Sulla retrodatazione delle misure cautelari
Il contributo analizza il complesso tema delle contestazioni a catena focalizzando l’attenzione sul contrasto registratosi da alcuni anni in seno alla giurisprudenza di legittimità circa la necessità o meno di effettuare la retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia cautelare di cui all’art. 297, co. 3, c.p.p. frazionando la durata globale della custodia cautelare ed imputandovi solo i periodi relativi a fasi omogenee. Sebbene il tentativo di ottenere sul punto un intervento chiarificatore delle Sezioni Unite si sia rivelato vano, stante l’inammissibilità del ricorso riscontrata dal plenum, l’Autore, dopo aver ricostruito i termini principali del dibattito, illustra le ragioni logico-sistematiche che sembrerebbero condurre verso la possibilità di riconoscere, agli effetti dell’art. 297, co. 3, c.p.p., il cumulo tra termini cautelari eterogenei.
Il meccanismo della retrodatazione ex art. 297, co. 3, c.p.p. rappresenta uno dei principali presidi di garanzia che il nostro ordinamento appresta in favore della libertà personale. Si tratta in particolare di un istituto che rinviene la propria genesi nella necessità, avvertita sin dalla seconda metà degli anni 50, di garantire che la durata della custodia cautelare non travalichi i limiti cronologici per essa tracciati dalla legge. Infatti, la disciplina dei termini cautelari, per propria conformazione strutturale, alimenta il rischio che gli organi titolari del potere cautelare pongano in essere comportamenti idonei ad inibire, in tutto o in parte, il suo funzionamento1. Il vero e proprio punto di rottura dell’intelaiatura normativa si annida nella trama delle regole che presiedono all’individuazione del momento iniziale di decorrenza dei termini cautelari. A questo proposito, la norma chiave è rappresentata dall’art. 297, co. 1, c.p.p. secondo cui gli effetti della custodia cautelare decorrono dal momento della cattura, dell’arresto o del fermo. Per l’eventualità in cui il soggetto attinto da un provvedimento custodiale versi già in stato detentivo, soccorre invece la regola di cui all’art. 297, co. 5, c.p.p. in forza della quale il dies a quo dei termini cautelari si ancora non più al momento di effettiva privazione della libertà personale, ma alla data della notifica del nuovo provvedimento custodiale. Ebbene, appare da subito evidente come la combinazione delle regole ora descritte con il monopolio, normativamente riconosciuto in capo al pubblico ministero, del potere di iniziativa cautelare, dia luogo ad un assetto congegnato in guisa tale da alimentare il rischio di sostanziali aggiramenti del sistema dei termini cautelari. Tutto a ben guardare ruota intorno alle tempistiche osservate dal pubblico ministero nell’esercizio dell’azione cautelare: se due provvedimenti custodiali, che avrebbero potuto essere emessi contemporaneamente, vengono artificiosamente diluiti nel tempo, i relativi effetti, anziché decorrere parallelamente, si cumulano gli uni agli altri, con la conseguenza così di comprimere per un tempo maggiorato lo status libertatis del soggetto. Conosciuta con l’espressione “contestazioni a catena”, la pratica de qua risulta particolarmente odiosa perché vulnera i valori di predeterminazione legale, di certezza e di “durata minima” consacrati negli artt. 13 Cost. e 5, co. 3, CEDU2. A tale fenomeno patologico cerca, quindi, di far fronte l’art. 297, co. 3, c.p.p. disciplinando un congegno derogatorio degli ordinari criteri di computo – la cd. retrodatazione – per effetto del quale i termini di ciascun provvedimento coinvolto nell’indebita segmentazione temporale «decorrono dal giorno in cui è stata eseguita o notificata la prima ordinanza e sono commisurati all’imputazione più grave».
