«Sudditi d’un altro stato»? Gli ecclesiastici veneziani
Nel 1609 il nunzio pontificio Berlinghiero Gessi aveva un problema con il pievano di San Maurizio. Costui, «altero» e «interessato», andava spargendo la voce che si sarebbe recato a Roma «quando havesse grossa provvisione e speranza d’un vescovato». Il pievano sentiva imminente la propria chiamata, e la tracotanza che andava pubblicamente dimostrando indispettì Gessi che per l’occasione infarcì la nota informativa, che regolarmente compilava ad uso della segreteria di stato, con considerazioni più generali sul corpo ecclesiastico veneziano:
Le Degnità Ecclesiastiche non si promettono per patti, ma [...] si danno da N. Signore a chi s’affatica per la Santa Chiesa et se le guadagna con i meriti [...]. [Questi ecclesiastici veneziani, però], non hanno lo spirito di divotione che converria et più mirano alla commodità et interessi loro che ad altro e doppo che hanno intesa la verità et data qualche buona intentione si lasciano anco rivolgere dagli altri theologi o da alcuni di questi Signori che siano loro amici o protettori i quali hanno grandissimo disgusto di tali conversioni et cercano impedirli quanto possono (1).
Gli «altri theologi» cui accennava il nunzio, ovvero i consultori in jure, che costituirono per qualche tempo il fronte avanzato dello scontro della Repubblica con Roma, non consideravano la situazione in modo sostanzialmente diverso: il clero locale era anzi il principale oggetto della loro preoccupata attenzione (2) come dimostra in primo luogo Paolo Sarpi, che ebbe modo di trarre molti scabrosi argomenti del suo Trattato delle materie beneficiarie dal malcostume dei titolari veneti di benefici. Fulgenzio Micanzio, da parte sua, spiegò con sintetica efficacia i motivi della sua diffidenza verso quel clero in un pensiero dedicato agli «Ecclesiastici nel stato Veneto». In esso scriveva che quelli «si lamenta[va]no, a torto»: «perché si sa come stanno», diceva sommariamente, e poi perché approfittavano largamente della propria condizione. Ogni qual volta le Serenissime autorità richiedevano loro qualcosa, gli esponenti del clero locale non esitavano a ritenersi «membri d’un altro corpo e sudditi d’un altro stato» (3): s’intende, naturalmente, quello pontificio.
Tornando all’altro schieramento, quello cioè romano, e a un altro nunzio, così Jacopo Altoviti (che fu a Venezia dal 1658 al 1666) descriveva, in modo assai pratico, l’esercizio del proprio ruolo: quando le «Persone» veneziane, che erano abituate a muoversi «principalmente per l’utile privato», sapevano di poter contare soprattutto sul rappresentante pontificio in Venezia per la concessione delle «grazie» — e non sugli uffici dell’ambasciatore veneto a Roma o su altre vie — «quella Nunziatura passa[va] dal [...] concetto della più difficile a quello della più facile» (4). La disinvoltura di quelle «Persone» — era l’altra faccia della medaglia — rendeva però decisamente poco solidi i profitti che il nunzio riusciva ad acquisire con quel tipo di politica.
In definitiva, quindi, i rappresentanti pontifici in Venezia non giudicavano gli ecclesiastici veneti — e in primo luogo i Veneziani — in modo sostanzialmente dissimile dai consultori in jure della Repubblica. Ne diffidavano, certo per cause diverse, e cercavano di controllarne i movimenti, di reprimerne le aspirazioni più pericolose, di frenarne le iniziative. La mancanza di fiducia era forse ancora più forte nei rappresentanti papali, e la assidua sorveglianza che essi sentirono di dover esercitare sul clero rende anzi i nunzi (con le loro «cifre» e i loro dispacci) testimoni essenziali delle vicende della Chiesa veneta.
Tutto ciò avveniva, naturalmente, nel quadro dello scontro ormai plurisecolare tra la Serenissima e la Sede romana: un tema, questo, che il volume VI di questa Storia di Venezia ha trattato con due interpretazioni contrastanti. Gaetano Cozzi ci ha fatto intravedere una Venezia impegnata (fin dal XV secolo) a difendere la propria sovranità dall’invadenza papale, fiera della grandezza del proprio passato e anche della peculiarità della tradizione ecclesiale e spirituale formatasi in laguna; una Venezia capace di trasformare eccezionalmente una contesa giurisdizionale non dissimile da tante altre «in una controversia in cui si dibattevano i limiti [...] del potere pontificio» (5).
Per Paolo Prodi (6), invece, Sarpi e i suoi sodali avrebbero tentato di colmare la frattura aperta in Venezia dal concilio di Trento, in seguito al quale si sarebbe verificato un irreversibile processo di formazione di un’anima della Chiesa veneta «distinta da quella statale». Nella specifica concezione veneziana dello stato, la comunità cristiana non avrebbe dovuto godere di alcuna autonomia, e il doge Donà e il suo gruppo non sarebbero stati affatto «sostenitori del sopravvento della politica sulla religione, di un regalismo di tipo moderno, e neppure di un dualismo tra Stato e Chiesa», bensì coloro che avrebbero tentato «la restaurazione dell’antica tradizione, perduta negli ultimi tempi dello Stato sacrale». Il principio della divisione dei poteri, sostiene Prodi, sarebbe stato anzi frutto in Venezia proprio «della tendenza del clero a formare, con l’appoggio di Roma, un corpo a sé stante rispetto a quello politico [...]. Paradossalmente è Roma che contribuisce a far crescere in Venezia la coscienza, dapprima inesistente di uno Stato laico».
La questione non è di poco conto, anche se il giudizio dei due autori è soprattutto tagliato (anche per i limiti cronologici del volume VI di questa serie) sull’eccezionale avvenimento dell’Interdetto, fulminato nel 1606 dal papa contro la Repubblica e revocato dopo poco più di un anno. In realtà quella disputa fu così intensa, così straordinaria per la personalità dei suoi interpreti, da non poter essere presa come chiave di lettura universale dei rapporti stato-Chiesa per l’intero nostro secolo. La violenza del conflitto esaltò taluni suoi protagonisti ufficiali, ma appiattì lo scenario generale, che era invece ben vivo ed animato da altri motivatissimi protagonisti. Anzitutto dagli stessi ecclesiastici veneti, e in primo luogo veneziani, che costituivano oggetto significativo della contesa tra i due stati e spesso oggetto anche molto ingombrante.
Il secolo che si apre a Venezia con l’Interdetto si chiude con un’alleanza politico-militare col papato e con gli Asburgo in chiave antiturca, con l’elevazione di un pontefice veneziano (dopo più di due secoli che non ve ne era stato alcuno), e infine, nel 1699, con una raffica di provvedimenti emanati dalle autorità marciane in chiave «antipapalista». Viste le cose in modo tanto sommario, il periodo che precede la crisi di inizio secolo, quella dell’Interdetto, sembra insomma in apparenza molto più leggibile, per non dire coerente, di quello che la seguì.
Ed è proprio di questo tempo così mosso che si cercherà di dar conto nelle pagine che seguono, trattando del rapporto tra la Sede romana e il clero veneziano e, parallelamente, della politica ecclesiastica della Repubblica di San Marco. Agli uomini di Chiesa veneta, alle prese col delicatissimo problema di rimanere il più possibile fedeli a due poteri invece concorrenti, verrà dedicato autonomo spazio, nel tentativo di cercare, anche, una risposta all’irrisolto quesito posto dai curatori del precedente volume della Storia di Venezia (7).
