superbia e superbi
La s., nella dichiarazione dell'ordinamento del Purgatorio, è presentata da Virgilio, insieme con l'invidia e con l'ira, come uno dei tre modi per cui l'amore di elezione può ‛ torcersi ' al male (Pg XVII 91-100): il superbo, appunto per esser suo vicin soppresso, / spera eccellenza, e sol per questo brama / ch'el sia di sua grandezza in basso messo (vv. 115-117). Non si tratta, dunque, della sola aspirazione a eccellere, ammissibile quale amore del bene proprio (Sum. theol. II II 162 6), ma della connessa tendenza ad abbassare il prossimo, come chiarisce Oderisi, quando confessa che lo gran disio / de l'eccellenza gli avrebbe impedito, in vita, di esser cortese di riconoscimenti verso un altro miniatore (Pg XI 85-87) e spiega che di tal superbia, appunto, si paga il fio (v. 88) nel primo girone.
Tale definizione, è stato osservato, riflette lo sforzo del poeta per congiungere la dottrina dei sette peccati capitali, di tradizione patristica, con la teoria aristotelico-tomistica dell'amore come fonte di ogni azione umana, buona o malvagia. " D. aveva bisogno di far rientrare la superbia nella categoria dell'amore dell'altrui male, e ne ha fatto un quissimile dell'invidia, discernendola con quella distinzione sottile che il superbo vuole deprimere gli altri per rimanere in alto, l'invidioso vuole abbassare a sé gli altri, per non rimanere più basso; mentre invece la differenza dei due peccati è tanto profonda che spesso la superbia non è invidiosa ". Ma in tal modo il poeta avrebbe snaturato l'essenza della s.: " A quella definizione, infatti, non corrispondono punto quei superbi che ci presenta sia tra le anime espianti, sia tra gli esempi ad esse offerti dai rilievi pavimentali del primo girone, sia tra quelle anime infernali che, pur non essendovi in Inferno un girone dei superbi, sono bollate come superbe " (Porena). Il valore psicologico della distinzione dantesca (più sottile di quanto risulti dalla parafrasi citata, che trascura l'opposizione dei due verbi ‛ spera ' eccellenza, ‛ teme ' di perder, i quali divaricano all'origine l'atteggiamento del superbo e dell'invidioso) resterà sempre opinabile; occorre piuttosto osservare che, anche in questo caso, D. non si allontana dai suoi autori Agostino e Tommaso: " Augustinus dicit in libro De Virginitate [31] quod superbia invidiam parit, nec unquam est sine tali comite " (Sum. theol. II II 162 8). A guardar bene, l'insoddisfazione per il concetto di s. enunciato da D. riflette l'antico disagio degl'interpreti per la mancanza di una collocazione specifica di tale peccato nell'Inferno, disagio che, da Pietro in poi, ha indotto molti commentatori a cercare un luogo particolare alla s. nei cerchi infernali, forzando in vario modo la parola del poeta, specialmente riguardo ai dannati nello Stige (v.). Eppure per via storica la concezione dantesca si chiarisce senza difficoltà. Il poeta non poteva ricavare il concetto cristiano di s. dall'etica che aveva fatto sua (If XI 80) e che riteneva quasi cattolica opinione (Cv IV VI 16): come riconosce s. Tommaso, l'Etica Nicomachea ignora il concetto di umiltà (" Humilitas non connumeratur a Philosopho inter virtutes ", Sum. theol. II II 161 1), correlativo necessario di quello di s. nella concezione cristiana, né altri lumi offriva la latinità classica - D. ricorda il " debellare superbos " virgiliano in Mn II VI 9 - ove s. è soltanto " smoderato desiderio di onori " (cfr. Cic. Part. or. XXIII).