Nato come strumento di creazione giurisprudenziale, il meccanismo della retrodatazione ha successivamente trovato veste normativa dapprima nell’art. 271, co. 3, c.p.p. (abr.) così come modificato dalla l. 28.7.1984, n. 3983, e poi, con l’avvento del codice del 1988, nell’art. 297, co. 3, c.p.p. Occorre peraltro precisare che la disposizione de qua ha visto nel tempo cambiare profondamente il proprio assetto originario non solo per mano del legislatore del 1995 ma anche per opera di due pronunce additive della Corte costituzionale4. Come se non bastasse, l’interpretazione dell’intera disciplina de qua ha da sempre destato forti dubbi interpretativi, alimentando continui contrasti all’interno della giurisprudenza di legittimità che non hanno risparmiato neppure le stesse Sezioni Unite, protagoniste tra il 2005 e il 2006 –con un intervento dipanatosi nell’arco di due decisioni5 – di un netto revirement rispetto a proprie posizioni assunte nemmeno dieci anni prima e peraltro a dati normativi invariati6. Del resto, se è vero che, proprio per effetto di questo noto dittico di pronunce, molti aspetti cruciali della materia hanno trovato – almeno per il momento – una loro definitiva stabilizzazione, permangono comunque profili ancora irrisolti. Nel novero delle questioni aperte, una in particolare, negli ultimi tempi, si è rivelata particolarmente ostica tanto che, per la sua soluzione, si è richiesto – seppure invano7 – l’intervento chiarificatore delle Sezioni Unite. Riprendendo la sintesi formulata in proposito nell’ordinanza di rimessione emessa dalla Seconda Sezione8, il problema de qua può essere espresso nei seguenti termini: se, in ipotesi di pluralità di ordinanze applicative di misure cautelari per fatti connessi, la retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia cautelare di cui all’art. 297, co. 3, c.p.p., deve essere effettuata frazionando la durata globale della custodia cautelare ed imputandovi solo i periodi relativi a fasi omogenee.
La rimessione alle Sezioni Unite della quaestio iuris appena prospettata è il risultato del contrasto registratosi negli ultimi anni tra due opposti orientamenti della Corte di cassazione. Secondo un primo indirizzo9, a seguito del ricorso al meccanismo della retrodatazione in caso di ordinanze emesse nell’ambito di procedimenti distinti, la verifica in ordine alla caducazione del titolo detentivo meno risalente per l’inutile decorso del relativo termine massimo di fase deve essere condotta computando i periodi di detenzione patiti in forza di ciascun titolo con l’eccezione però di quelle frazioni temporali decorse all’interno di fasi procedimentali tra loro non omogenee. In altri termini, il calcolo del tempus cutodiae patito in forza del provvedimento indebitamente posticipato dovrà tenere conto non dell’integrale custodia cautelare imputabile al titolo primigenio ma esclusivamente di quei segmenti di essa che si riferiscono al medesimo termine di fase di cui, nel secondo procedimento, si invochi l’inutile decorso per il tramite della retrodatazione. Quanto poi alle ragioni addotte a sostegno di tale interpretazione, queste possono essere condensate nella considerazione che il calcolo per sommatoria di termini decorsi in fasi omogenee rappresenterebbe nient’altro che una forma di calcolo “per scorporo” la cui validità è pacificamente riconosciuta dalla giurisprudenza di legittimità sviluppatasi con riferimento alle ipotesi in cui, sotto la vigenza del titolo primigenio, si siano verificati periodi intermedi di non detenzione10.