Le parrocchie di Venezia erano settantadue, e, di queste, cinquantacinque erano collegiate, ovvero dotate di un capitolo in cui il parroco era affiancato da tre o quattro preti, da diaconi e suddiaconi e a volte da alcuni «accoliti» (8). In questi casi il «titolato», in virtù di una Bolla di papa Clemente VII pubblicata nel 1530, veniva eletto dal medesimo capitolo tra i suoi stessi componenti, osservandosi in ciò generalmente stretti criteri di anzianità; la designazione andava infine confermata dal patriarca. Il ricorso ad altre procedure di nomina era proibito severamente: addirittura chi avesse impetrato o accettato «alcun beneficio, over titolo in alcuna delle Chiese nostre di questa città [dettava una parte del consiglio dei X del 1529], altramente, che per elettion del suo Capitolo» poteva essere condannato alla «irremissibil pena di continuo Bando di questa città di Venetia e del Ducato per anni cinque, e di pagar Lire 500. di piccoli» (9). Una parte successiva, sempre del X, del 1538, minacciava della pena di due anni d’esilio il pievano che «in termine di giorni otto, doppo fatta l’elezione d’alcun Titolato, non fosse andato a i Capi del Consiglio de’ X colla nota dell’Eletto e forma dell’elezione per far vedere s’era stata ben fatta». A completare la materia, nel 1551 fu «publicata altra Parte contro i pievani di non dover ammettere alcuno al possesso del Titolo senza haver havuto prima dal Conservatore della Bolla Clementina la dichiarazione d’essere stati ben eletti». Tutte queste parti erano state confermate dal X nel 1621, e il consiglio aveva anche preteso che fosse a carico dei suoi stessi capi il compito di far osservare la detta Bolla, e a tal fine, «senz’alcuna partecipazione della Sede Apostolica», s’era anche arrogato il compito di nominarne un conservatore (10). La nomina dei parroci, insomma, doveva rimanere un atto tutto veneziano (11).
Nelle parrocchie non collegiate, la sostanza non mutava: qui il parroco — sempre per privilegio pontificio — veniva nominato dai capifamiglia. Il patriarca doveva poi come al solito ratificare la nomina (12).
Le rendite per i titolari di questi benefici erano esigue; per questo gli uomini di Chiesa che provenivano dal patriziato di norma non vi concorrevano (gli «Ecclesiastici di Venetia sanno poco et sono di bassa conditione», constatava il nunzio nel 1611 (13)), e anche per questo i patriarchi denunciavano spesso nelle relationes ad limina inadempienze, trascuratezze e problemi disciplinari talvolta gravi (14).
Analoghe lamentele riguardarono, e non di rado, i monasteri veneziani. In città ve ne erano una trentina di maschili, ma il loro numero variò di qualche unità nel corso del secolo, per cause «naturali» o politiche: si pensi al provvedimento di espulsione dei Gesuiti decretato nel 1606 e revocato nel 1657, o a quello, più breve, disposto sempre al tempo dell’Interdetto nei confronti di Teatini e Cappuccini; si considerino infine le soppressioni dei «conventini» autorizzate dalla Santa Sede nel 1656 e nel 1668 per sovvenire la Repubblica nella lotta contro il Turco. Una trentina erano anche i monasteri femminili (15).
Patriarchi e nunzi (ma anche, regolarmente, i consultori in jure) dimostrarono in più occasioni diffidenza nei confronti dei regolari veneziani: di quella «gran turba di frati di varie religioni», come li definì acidamente il nunzio Carlo Carafa, che andavano spesso proponendosi a vacanze vescovili «stimando più l’uscita dal claustro che l’entrata della Chiesa» (16).
Trattare di clero veneziano non vuol però dire trattare della sola Chiesa di Venezia. Le possibilità di sistemazione in città erano, come è facile intuire, alquanto esigue, numericamente e per consistenza delle rendite, mentre le opportunità di ottenere rilevanti e cospicui benefici ecclesiastici (17) nelle province religiose controllate dalla Repubblica erano molto più interessanti. Furono così i Veneziani ad occupare gran parte dei ruoli ecclesiastici più ambiti nel Dominio della Serenissima — per quanto dalle diverse popolazioni si levasse costantemente la richiesta di favorire la collazione di benefici a ecclesiastici locali (18) — e poco si spiegherebbe dell’accresciuta capacità d’attrazione esercitata nel corso del secolo dalle carriere di Chiesa sul patriziato rimanendo nel solo ambito cittadino.
Le diocesi che nel ’600 potevano propriamente definirsi venete — perché ebbero prevalentemente per titolari elementi veneziani o veneti, e perché su di esse la Serenissima esercitò un costante controllo — erano quarantasei. Quelli di Adria, Aquileia, Belluno, Bergamo, Brescia, Caorle, Ceneda, Chioggia, Concordia, Crema, Feltre, Padova, Treviso, Torcello, Venezia (o, meglio, Castello), Verona e Vicenza, erano i diciassette vescovati del Dominio di Terraferma. Nel numero di quindici erano le diocesi di Istria e Dalmazia, ovvero del «Golfo»: Arbe, Capo d’Istria, Cattaro, Cittanuova, Curzola, Lesina, Nona, Ossero e Cherso, Parenzo, Pola, Sebenico, Spalato, Traù, Veglia e Zara. V’erano poi le sedi ioniche: quella di Corfù e quella di Zante e Cefalonia. Quattordici invece le circoscrizicini religiose dell’«Arcipelago» egeo (19). In queste ultime diocesi il numero dei fedeli di rito romano variava fortemente: a Chironissos, nel 1617, il vescovo non doveva badare a più di otto-dieci anime che vivevano «alla latina» (20) e a Zante, nello stesso periodo, non ve ne erano più di quattrocento, inclusi i duecento tra nobili e soldati veneziani (21). Si trattava di sedi poco ambite — con scarse eccezioni — e anche a volte sottostimate dalla pubblica autorità: nel 1628 il vescovo di Tinos era addirittura «quasi esule fuori della città» perché il rappresentante veneziano aveva requisito la sua abitazione per «servitio publico» (22). La situazione nelle diocesi adriatiche poteva non essere migliore e il titolare di Cittanuova, nel 1644, denunciava in collegio come
la dignità et giurisditione episcopale resta[sse] vilipesa e schernita da persone suddite della Serenità vostra, che arrogandosi maggiore autorità dell’ordinaria ancora de’ pubblici rappresentanti, stimano che coll’operare contro le sacre costitutioni e deridersi delle censure ecclesiastiche di poter trascender alle condizioni loro (23).
Così come mutavano sostanzialmente da diocesi a diocesi il numero di fedeli e le condizioni di vita (anche per cause congiunturali), allo stesso modo variavano fortemente le rendite che ogni sede poteva assicurare al suo titolare: si passava dai circa 20.000 ducati annui (al lordo però di pensioni e gravezze) che sembrava poter garantire Padova, al centinaio di ducati (o poco più) che costituiva il valore della mensa vescovile di Caorle (24). La «considerevole circostanza» di godere per conto proprio di «un annuo assegnamento» garantì la collazione di questa sede a Pietro Martire Rusca nel 1656 (25). Nessuno avrebbe potuto sostenersi in quella diocesi con la sola rendita della mensa.
Il quadro delle presenze di titolari veneziani nelle sedi episcopali del Dominio corrisponde con precisione quasi assoluta alla consistenza economica del beneficio. Le diocesi più importanti e ricche (26), Bergamo, Brescia, Padova («ch’è il Papato degli ecclesiastici Nobili venetiani», scriveva il nunzio Altoviti), Treviso, Verona e Vicenza, ebbero per vescovi esponenti del patriziato veneziano nel 95% dei casi (non si considerano qui il patriarcato veneziano e quello di Aquileia, perché essendo di giuspatronato della Repubblica era scontato che vi fossero destinati solo patrizi). Negli altri, più ambiti, vescovati di Terraferma i vescovi nobili rappresentarono il 64% del totale (ma basta levare dal novero di queste sedi le poverissime e quindi poco appetibili diocesi di Chioggia e Caorle, perché la percentuale dei patrizi salga invece al 76%). Il 19% delle sedi vacanti di Terraferma fu occupato da Veneziani non nobili; in poco più del 15% dei casi titolari di quelle furono sudditi del Dominio di terra; per i rimanenti, rarissimi, casi provenivano da altre aree dello stato (dal «Golfo» o dall’«Arcipelago») (27).
Gli elementi del patriziato cittadino avevano insomma possibilità di carriera ben maggiori rispetto agli altri: non pochi fra questi, anzi, dovettero avviarsi per questo percorso solo perché sicuri di vedersi collazionare dei buoni benefici. Nel 1698, la notizia della malattia del vescovo di Adria, Carlo Labia, creò grande eccitazione in Venezia, «giacché [scriveva il nunzio], vi [erano] molti secolari che inclina[va]no a farsi ecclesiastici per conseguire» quella Chiesa capace di garantire una buona rendita al titolare (28). La statistica, del resto, parla chiaro: quasi il 40% dei vescovi patrizi ricevette gli ordini sacri in prossimità della nomina, mentre chi non era nobile veneziano raggiungeva quel genere di traguardo dopo un servizio ben più impegnativo. I patrizi divenivano anche titolari di diocesi in più giovane età rispetto agli altri (29). La provenienza sociale non influiva invece in modo significativo sul livello culturale dei prescelti: quasi il 60% di loro era graduato, la maggior parte di essi in utroque iure, e tra i patrizi e non nobili veneziani la percentuale dei laureati era del 57% circa. Tra i vescovi provenienti dal Dominio di Terraferma e quelli originari del «Golfo» adriatico le percentuali sono invece di poco superiori al 70% (30).
