luce riguardo al senso e al significato del movimento surrealista. Il surrealismo, però, tentò inoltre di stabilire un ‛metodo', una sorta di codificazione, che, a rigor di logica, contraddiceva la sua fondamentale aspirazione a un'assoluta libertà interiore. Di conseguenza, sarebbe più logico parlare di ‛procedimenti' o ‛espedienti' miranti a conseguire la comunicazione dei suoi contenuti. Potremmo forse dire che si trattava di ‛strade'.
In fondo, importava poco che si trattasse di un metodo, di procedimenti o di una strada. Ciò che effettivamente risultava inequivocabile era l'esistenza di uno stato d'animo, di un certo atteggiamento di fronte alla vita, al divenire storico e agli avvenimenti, un atteggiamento che del surrealismo fece un fenomeno tipico e significativo del periodo tra le due guerre, una testimonianza dell'irruzione dell'inconscio, piena di contraddizioni interne per la pretesa vocazione sociale di alcuni suoi aspetti, e in aperta opposizione dialettica con le correnti contemporanee di segno razionalistico e funzionalistico. ‟Il surrealismo - diceva M. Carrouges (v., 1950) - nacque da un'immensa disperazione di fronte allo stato cui si è ridotto l'uomo sulla terra, e da una speranza illimitata nella metamorfosi umana". ‟Una grande effervescenza di ribellione contro tutte le forme di oppressione materiale e spirituale - diceva Artaud - ci agitava quando nacque il surrealismo Padre, Patria, Religione, Famiglia [...], non vi era nulla che non ingiuriassimo [...], e più con l'anima che con le parole. In questa ribellione impegnavamo la nostra anima e l'impegnavamo ‛materialmente'. Tuttavia, questa rivolta che attaccava tutto non era capace di distruggere nulla, almeno apparentemente. Poiché il segreto del surrealismo è di attaccare le cose nei loro segreti" (v. Artaud, 1971).
Sade, Rimbaud e Freud, Marx e Lenin. Cioè a dire i simboli di una complessa gamma di emancipazioni e gli emblemi della trasformazione. Nel discorso pronunciato a Parigi durante il Congresso degli scrittori del 1935, Breton propugnava l'identificazione dell'attività interpretativa con l'attività trasformatrice del mondo. Era questo il compito dei poeti e degli artisti, prodotti delle sovrastrutture culturali destinati a promuovere la necessità dei mutamenti economici. Ma l'arte propagandistica era per lui mera esteriorità. Il problema era liberare lo spirito e l'uomo da ogni genere di legame, affermando quell'emancipazione spirituale e umana che il surrealismo pretendeva realizzare.
Ecco una delle grandi contraddizioni interne del movimento dalla fobia contro i dettami della ragione si passò all'accettazione di un ‛razionalismo aperto'. La trasformazione del mondo e la modificazione dell'uomo venivano tentate mediante la liberazione dell'inconscio; si voleva così ignorare che una tale equivalenza col metodo psicanalitico implicava un'intenzione preliminare e l'avvio di un processo al cui punto di partenza stava una decisione razionale. Che cos'era allora la ‛scrittura automatica', uno dei mezzi fondamentali con cui si poteva tradurre l'attività spirituale? Voleva essere la soppressione di qualsiasi controllo l'artista si colloca in una specie di ‛terra di nessuno' tra il sonno e la veglia, in uno stato di totale ricettività e di spontanea comunicabilità, e trascrive un ‛dettato magico' dopo l'annullamento di qualsiasi facoltà cosciente. In tal modo, si voleva gettare un ponte tra le opposte sponde del pensiero cosciente e dei sogni incontrollati, del reale e del fantastico, della ragione e della follia, dell'oggettivo e del soggettivo, della percezione e della rappresentazione, del passato e del futuro, del senso collettivo e dell'amore, persino della vita e della morte. In definitiva, Breton riteneva che l'automatismo dovesse essere considerato ‟non solo come un metodo di espressione in campo letterario e artistico, ma anche come primo avvio per una revisione generale dei metodi di conoscenza" (v. Breton, 1952). Ora, tale tecnica non solo aveva il precedente scientifico di Freud, ma, come indicava O. de Torre, era stata applicata da Joyce nell'ultimo capitolo dell'Ulisse. In definitiva, la ‛scrittura automatica' si accompagnava allo studio delle manifestazioni del sogno indotto, inteso come possibilità di eludere le restrizioni del pensiero controllato (la sottomissione alle percezioni sensoriali immediate e l'intervento dello spirito critico): si eliminavano cioè i legami imposti dalla logica, dalla morale e dai gusti dominanti.
Vi era altresì la sfera dei sogni, dei ricordi dimenticati e dei desideri inconsci; l'atteggiamento surrealista si distaccava così dalla filosofia occidentale.
Come era logico, da questa esplorazione che potremmo chiamare ‛terapeutica' si passava allo sfruttamento degli stati patologici; l'esistenza del mondo alienato - in cui prevaleva l'immaginario - era potenzialmente una fonte inesauribile d'ispirazione. In particolare, gli stati paranoici assomigliavano ai ricercati ‛stati secondari' nella misura in cui costituivano una sintesi tra la realtà e l'immaginazione. Il Miró surrealista dichiarò che la sua pittura era ‟sempre nata in uno stato di allucinazione, causato da uno shock qualsiasi, oggettivo o soggettivo, del quale [egli era] completamente irresponsabile", e aggiungeva ‟Quando mi pongo dinanzi alla tela, non so mai cosa farò, e sono il primo a sorprendermi del risultato" (v. Westerdahl, 1936).
Questa supposta passività assumeva carattere attivo nella proposta paranoico-critica di Salvador Dalì, definita ‟metodo spontaneo di conoscenza irrazionale, fondato sull'oggettivazione critica e sistematica delle associazioni ed interpretazioni deliranti". ‟Attraverso questo processo - aggiungeva Dalì - è stato possibile ottenere un'immagine doppia, vale a dire la rappresentazione di un oggetto la quale, senza la minima modificazione figurativa o anatomica, sia al tempo stesso la rappresentazione di un altro oggetto completamente diverso, anch'essa priva di qualsiasi genere di deformazione o anormalità che possa rivelare un accomodamento [...]. Ottenere tale immagine doppia è stato possibile grazie alla violenza del pensiero paranoico, che si è servito, con astuzia e abilità, della quantità necessaria di pretesti, coincidenze, ecc., approfittandone per far apparire la seconda immagine che, in questo caso, prende il posto dell'idea ossessiva" (cit. in Breton, 1962).