All’indirizzo ora illustrato se n’è affiancato ben presto un altro che, seguendo una linea ricostruttiva diametralmente opposta, riconosce la piena imputabilità, nel computo del termine di durata della seconda misura, dell’integrale tempus custodiae patito dal soggetto sotto la vigenza del titolo primigenio, quali che siano state le fasi attraverso cui il primo procedimento si è, nel frattempo, dipanato11. Alla base di tale diversa prospettazione è possibile innanzitutto rintracciare la considerazione che la tesi del calcolo per sommatoria di soli termini interfasici omogenei, contrariamente a quanto affermato dalle pronunce ad essa favorevoli, non può in alcun modo ricondursi ad un orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità. Se, infatti, è vero che laddove tra il primo ed il secondo provvedimento vi siano stati degli intervalli di libertà, la verifica circa l’osservanza del termine massimo di durata del provvedimento meno risalente deve essere condotta, nel caso di retrodatazione, senza tenere conto dei periodi nei quali il soggetto non era stato detenuto, appare al contempo incontestabile che il principio de quo risulti del tutto inconferente rispetto alla problematica in esame, ove, al contrario, tra i diversi provvedimenti emessi “a catena”, nessun vuoto di efficacia è dato riscontrare. Alla totale incapacità, per le sentenze che vi aderiscono, di dare alla tesi del divieto di cumulare termini decorsi in fasi non omogenee un valido fondamento giustificativo, fa peraltro da pendant la considerazione che, accedendo a tale impostazione, si determina una sostanziale vanificazione delle finalità di garanzia sottese all’istituto ex art. 297, co. 3, c.p.p. Alla base del ragionamento vi è difatti la considerazione che l’essenza della regola della retrodatazione dei termini di custodia cautelare risieda – come più volte affermato dal giudice delle leggi12 – nel riallineare fattispecie cautelari, che, pur dovendo nascere in un unico contesto temporale, si siano sviluppate in tempi successivi con diluizione dei termini di durata della custodia cautelare. Partendo da questo dato, l’orientamento de quo rileva come lo scomputo del solo presofferto per la fase omogenea non sia in alcun modo idoneo a realizzare la garanzia prevista dal legislatore, proprio perché alla base dell’istituto vi è la constatazione che se i titoli cautelari fossero stati emessi simultaneamente, avrebbero dato luogo ad una contemporanea compressione della libertà, indipendentemente dalle scelte del pubblico ministero in ordine all’eventuale separazione dei relativi procedimenti penali.
L’occasione per un chiarimento definitivo sul problema del metodo di calcolo dei termini cautelari agli effetti della retrodatazione è, come detto, sfumata a causa della rilevata inammissibilità del ricorso da parte delle Sezioni Unite. In particolare, il plenum ha ritenuto che non vi fossero le condizioni per pronunciarsi sulla quaestio iuris in esame per la ragione assorbente che, nella sequenza di provvedimenti custodiali emessi a carico del ricorrente, non era comunque ravvisabile il requisito, comune ad ogni forma di contestazione a catena contemplata dalla legge, dell’anteriorità cronologica del tempus commissi delicti del reato oggetto della seconda ordinanza rispetto alla data di emissione del titolo detentivo primigenio. In particolare, a tale conclusione il Supremo Collegio giunge sulla base della considerazione che, da un lato, il reato di partecipazione in sodalizio mafioso oggetto della seconda ordinanza era stato contestato con condotta perdurante al momento del relativo arresto (cd. formula aperta) e dall’altro, che né il ricorso né l’ordinanza del Tribunale del riesame di Reggio Calabria, contemplavano il riferimento, seppure implicito, ad una intervenuta interruzione della permanenza del reato per