Tra i Veneziani non appartenenti al patriziato che ottennero un titolo vescovile, assai cospicua — di poco superiore al 42% — era la presenza di regolari, che erano spesso elementi che si trovavano al momento della nomina in posizione di rilievo all’interno del proprio ordine. Costoro, il gruppo più numeroso era quello dei Somaschi, vennero soprattutto utilizzati in diocesi difficili, poste in prossimità del Dominio turco o caratterizzate da forti presenze di elementi «scismatici»: i più avevano conoscenza del greco (31).
La stessa situazione favorevole a esponenti del patriziato si riscontra per i benefici in commenda nel Dominio veneto. Essi erano — secondo una accurata ricostruzione (32) — almeno quarantadue in Terraferma e dieci nel Dominio da mar. Gli elementi del patriziato veneziano erano, immancabilmente, i titolari dei benefici più ricchi, a meno che il titolo non venisse attribuito ad alte personalità curiali (al cardinal nipote, porporati, ecc.). L’abbazia di Santa Maria della Vangadizza, nel Polesine, poteva garantire una rendita lorda (comprensiva cioè di imposte ordinarie e straordinarie, pensioni, ecc.) di 8.000 ducati, quella veronese di San Zeno anche di 9.000 ducati (33). La particolare natura del titolo beneficiario e la sostanziale mancanza di obblighi che comportava rendevano tuttavia molto vivaci le competizioni tra candidati in occasione di ogni vacanza anche per quei benefici in commenda, spesso assai poveri, che si trovavano nel Dominio da mar e che pure si cercava in linea di principio di riservare a elementi locali (34). Due sole erano le «commende» veneziane: quella, in realtà torcellana, di San Tommaso dei Borgognoni, giuspatronato dei Trevisan, e quella di San Gregorio, che era quanto a rendita uno dei pochi benefici ecclesiastici realmente appetibili tra quelli veneziani (35).
Ai dati numerici, che rivelano la superiorità schiacciante del patriziato nell’ambito della «caccia ai benefici», si affiancano altre testimonianze dirette in tal senso, sintetizzabili in un brano di una nota compilata dal nunzio Giovan Battista Agucchia nel 1624:
quantunque ci siano alcuni pessimamente disposti verso le cose ecclesiastiche, nondimeno questi stessi, rivolti maggiormente alla propria utilità, abbracciarebbono o per sé o per li loro più congiunti e li Vescovati e le Badie [...], né si curerebbono di esser esclusi dal Pregadi come Papalisti purché havessero dell’entrate di Chiesa in casa (36).
Il largheggiare con le «grazie» beneficiarie tra il patriziato poteva allargare l’area di consenso alla causa romana; non solo, poteva anche garantire l’allontanamento dai consigli politici della Serenissima — nelle occasioni in cui si trattavano cause riguardanti la Santa Sede — di personalità magari ostilissime che venivano invece a trovarsi loro malgrado «papaliste» per la parentela con un ecclesiastico (37).
Lo strumento era efficace, ma non v’è dubbio che una selezione fondata su tali criteri poteva anche rivelarsi molto imbarazzante. Nel 1625 il papa regnante, Urbano VIII, dichiarava di voler eliminare l’abuso «che questi tali [elementi del patriziato] immediatamente da’ maneggi e dall’habito laico pass[assero] all’episcopale». Non che il pontefice volesse rinunciare a collazionare benefici a esponenti del patriziato: voleva invece cominciare ad «allevar [...] piante giovani» per essere almeno sicuro che quei patrizi che si intendeva favorire dimostrassero in modo continuativo di amare «d’esser ecclesiastici» (38). Di contro, nello stesso tempo, si discuteva a Venezia di proibire ai senatori di accettare vescovati: il nunzio e il segretario di stato erano però assolutamente sicuri che nessuna parte in tal senso avrebbe raccolto il numero necessario di consensi. Molti, anzi, prevedevano, avrebbero cominciato a rifiutare gli incarichi pubblici pur di non pregiudicarsi la possibilità di percorrere una carriera ecclesiastica (39).
V’erano comunque, inevitabilmente, numerose controindicazioni — oltre, naturalmente, quelle più evidenti di tipo etico — che potevano presentarsi e limitare d’efficacia tale politica romana: in primo luogo, il favore accordato a «qualchuno de’ più stimati e meritevoli senatori» in occasione di vacanze poteva alienare la simpatia verso la Santa Sede di coloro che erano già ecclesiastici e che si vedevano così impropriamente scavalcati (40); gli effetti positivi, poi, che potevano essere raggiunti attribuendo un beneficio a un soggetto del patriziato potevano rivelarsi in seguito del tutto effimeri. Ricorrere ai laici in occasione di vacanze, scriveva in «cifra» il nunzio nel 1629,
è un giuditio pericoloso, poiché come hanno atteso qualche tempo agli uffici publici rimangono così impressi e persuasi nelle loro massime che difficilmente s’accomodano alle cose ecclesiastiche e secondano più facilmente gli ordini della Republica che quelli de’ Concili e de’ Sacri canoni onde per lo più riescono migliori piante quelli che avanti che sieno entrati nel Maggior Consiglio entrano nella Chiesa (41).
Malgrado ciò i laici continuarono a venir coinvolti in tale maniera nelle «cose di Chiesa» e talvolta, nel farlo, i diplomatici pontifici cercavano di rovesciarne strumentalmente le motivazioni. Così, ad esempio, il nunzio Francesco Vitelli nel 1633, che riferiva di aver sostenuto — non senza una certa dose di spudoratezza — di fronte alle autorità marciane che la Repubblica doveva
restare obligatissima di molte promotioni a dignità ecclesiastiche di soggetti non conosciuti nella Corte e che non erano caminati per l’introdutione clericale cosa che a propri sudditi così ben conosciuti non lo permette, volendo che si passi per li mezzi proprii e proportionati a che si dia saggio della vita, costumi et habilità prima (42).
In ogni caso, neppure l’accortezza di «reclutare» i gentiluomini veneziani prima che assumessero responsabilità pubbliche poteva assicurare garanzie solide. Era ad esempio già priore di San Domenico di Murano quel Girolamo Contarini cui fu nel 1600 attribuito il vescovato di Capo d’Istria sulla base di un’informazione del nunzio. Questi aveva comunicato a Roma che il soggetto era di «famiglia tanto grande che tra lui e gl’adherenti abbraccia la maggior parte di questa Repubblica» (43). Dieci anni dopo un altro rappresentante pontificio non solo denunciava gli impropri comportamenti del vescovo, ma avrebbe pure desiderato sottoporlo a processo, cosa peraltro impossibile, diceva, perché il Contarini era nobile (44). La congiuntura influiva certo molto su queste designazioni: nel 1632, ad esempio, in un difficile momento delle relazioni tra Roma e Venezia, il nunzio, segnalando uno di ca’ Querini, suggeriva di «beneficarlo più per raggion di stato che per quella de’ buoni offitii suoi» (45).
V’erano naturalmente reazioni, all’interno dei settori «laici» del patriziato meno disponibili al compromesso su tale materia, contro lo stato di cose qui descritto, ma queste divennero sempre meno intense e assunsero via via un carattere isolato. Il tema alimentava certo sempre argomenti velenosi. Quando nel 1649 il savio di Terraferma Badoer intervenne in collegio per sostenere il nunzio in una sua pretesa, gli
fu detto ch’era degno d’esserne compatito perché havendo tre figliuoli maschi fora, meditava d’incaminarne uno alla Pretaria; ma egli replicò che i figliuoli gli havea ricevuti dalla Patria et che alla medesima gli havea consecrati e che egli come buon cittadino non havea mai declinato dal servitio publico per aderire all’interesse privato a differenza di qualched’un altro che non sa[peva] contenersi dentro i limiti di questa obligatione (46).
