suicidi
A questa categoria di peccatori D. accenna per la prima volta in If XI 40-45, precisandone la collocazione etica e topografica nel secondo girone dei violenti, dove essi si trovano insieme con i dissipatori: Puote omo avere in sé man vïolenta / e ne' suoi beni; e però nel secondo / giron convien che sanza pro si penta / qualunque priva sé del vostro mondo, / biscazza e fonde la sua facultade, / e piange là dov'esser de' giocondo.
Alla rappresentazione di questo girone e delle due categorie di peccatori che vi sono assegnati il poeta dedica poi l'intero canto XIII dell'Inferno e l'inizio del XIV (vv. 1-3): dove, più particolarmente, descrive l'orribile selva formata dalle piante in cui sono rinchiuse le anime dei s. e su cui le Arpie lor nidi fanno (XIII 10) e si lamentano (vv. 1-27); e narra l'incontro con Pier della Vigna (vv. 28-108) e, dopo l'intermezzo costituito dall'apparizione di due dissipatori inseguiti da nere cagne (vv. 109-129), con un anonimo suicida fiorentino, del quale D., mosso dalla carità del natio loco, ricompone a pie' del tristo cesto le fronde spezzate e disgiunte da uno dei due dissipatori e dalle cagne che l'inseguivano (vv. 130-151; XIV 1-3).
A considerare il suicidio come un peccato mortale, degno dunque di essere punito eternamente nell'Inferno, D. era portato dalla condanna pressoché concorde, anche se variamente graduata, da parte di filosofi e scrittori pagani e cristiani; e in particolare dalla severa posizione assunta in proposito da s. Tommaso, il quale, infatti, ribattendo gli argomenti in contrario, aveva esplicitamente affermato che " seipsum occidere est omnino illicitum, triplici ratione. Primo quidem, quia naturaliter quaelibet res seipsam amat... Secundo, quia quaelibet pars id quod est, est totius... unde in hoc quod seipsum interficit, iniuriam communitati facit... Tertio, quia vita est quoddam donum divinitus homini attributum " (Sum. theol. II II 64 5); insistendo in particolare sugli ultimi due motivi (" potest considerari aliquis homo, inquantum est aliquid civitatis, scilicet pars; vel inquantum est aliquid Dei, scilicet creatura et imago; et sic qui seipsum occidit, iniuriam quidem facit, non sibi, sed civitati et Deo ", II II 59 3). Il medesimo Tommaso, anzi, in coerenza con il suo concetto della carità, dovuta prima a sé stesso che agli altri (" Homo seipsum magis ex charitate diligere tenetur, quam proximum ", II II 26 4), aveva chiaramente affermato che il suicidio è peccato più grave dell'omicidio (I II 73 9 " gravius... peccat qui occidit seipsum quam qui occidit alterum "): affermazione su cui D. si è senza dubbio fondato nel porre il girone dei s. (e dei dissipatori, assimilati ai primi in base ad Aristotele Eth. Nic. IV 1120a, citato anche da s. Tommaso II II 119 3) al di sotto di quello assegnato ai violenti contro il prossimo.
La pena inflitta ai s. è chiaramente descritta nell'ultimo discorso che D. fa pronunciare a Pier della Vigna (If XIII 94-108): l'anima del peccatore, dopo essere stata giudicata da Minosse, cade nel secondo girone del settimo cerchio, e, nel luogo dove viene a capitare, qui germoglia come gran di spelta, sviluppandosi in vermena e in pianta silvestra, cioè (come ha precisato il Bosco) in pruni e in sterpi, insomma in piante di qualità inferiore, " non partecipi della bellezza, della robustezza, della nobiltà degli alberi di alto fusto ". Inoltre le Arpie, pascendosi delle foglie di questi sterpi, fanno dolore, e al tempo stesso, con le rotture da esse prodotte, aprono la via ai lamenti dei dannati rinchiusi nelle piante. Né questi potranno riprendere i loro corpi umani, come tutti gli altri defunti, dopo il giudizio universale: invece di rivestirsene, dovranno appenderli ciascuno al pruno, che continuerà a chiudere in sé l'anima del peccatore. Questa pena, almeno per quanto riguarda il particolare dell'attribuzione di un corpo vegetale in luogo di quello umano, è certamente suggerita (come lo stesso Virgilio dantesco ricorda, secondo l'interpretazione più comune, in If XIII 48) dall'episodio di Polidoro (Aen. III 22 ss.), non senza, probabilmente, qualche ricordo ovidiano (cfr. in particolare Met. II 340 ss., IX 344-345). E pure da Virgilio (Aen. III 209 ss.), come D. avverte (If XIII 11-12), vengono le Arpie; mentre per la descrizione generale della selva è possibile che il poeta abbia tenuto presente un luogo di Seneca (Herc. 689, 699-706).