L'Aquinate spiega tale mancanza osservando che Aristotele nel suo catalogo esamina soltanto le virtù e i vizi relativi alla città terrena: " Philosophus intendebat agere de virtutibus secundum quod ordinantur ad vitam civilem... humilitas autem, secundum quod est specialis virtus, praecipue respicit subiectionem hominis ad Deum, propter quam etiam aliis humiliando se subiicit " (Sum. theol. II II 161 1). Perciò Tommaso nel definire il concetto di s. si riferisce, citandoli, a luoghi canonici di Agostino nel De Civitate Dei: " Quid est autem superbia nisi perversae celsitudinis appetitus? " (XIV 13), e di Gregorio Magno nei Moralia: " Ipsa namque vitiorum regina superbia cum devictum plene cor ceperit mox illud septem principalibus vitiis quasi quibusdam suis ducibus devastandum tradit " (XXXI 45). Si tratta di autori studiati e citati da D.; il passo gregoriano poi, fondato su luoghi scritturali: " Initium omnis peccati est superbia " (Ecli. 10, 15), " Initium superbiae hominis est apostare a Dio " (ibid. 10, 14), com'è noto, sta alla base della classificazione settenaria dei vizi che prevalse in Occidente attraverso l'assorbimento nella s. della " inanis gloria " (" superbia-inanis gloria, invidia, ira, tristitia, avaritia, ventris ingluvies, luxuria "). Erano nozioni passate ormai nella comune cultura laica fiorentina, come mostrano opere certo non ignote a D. come il Tesoretto di Brunetto Latini (vv. 2564-2626) e il Libro de' vizi e delle virtudi di B. Giamboni (capp. XXIV-XXV) e manuali scolastici diffusi dappertutto, come la Summa de vitiis et virtutibus di Guido Faba (I 5-8 e II 1), dove le categorie morali gregoriane si fissano in ‛ topoi ' retorici inserendosi nella tecnica del componimento dettatorio regolato da norme d'arte.
Per questo riguardo D. non fece altro che dar fondamento filosofico, secondo una conoscenza approfondita dell'aristotelismo tomistico, a nozioni vulgate. La speculazione scolastica, poi, aveva distinto vari gradi nella s.: anzitutto quella ‛ completa ', come la chiama Tommaso (Sum. theol. II II 162 5), o ‛ consummata ', la quale implica la diretta ribellione all'ordine divino, nasce, dunque, come ‛ aversio a Deo ', dalla s. imperfetta, conseguente all'inordinata ‛ conversio ' ai beni finiti, e solo mediatamente rivolta contro la legge di Dio. " Ex parte autem conversionis non habet superbia quod sit maximum peccatorum: quia celsitudo quam superbus inordinate appetit secundum rationem non habet maximam repugnantiam ad bonum virtutis. Sed ex parte aversionis superbia habet maximam gravitatem: quia in aliis peccatis homo a Deo avertitur vel propter ignorantiam vel propter infirmitatem, sive propter desiderium cuiuscumque alterius boni, sed superbia habet aversionem a Deo ex hoc ipso quod non vult Deo et eius regulae subiici " (II II 162 6).
D. pare aver fatto sua questa distinzione fondamentale: nel suo viaggio egli incontra superbi dell'una e dell'altra specie. Occorre, però, non dimenticare la fondamentale osservazione del Witte: mentre nell'Inferno si espiano peccati attuali, nel Purgatorio si correggono vizi capitali, quindi, se grande è nell'Inferno il numero dei superbi, questi, però, espiano particolari peccati attuali nei vari gironi in cui il baratro è distinto. Così, per citare solo quelli per cui la parola del poeta è esplicita, un superbo come Filippo Argenti, persona orgogliosa (If VIII 46), sconta le sue violenze nel cerchio degl'iracondi; Capaneo, che ha nella s. che non s'ammorza (XIV 63-64) l'origine delle sue colpe e il suo eterno tormento, giace nel cerchio dei violenti; Bonifazio VIII indotto dalla sua superba febbre (XXVII 97) al commercio di cose sacre, finirà nella bolgia dei simoniaci; Vanni Fucci in Dio tanto superbo (XXV 14) paga i suoi furti sacrileghi nella bolgia dei ladri; Fialte, tal superbo che volle esser esperto / di sua potenza contra 'l sommo Giove (XXXI 91) è collocato, in funzione simbolica, con gli altri giganti (esplicitamente presentati come esempio del primo vizio capitale nei rilievi pavimentali del primo girone), a corona del cerchio dei traditori; e fra questi ultimi è appunto confitto Lucifero, il primo superbo (Pd XIX 46, e cfr. XXIX 55-56).