Tale singolare commistione di elementi — l’esigenza di selezionare candidati degni o perlomeno accettabili a vacanze ecclesiastiche; gli interessi politico-strategici romani e veneziani; le ambizioni più o meno elevate da parte di singoli o gruppi familiari — generava un clima del tutto particolare, che viene messo efficacemente in rilievo da un brano di una lettera che Pietro Basadonna inviò nel 1668 a Roma al suo amico Pietro Ottoboni. Quest’ultimo, che era allora tra l’altro titolare della dataria apostolica (e che sarebbe poi divenuto nel 1689 pontefice col nome di Alessandro VIII), era in lite con alcuni affittuari della sua abbazia di Santa Maria della Vangadizza e il caso stava per essere discusso dal pregadi.
La cosa in se stessa è una bagattella [assicurava Basadonna], ma dove si tratta di negotii che habbino misto di Publico e di privato v’entra la maledittione e sono li più difficili e di quelli io soglio sempre diffidarne sino alla fine perché l’interesse fa più mine sotterranee che non hanno fatto li Turchi all’assedio di Candia (47).
L’interesse privato di un beneficiario doveva convivere cori quello della pubblica autorità che a sua volta pretendeva di esercitare uno stretto controllo sulla realtà ecclesiastica del Dominio, e l’interesse del singolo doveva pure confrontarsi, nella scena complessa di quella società repubblicana, con le invidie e con le possibili macchinazioni che potevano venir covate e essere architettate all’interno della classe dirigente patrizia. Ciò determinava una situazione molto instabile che oltretutto vanificava in modo sostanziale le possibilità veneziane di controllo.
Per il consultore Gasparo Lonigo non v’erano vie d’uscita: le cause della debolezza veneziana in tale campo erano proprio nella singolare struttura di governo repubblicana,
che porta seco tanti interessi, rispetti, dispetti et altri simili particolari che danno apertura grande alli Papi di provedere a questi vescovati a sua libera dispositione, quasi dispoticamente (48).
L’intensa «caccia» ai benefici, il peso degli «interessi, rispetti, dispetti», pericolosi perché soprattutto animavano gli esponenti della classe dirigente aristocratica, garantivano al papa un notevole ruolo nell’area veneta: un’invadenza che. sembrava impossibile eliminare.
Ritornando sulle strategie beneficiarie più generali, v’erano altri motivi che finivano per favorire in ogni caso gli esponenti del patriziato. La Serenissima, per motivi di opportunità politica, voleva che fossero i suoi «gentiluomini» a reggere le sorti delle diocesi confinanti con altri stati (49), con l’eccezione però delle sedi di Adria, confinante con lo stato pontificio; di quella di Feltre, la cui giurisdizione si estendeva anche in territori arciducali e, per lo stesso motivo, di quella, per la verità meno ambita, di Pola. In queste diocesi dai confini difficili, Venezia preferiva tenere lontani dalle innumerevoli, immancabili dispute i rappresentanti del proprio patriziato (50).
Sia Roma che Venezia preferivano poi che, in presenza di chiese caratterizzate dalla presenza di capitoli combattivi (spesso a loro volta composti da canonici che erano esponenti del patriziato), il titolare del beneficio fosse un nobile veneziano. Dove invece la giurisdizione ecclesiastica si trovasse insidiata dal potere laico, era la Santa Sede che preferiva destinarvi un patrizio, il quale poteva farsi forza delle proprie aderenze nella Dominante (51).
Le norme scritte, ovviamente, non prevedevano nulla di quanto si va ora delineando. Nel caso veneziano altro non prescrivevano se non che i benefici ecclesiastici dovessero venir conferiti a patrizi, cittadini veneziani e sudditi «confidenti», ovvero a chiunque godesse della pubblica fiducia. A chi garantisse, insomma, è lecito dedurre, l’osservanza delle normative circa le «cose di Chiesa»; a chi sembrasse in grado di tenersi immune dal rischio di prestarsi alle strategie che la Santa Sede architettava contro la Serenissima.
Quanto alla normativa canonica, essa era stata recentemente definita dalla Bolla di Gregorio XIV, Onus apostolicae servitutis del 15 maggio 1591 (52) che descriveva le caratteristiche necessarie a un candidato a un vescovato: nascita da matrimonio legittimo, età minima di 30 anni, consacrazione agli ordini da almeno sei mesi prima della nomina, ecc. (53). Di fatto però, ove un candidato mancasse di una o più di queste qualità, un intervento del pontefice poteva rivelarsi determinante per risolvere il problema.
In definitiva le norme erano generiche o aggirabili e si è fatto cenno al peso di considerazioni «tattiche» nella selezione di ecclesiastici per i benefici del Dominio. Sarà quindi ora opportuno entrare con maggior dettaglio nelle costanti delle strategie veneziane e romane.
Lo stato delle relazioni tra la Repubblica e la Sede romana quanto agli argomenti che qui si trattano fu caratterizzato nel corso del secolo da tre fasi. Nei primi tre decenni del ’600 Venezia cercò di esercitare il maggior controllo possibile sui propri ecclesiastici: intervenendo sulla loro selezione con pressioni di vario genere; ostacolandone i contatti diretti con Roma, anche frenandone le carriere, ad esempio opponendosi alla nomina di cardinali veneziani (54); cercando di porli in «mala consideratione», almeno così denunciava il nunzio Zacchia nel 1623,
come hormai sotto vari pretesti si è fatto con quasi tutti i cardinali e Prelati veneziani per li fini che si hanno di tenergli bassi e levargli ogni credito acciò non possino aiutare la parte migliore (55).
A partire dagli anni ’40, per vari motivi, e, tra questi, per le gravi difficoltà in cui si venne a trovare Venezia per la guerra di Candia, si verificò invece un capovolgimento della situazione. Gli ecclesiastici divennero ora spesso protagonisti delle trattative diplomatiche tra i due stati, e di gran lunga più attivi e disinvolti nella scena venéziana per l’attenuarsi dei vincoli e controlli. Se poi fino a quel momento le autorità marciane avevano loro frapposto ogni tipo di ostacolo per limitarne i rapporti diretti con Roma, l’atteggiamento ora mutò: per sovvenire anche grazie all’azione dei connazionali presenti in Curia le necessità della Repubblica, ma anche per soddisfare le aspirazioni di molti nel patriziato. Così scriveva nel 1645 il nunzio, descrivendo, molto soddisfatto, il fenomeno con motivazioni che avrebbero potuto essere fatte proprie anche dalle autorità marciane:
Crederei che questi signori havessero gran gusto che N. Signore adoperasse li Prelati Venetiani. Gli stessi Prelati ne stanno in grandissima ansietà e desiderio e li Parenti loro vi aspirano forte e si farebbono credo più franchi nelle cose ecclesiastiche e veramente vi trovo de’ buoni Prelati e di talento che fanno il debito nelle occorrenze ancora di disgusto se bene qui si spunta più con la destrezza che coll’urtare (56).
La presenza di Veneti in Curia si fece così man mano più cospicua; si tornò ad elevare Veneziani alla porpora — ci sarebbe stato poi tra di loro addirittura un papa — e questi stessi avrebbero in taluni momenti concorso senza esclusione di colpi per acquisire meriti nei confronti della madrepatria: furono protagonisti nelle trattative che portarono alla riammissione dei Gesuiti nel Dominio veneto nel 1656-1657 e Pietro Ottoboni fu il rappresentante effettivo, sia pur senza mandato formale, della Serenissima a Roma nel 1672, per pochi mesi, e, in modo continuativo, dal 1679 al 1684 (57). Quando le lettere del cardinale e futuro pontefice venivano lette in senato, i «papalisti», ovvero coloro che avevano parenti ecclesiastici, venivano paradossalmente espulsi dall’aula (58).
Negli anni ’90 si impose una sorta di ritorno all’antica, che era peraltro in parziale sintonia con il nuovo corso «zelante» della Chiesa alla cui guida era adesso il moralizzatore Innocenzo XII. Una serie di provvedimenti tornò a colpire i «papalisti» a limitarne un ruolo che era via via divenuto imbarazzantemente ampio. Una parte del 1699 escluse i congiunti di ecclesiastici da ogni magistratura (ma non erano considerati «papalisti» i parenti di religiosi i cui benefici non eccedessero i 60 ducati di valore); consentiva la possibilità di carriera ecclesiastica a un solo esponente per gruppo familiare; minacciava provvedimenti punitivi per chi si fosse fatto religioso al solo fine di scansare gli incarichi pubblici; proibiva all’ambasciatore veneziano a Roma di raccomandare Veneti in Curia (59).