Da parte sua, Max Ernst diceva ‟Le ricerche sul meccanismo dell'ispirazione, svolte con fervore dai surrealisti, li hanno condotti alla scoperta di certi ‛procedimenti' di natura poetica, atti a sottrarre al dominio delle facoltà cosiddette coscienti l'elaborazione dell'opera figurativa. [...] Chiamato a caratterizzare qui il procedimento che per primo è venuto a sorprenderci e ci ha messo sulla strada di molti altri, sono tentato di vedervi lo sfruttamento dell'incontro fortuito di due realtà distanti su di un piano non consono (questo, parafrasando e generalizzando la celebre frase di Lautréamont: ‛Bello come l'incontro fortuito, sul tavolo anatomico, di una macchina da cucire e un ombrello') o, per usare un termine più breve, la coltura degli effetti di uno ‛spaesamento sistematico' [...]. Questo procedimento, usato, modificato e sistematizzato strada facendo da quasi tutti i surrealisti, sia pittori che poeti, li ha condotti, dalla sua scoperta in poi, di sorpresa in sorpresa. Tra le più belle conseguenze che sono stati chiamati a trarne bisogna ricordare la creazione di ciò che essi hanno chiamato ‛oggetti surrealisti' " (ibid.).
Si dispiega cioè una progressione che dalla scrittura automatica e dalla ricerca degli stati secondari conduce sino all'immagine doppia e agli oggetti surrealisti. Dal canto suo, l'‛oggetto surrealista' si lega strettamente al concetto di humour.
Gli oggetti surrealisti costituirono la messa in atto di un procedimento attivo in grado di realizzare materialmente il mondo delirante della irrazionalità concreta, secondo la nota definizione di Dalì. Lo stesso Dalì affermò anche che l'oggetto surrealista è quello che ‟si presta a un minimo di funzionamento meccanico [...] e che è fondato sulle fantasie e sulle rappresentazioni che possono essere provocate dalla realizzazione di atti inconsci (ibid.). A tal proposito, fu decisivo, a partire dal 1914, l'apporto dei ready mades di Marcel Duchamp: manufatti prosaici mediante i quali si incorporava alla sfera artistica il mondo della produzione e del consumo, demistificando contemporaneamente la sacralità dell'opera d'arte. È inutile sottolineare l'ovvio influsso di tutto ciò sulle future formulazioni della pop art.
D'altro canto, tali assurdi accoppiamenti e trasposizioni illogiche sfociarono in quel peculiare genere di humour che fu lo humour surrealista. Come è noto, uno degli espedienti fondamentali dell'umorismo è stato sempre la presentazione di un elemento logico in un contesto illogico, ovvero di un elemento incongruo in una situazione assolutamente normale, ma appartiene all'umorismo anche la critica mascherata da provocazione. Di conseguenza, lo humour surrealista celava un fondo di protesta nel quale era implicito un atteggiamento morale, il che rivelava la persistenza delle motivazioni dadaiste.
Tutto era poi pervaso da un sentimento di disinganno e di demoralizzazione, poiché, per un altro verso la visione umoristica porta a conclusioni cariche di amarezza. Solo sotto questo aspetto si può ravvisare un atteggiamento filosofico nell'attribuzione di un senso sconcertante agli oggetti. Si volle introdurre il meraviglioso nella vita quotidiana, mettendo in risalto la trama di forze occulte che avvolgono l'esistenza umana. Si parlò di ‛caso oggettivo' e di ‛humour oggettivo', che secondo Breton è la ‟sintesi dell'imitazione della natura, nelle sue forme accidentali, da un lato, e dello humour dall'altro"; si aggiungeva che ‟in quanto trionfo paradossale del principio del piacere sulle più sfavorevoli condizioni della vita, lo humour è chiamato a costituire un valore difensivo nell'epoca sovraccarica di minacce in cui viviamo" (cit. in de Torre, 1955). In una parola, il movimento fra le due guerre associa la protesta all'evasione mediante procedimenti inaspettati, provocazioni e confuse speranze. Ed emerge in pari tempo un'idea autodistruttiva ‟Nel surrealismo la disperazione diceva Artaud (v., 1971) è stata all'ordine del giorno, e con essa, il suicidio". Quando col secondo numero di ‟La révolution surréaliste" venne chiesto agli adepti se il suicidio fosse una soluzione, la risposta fu negativa. Tuttavia, J. Vaché e O. Domínguez si tolsero la vita, fornendo tragiche testimonianze di un comportamento surrealista.
Nel quadro delle diverse ascendenze del ‛metodo' surrealista, spicca l'importanza dell'influsso esercitato sul movimento dalla psicanalisi. Le scoperte di Freud avevano portato alla luce i recessi occulti di ogni personalità umana, facendo dell'inconscio un terreno di ricerca e sperimentazione. Questo significò per l'arte lo schiudersi di molteplici orizzonti e di svariate possibilità. Quindi, il problema si spostava dalla possibilità di un'indagine analitica verso lo sfruttamento più o meno arbitrario della vita interiore. Non si pretendeva sebbene talora si affermasse il contrario - di aggiungere nulla alla decifrazione dell'occulto, ma si ricercavano risultati ed effetti immediati, anche se poi si mascheravano tali propositi sotto un sovrabbondante panneggio teorico. Si partiva dal principio che il reale e il surreale non avevano confini definiti che li separassero. In questa specie di ‛terra di nessuno', secondo il surrealismo, doveva dispiegarsi lo spirito, cercando di raggiungere una specie di ‛presa di coscienza' attraverso l'arbitrario. Non avevano importanza le proprie intrinseche contraddizioni, né la debolezza delle connessioni istituite tra teoria e pratica o tra dottrina e azione sociale.