Per quanto invece riguarda l'impiego di questi materiali come elementi per la costruzione di una pena infernale, non è azzardato supporre che un suggerimento generico gli sia stato offerto da un luogo di s. Bernardo, così riportato da Pietro: " homo absque gratia, ut desperans est velut arbor silvestris, ferens fructus, quibus porci infernales (ut Harpyae hic) pascuntur ". Originale è, in ogni caso, l'idea di applicare la pena stessa alla colpa specifica del suicidio. In che cosa consista precisamente il contrapasso, D. non chiarisce, a parte l'affermazione di Pier della Vigna (riferita però solo alla condizione dei s. dopo il giudizio universale), che non è giusto aver ciò ch'om si toglie (If XIII 105). I commentatori antichi, per spiegare l'incarceramento delle anime dei s. in piante, si rifanno tutti alla teoria, accolta anche da D. (Pg XXV 52 ss.), delle tre facoltà dell'anima: razionale, sensitiva e vegetativa. Ma se Iacopo (seguito dal Lana, dalle chiose Selmi e dall'Ottimo) ritiene che quella condizione alluda al fatto che la sola facoltà " vegetabile ", al contrario della " razionabile " e della " sensitiva ", " alla sua fine giammai non consente "; il Buti vi vede invece una " debita punizione " a chi, come i s., si è privato proprio della " vita vegetativa "; mentre Pietro, come la maggior parte degli altri (Boccaccio, Benvenuto, Anonimo, Landino, Gelli), argomenta che " velle non esse, ut volunt homines se necantes, contra rationem et sensibilitatem est ", che cioè la riduzione in piante rifletta e punisca la rinuncia a valersi della ragione e della sensibilità. Tali spiegazioni sono state in genere abbandonate dai moderni, che accolgono, sia pure con qualche varietà di sfumature, quella proposta dal De Sanctis: " l'inferno del suicidio è il suicida colto nel punto ch'egli inferocisce in sé, che separa violentemente quello che la natura ha congiunto. Questa separazione contro natura D. te la rende eterna. L'anima separatasi violentemente dal corpo non lo riavrà più mai... e riman chiusa in corpo estraneo di natura inferiore ".
Più numerose e varie le interpretazioni della funzione assegnata alle Arpie. Rimandando per più particolari notizie alla voce relativa, qui basterà ricordare che esse, per il Lana, significano la disperazione dei s.; per le chiose Selmi e per l'Ottimo, le memorie o i rimorsi che li tormentano; per Pietro, Guido da Pisa, il Boccaccio, Benvenuto, il Buti e il Landino, l'avarizia o la rapacità (perché, come dice Guido, " nulla maior rapacitas quam rapere sibi vitam "); mentre, fra i moderni, il De Sanctis, in coerenza con la sua spiegazione generale della pena, vede, nelle lacerazioni da esse inflitte, ripetuta " ad ogni ora la trafittura che il suicida si fece in vita " (cosa anche il D'Ovidio e lo Spitzer, il quale aggiunge che quelle lacerazioni hanno anche lo scopo di concedere ai s. " la crudele consolazione di esprimere la loro sofferenza per mezzo del modo orrendo di parlare, che è il loro marchio "); e il Paratore giustifica la presenza di esse in quanto simboli, nella loro mostruosità di esseri costituiti dall'accoppiamento di nature diverse, del " pervertimento " di cui i s. sono esempio. Un cenno meritano anche le discussioni, assai vivaci tra i commentatori più antichi, intorno all'ortodossia teologica della sorte assegnata da D. ai s. dopo il giudizio universale: se essi sono d'accordo nell'affermare che tale sorte, letteralmente considerata, è contraria al dogma della resurrezione della carne, diversi sono gli argomenti con cui tentano di spiegare, e di giustificare, la singolare invenzione dantesca: ora sostenendo che il poeta sia ispirato dall'intento di ammonire gli uomini " a non cadere nel peccato della disperazione " (Iacopo, Graziolo); ora sottolineando che egli parla qui da " poeta " appunto e non da teologo (Ottimo, Buti); ora avanzando l'ipotesi che la responsabilità dell'erronea affermazione sia dall'autore lasciata allo stesso Pier della Vigna, bugiardo come tutti i dannati o invece davvero convinto, per sua maggior punizione, di quanto dice (Boccaccio, Anonimo); ora infine ribadendo polemicamente che, comunque stia la cosa, non è lecito dubitare della perfetta cattolicità di Dante (Benvenuto). Tra i moderni torna sulla questione il Tommaseo (" non dice cosa a religione contraria, perché quella sospensione è una specie di unione "); ma già il Castelvetro, senza preoccuparsi del problema teologico, esprimeva l'opinione che D. avesse piuttosto " nella mente alcuni che per disperati s'erano appiccati agli alberi ".