La prima fase cui si è accennato si caratterizzò tra l’altro per un pesante tentativo veneziano di condizionare le nomine di vescovi. I titolari di diocesi avrebbero dovuto nominare un coadiutore che sarebbe poi loro automaticamente succeduto: l’assistente-successore, quasi immancabilmente parente del beneficiario, avrebbe dovuto naturalmente possedere qualità gradite alle autorità pubbliche, che avrebbero con ciò visto crescere notevolmente le proprie possibilità d’intervento e di condizionamento delle nomine dei vescovi. Tal genere di manovra avrebbe potuto rivelarsi molto efficace, si constatò in segreteria di stato nell’aprile 1617, in primo luogo perché alla Repubblica sarebbe sembrato di poter «acquistare qualche ragione alla nominatione di vescovo»; il tutto avrebbe poi potuto «esser causa che i Nobili Venetiani non venghino più qua [a Roma] a pretendere». Consolava invece constatare l’opposizione al progetto della maggior parte dei nobili veneziani, «perché di questa maniera si fa[ceva]no hereditarie le Chiese in alcune famiglie» (60), anche se certo si trattava delle più influenti del patriziato.
Per far approvare in Roma tali «negozi» si era disposti ad adottare strumenti estremi, soprattutto costringere alla contemporanea rinuncia alcuni vescovi: nel 1623 venne esercitato un tentativo del genere sui titolari delle sedi di Padova, Verona, Vicenza e Brescia (61). La vigilanza in primo luogo dei nunzi impedì il buon esito delle operazioni.
Fu questo l’intervento veneziano più pesante, ma il desiderio di privare il pontefice del diritto alla designazione dei pastori della Chiesa veneta, e d’«introdurre quasi una nominatione de’ vescovi come [si faceva] dell’eletto d’Aquileia» (62), non si spense affatto, e provocò anzi, nei decenni che seguirono, numerose crisi nei rapporti tra i due stati (63). Venezia cominciò infatti a pretendere che fossero i porporati nazionali a preconizzare, ovvero a preannunciare in concistoro la nomina dei titolari di diocesi venete (64). Le grandi monarchie godevano di tale privilegio e per quanto almeno per i benefici non soggetti a giuspatronato il significato della preconizzazione fosse puramente simbolico (perché non era il preconizzante a compiere l’effettiva selezione e perché pure ci si sarebbe accontentati in Venezia che la preconizzazione venisse effettuata da cardinali magari non veneziani di nascita e però comunque ascritti al patriziato cittadino (65)), il privilegio veniva considerato dalle autorità marciane utile per recuperare quelle prerogative perdute con la Capitolazione della Repubblica al papa Giulio II nel 1510. Utile insomma per riacquisire quel diritto di giuspatronato sulla Chiesa veneta che consentiva alla Serenissima di presentare al pontefice, in occasione delle vacanze, una rosa di candidati tra cui scegliere. Che la questione delle preconizzazioni, ovvero della pretesa veneziana di influire sulla scelta dei titolari di benefici concistoriali, finisse negli anni ’40 per assumere un aspetto diplomatico ufficiale e che si spegnessero le pressioni sui singoli titolari di benefici, è significativo. Smuovere le acque nel mondo degli ecclesiastici veneti, soprattutto se veneziani, soprattutto se patrizi, poteva rivelarsi estremamente pericoloso.
Lo si potrà meglio accertare qui di seguito, rievocando talune delle costanti che ispirarono la politica ecclesiastica di San Marco e l’atteggiamento della Santa Sede verso la Chiesa veneta.
Le possibilità per la Serenissima di influire sulla nomina dei benefici concistoriali erano tanto numerose quanto, di fatto, limitate. L’ambasciatore veneziano a Roma faceva la sua parte — spesso, a quanto pare, per conto proprio, senza alcuna autorizzazione pubblica (66) — intervenendo direttamente sul pontefice o interloquendo con la segreteria di stato (in questi casi, solitamente, venivano richieste al nunzio informazioni sulle qualità dei proposti (67)). Altrettanto importante era il rapporto tra le Serenissime autorità e il nunzio a Venezia, il quale aveva tra l’altro frequente occasione di incontrare il doge in «cappella» e di sentirsi rivolgere da questi richieste diverse, spesso di raccomandazione, che sembrano in genere ispirate a interesse privato piuttosto che a quello del Pubblico. Poco adottato fu invece il sistema della sollecitazione pubblica, votata in pregadi con ampia maggioranza (dei 4/5 dei votanti). In casi estremi poteva anche rendersi utile intimidire direttamente un candidato non gradito a una vacanza (o i suoi parenti) (68).
Tutto ciò non era però sufficiente, e tra l’altro per lunghi periodi nel corso del secolo le relazioni tra la Santa Sede e la Repubblica furono interrotte o furono caratterizzate da uno stato assai prossimo a quello di crisi (69), il che rendeva spesso impossibile il solo pensare di poter praticare i canali tradizionali.
Il vero strumento con cui Venezia tentò di contrastare e limitare le straripanti prerogative romane in materia di collazioni beneficiarie fu quindi quello di ricorrere ad una serie di provvedimenti normativi incentrati sul tema dei «possessi ecclesiastici».
Era stato per la prima volta nel 1450 che una parte del pregadi aveva introdotto l’obbligo, per chi avesse ottenuto un beneficio, di richiedere alle pubbliche autorità il riconoscimento temporale del possesso del medesimo. Era insomma necessaria l’autorizzazione dello stato perché un beneficiato potesse godere dei redditi annessi a un beneficio. A metà ’600 il consultore Francesco Emo scriveva che questo era
atto necessarissimo [...], perché nega[ndo] [al] Prencipe il dovuto ossequio, partorisce contraventione delle pubbliche deliberationi, sprezzo dei decreti et parti et ordini [del] Senato, introdutione d’esteri ad esclusione de’ nativi [...] et altre perniciose contaminationi (70).
In virtù di quest’imposizione, che Roma considerava del tutto impropria e abusiva, Venezia riusciva ad influire con più efficacia sulle collazioni; garantiva la giurisdizione dei propri tribunali per quel che riguardava le implicazioni temporali dei benefici; incassava denaro perché la concessione della lettera di possesso comportava il pagamento di una somma equivalente al 12% del valore del beneficio (71).
Con la Capitolazione imposta alla Repubblica da Giulio II nel 1510, la contestatissima parte fu annullata; una nuova deliberazione del pregadi provvide però a rinnovarla solo qualche tempo dopo, nel 1534. La parte fu confermata nel 1581 e ancora ampliata dal senato nel 1624 e nel 1625. Nell’ottobre 1624 quello stesso consiglio nominò Fulgenzio Micanzio deputato alla revisione delle bolle dei benefici, attribuendogli possibilità di indagine estesissime (tra cui quella di accertare se il beneficiato fosse stato costretto ad operazioni illegittime pur di ottenere la collazione); nel giugno 1625 sempre lo stesso consiglio accordò sei mesi di tempo ai beneficiati di Terraferma e un anno a quelli del Dominio da mar per porsi in regola con le richieste di possesso temporale. Chi non si fosse adattato all’imposizione si sarebbe visto sequestrare immediatamente le rendite. Veniva anche disposto il rifacimento dei «catastici» ecclesiastici (72).
L’evasione dall’obbligo era estesa, ma il problema non riguardava i benefici maggiori, quanto la pletora dei minori, che assicuravano ai titolari redditi spesso così scarsi da non poter coprire neppure le spese per i balzelli di concessione. Non era però certo per un problema di reperimento di entrate che Venezia aspirava al controllo. L’interesse era tutto politico, e con lo strumento della pubblica autorizzazione al possesso temporale la Repubblica si riservava ampie possibilità di intervenire sulla materia beneficiaria, di esercitare pressioni su Roma, di influire effettivamente sulla selezione dei candidati.