Dall'arbitrarietà nasceva una posizione morale, o piuttosto un atteggiamento collocato al di là della morale. Si tentava di trascendere le norme accettate per la convivenza sociale e, in questo senso, i diversi aspetti del metodo surrealista volevano essere la materializzazione di questo travalicamento. L'automatismo e la spontaneità volevano costituire, in definitiva, un abbandono dell'‛io' cosciente e responsabile. Il blasfemo, il demoniaco e l'irrazionale non solo attentavano ai convenzionalismi morali socialmente dominanti, ma, col pretesto dell'identità, posta dai surrealisti, tra la vita e la morte, il reale e il fantastico, il trasparente e l'ermetico, il passato e il futuro, si chiudevano le strade che avrebbero potuto condurre all'elaborazione di un qualsiasi codice etico, dato che tale codificazione comporta necessariamente, nel fondo della coscienza, un'abdicazione della libertà interiore a favore della responsabilità. Torniamo quindi alla definizione originaria del surrealismo data da Breton ‟Dettato del pensiero, in assenza di ogni controllo esercitato dalla ragione, al di fuori da ogni preoccupazione estetica o morale". Allo stesso modo rivive quanto disse Mirò nel 1931 , allorché assicurava che la sua pittura nasceva in uno ‟stato di allucinazione" del quale si dichiarava ‟completamente irresponsabile" (v. Westerdhal, 1936). Per parte sua, Artaud affermava che il surreale ‟ha generato una mistica occulta, un occultismo di nuovo genere che, come ogni mistica occulta, si è espresso allegoricamente e per mezzo di manifestazioni che hanno assunto forma di poesia" (v. Artaud, 1971).
Una situazione identica a quella che riscontriamo nella morale surrealista ci appare quando prendiamo in considerazione le posizioni politiche del surrealismo e il suo modo d'intendere le interazioni tra società, politica e rivoluzione. Il Secondo manifesto del 1929 aveva un carattere nettamente politico. Come abbiamo già detto, la rivista che inizialmente si chiamava ‟La révolution surrèaliste" ricevette nel 1930 il nome di ‟Le surrèalisme au service de la rèvolution". Nel 1932 L. Aragon si staccò dal gruppo dirigente del movimento. Sopravvenne la polemica sulle distinzioni tra il problema della conoscenza, l'azione politica, la necessità rivoluzionaria, la libertà artistica e il realismo socialista. Nella sua Position politique du surréalisme (1935) Breton scriveva: ‟Siamo ancora in molti a pensare che mettere la poesia e l'arte al servizio esclusivo di un'idea, per quanto entusiasmante possa essere in sé, equivarrebbe a condannarle a breve scadenza a cristallizzarsi, significherebbe metterle su un binario morto". Dal canto suo, Aragon pubblicava l'opuscolo Pour un réalisme socialiste. Nel 1938 Breton redasse con Trotzki il manifesto Per un'arte rivoluzionaria indipendente. Frattanto, la seconda guerra mondiale era alle porte e dal punto di vista del surrealismo originario i totalitarismi di Hitler e di Stalin si identificavano. Un tale cumulo di contraddizioni accresciuto da molteplici polemiche e dichiarazioni antitetiche dimostrava l'impossibilità di una posizione politica coerente. Rimaneva dimostrato il carattere utopistico e illusorio dell'onnicomprensività del surrealismo, come anche l'impossibilità di conciliare la massa di elementi antitetici che ne costituivano le molteplici facce.
Sarebbe tuttavia erroneo inferire da ciò la sua sterilità. Nei campi della poesia e delle arti plastiche si ottennero risultati rilevanti. Come si propugnava l'identificazione tra poesia e letteratura, nello stesso modo furono spezzate le barriere tra il letterario e il plastico, dato che la pittura surrealista, innanzitutto, era una descrizione, una traduzione in immagini visibili di immagini letterariamente leggibili.
Assai lungo potrebb'essere l'elenco dei risultati letterari. Di Breton ricorderemo: Nadja (1928), Les vases communicants (1932), L'amour fou (1937) e Arcane 17 (1944), le sue opere poetiche Clair de terre (1923) e Fata Morgana (1940); di Aragon: Le paysan de Paris (1926), Traité du style (1928), La grande gaieté (1929) e Persécuté persécuteur (1930); di Éluard: L'amour, la poésie (1929), Facile (1935), Les yeux fertiles (1938), Donner à voir (1939) e, in collaborazione con Breton, L'Immaculée Conception (1930); di Tr. Tzara sebbene fondatore del dadaismo menzioneremo: Vingt-cinq poèmes (1918), Grains et issuer (1935) e L'homme approximatif (1931); di Ph. Soupault: Les champs magnetiques (1921) in collaborazione con Breton, Aquarium (1917) e Wertwego (1922); di Artaud: L'ombilic des limbes (1924) e Le pèse-nerfs (1927); di R. Crevel: Le clavecin de Diderot (1932), Les pieds dans le plat (1933) e il romanzo Mon corps et moi (1925); di R. Desnos: La liberté ou l'amour (1927) e Corps et biens (1930); di R. Char: Ralentir, travaux (1930) in collaborazione con Breton ed Éluard, e Artine (1930); di B. Péret: Le grand jeu (1928) e Je ne mange pas de ce pain-là (1936).
Alcuni autori, pur non appartenenti all'ortodossia del movimento, scrissero opere rappresentative entro l'orbita surrealista (come nel caso di R. Char): J. Prévert, R. Queneau, J. Gracq.
Pittori come Salvador Dalì scrissero La femme visible (1930) e L'amour et la mémoire (1931); Dalì collaborò inoltre ai film surrealisti di L. Buñuel: Un chien andalou e L'âge d'or.
2. Il surrealismo e l'arte
Nonostante la vastità della sua produzione letteraria e l'importanza della sua anche se scarsa filmografia, il campo in cui il surrealismo ha registrato i risultati più alti è quello della pittura, dove sfruttò in modo radicale l'intero patrimonio storico dell'arte fantastica. È altresì necessario ricordare la stretta parentela dei surrealisti con la pittura metafisica italiana, con talune opere del doganiere Rousseau, di Marc Chagall e Klee. Alcuni dei nomi più importanti nel campo plastico (non solo in quello pittorico) sono quelli di Duchamp, Tanguy, Masson, Ernst, Arp, Giacometti, Dalì, Miró, Dominguez, Brauner, Lam, Matta Echaurren, Magritte, Delvaux. Le creazioni di tutti questi artisti in quanto davano espressione allo spirito e ai principi surrealisti - erano, come abbiamo già detto, nella linea dell'arte fantastica, un'arte in cui le immagini di estrazione letteraria trovavano la loro spontanea e più efficace traduzione nelle immagini visive. Ma anche in questo vi era una contraddizione insolubile, poiché il preteso ‟metodo spontaneo di conoscenza irrazionale" (Dalì) e la creazione ‟in stato di allucinazione" (Miró) erano incompatibili col processo di realizzazione di qualsiasi opera plastica, processo in cui vi è sempre un progetto e alcune fasi esecutive vincolanti, governate da tecniche specifiche. Pertanto, le realizzazioni plastiche del surrealismo erano una frode se le contempliamo dal suo stesso punto di vista e se accettiamo la definizione di Aragon: ‟Il vizio chiamato surrealismo è l'impiego sregolato e appassionato dell'immagine stupefacente" (v. Aragon, 1926). Da questa incompatibilità tra i principi e la possibilità di realizzarli derivò senza dubbio la facilità con cui molti artisti, nonostante la matrice surrealista, rifiutarono tale classificazione e rivendicarono la condizione di artisti indipendenti.