D'altronde la più comune interpretazione del prologo del poema riconosce simboleggiata nella prima delle tre fiere, il leone (v.), la s.; e la s. è dichiaratamente la prima delle tre faville che hanno acceso il cuore dei Fiorentini, nei quali questo vizio assume tutte le gradazioni: dall'orgoglio smisurato delle genti nuove (If XVI 73-74) all'alterigia magnatizia delle grandi casate (Pd XVI 109), dalla presunzione rabbiosa della fazione dominante, causa di sconfitte sanguinose (Pg XI 112), fino alla sacrilega ribellione della città all'autorità imperiale, condannata con accenti biblici nell'epistola a Enrico (Ep VII 15). Di tale varia modulazione pratica del vizio - già presente nel quadro di Gregorio Magno, che distingue quattro specie di s. (" cum bonum aut a semetipsis habere se aestimant; aut, si sibi datum desuper credunt, pro suis hoc accepisse meritis putant; aut certe cum iactant se habere quod non habent; aut despectis ceteris, singulariter videri appetunt habere quod non habent ", Mor. XXIII), e poi svolta dagli scolastici in molteplici suddistinzioni -, D. offre un ampio specchio in tutto il poema, mentre alla correzione specifica di questo peccato e alla virtù a esso opposta sono dedicati tre canti del Purgatorio (X, XI, XII), costruito appunto secondo lo schema settenario dei vizi capitali.
Dopo che la porta del secondo regno si è richiusa alle loro spalle (Pg X 1-9; cfr. I 4), per una fenditura della roccia i poeti giungono a un ripiano che cerchia il monte, dove sul fianco della costa si vedono rilievi marmorei con esempi di umiltà (vv. 17-33). Mentre D. ammira i rilievi (vv. 34-96), Virgilio vede approssimarsi lentamente, da sinistra, una schiera di anime in cui a stento si riconosce la figura umana, nascosta da enormi massi che gravano sulle spalle dei penitenti (vv. 97-117). Sono i superbi, i quali non si accorsero, per cecità mentale, che l'uomo sta sulla terra solo in attesa di volare al cielo e non ha da compiacersi di sé, insetto manchevole, ma solo della grazia che gli è concessa di divenire angelica farfalla (vv. 121-129). Ora procedono faticosamente battendosi il petto (vv. 118-123), schiacciati come cariatidi, gravati da pesi ineguali, ma tutti allo stremo (vv. 130-139). Recitano il Pater noster; non si limitano, però, ai versetti testamentari (Matt. 9-13; Luc. 11, 2-4), ma fanno seguire a ciascuno di essi un commento che iscrive l'orazione nell'animo pentito del peccato di s.: più grande è l'amore che Dio porta agli angeli (Pg XI 2-3), è dovere della creatura ringraziare la divina bontà (vv. 5-6), l'uomo non può sollevarsi con le sue forze (vv. 8-9), deve sacrificare a Dio ogni suo volere (vv. 11-12), senza la grazia ogni passo dell'uomo è a ritroso (vv. 14-15), il perdono di Dio venga senza riguardo al merito, sempre inadeguato (v. 18), la debole virtù umana sia sottratta alla lotta col maligno (vv. 19-21). Con l'ultima parte della preghiera i superbi compiono un atto di carità verso coloro che sono ancora viatori, secondo il pensiero di Agostino, il quale, nel De Sermone Domini in monte, asserisce che le ultime quattro richieste dell'orazione domenicale riguardano soltanto la vita temporale (cfr. C. Cavedoni, Raffronto fra gli autori biblici e sacri e la D.C., Città di Castello 1896, 133).