effetto del primo provvedimento custodiale. Come danno atto le stesse Sezioni Unite, il terreno su cui ci si muove risulta anche in questo caso alquanto scivoloso, esistendo un orientamento che, sebbene avversato da altre pronunce, nell’intervenuta detenzione del soggetto autore di un reato permanente ravvisa il fondamento di una presunzione (relativa) di interruzione della permanenza. A prescindere da questo, però, occorre comunque rilevare come, una volta ritenuta – a torto o a ragione – l’insussistenza ab origine di uno dei presupposti di operatività della retrodatazione, la scelta del plenum di non affrontare la quaestio iuris sottoposta al suo vaglio appaia rispettosa anche del testo vigente dell’art. 618, che al co. 1-ter c.p.p. introdotto dalla l. 23.6.2017, n. 103, sancisce oggi l’obbligo per il Supremo Collegio di affermare il principio di diritto anche allorquando il ricorso appaia affetto da inammissibilità sopravvenuta. Difatti, anche laddove la questione fosse stata affrontata e risolta nel senso prospettato dal ricorrente, quest’ultimo non avrebbe comunque trovato nell’art. 297, co. 3, c.p.p. la strada per la scarcerazione essendo l’applicazione della retrodatazione a monte inibita dall’insussistenza di un presupposto di operatività del congegno in esame; circostanza questa che, non essendo imputabile a fatti sopravvenuti, comporta a ben guardare l’inammissibilità originaria del ricorso sotto il profilo dell’insussistenza a monte di un valido interesse ad impugnare stante l’inidoneità della decisione invocata a produrre un effettivo vantaggio nella sfera processuale del soggetto. Ciononostante, nell’attesa che la questione torni al più presto al vaglio delle Sezioni Unite, sembra opportuno mettere in luce alcune ulteriori perplessità che, da un punto di vista logico-sistematico, la tesi del divieto di cumulo tra termini cautelari eterogenei sembra irrimediabilmente suscitare. Innanzitutto, che il principio generale secondo cui, nel computo dei termini cautelari, non si calcolano i periodi di libertà intercorsi tra l’esecuzione dei provvedimenti indebitamente emessi in sequenza non possa rappresentare il fondamento giustificativo della tesi de qua è un dato la cui validità discende direttamente dall’impossibilità di ricondurre le due fattispecie alla medesima ratio. Se, infatti, è vero che i periodi in cui l’imputato ha riacquistato la libertà, proprio perché detenzione non vi è stata, non possono essere calcolati per verificare il superamento dei termini di fase, altrettanto non può dirsi con riferimento a quei periodi in cui a mutare non è la condizione detentiva del soggetto ma soltanto la tipologia del termine cautelare pendente nel primo procedimento. Come se non bastasse, il divieto di cumulo tra termini eterogeni si colloca, a ben guardare, in una prospettiva totalmente eccentrica rispetto a fondamentali coordinate di ordine sistematico. Nel ritenere che l’art. 297, co. 3, c.p.p. imponga di cumulare tra loro esclusivamente termini cautelari omogenei, l’orientamento in esame dimostra infatti di attribuire a tale disposizione un ruolo funzionale che nel nostro sistema fa, in realtà, capo ad un’altra disposizione ovvero all’art. 297, co. 5, c.p.p. Il meccanismo della retrodatazione, infatti, ha come unico compito quello di rideterminare, in deroga ai criteri ordinari, la data iniziale di decorrenza degli effetti della misura meno risalente; fatto ciò, la sua funzione si esaurisce mentre, per il resto, il computo dei termini cautelari torna sotto l’imperio delle regole generali. Ciò chiarito, è pacifico che, allorquando un soggetto è contemporaneamente detenuto in forza di più titoli custodiali, il medesimo periodo detentivo dovrà essere tenuto in considerazione per verificare l’osservanza dei termini cautelari di ciascun titolo a prescindere da se i termini in