In una rassegna dei risultati più significativi dell'arte surrealista, sarebbe del tutto ingiusto omettere il contributo della pittura metafisica italiana. Ricordiamo che, tra il 1911 e il 1917, Giorgio De Chirico aveva elaborato una serie di soluzioni formali e spaziali con le quali seppe creare una visione misteriosa emanazione della vita interiore ricorrendo a immagini e oggetti le cui proporzioni e la cui ambientazione ben potrebbero dirsi di origine onirica. Le prospettive con elementi incongruenti o fuori scala, i manichini o le distanze suggeritrici d'infiniti non erano una liberazione delle forze del subconscio, ma plasmavano un universo impossibile in cui si insediavano personaggi e oggetti organizzati secondo una logica dell'assurdo. Ogni prospettiva diventava una specie di abisso orizzontale, un angoscioso invito a percorrere vie inesplorate. Questo, è vero, non era ancora surrealismo, ma era certamente la sua più chiara e netta premonizione. Lo stesso si potrebbe dire di quegli altri artisti italiani come Carrà e Morandi che nei loro periodi ‛metafisici' s'inoltrarono in questa poetica dell'enigmatico. Si deve infine menzionare la personalità solitaria di Alberto Savinio (fratello di De Chirico) che, dal 1926, fu il più originale ed eminente rappresentante del surrealismo vero e proprio nell'ambito della pittura italiana, e stabilì anche un peculiare rapporto con la problematica della cultura europea; ma, come affermava l'Argan, ‟il suo sentimento dell'Europa si traduceva in scetticismo e ironia, in malinconica consapevolezza dell'inevitabile scadenza del mito europeo" (v. Argan, 1970, p. 595).
Non dobbiamo, però, anticipare i tempi. La menzione testé fatta di Savinio, dovuta alla sua parentela con De Chirico, non può far dimenticare che Savinio, pur essendo stato un surrealista sui generis, deve essere incluso nella cr0nologia del surrealismo vero e proprio. Il ruolo di ponte fra la pittura metafisica e altri movimenti d'avanguardia fu proprio di artisti come Carlo Carrà, che nel 1915 passò dal dinamismo e dagli atteggiamenti polemici futuristi all'immobilità metafisica e alla concezione di uno spazio quieto, che sembrava volersi porre al di fuori della storia.
Il surrealismo fu, sotto certi aspetti, la conferma di una crisi spirituale scatenata dalla guerra europea del 1914-1918. Si spiega così l'esistenza, più volte segnalata, di un'evoluzione coerente che dal dadaismo conduce al surrealismo. Vi fu una negazione - o per lo meno una revisione - dei valori di cui si era alimentata in passato la cultura occidentale. Ma evidentemente vi era dell'altro, perché nella crisi del sistema culturale europeo si avvertiva la tensione dialettica tra i miti culturali e la loro confusione con l'esercizio del potere, tensione cui bisognerebbe aggiungere l'irruzione e la consacrazione dell'inconscio come una dimensione celata ma decisiva per qualsiasi approfondimento degli impulsi che governano l'esistenza umana. In breve: Marx e Freud erano balzati alla ribalta della storia; e l'arte, seguendo le sue strade, rifletteva questa situazione con chiarezza inquietante auspicando una nuova impostazione della dialettica tra le tendenze fautrici della razionalità e la crescente confluenza delle correnti che indagavano le forze occulte in un sempre più trionfante irrazionalismo.
L'evoluzione divergente di alcuni artisti che vissero l'esperienza dadaista da capiscuola (tale è il caso di Arp, Duchamp, Picabia o Man Ray) è, sia in ciò che li avvicina sia in ciò che li separa dal surrealismo, altamente significativa. Tra i protagonisti del dadaismo, Arp scivolò e in ciò ebbe probabilmente un'importanza fondamentale l'influsso di BrâncuŞi verso una poetica in cui le energie primigenie dell'esistenza non si radicavano nel subconscio, bensì negl'impulsi formativi del mondo naturale. Da parte loro le negazioni di Duchamp rivelavano una posizione antagonistica rispetto ai condizionamenti del mondo industriale e alla sua concezione meccanicistica dei rapporti causali; Duchamp iniettò nei contenuti del futuro surrealismo con più chiarezza di chiunque altro la sfiducia verso l'idea di ‛funzionalità' e la nozione correlativa di ‛utilità', cosicché la sua eterodossia, pur senz'addentrarsi nella ricerca o nella presunta rappresentazione dell'inconscio, contribuì in modo decisivo all'instaurarsi dell'antagonismo tra le mitologie surrealiste e le illusioni che si potevano nutrire riguardo ai programmi dell'architettura razionalista e del disegno industriale. Parallelamente, Francis Picabia concepì le proprie machines ironiques ribadendo la contrapposizione rispetto alla cultura razionalista e il sovvertimento delle sue mitologie; Picabia partiva dal gioco, contribuendo così di fatto a ricondurre l'attività artistica a una delle sue possibili origini. Uno dei giochi poteva consistere nella sistematica associazione di cose eterogenee, al servizio di un irrazionalismo programmatico e provocatorio. Ma la provocazione non finiva qui, dato che anche il mondo della tecnica poteva essere contestato partendo dal suo uso eterodosso; si pensi ai contributi fotografici di Man Ray con i suoi rayogrammes - dove la decontestualizzazione degli oggetti faceva parte di un'attività inventiva nella quale lo sguardo dell'interprete era elemento essenziale, condizionante del risultato: un risultato ‛concettualizzante'. Ricordiamo quest'affermazione di Man Ray: ‟Forse un giorno l'atto del dipingere scomparirà, sostituito da un'attività creativa che non ha nulla di comune con la parola ‛arte' ‟ (v. Fagiolo, 1975, p. 118).