Tra i superbi D. ci presenta individualmente tre spiriti: Omberto Aldobrandeschi (v.), il quale confessa che l'arroganza ispiratagli da l'antico sangue e l'opere leggiadre (Pg XI 61) degli avi suoi lo spinse a tale smisurato sprezzo degli altri che ne derivò la sua morte (vv. 58-72); Oderisi da Gubbio (v.), il quale si purga della sua vanagloria replicando alla lode di D. che ora più ridon le carte / che pennelleggia Franco Bolognese (vv. 82-83), e si spinge a una disincantata condanna della gloria terrena rispetto all'eterno, mostrando il trapassare incessante della fama dall'uno all'altro artista (vv. 81-108); Provenzano Salvani (v.), che fu presuntüoso / a recar Siena tutta a le sue mani (vv. 122-123), ma cominciò a espiare in vita la sua s., umiliandosi a mendicare per un amico (vv. 133-142).
Gli antichi si compiacquero di scorgere in questi penitenti studiati exempla delle varie specie di s. che la letteratura moralistica del tempo distingueva con sottigliezza. Scrive, infatti, l'Ottimo: " Nel precedente capitolo l'A. trattò della purgazione de' superbi in genere, in questo capitolo... in ispezie. Ora intende l'A. trattare di quella superbia che nasce di quelli beni della natura... nobilitate di sangue... fortezza... ricchezza e potenza d'amici... la quale superbia è detta arroganza. E introduce qui il conte Umberto. E perché intende ancora trattare di quella superbia ch'è circa all'appetito della eccellenza del magisterio, della vanagloria, si introduce in figura di quella spezie il detto Oderigi. E perché intende ancora trattare di quella spezie di superbia che è detta presunzione, la quale è quando alcuno nella sua mente se antimette agli altri e imprende cose oltre a suo dovere e potere, e' s'introduce il detto messere Provenzano ".
Certo le distinzioni dell'Ottimo combaciano con le parole di D. (sì arrogante... oh vana gloria... fu presuntuoso), però, quando si accostano le figure dantesche alle astratte categorie delle moralizzazioni medievali, se ne coglie, oltre la forza poetica di cui non occorre parlare, la consistenza storica, che aggetta fortemente dalla nicchia predisposta dalla teologia morale. Non meno notevole, per questo riguardo, l'aspetto introspettivo dell'episodio, per cui la figura del poeta viene ad affiancarsi, di riflesso, ai suoi personaggi attraverso l'accenno di Oderisi a colui, forse già nato, che caccerà del nido i due Guidi (Pg XI 94-99). L'allusione alla propria eccellenza, notata da tutti gli antichi (" Forse è nato... dicit signanter ‛ forte ' quia verecunde loquitur de se ipso ", Benvenuto), si purga con la dichiarazione della vanità di ogni gloria terrena di fronte all'eterno (Pg XII 100-107) e costituisce, a ben guardare, il proseguimento della simbolica espiazione del confessato peccato di s. (vv. 136-138) cominciata con la satisfactio operis dell'andar chino coi penitenti e compiuta con la contritio cordis generata dalla meditazione sul peccato che, questa volta, trasferisce nell'intima esperienza del poeta l'ammonimento della Scrittura (cfr. Iac. Epist. 1, 10-11) la vostra nominanza è color d'erba, e produce la sua correzione tuo vero dir m'incora / bona umiltà, e gran tumor m'appiani (Pg XI 118-119), e lo prepara all'umiliazione terrestre che lo attende (vv. 141-142).