Basterà citare solo i casi più clamorosi verificatisi nel corso del secolo per comprendere quanto tale posizione si rivelasse efficace. Nel 1629 la Repubblica non riconobbe il possesso del vescovato di Padova al cardinale Federico Cornaro, figlio del doge Giovanni, ritenendosi del tutto inopportuno — era la posizione di Nicolò Contarini e di Ranier Zeno — che tanti onori venissero cumulati a beneficio di una sola famiglia (73). Cornaro, che non poté mai recarsi a Padova (74), sarebbe stato costretto a rinunciare nel 1632 a quel beneficio (che era intanto rimasto abbandonato) in favore del fratello, accettando in cambio il patriarcato veneziano. Ancora, alla fine degli anni ’70, vennero a lungo respinte le richieste di possesso temporale presentate da Marco Antonio Zollio per la diocesi di Crema e da Stefano Cosmi per quella di Spalato. Nel primo caso valsero soprattutto motivazioni politiche: Zollio veniva accusato di essere di «genio spagnolo» e di aver vissuto esperienze gesuitiche; in quello di Cosmi, veniva contestata in primo luogo la bolla di provvisione pontificia che riservava una pensione su quella mensa con una non gradita formula generica che sembrava pregiudicare qualsiasi possibilità veneziana di controllo (75). Solo nel 1682 venne votato il possesso per Cosmi — dopo che il pontefice aveva concesso la contestata pensione allo stesso vescovo di Spalato — e addirittura solo nel 1684 venne votato quello per Zollio, che dopo tre lustri di attesa poteva finalmente raggiungere la propria diocesi. Era però stato di qualche utilità per Venezia, nel quadro di relazioni diplomatiche non agevoli con un pontefice spigoloso come Innocenzo XI, trascinare nel tempo la risoluzione di questi due casi (76). In altri momenti Venezia sospese invece la votazione dei possessi in modo generalizzato e per periodi anche lunghi: a cavallo degli anni ’40 e poi tra il 1647 e il 1653. Agli inizi degli anni ’80, e proprio per favorire la votazione del possesso a beneficio di Cosmi e Zollio, fu invece papa Innocenzo XI a bloccare la provvisione delle chiese venete.
Ma la questione dei possessi ecclesiastici non si limitava ai benefici. Anzi, si rivelarono soprattutto insidiose per Roma le norme che Venezia aveva imposto in materia di pensioni. Citando ancora Francesco Emo,
dall’Eccellentissimo Senato l’anno 1627, 26 luglio, et sei ottobre, et anno 1629, 25 maggio, e l’anno 1632, 19 giugno, et 16 dicembre dell’anno 1641 fu deliberato et comandato che anco delle pensioni si prendessero li possessi et perché questa deliberatione havesse effetto fu ordinato che li beneficiati non pagassero pensioni a chi si sia se non mostravano prima le ducali di possesso (77).
Le parti riguardanti il possesso temporale anche per quel che riguardava le pensioni toccavano uno degli istituti più complessi e contestati dell’intera materia beneficiaria. Il pontefice, o chi in virtù di un indulto o di un altro tipo di privilegio disponesse di tale prerogativa, poteva riservare in favore di chi volesse una quota della rendita di un beneficio ecclesiastico. Ciò senza comportare alcun obbligo per il pensionario, mentre nei benefici ordinari, occorre ricordare, la rendita era comunque legata a un ufficio sacro. La delicata questione delle pensioni — che provocava continuo scandalo — era stata naturalmente discussa durante il concilio di Trento, dove fu prudentemente stabilito che ai vescovi dovesse essere lasciata almeno una «congrua» di 1.000 scudi e ai titolari di parrocchiali dovessero venir riservati 100 scudi: su una mensa vescovile che garantisse 5.000 scudi di rendita, potevano insomma venir posti 4.000 scudi di pensione. Il pontefice, perché era lui il principale dispensatore delle pensioni ecclesiastiche, che erano cumulabili e che finivano per una buona parte ad alimentare i guadagni di personalità curiali, intese perciò mantenere ampia libertà d’azione in materia, ma i titolari di benefici su cui gravavano pensioni pativano moltissimo tale situazione.
Ciò per diversi motivi cui almeno varrà la pena d’accennare. Il primo e il più importante era legato al decisivo problema di stabilire il valore di un beneficio e quindi calcolare la quota della rendita da attribuire al pensionario.
Il valore di un beneficio concistoriale veniva accertato in Roma in occasione di ogni vacanza del medesimo interpellando alcuni testimoni reperibili in Curia in occasione del processo concistoriale. Mancando questi ultimi si reperivano notizie in altro modo, richiedendole al nunzio o ricorrendo alle fonti comunque disponibili. L’istruttoria poteva insomma non essere accuratissima, ma di fatto tali inchieste potevano anche risultare viziate dalle convenienze degli attori del processo. Un vescovo che volesse rassegnare il proprio vescovato, riservando a proprio vantaggio — e la pratica non era infrequente — una pensione sulla mensa vescovile, aveva tutto l’interesse a denunciare il valore più elevato possibile del beneficio: sarebbe con ciò riuscito a trovare con maggior comodità il successore e la Santa Sede o la Repubblica non avrebbero potuto porre eccezioni a una richiesta anche elevata di pensione. Ma, ancora, un titolare di un beneficio «povero», che aspirasse al trasferimento ad uno più ricco, poteva trovare un vantaggio nell’esagerare la povertà della propria rendita. Riuscire a dimostrarla più esigua poteva poi garantire minori spese per le tasse di concessione, oppure elargizioni più contenute al momento del pagamento di uno dei tanti sussidi straordinari che Roma concesse a partire dalla metà del secolo alla Repubblica per sovvenirla nella lotta contro il Turco (78).
Al di là di questi «trucchi», la rendita di un beneficio, che era poi essenzialmente una rendita agricola, dipendeva poi da altri fattori: dalla qualità dei terreni, dal rispetto degli accordi da parte degli affittuari e dalla loro puntualità nei pagamenti, dall’andamento della stagione o dal livello dei prezzi dei prodotti agricoli, dal peso fiscale ordinario e straordinario, dall’andamento delle liti giudiziarie eventualmente in corso, dalle piogge e inondazioni o dalla siccità, ecc. (79).
Il valore di un beneficio — e la constatazione non è solo valida per l’area veneta — era insomma calcolabile solo con notevole approssimazione e le conseguenze di ciò, soprattutto nel campo della concessione di pensioni ecclesiastiche, erano molto rilevanti. Poiché poi non v’era in pratica beneficio veneto che non ne fosse gravato, la principale conseguenza era una straordinaria attività dei tribunali della Repubblica. Il titolare di un beneficio soggetto a pensione e che non intendesse pagarla, poteva, ricorrendo al giudizio «secolare» con un qualsiasi pretesto, almeno differirne il pagamento; il titolare di una pensione che non riuscisse a riscuoterla poteva cercare di rivalersi solo per quella via. Ne risultava, affermavano sconsolati molti titolari di pensioni, che queste, nel Dominio veneto, non venivano in sostanza mai pagate da chi avrebbe dovuto farlo. Con la concessione del possesso temporale anche per quel che riguardava le pensioni, i tribunali veneziani potevano appunto arrogarsi il diritto di divenire i giudici naturali in materia (80).
La Santa Sede contestava la pretesa sostenendone l’assoluta improprietà: le pensioni ecclesiastiche erano «riserve senza titolo alcuno [a differenza dei benefici] e se ne prende[va] il possesso con la sola esazione» (81). Dopo la pubblicazione della parte sui possessi e dopo i primi numerosi ricorsi al foro laico (82), il nunzio fu incaricato di convincere i vescovi veneti a rivolgersi piuttosto ai tribunali curiali: le posizioni di ognuno, doveva assicurare agli interessati, sarebbero state ascoltate con estrema attenzione, e questi sarebbero stati informati della sentenza prima che si procedesse alla sua esecuzione «e non sarà da reputarsi poca l’agevolezza che riceveranno con questo temperamento» (83).