Da questi precedenti, che s'intrecciano e attraversano la pittura metafisica e il dadaismo, derivano i tratti principali del surrealismo: la presunta liberazione dalle imposizioni della tecnica industriale e dalla logica dei suoi processi (pur senza abbandonare le tecniche pittoriche tradizionali), e l'esplorazione del subconscio mediante formulazioni oniriche, sconcertanti e indagatrici dell'incongruo e dell'assurdo. Sogni, complessi e istinti più o meno repressi costituivano l'innegabile rivelazione di un inconscio, o subconscio, che era formato necessariamente da ciò che i convenzionalismi della cultura tradizionale avevano celato. Si avvertiva certamente la persistente presenza dell'arte fantastica, che però non ebbe mai la coerenza ‛strategica' che fu propria del surrealismo.
Tutti questi ingredienti vennero a far parte della poetica di Max Ernst, uno dei massimi artisti delle correnti moderne e, senza dubbio, un rappresentante autentico delle possibilità e delle aperture offerte dal surrealismo. La sua opera - ricchissima di suggerimenti e di scoperte - seppe come poche altre mescolare il gioco, la meraviglia e la profondità. La frequenza alla Facoltà di filosofia di Bonn, i contatti con il Blaue Reiter, l'amicizia con Arp, la conoscenza della pittura metafisica di De Chirico e la presenza nel gruppo dadaista di Colonia prepararono il terreno alla sua ‛conversione' surrealista, avvenuta nel 1921. È ben nota la sua trasformazione dei collages cubisti mediante l'inserimento di immagini contrastanti riprese da vecchie riproduzioni o da decalcomanie. Ernst elaborava le sue tecniche eterodosse al servizio di un'immaginazione oscillante tra l'ironia e il sarcasmo, impostando situazioni in cui la logica veniva aggredita con vasta fantasia e inquietante umorismo. Allo stesso tempo, la sua pittura conservò una impronta tradizionale, sulla scia della sua ammirazione per Leonardo. D'altra parte, la sua invenzione del frottage segnò l'acquisizione di un nuovo dominio artistico, in cui l'operazione meccanica della mano avveniva attraverso una specie di gioco d'azzardo controllato, esercitato su un oggetto preesistente. Il fatto che Breton volesse escludere Ernst nel 1957 dai ranghi surrealisti non è che un episodio, certamente assurdo, dovuto a un dogmatismo che rasentava il ridicolo.
È possibile che il processo creativo avvenisse in Ernst attraverso una specie di distanziamento, in cui l'artista non vuol raccontare nulla ma soltanto contemplare lo sviluppo dell'opera che sta creando, potenziando la sua autonoma fantasia, la sua simbologia, che poteva magari ripercorrere a ritroso i tempi fino a raggiungere solennità totemiche. I suoi simboli potevano ergersi isolati in un paesaggio con inquietanti accoppiamenti che, in definitiva, promuovevano poeticamente la conquista dell'autocoscienza, alla quale ci si poteva però accostare anche attraverso complessi e policromi accrescimenti organici, come se la natura improvvisasse deliranti accrescimenti e creazioni ostili di terrificante bellezza. Questo fascino pauroso racchiudeva un ammonimento sulla insignificanza e l'estraniazione di un'umanità che, vivendo il sogno tecnologico, poteva essere divorata dal lussureggiante incubo di una flora e di una fauna mutanti, invadenti, implacabili.
In alcuni aspetti importanti l'opera di André Masson rappresentò una variante personale del movimento surrealista. Dal 1924 sviluppò la ‛scrittura automatica' come tentativo di trascrivere in modo quasi istantaneo stati d'animo e impulsi inconsci. D'altro canto, non nascose i riferimenti figurativi, allusivi sia al mondo naturale sia al mondo primitivo. In alcune opere fece esperienze di tipo materico; ad esempio usando sabbia in quadri a olio. Le sue evocazioni della natura integrarono in certo modo quelle di Ernst, sebbene i suoi intricati accoppiamenti di forme, la cui costruzione non evocava alcun tipo di architettura, bensì fantastici suggerimenti biomorfici, fossero impregnati di umori morbosamente sensuali. Ciò nonostante, nell'insieme della sua opera bisogna segnalare quei lavori che, come Costellazioni, del 1924, erano fondamentalmente vincolati all'esperienza cubista, mentre le scritture automatiche si situavano al polo opposto, e altre produzioni sembravano ispirarsi alla simbologia divinatoria dei tarocchi; non si trattava però, in quest'ultimo caso, di incursioni nel campo della cartomanzia, bensì di irruzioni mistiche che controbilanciavano altre forme in cui, più che descrizioni della soggettività o dei sogni, era presente una simbolizzazione di antichi miti.
Tra gli artisti con i quali Masson ebbe contatti (in alcuni periodi fu suo vicino) citiamo Joan Mirò, inventore di sistemi di segni che alla poetica surrealista recarono un dono quasi magico: la chiarezza, la semplicità e la finzione dell'innocenza. Non si può trascurare il rapporto morfologico esistente tra Costellazioni (1939-1941), con le quali Miró raggiunse un'impareggiabile nitidezza poetica, e certe opere di Kandinskij, come Impressioni, del 1934. L'affinità, in questo caso, è più profonda della semplice somiglianza dei sistemi di segni, perché, come dice Argan, ‟Miró è giunto attraverso Kandinskij, del cui assunto spiritualistico, tuttavia, non si interessa se non in quanto segni e colori alludono a una realtà cosmica in movimento continuo, a un agitarsi di tensioni, di correnti di forza, in un mondo perennemente in formazione e quindi non determinato né determinabile nella fissità degli oggetti" (v. Argan, 1964, p. 171).
Ma cosa mette in evidenza Mirò? In certe occasioni, il suo è un ‛mondo sottostante', visto al microscopio; ora un universo di protozoi, ora un universo stellare e planetario. In entrambi i casi vi sono tratti filamentosi e zone isolate riempite di colori puri che a volte si presentano come vetrate policrome, con risonanze infantili. Il rapporto con la natura si stabilisce spesso a livello embrionale ed entro i confini del gioco. Appare evidente che Miró esprime una ilare fuga di fronte alle imposizioni della tecnica e della società da essa condizionata; se questi condizionamenti fanno parte del sistema culturale vigente, la spina dorsale dell'opera di Mirò, nei suoi momenti più caratteristici, si basa su un'operazione unificatrice, su una riconquista dell'immaginazione individuale che rivendica il proprio diritto alla gioia. Non c'è qui, però, un ‛messaggio', ma la pura e incontaminata presentazione di un fatto percettivo. In questo senso, il surrealismo ortodosso in quanto ricerca più o meno freudiana viene oltrepassato, perché il soggettivismo moralmente, artisticamente e spiritualmente parlando è qui privo di carattere programmatico. Essendo antintellettualista e quasi anticulturale, Miró è riuscito a contestare la cultura i massimi risultati sono ottenuti partendo da una dimensione di libertà e di felicità. E, questa, evasione e ‛compensazione', ma è anche, in definitiva, un modello che, prescindendo dalla coscienza, si presenta come modello di comportamento alternativo basato sulla creatività e la libertà, come via verso la felicità.