questione siano o meno – a causa della separazione dei relativi procedimenti e del loro diverso incedere – omogenei. Ora, tale conclusione ha, come si diceva, il proprio fondamento normativo nell’art. 297, co. 5, c.p.p., il quale sancisce il principio di compatibilità tra diversi titoli custodiali e che, pertanto, impone che il medesimo periodo detentivo venga imputato per il computo dei termini cautelari di ciascun titolo custodiale contemporaneamente in essere a carico del medesimo soggetto13. Che peraltro il principio di compatibilità ex art. 297, co. 5, c.p.p. sia indifferente al fatto che i termini cautelari che decorrono contemporaneamente siano o meno omogenei non vi sono dubbi di sorta. Infatti, senza contare che il dato normativo non offre indicazioni in tal senso, con l’impossibilità quindi anche di stabilire per quale dei diversi termini cautelari concorrenti il computo resti “sospeso”, il dato dirimente è che, seguendo questa impostazione, il rapporto tra titoli cautelari verrebbe regolamentato alla stregua del concorso tra pene detentive; conclusione questa a dir poco aberrante se si considera che, in fase esecutiva, il principio di non compatibilità ex art. 73 c.p. rinviene il proprio fondamento nell’esigenza – tipicamente sanzionatoria e pertanto non trapiantabile nel sistema cautelare – di evitare che, fatta eccezione per il reato punito con il trattamento sanzionatorio più severo, il condannato veda assicurata la propria impunità. Né peraltro può obiettarsi che la norma ricavabile dall’art. 297, co. 5, ult. periodo, c.p.p. operi nei soli casi in cui, a carico del soggetto, siano stati effettivamente emessi più titoli cautelari contemporaneamente: infatti, a parte che, anche in questo caso, restano fermi i rilievi di incostituzionalità più sopra evidenziati – per l’appiattimento dei criteri di computo della custodia cautelare su quelli propri della fase esecutiva – una simile interpretazione darebbe, peraltro, luogo ad una irragionevole disparità di trattamento nei confronti di coloro che hanno quale unica “colpa” quella di essere dovuti ricorrere all’art. 297, co. 3, c.p.p. per riottenere il riallineamento tra più fattispecie cautelari indebitamente frammentate.
1 Sull’argomento, in generale, cfr., volendo, Ludovici, L., La disciplina delle “contestazioni a catena”, Padova, 2012, passim.
2 C. cost., 28.3.1996, n. 89, in Cass. pen., 1996, 2106.
3 Cfr., Jannelli, E., Commento all’art. 2 l. 28 luglio 1984, in Legisl. pen., 1985, 79 ss.
4 Si v., C. cost., 24.10.2005, n. 408, in Giur. cost., 2005, p. 2343 e C. cost., 22.7.2011, n. 233, ivi, p. 2980.
5 Si vedano, rispettivamente, Cass. pen., S.U., 22.3.2005, n. 21957, Rahulia, in Cass. pen., 2005, p. 2885, e Cass. pen., S.U., 19.12.2006, n. 14535, Librato, in Cass. pen., 2007, p. 3299.
6 Il riferimento è a Cass. pen., S.U., 25.6.1997, n. 9, in Cass. pen., 1997, p. 1654.
7 Cfr., Cass. pen., S.U., 19.7.2018, n. 48109, Giorgi, in www.cortedicassazione.it, ove la questione non è stata affrontata per inammissibilità del ricorso.
8 Cfr. Cass. pen., sez. II, ordinanza, 2.5.2018, Giorgi, inedita.
9 Cfr., Cass. pen., 21.8.2014, n. 47581, in CED rv. n. 261262; Cass. pen., sez. VI, 6.2.2013, n. 15736, in CED rv. n. 257204; Cass. pen., sez. VI, 12.11.2014, n. 50761, in CED rv. n. 261700.
10 Si v., Cass. pen., sez. I, 28.10.2010, n. 4719 , in CED rv. n. 249905; Cass. pen., sez. II, 11.1.2007, n. 7227, De Tommaso, in CED rv. n. 235936.
11 Cfr., Cass. pen., sez. VI, 28.12.2017, n. 3058, in CED rv. n. 269285; Cass. pen., sez. IV, 6.6.2017, n. 36088, in CED rv. n. 270759.
12 C. cost., n. 233/2011, 2980; C. cost., 6.12.2013, n. 293, in Giur. cost., 2014, 4713.
13 In argomento, v. Gius. Amato, Commento all’art. 297 c.p.p., in Commentario del nuovo codice di procedura penale, a cura di E. Amodio e O. Dominioni, Milano, 1990, p. 152 ss.