Roma aveva però ben altri e più insidiosi strumenti per farsi valere in questo campo. Il principale era quello che autorizzava in sostanza la vendita vera e propria del beneficio. Il titolare poteva rinunciarvi in favore di qualcuno concordando pubblicamente una pensione. In un altro accordo, privato, veniva invece stabilito il pagamento anticipato di alcune rate («annate») della pensione e, attraverso ciò, l’estinzione di ogni obbligo. Francesco Emo rivela l’esistenza di vere e proprie tabelle che definivano tal genere di negozi. La normalità prevedeva il pagamento anticipato di sette «annate», se però il rinunziante fosse stato in età avanzata le «annate» potevano scendere a cinque o sei, se giovane anche crescere a dieci (84). Un tal genere di accordo poteva come si è visto essere parzialmente pubblico o anche del tutto segreto: pagando infatti anticipatamente le «annate» prima del pratico trasferimento la pensione era come se non fosse mai esistita.
Altro «illegittimo» trattato che poteva combinarsi ad insaputa delle autorità venete era quello che obbligava il titolare di un beneficio su cui gravassero pensioni ad investire in Roma in «cedole bancarie» o «luoghi di monte» somme tali da garantire una rendita annuale corrispondente al valore della pensione. Il negozio assicurava la massima tranquillità al pensionario che doveva solo preoccuparsi di far collazionare il beneficio, cui era legata la sua rendita, ad un soggetto dotato della liquidità sufficiente a consentirgli l’investimento iniziale. Per tal genere di pensioni non c’era alcuna necessità di dover chiedere il possesso a Venezia e anzi solo l’esigenza assoluta di tenere segreto il «negozio» in quella città. Tal genere di combinazione, va specificato, era anche conseguenza di una tendenza affermatasi man mano tra gli aspiranti a benefici ecclesiastici che promettevano a personaggi di Curia, in cambio della collazione del titolo, il pagamento di pensioni esorbitanti che non erano poi naturalmente in grado di pagare. Con il sistema del deposito il rischio era perciò annullato (85).
Una parte dell’ottobre 1624 cercò di proibire tali «negozi», che provocavano tra l’altro ingenti fuoriuscite di capitali dallo stato, ma è evidente che questo genere di accordi non poteva essere impedito da alcuna volontà normativa veneziana. I tribunali laici potevano tornare in gioco solo nel caso che qualcuno, pentitosi di aver accettato un patto troppo oneroso, decidesse di infrangerlo rivelandolo alle pubbliche autorità.
Se pure Roma poteva contestare le richieste dei possessi per benefici e pensioni o il ricorso in tali materie da parte degli ecclesiastici ai tribunali veneziani, pure il frutto dei controlli veneziani si rivelava non soddisfacente: per Francesco Emo, nella citata scrittura, non erano più di centoquaranta i possessi temporali di benefici che venivano chiesti ogni anno, e non più di ventisei i possessi per le pensioni, «il qual numero è molto tenue nell’uno et nell’altro [...] essendovi migliara de beneficii nel Serenissimo Dominio et conferendosi [...] la maggior parte de beneficii con risserva de pensione» (86).
Di fatto, tra le differenti normative veneziane o romane, tra tutte le possibilità più o meno legittime di aggirarle, quello che si andava determinando era soprattutto un incoraggiamento alle iniziative personali dei singoli ecclesiastici e il conseguente allargamento della sfera dell’illegittimità. Si è detto della difficoltà di controllo da parte delle autorità veneziane, evidenziata anche dalla continua produzione normativa in materia ecclesiastica, ma si consideri ad esempio anche, dall’altra parte, l’invito rivolto al nunzio dalla segreteria di stato nel 1649 perché accertasse le dimensioni assunte dal fenomeno dei vescovi che «senza alcun beneplacito apostolico» riservavano e poi estinguevano le pensioni ecclesiastiche. Lo stesso rappresentante pontificio aveva del resto generato l’allarme sostenendo che tale pratica sembrava «generale in tutti li vescovi» (87). Roma stessa poteva quindi rimanere vittima di quelle pratiche che mettevano in difficoltà le autorità veneziane.
L’aver presentato fin qui le più importanti determinazioni veneziane in materia ecclesiastica consente un’approssimazione più favorevole di quel concetto di «confidenza» che era formalmente, come si è visto, l’unico criterio che regolava ufficialmente in area veneta la selezione di uomini di Chiesa. Confidenti erano anzitutto coloro che davano garanzia di potersi sempre attenere agli obblighi previsti dalle leggi venete. Ma se la richiesta di possessi di benefici e pensioni fu lo strumento principale e costante della politica ecclesiastica veneziana, altro tipo di pressioni, come si è detto, poté essere esercitato in diversi momenti in risposta a particolari esigenze politiche.
Anche Roma si dimostrò cauta nel trattare col corpo ecclesiastico veneziano, ma la sua posizione era di gran lunga più agevole. La contestata Capitolazione del 1510 aveva assicurato il riconoscimento delle maggiori prerogative pontificie su un piano formale oltre che sostanziale, soprattutto per quel che riguardava la spartizione delle ricchezze della Chiesa veneta. Era sulla scena romana, in virtù delle informazioni che provenivano dai nunzi, o sulla base delle richieste che direttamente venivano presentate da candidati a vacanze, che veniva decisa ogni cosa, e le autorità veneziane erano costrette ad un quotidiano sforzo per reperire informazioni che potessero comunque garantire un controllo. Nel giugno 1602 in Venezia ci si avvide che il vescovo di Bergamo aveva rinunciato il proprio vescovato nelle mani del pontefice, senza premurarsi di avvertire la pubblica autorità: la reazione era stata durissima, e ora il nunzio temeva per l’incolumità di quell’uomo, «poiché ha[veva] mancato poco che per questa sua inavertenza la Chiesa [fosse] stata conferita senza partecipatione della Repubblica» (88).
Il rischio più notevole, per la Sede romana, lo si è già sottolineato, era quello di reclutare ecclesiastici mediocri o indisciplinati, che era poi impossibile colpire perché patrizi, oppure di rimanere a propria volta vittima di quello spirito utilitaristico che aveva ispirato le selezioni: le delusioni subite per il mutato atteggiamento di un beneficiato furono frequenti (89).
Ad un titolare di beneficio Roma chiedeva, al di là di quanto prescritto nelle menzionate Bolle pontificie, qualità particolari e non di poco conto che la corrispondenza tra la segreteria di stato e la nunziatura veneziana consente bene di accertare. Le qualità spirituali potevano non essere sufficienti: occorreva anche disporre delle doti necessarie per amministrare correttamente il beneficio ricevuto. Il vescovo di Brescia Marco Morosini, scrisse il nunzio nel 1654, più «dedito al spirituale che al temporale», aveva fatto crollare di un quarto le rendite della mensa vescovile (90). Alla morte di Agostino Premoli nel 1692 si cercò un successore «che rimedi[asse] alla non molta attenzione con cui [era stato] governato» il suo vescovato di Concordia: «aggravato da’ debiti e pulsato da’ suoi creditori» il vescovo aveva finito col rendersi, da anni, «quasi irreperibile» (91).
Il possesso di attitudini amministrative era certo requisito non di poco conto, perché un beneficiario capace di assicurare una buona gestione del bene affidatogli avrebbe garantito il pagamento delle pensioni; evitato le liti legali (che inevitabilmente o quasi, in Veneto, finivano per essere discusse dal foro laico); e per di più non avrebbe presentato richieste di nuovi benefici, uffici, pensioni per rendere più cospicua una rendita esigua se gestita diversamente. Gli eccessi in tal senso potevano però rivelarsi pericolosi: Nicolò Giorgi, che si candidò per qualche vacanza nel 1634, che pure era buon teologo e «letterato», fu infine scartato perché stimato troppo attaccato alla «robba» (92).
A tali doti di tipo «pratico», gli ecclesiastici dovevano unire quelle politiche. Non dovevano mai mostrarsi troppo rispettosi della parte romana o troppo rigidi nel difenderne le prerogative, facendo ciò si sarebbe inevitabilmente rischiato «di svegliar de’ rumori» (93). I nunzi cercavano così di individuare persone in grado di resistere alla tentazione d’impegnarsi in «accidenti da far crescere i timori di qualche scandalo» (94): «qui ci è bisogno di maggior destrezza e prudenza che di zelo» (95). Soprattutto i vescovi non dovevano perciò mai rischiare di originare contrasti giurisdizionali: non abdicando certamente alle loro funzioni, ma cercando piuttosto di anticipare le mosse delle pubbliche autorità. Dovevano seguire costantemente le faccende della loro Chiesa, «intender[e] gli errori degli ecclesiastici sudditi loro» per correggerli subito, cercare di iniziare le cause «prevenendo li Giudici secolari et anco tenersi amici li rettori delle Città cercando nel principio di esse cause haverne la rimessione» (96).