Se l'universo di Miró si costituisce, fondamentalmente, senza riferimenti che lo pongano all'interno di uno spazio prospettico, nella concezione spaziale di Tanguy troviamo una terra, un orizzonte, un'atmosfera, e distanze svanenti come sottile foschia. Ha detto Breton ‟Fino a Tanguy, l'oggetto [...] rimaneva in ultima istanza differenziato e prigioniero della propria identità. [...] L'elisir di vita tende qui a decantarsi di tutto ciò che la nostra caduca esistenza individuale vi apporta di torbido; il mare scende e lascia allo scoperto, alla cieca, la spiaggia dove si trascinano, si ergono e si piantano, e a volte si affondano o fuggono, formazioni di un carattere del tutto nuovo, senza alcun equivalente immediato in natura e che bisogna dirlo - non hanno trovato fino a oggi alcuna interpretazione valida" (A. Breton, cit. in P. Waldberg, Surrealismo, in Historia del arte, vol. X, Barcelona 1970, p. 29). Ciò che offriva Tanguy non era, a rigore, una metafora dell'inconscio o del subconscio, ma la bassa marea di una immaginazione che metteva allo scoperto i relitti di un naufragio esistenziale, in un pianeta disabitato in cui, sotto una luce maliosamente crudele, rimanevano soltanto le vestigia impossibili di una vita estintasi nel vuoto oscuro dei tempi.
Vi è un'affinità di fondo tra i detriti abbandonati e solitari visibili nelle opere di Tanguy e le opere di Giacometti nel periodo tra il 1929 e il 1935 (‛oggetti a funzionamento simbolico'). Queste opere non soltanto si situavano nel solco di un evidente antifunzionalismo, ma si collocavano in una sorta di atemporalità. Da qui alla creazione di un nuovo spazio non c'era che un passo e Giacometti doveva compierlo col ridurre la figura a un semplice riferimento lineare, compresso da una specie di enigmatica e possente pressione esterna.
In coincidenza con il periodo surrealista di Giacometti - soprattutto tra il 1929 e il 1935, con Gabbie, Oggetti sgradevoli, Tavolo in un corridoio, Donna sgozzata o Palazzo alle quattro del mattino - venne alla ribalta René Magritte, che sin dal 1923 conosceva la pittura di G. De Chirico. Tra il 1926 e il 1930 - data del suo ritorno nel Belgio - Magritte si era messo direttamente in contatto con Breton e i surrealisti parigini. Senza disconoscere il debito contratto con la concezione spaziale propria della pittura metafisica, Magritte raggiunse risultati molto personali mediante lo sviluppo di due fattori essenziali la coesistenza di immagini e cose eterogenee, e l'estremo realismo dei particolari. Il suo rapporto con il mondo della ‛logica' utilitaristica e meccanica è di natura indubbiamente critica egli rivendica il diritto a far uso dell'assurdo e a far coesistere, su uno stesso piano di oggettività, le cose più usuali e quelle più sorprendenti. In definitiva, suggeriva una posizione filosofica basata sul mistero che può emanare dalle cose più ovvie quando si modifichi la loro collocazione in un dato contesto.
Mentre Magritte ha conosciuto una progressiva rivalutazione, Salvador Dalì è precipitato lungo la china del discredito (il che, però, non incide affatto sulle quotazioni del mercato artistico). Tra il 1929 e il 1936 - data in cui abbandonò il gruppo surrealista parigino - Dalì condusse una ricerca di impronta psicanalitica, in cui seppe sintetizzare gli elementi freudiani con soluzioni pittoriche non estranee a quelle metafisiche o a quelle di artisti come Ernst, Tanguy o Magritte. Superfluo dire che la vocazione autopropagandistica e il ricorso allo scandalismo, come anche l'adesione opportunistica alle situazioni più reazionarie e la superproduzione (con risultati molto disuguali) hanno rappresentato un danno gravissimo per il suo prestigio. Ciononostante la presenza di Salvador Dalì nel movimento surrealista, e nei suoi sviluppi eterodossi, non può essere trascurata. I suoi sistemi di costante provocazione e di persistente riduzione all'assurdo sono consustanziali alla presunta irruzione del subconscio, i cui segreti più inconfessabili potevano essere presi a pretesto per la realizzazione del lavoro artistico e per la determinazione della sua funzione sociale. È vero che nel 1934 abbandonò le file surrealiste, ma è altrettanto vero che l'influsso del movimento, sebbene modificato, perdurò in tutta la sua opera posteriore, anche nei suoi sviluppi più retrogradi e reazionari. Bisogna inoltre menzionare la sua attività nel cinema (dalla realizzazione, con Buñuel, di Le chien andalou, alla sua collaborazione con Alfred Hitchcock), in cui spaziò dagli echi dadaisti fino alle atmosfere oniriche, dove elementi spaziali propri della pittura metafisica si mescolavano a simbolismi psicanalitici. Il sessuale, lo scatologico e il morboso percorrono costantemente la sua produzione, caratterizzata anche, con frequenza probabilmente eccessiva, dalla presenza di elementi kitsch.
P. Delvaux, da parte sua, ha plasmato un'iconografia della repressione sessuale decisamente scatologica, in quanto l'idea della morte sembra inscindibile dalla costante presentazione del nudo femminile, che diventa il simbolo di una fecondità il cui ciclo vitale sbocca necessariamente nella morte. Mentre Magritte faceva uso di elementi più o meno discutibili di origine letteraria, Delvaux ha insistito in una specie di narrativa, tra erotica e nera, spesso fin troppo ovvia.
Questo rapporto tra erotismo e morte acquistò una dimensione tragica nello spagnolo O. Domínguez, lungo la cui opera si dispiegarono - fino a un finale raccapricciante le emanazioni di una fantasia torturata. Ben si può dire che il destino di Domínguez fu surrealista nel senso più radicalmente autentico, dalla sua contrapposizione tra fantastico e meccanico fino alle ossessioni sessuali che sfociarono in orribili e sanguinose premonizioni.