La meditazione formale sul peccato e sulle sue conseguenze occupa, invece, gran parte dell'ultimo canto dedicato alla superbia. Per esortazione di Virgilio, D. lascia Oderisi e oltrepassa la lenta schiera dei penitenti (XII 1-12); invitato dal maestro a osservare il piano della via, vede una serie di bassorilievi, simili a quelli sovrapposti alle tombe terragne, che occupano tutto il ripiano del monte (vv. 13-24). In primo luogo il poeta scorge rappresentata, da una parte, la caduta di Lucifero (vv. 25-28), dall'altra, Briareo e i giganti vinti alla pugna di Flegra (vv. 28-33), e poi Nembrot ai piedi della torre di Babele (vv. 34-36), Niobe tra i figliuoli spenti (vv. 37-39), Saul morto su la propria spada (vv. 40-42), Aracne già mezza ragna (vv. 43-45), Roboam atterrito e fuggente (vv. 46-48), Erifile che soggiace alla vendetta del figlio Alcmeone (vv. 49-51), Sennacherib, anch'egli abbattuto dai figli nel tempio (vv. 52-54), il crudo scempio di Ciro per parte di Tamiri (vv. 55-57), le reliquie del martiro di Oloferne (vv. 58-60) e infine l'incendio di Troia, ridotta in cenere e caverne (vv. 61-63).
Già i primi lettori notarono nelle figurazioni l'alternanza tra storia sacra e storia profana: l'Ottimo osserva che il poeta segue il " modo che fa S. Giovanni Grisostomo nel libro suo chiamato Teodoro in ciò che pone una storia del Vecchio Testamento e appresso una poetica favola o istoria paganica, e così perseguita " e l'Anonimo parla addirittura di " Bibbia paganica ", giustapposta a quella cristiana. Perché l'alternanza sia perfetta occorre considerare, come in genere fanno i commentatori antichi (con una lieve smagliatura nel tessuto strofico della rappresentazione, che concede a ciascuno degli altri esempi una terzina sola), la ‛ storia ' di Briareo e dei giganti un solo rilievo (vv. 22-23). Ciò appare poco persuasivo ai più dei moderni, i quali prestano grande attenzione all'artificio retorico illustrato già dal Daniello in una chiosa degna di nota: " È d'avertire il bellissimo ordine e modo di dire che tiene il poeta nostro in questa descrizione d'istorie: il quale, per fuggire la sazietà, in quattro continui terzetti usa questo verbo ‛ vedea '; e ne' seguenti, convertendo il suo parlare a coloro di cui ragiona, usa il segno del quinto caso; poi ripiglia un'altra volta la terza persona nel secondo tempo di questo verbo ‛ mostro ', ‛ mostrava ' dicendo altre quattro volte in capo al primo verso di ciascun terzetto et ultimamente in tre versi chiude con grande artificio la narrazione delle istorie col ripigliamento dei due verbi ‛ vedeva ' e ‛ mostrava ' e col vocativo ‛ O ' ". Il Daniello pensava a una simmetria a imitazione di Virgilio (Aen. VIII 285-300), ma il Toynbee e il Medin, dietro un suggerimento di E. Teza, vi scorsero un acrostico che riunisce nel terzetto finale, a formare la parola VOM, le iniziali ripetute quattro volte; e, malgrado i dubbi del D'Ovidio, di G. Manzoni e di P. Savi-Lopez, tale interpretazione è seguita oggi da tutti; anzi il Parodi se ne è giovato per illustrare certi aspetti del gusto retorico medievale di Dante.