Su Pier della Vigna si veda la voce relativa, a cui si rimanda anche per la valutazione artistica di tutto l'episodio. Il secondo suicida (in cui qualcuno ha creduto, senza fondamento, di vedere l'esempio di una terza categoria di peccatori comprendente, secondo Guido da Pisa e il Buti, quelli che si uccisero spinti dalle proprie dissipazioni; ovvero, secondo il Giuliani e il Poletto, i violenti spilorci, contrapposti agli scialacquatori) viene identificato dai commentatori antichi con un Rocco o Rucco de' Mozzi (v.), impiccatosi per la disperazione di aver sperperato le proprie sostanze, ovvero con un Lotto degli Agli (v.) giudice, suicida per il rimorso di aver proferita un'ingiusta sentenza; mentre il Boccaccio (seguito da Benvenuto e dal Buti) ritiene che D. abbia intenzionalmente lasciato questo peccatore anonimo " o per riguardo de' parenti che di questo cotale rimasero... o vero, per ciò che in que' tempi, quasi come una maladizione mandata da Dio, nella città nostra più se ne impiccarono, acciò che ciascun possa aporlo a qual più gli piace di que' molti ". Ma più ampie e vivaci discussioni ha suscitato l'interpretazione della perifrasi con cui questo suicida designa la propria patria, Firenze (vv. 143-150). Mentre alcuni commentatori vedono nella perifrasi un'allusione al fatto che i Fiorentini, abbandonando l'antico valore bellico, si erano dati a vita selvatica e astratta (Lana), ovvero a vili attività commerciali (Benvenuto, seguito dal Castelvetro, dal Tommaseo, dal Federzoni e dallo Scherillo); i moderni in genere sono orientati a intenderla come una deplorazione delle lotte civili che continuavano a tormentare Firenze. Proprio partendo da quest'ultima spiegazione, lo Spitzer ha insistito sul rilievo che la figura dell'anonimo suicida fiorentino assumerebbe nel panorama dell'episodio dei suicidi.
Altri studiosi, infine, si sono chiesti perché D. ponga in altri luoghi del suo oltremondo s. quali Empedocle, Seneca, Lucano, Lucrezia, Didone, Cleopatra e Catone. Rimandando, anche in questo caso, per più specifiche indicazioni, alle voci relative a questi personaggi, ci limiteremo qui a rammentare che l'opinione del D'Ovidio, secondo cui D. accoglierebbe nel secondo girone dei violenti solo i s. cristiani, è stata recentemente discussa dal Maurer, il quale ha avanzato l'ipotesi che il poeta, in un primo momento, quando componeva i primi canti, pensasse, seguendo e in parte fraintendendo suggerimenti virgiliani, di dedicare una sezione del suo Inferno non ai s. in genere, ma solo a quelli che si erano privati della vita in seguito a ingiuste accuse; e che quindi, in particolare, non si facesse scrupolo di accogliere i s. per amore, come Didone e Cleopatra, nel cerchio dei lussuriosi.
Bibl. - Tra gli studi e le letture sul c. XIII dell'Inferno si vedano: F. De Sanctis, Pier delle Vigne (1855), in Lezioni e saggi su D., a c. di S. Romagnoli, Torino 1955, 245 ss.; F. Novati, Pier delle Vigne, in Con D. e per D., Milano 1898 (rist. in Freschi e minii del Dugento, ibid. 1925, 55-81); A. Monti, in Lect. D. Genovese II 37-70; A. Medin, Il c. XIII dell'" Inferno ", in Due letture dantesche, Padova 1906; F. D'ovidio, Il canto di Pier delle Vigne, in Nuovi studii danteschi, Milano 1907, 143-333; L. Spitzer, Speech and Language in " Inferno " XIII (1942), in Romanesche Literaturstudien, Tubinga 1959, 544-568 (traduz. ital. in Lett. dant. 223-248); S. Aglianò, Lettura del c. XIII dell'Inferno, in " Studi d. " XXXIII (1955) 143-186; E. Bonora, Il c. XIII dell'Inferno, in " Cultura e Scuola " IV (1965) 446-454; E. Paratore, Analisi retorica del canto di Pier delle Vigne (1965), in Tradizione e struttura in D., Firenze 1968, 168-220; U. Bosco, Il canto dei suicidi (1958), in D. vicino, Caltanissetta-Roma 1966, 255-273; I. Baldelli, Il c. XIII dell'" Inferno ", in Nuove Lett. I 33-45.
In particolare, sulla colpa e sulla pena dei s. cfr.: S. De Chiara, in " Giorn. d. " III (1895) 143-147; ID., in " Giorn. stor. " LXXXIII (1924) 84-95; D. Santoro, Note dantesche, Pisa 1901; W. H. V. Reade, The moral system of Dante's Inferno, Oxford 1909, 422-426; E. Capra, Nel " miro gurge " dell'anima dantesca: D. e il suicidio, in " Giorn. d. " n. s., II (1920) 61-89; A. H. Gilbert, Dante's conception of Justice, Durham 1925, 88-89; S. Frascino, La colpa dei s. nel concetto di D., in " Giorn. stor. " XC (1927) 211-215.
Sull'anonimo suicida fiorentino, oltre alla bibl. citata in calce alle voci Agli, Lotto degli; Mozzi, Rocco de', v. G. Federzoni, Studi e diporti danteschi, Bologna 1902, 235-240; F. Neri, in " Studi Medievali " n. s., II (1929) 205-207. Sui s. esclusi dal secondo girone del settimo cerchio: K. Maurer, Die Selbstmorder in Dantes " D.C. ", in " Zeit. Romanische Philol. " LXXV (1959) 306-320.