Partendo da precedenti come la Sainte Cécile, dipinta da Ernst nel 1923, J. Caballero, anch'egli spagnolo, realizzò, negli anni quaranta e nei primi anni cinquanta, interessanti opere di matrice onirica, cbe presentano affinità con gli elementi surrealisti presenti nella poesia del suo amico Garcia Lorca.
In quanto corrente nata - per reazione - dai condizionamenti della civiltà delle macchine e delle interpretazioni anguste dell'umano come incarnazione della razionalità, il surrealismo doveva avere necessariamente propaggini più o meno dirette ma tutte coincidenti nel desiderio di introspezione, nella liberazione della fantasia e nell'escavazione dei territori inesplorati del subconscio. In quest'orizzonte si può includere l'opera di V. Brauner, nel quale le più crudeli metamorfosi - senza uscita apparente verso la speranza - si alleano con un magismo inquietante collegato con i riti e i sortilegi di civiltà scomparse.
Sono questi i fattori - oltre al contatto con il surrealismo nel 1936 e il successivo incontro negli Stati Uniti con Duchamp, Miró e Gorky - che hanno contribuito allo sviluppo di un'arte così singolare come quella del cileno R. Matta. Le sue opere più caratteristiche rivelano la duplice opposizione surrealista alle mitologie della tecnica e alla pseudorazionalità, in ciò esprimendo un'evidente tensione della nostra cultura. Così, la sua critica si è concretata soprattutto nell'invenzione di variopinte legioni di piccoli mutanti, di strani esseri ‛meccanizzati', che - tra l'ironia e il sarcasmo - danno voce a una rivendicazione dell'immaginativo, a una liberazione del subconscio e a una netta e decisa opposizione di fronte al peso deformante e alienante della società tecnologica.
L'opera di questi ultimi artisti può forse stabilire un ponte tra il surrealismo come fatto culturale e alcuni fenomeni la cui polivalenza e multiformità possono far pensare a una sorta di ‛meticciato' formale. In questo senso, le frontiere surrealiste potrebbero estendersi fino all'immaginazione di un Marc Chagall e, ovviamente, fino a un artista ‛cumulativo come A. Gorky, un armeno americanizzato il quale (con vari apporti di Picasso, Kandinskij , Masson e Miró) finì con l'elaborare un'arte nella quale, nonostante la leggibilità delle origini, si racchiudeva l'embrione di sintesi nuove e originali.
Il caso di W. Lam è probabilmente l'esempio più eloquente di ‛meticciato'. Per così dire biologicamente, Lam è un meticcio cinese-cubano; dal punto di vista artistico, i segni di matrice picassiana si mescolano con la lussuria del tropico, con una flora e una fauna africane, con maschere e totem, con scudi e lance, tutti elementi insieme con molti altri - immersi in processi di trasformazione il cui fondo mette in relazione l'umano con i più lontani atavismi e con tutte le speranze e terrori derivati da una concezione in cui l'esistenza umana è parte dei destini e della divoratrice crudeltà del mondo naturale.
Queste correnti surrealistizzanti, ataviche e ‛meticce', hanno avuto in Europa un ruolo importante e figure eminenti. In questo arco così disparato bisogna ricordare coloro che, fuori della Francia, entrarono in contatto con il movimento surrealista: è il caso degli iugoslavi (i poeti M. Ristić, D. Matić, K. Popović, e i pittori Van Bor, D. Kostić e Zivanović Noe); dei cechi e slovacchi (lo scrittore K. Teige e i pittori J. Štyrský, Toyen e Deisler); dei romeni (V. Brauner, J. Hérold e G. Luka); del Belgio (con R. Baes e i già citati Magritte e Delvaux); della Svizzera (con M. Oppenheim). Tra coloro che si sono accostati al surrealismo partendo dall'arte fantastica, bisogna citare gli iugoslavi M. Stančić, V. Jordan, M. Dado e L. Popović; gli italiani C. Peverelli, S. e G. Somaré, A. Carmassi, C. Guarienti e S. Dangelo; i cechi Y. Theimer e I. Dedicova; i cubani R. Alejandro e R. Garcia-York; il peruviano G. Chàvez; i francesi M. Janson, Ph. Labarthe, A. le Yaouanc e O. O. Olivier; i belgi Daniéle e Le Moult, ecc.
È importante ricordare che nel 1936 ebbe luogo in Inghilterra - organizzata da Roland Penrose e ispirata da H. Read - la prima mostra internazionale del surrealismo. A essa parteciparono, con molti altri artisti di vari paesi, H. Moore, P. Nash, G. Sutherland, J. Banting, E. Agar, L. Carrington e H. Jennings; e inoltre i tedeschi R. Oelze, H. Bellmer e U. Zürn. D'altra parte, il contagio surrealista raggiunse il ceco F. Musica, L. Fini, J. Cornell, F. Labisse e S. Lepri, sino alla rinascita nel dopoguerra, con nomi come quello di D. Tanning e altri già citati.
Per quanto concerne l'arte inglese, l'esperienza picassiana di segno monumentale e umanistico (pressappoco in coincidenza con il periodo della guerra civile spagnola: 1936-1939) si prolungò nelle opere di H. Moore, il quale trasfigurò l'eredità surrealista in direzione di una metamorfosi positiva, nel grandioso tentativo di alleare il divenire naturale al corso della storia fatta dagli uomini. Ma sono stati gli eterodossi - G. Sutherland e F. Bacon - che hanno dato in Inghilterra una dimensione nuova agli enigmi surrealisti. L'introspezione surrealista - nella quale, in un modo o nell'altro, rimaneva sempre una qualche speranza nella metamorfosi umana - è stata per loro una riconquista del soggettivismo, partendo da posizioni urative. Essi hanno creato un'arte tanto efficace quanto priva di speranza; un'arte non soltanto senza fede nei valori umani, ma apertamente pessimista. Si potrebbe dire che si chiudevano così le porte al futuro e si cancellava ogni illusione. Il loro ritorno alla pittura figurativa ebbe luogo nella prospettiva di quel presunto movimento, cui venne dato l'equivoco nome di Nuova Figurazione, nel quale il ‛metodo' introspettivo surrealista venne sostituito dall'anarchia soggettiva. Da questo punto di vista, l'opera di un artista come Sutherland - con le sue aberranti figure biomorfiche -, oltre a porsi agli antipodi di qualsiasi tentativo razionalizzante e di qualsiasi utopia, esprimeva un disinganno così totale da affermarsi come l'espressione plastica della negatività. Da parte sua, Bacon - uno dei maggiori pittori moderni - ha inserito la sua spietata cronaca dell'avvilimento e della repulsione in una poetica autentica, fondata sulla degradazione morale, sui peccati di tutta un'epoca, sulla corruzione che diventa - probabilmente senza averne l'intenzione - una denuncia che si completa e si esaurisce in se stessa.