Suggestionati dalla tripartizione dell'acrostico, alcuni commentatori giunsero a credere che esso debba rispecchiare una tripartizione dei superbi: il Medin suppose che il primo gruppo (Lucifero, Briareo e i giganti, Nembrot) raccogliesse i puniti dalla divinità, il secondo (Niobe, Saul, Aracne, Roboam) i puniti dal proprio rimorso, il terzo (Erifile, Sennacherib, Ciro, Oloferne) i puniti dagli altri uomini, mentre il dodicesimo quadro, Ilio incendiata, rappresenterebbe il compendio delle tre categorie. Ma altri, per rispettare più fedelmente la struttura metrica dell'acrostico, pensarono a tredici quadri, isolando l'esempio finale e sdoppiando, secondo il vedea iniziale, la terzina di Briareo da quella dei giganti. Il Proto osservò poi che anche Niobe e Aracne son punite dalla divinità e che perciò la tripartizione, che pure gli appariva probabile anche per rispondenza ai tre esempi di umiltà, poteva ricondursi a un luogo di s. Tommaso (Sum. theol. II II 162 6) ove la s. è considerata sotto il triplice riguardo della grandezza divina, della debolezza umana, della caducità dei beni terrestri. Il colmo della sottigliezza fu toccato dal Filomusi Guelfi, il quale, fondandosi sul già ricordato passo di s. Tommaso dove, insieme con le quattro specie di s. distinte da s. Gregorio, sono giustificate anche le tre di s. Anselmo (" in voluntate... in sermone... in operatione ") e le dodici di s. Bernardo (" curiositas, mentis levitas, inepta laetitia, iactantia, singularitas, arrogantia, praesumptio, defensio peccatorum, simulata confessio, rebellio, libertas, peccandi consuetudo "), vede l'acrostico di D. rispondere simultaneamente, coi tre gruppi, alle distinzioni di Anselmo, con le quattro modulazioni di ciascun gruppo, a quelle di Gregorio, con i dodici quadri a quelle di Bernardo. Ma anche ipotesi meno inverosimili, come quella del Parodi (" la prima serie è tutta di violenti contro la divinità, la seconda sembra più modestamente di vanagloriosi, che furono la rovina di sé, la terza di violenti verso il prossimo ", cui seguirebbe un tredicesimo quadro compendioso, perché " Troia fu da sola esempio di ciascuno di quei tre tipi di superbia "), non riescono convincenti, anche per gl'immaginari adattamenti imposti alla disposizione dei riquadri, suggerita dal poeta soltanto con le due espressioni da l'un lato... da l'altra parte (il Parodi immaginava la seconda e terza serie poste ai lati della prima e il tredicesimo rilievo " isolato, quasi come base del piccolo edilizio ").
Dal testo dantesco viene in realtà una sola indicazione visiva, quella ora ricordata, che accenna a due lati, due parti, in cui si collocano le due prime immagini; sarebbe inesplicabile l'abbandono di tale parallelismo, che rispecchia l'alternanza di esempi di storia sacra e storia profana da tutti accolta (stranamente anche da coloro che, come lo Steiner, sdoppiano il quadro di Briareo e dei giganti, unitario, si badi, nella fonte staziana, Theb. II 597). La figurazione che risulta dall'indicazione del testo è quella, assai semplice, di un grandioso portale (non si dimentichi che il poeta aveva negli occhi i rilievi dei pulpiti, dei battisteri, dei portali degli scultori della scuola pisana), disteso sul ripiano del monte, in cui un battente con sei riquadri ‛ sacri ' fa riscontro all'altro con sei riquadri ‛ profani '. L'artificio retorico si sovrappone a tale rappresentazione come momento non visivo, ma riflessivo: suggerisce, cioè, alla mente, non all'occhio, di riconoscere in tanti esempi di s., divisi nel tempo e nello spazio, ma congiunti dalla sigla VOM, la miseria dell'uomo conseguente alla sua caduta, cioè al peccato originale, presentato dal poeta, per bocca di Adamo stesso, appunto come peccato di s.: non il gustar del legno / fu per sé la cagion di tanto essilio, / ma solamente il trapassar del segno (Pd XXVI 115-117).
La lunga storia del trasgredire umano ispira al poeta il forte sarcasmo, di tono parlato e quasi gridato, contro la ‛ follia ' dei figli di Eva: Or superbite, e via col viso altero, / figliuoli d'Eva, e non chinate il volto / sì che veggiate il vostro mal sentero! (Pg XII 70-72). Attraverso questa distesa meditazione il poeta completa la sua simbolica purgazione e l'angelo (v. 98) potrà cancellare il P della s. segnato sulla sua fronte (v. 118).
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