3. Conclusione
Per la sua multiformità e le sue molteplici connessioni il surrealismo è stato - e continua a essere nelle sue propaggini e derivazioni - un movimento fondamentale. E, in una prospettiva ancora più ampia, non deve meravigliare che molti si sentano tentati di affermare che i suoi fermenti propulsivi costituiscono una costante di quel filone creativo che si riconosce nel vasto territorio dell'arte fantastica. In un'altra prospettiva storica, il surrealismo ingloba una serie di contraddizioni - il cui insieme rientra nell'irrazionalismo contemporaneo - che lo contrappongono alle proposte razionalistiche. Suoi antagonisti naturali sono le correnti che, come il funzionalismo, vedevano nell'arte una possibilità d'intervento correttivo dei processi socioculturali. Contro lo sforzo rettificatore e l'adempimento di funzioni positive, si proponeva un'attività arbitraria, un principio di libertà suscettibile di compensare i condizionamenti imposti dalle società crescentemente tecnicizzate dell'era industriale. In altre parole, il surrealismo continuava fondamentalmente l'atteggiamento romantico e prolungava le tensioni dialettiche tra rivoluzione ed evasione. In questo senso, il surrealismo si colloca in un solco lungo il quale è preceduto dal dadaismo e continuato dall'esistenzialismo e dall'informale; esso si inserisce insomma tra le reazioni che, nelle sovrastrutture culturali, si sono avute di fronte ai grandi traumi che hanno scosso il mondo moderno: dalla trasformazione dei mezzi e dei rapporti di produzione fino all'euforia distruttiva delle guerre mondiali, passando attraverso la crescente potenza dei mezzi di comunicazione sociale, che impongono la cultura di massa. Come già il dadaismo, il surrealismo sfruttò la provocazione contro i dettami di una società regolata e predeterminata dal tecnicismo, dove imperava e continua a imperare il principio di causalità, secondo il quale identiche cause o motivazioni debbono produrre identici effetti. Ecco quindi che, se il marxismo aveva progettato la ‛trasformazione del mondo', il surrealismo aggiungeva il proposito di ‛cambiare la vita'. Cosa poteva fare l'arte in questa inquietante prospettiva?
L'arte poteva agire contemporaneamente seppure sempre come forza revulsiva su due fronti: quello della storia e quello del rapporto dell'esperienza col mondo naturale.
I surrealisti non rifiutarono l'eredità del passato (riconobbero alcuni dei propri predecessori), ma si opposero alla sopravvivenza di quanto reputavano caduco e nocivo. Se i loro predecessori dadaisti progettavano implicitamente o dichiaratamente una totale distruzione dei valori consacrati, i surrealisti volevano un intensificazione dell'‛irritabilità' spirituale, cioè della percezione e della rappresentazione. Le facoltà spirituali dovevano partecipare a un ininterrotto processo di provocazioni contro la società ‛borghese', sconvolgendo i termini del dialogo tra spirito e realtà oggettiva. Funzionando come ‛automatismo', l'opera artistica doveva essere una manifestazione vitale raggiunta a spese dell'ordinamento intellettuale.
Se il rapporto con la storia si trasformò in aggressività, l'esperienza del mondo naturale si realizzava tramite l'inconscio. Pertanto, il rivoluzionarismo surrealista intendeva operare ‛dal di fuori' degli schemi sociali, non solo di quelli artificiosamente imposti dalle classi dominanti, ma anche di quelli necessariamente derivati dall'infrastruttura costituita dall'industrializzazione e dal tecnicismo.
Se la tecnica è un repertorio di norme d'azione in qualsiasi campo dell'attività umana, un tale carattere normativo reca in sé l'accettazione della ‛forma' come traduzione di una volontà strutturante; e, a sua volta, un tale impulso ordinatore simboleggia la proposta di una condotta razionale. Ecco quindi che le tesi surrealiste si dovevano costituire come antagonista dialettico di tutte quelle correnti che proponevano modelli di valore con intenti correttivi. Nel profondo, come sulla superficie, di entrambi i poli dialettici appariva un insanabile conflitto tra distruzione e costruzione. Il surrealismo aveva visto o presentito, se si preferisce che il razionalismo aveva il suo punto debole nel pericolo dell'assorbimento dei suoi modelli formali o di valore da parte degli organi con cui la borghesia capitalista ‛benpensante' controlla i processi sociali: tallone d'Achille che ha portato al discredito delle dottrine su cui inizialmente si era fondato il disegno industriale come creatore di ‛forme' portatrici di ‛valori' condannati allo svilimento in quanto assimilati dagli ingranaggi mercantili in mano alla classe dominante. Tuttavia, le costanti e spettacolari denuncie che i surrealisti fecero di questo genere di alienazione portavano in se stesse il fallimento di qualunque possibilità rivoluzionaria per il loro disordine sistematico e per l'adozione programmatica di una visione delirante e incontrollata.
Come abbiamo già ricordato, diceva M. Carrouges (v., 1950): ‟Il surrealismo nacque da un'immensa disperazione dinanzi allo stato in cui si è ridotto l'uomo sulla terra, e da una speranza illimitata nella metamorfosi umana". D'altro canto, Breton aveva affermato: ‟Nella misura in cui il surrealismo non ha mai cessato di invocare Lautréamont e Rimbaud, è chiaro che il vero oggetto del suo tormento è la condizione umana molto più che la condizione sociale degli individui" (v. Breton, 1952). Una tale metamorfosi, una tale priorità della condizione umana sulla condizione sociale significava in definitiva che si era entrati in un vicolo chiuso, poiché non è possibile strappare all'umano la sua essenza sociale. Le antinomie surrealiste si presentano allora, nella nostra prospettiva storica, come un aspetto peculiare dei grandi temi della dialettica contemporanea, delle tensioni tra libertà-possibilità di scegliere i propri comportamenti senza coercizioni esterne e senza deformazioni interne e alienazione-straniamento del proprio ‛io'; problematica che, nel campo artistico, si manifesta da un lato nella ricerca di un'arte con aspirazioni rivoluzionarie, e dall'altro nell'esercizio di un'arte d'evasione praticamente conformista.
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