Occorreva essere dunque più prudenti che zelanti: quando si scendeva sullo stesso piano delle autorità veneziane si poteva solo essere sicuri di provocare un «abisso di disordini» (97). Il mandato non era certo di facile interpretazione.
Ai titolari di benefici maggiori Roma richiedeva il possesso d’altre qualità esteriori. Era necessario disporre d’integrità fisica; essere il più possibile di «bella presenza» o essere comunque capaci di presentarsi «con decenza» (98); andava accertato se un candidato non fosse accompagnato da dicerie negative o fosse, ad esempio, soprannominato con nomignoli in qualche modo offensivi (tutti i nobili veneziani, diceva però un nunzio, avevano soprannomi ridicoli) (99).
In occasione di qualsiasi vacanza di beneficio gli animi di moltissimi si infiammavano. I nunzi, sottoposti a pressioni d’ogni genere, «chi per le Chiese, chi per le pensioni» (100), compilavano con difficoltà gli elenchi degli aspiranti, che pure spesso si valevano di iniziative condotte direttamente in Curia in genere all’insaputa dell’ambasciatore veneziano. Non si muovevano solo coloro che non erano provvisti di alcun ufficio o di nessuna rendita: il vescovo di Crema Alberto Badoer concorse in poco più di venti anni ad almeno undici vacanze di vescovati ed innumerevoli volte gareggiò per ottenere benefici minori (101). I benefici poi si cumulavano (non i vescovati, ovviamente, perlomeno dopo Trento): nel solo Veronese, ad esempio, l’abate Vincenzo Molino ne lasciò alla sua morte ventotto, ma questi parevano rendere solo 60 scudi di Roma (1 scudo equivaleva a 1 ducato e mezzo veneziano) (102).
L’intensità delle competizioni stupiva i nunzi: quando nel 1629 morì il cardinal Pietro Valier, restarono tra l’altro liberi il beneficio di San Fidenzo, nel Padovano, e una badia a Zara del valore di 500 ducati. Poca cosa, commentava il rappresentante del papa, che notava altresì come «si muove[sse] nondimeno ogniuno come se vi fosse una gran vacanza». Impegnati in quel particolare «broglio» erano Sebastiano Pisani (103); un nipote del Procuratore Erizzo; Vittore Cappello (104) e il fratello di questi Giovanni, al momento bailo a Costantinopoli; Luigi Marcello (105). Non solo, si dimostravano anche molto attivi i parenti di Monsignor Marc’Antonio Bragadin, allora governatore di Sabina, e Giovan Francesco Labia, per sostenere i suoi figli (106).
Sul conto di quest’ultimo vale la pena soffermarsi un po’. Le sue disponibilità economiche erano notevolissime e a tutto il Labia si dimostrò disposto pur di avviare qualcuno dei suoi otto eredi maschi nella carriera ecclesiastica. Nel 1628, il nunzio comunicò in segreteria di stato di aver ricevuto
Francesco Labia, [...] principal cittadino e mercante de’ più facoltosi che siano in Venetia e stimato ancora come persona honorata e di buona legge. Egli vorrebbe mandar due figlioli a cotesta Corte [di Roma] per imparare, per tirarne uno innanzi alla Prelatura, e per comperarli un chiericato di Camera. E sebbene non passano l’età di dodici o tredici anni abbracciarebbe ogni opportunità di porre in testa di uno di loro alcun titolo, e però mi ha significato che se N. Signore volesse fargli gratia di uno de’ due vacanti per morte di Mons. Grimani si contentarebbe del titolo solo e pagherebbe di pensione quanto se ne cavasse con assicurar il pensionario in Roma con tanti frutti di luoghi di monte che non si potessero vendere durante la vita dell’istesso pensionario e però la presuppone per la più sicura pensione che si potesse havere (107).
Le iniziative di Giovan Francesco Labia provocavano l’invidia e la gelosia dei tanti altri che concorrevano a benefici ecclesiastici nello stato veneto o ad uffici curiali: dalla nota del nunzio, par di capire, il capofamiglia sembrava addirittura disposto ad investire su due figli per selezionarne alla fine solo uno.
La partenza da Venezia dei Labia fu rimandata dallo scatenarsi di un’epidemia di peste, ma nel 1632 ad arrivare in Roma furono non solo Paolo Antonio e Giovan Battista, come era stato previsto, ma anche un terzo loro fratello, Carlo. Nel 1636 Paolo Antonio fu in grado di acquistare il notevole ufficio di chierico di camera e Giovan Battista fu tempo dopo presidente della camera apostolica; Carlo entrò invece nei Teatini (108). Quanto la famiglia impiegò per favorire la carriera dei primi due solo per quanto riguarda l’acquisto di uffici può essere stimato in più di 80.000 scudi romani. I Labia furono poi i primi ad aggregarsi al patriziato veneziano nel 1646 e il capofamiglia Giovan Francesco, nell’occasione, pensò di sottrarre Paolo Antonio alla carriera ecclesiastica per accasarlo. Questi però, dopo aver superato forti dubbi, decise di far ritorno in Curia (109), ove nel 1649 morì, all’improvviso, nel sospetto d’essere stato avvelenato. Il padre covava ancora per lui il progetto di matrimonio (110).
Nessun altro in Venezia poté contare su analoghe risorse. Non Pietro Ottoboni, che costruì la propria carriera concordandone a lungo ogni momento con il padre e i tre fratelli, e che solo poteva contare su una sovvenzione annua da parte della famiglia di 1.000 ducati che considerava peraltro largamente insufficiente ai propri scopi di avanzamento in Curia (111). Non Girolamo Priuli, che fu auditore di rota dal 1652 al 1674 e che lamentava di essere il solo, tra tutti i curiali, a non disporre di un «competente assegnamento annuo dalla sua casa». Addirittura anzi il padre Alvise, amministratore delle rendite beneficiarie di Girolamo, tratteneva per se stesso ogni sua entrata. Quei benefici, diceva Priuli, erano stati acquistati «con le sue fatiche e sudori nel corso di anni vintitré ch[era] stato alla Corte di Roma non havendo havuto per rinoncia né con il mezzo de’ Parentadi o matrimoni cosa alcuna. [A causa di ciò aveva potuto provare] che cosa [era] stentare et haver bisogno» (112).
Un caso, quest’ultimo, del tutto singolare. I clans familiari erano invece sistematicamente soliti applicarsi nel favorire le carriere ecclesiastiche dei loro congiunti: promuovendo «brogli», architettando alleanze anche basate sull’acquisizione di parentadi. Le carriere ecclesiastiche, soprattutto all’interno del patriziato, venivano di norma progettate all’insegna di strategie razionali e gestite con vero e proprio spirito d’«impresa»: indirizzate, finanziate e favorite in ogni modo e pure bloccate o deviate su altri obbiettivi, se necessario, nell’interesse della casa. Tutto ciò che era poi uscito dalle casse familiari per sovvenzionare il parente ecclesiastico — denaro, arredi, abbigliamento, ecc. — veniva iscritto nei registri contabili della «fraterna» e rinfacciato nel caso l’interessato dimostrasse una qualsiasi volontà di rendersi autonomo dal clan (113).
Le maggiori prerogative di cui godevano i membri della classe dirigente cittadina in quel genere di cammino favorivano il desiderio di cimentarsi in questi «investimenti», tanto più nel corso del XVII secolo quando, anche causa la guerra, la situazione economica si fece critica e i tradizionali campi di iniziativa riservati al patriziato risultarono sempre più angusti o del tutto impraticabili. Il numero di ecclesiastici patrizi andò allora aumentando sensibilmente per l’interesse via via maggiore dei membri dell’aristocrazia a ricercare rendite alternative. Il patrimonio beneficiario non indifferente della Chiesa veneta lo consentiva permettendo pure di conseguire altri effetti positivi. Da un buon beneficio non era solo possibile trarre una rendita, talvolta cospicua, ma anche, grazie ad esso, era dato modo di sovvenzionare qualcun altro del gruppo familiare oppure di alimentare una clientela. Se quel beneficio fosse stato mal gestito, a farne le spese sarebbe stata soprattutto la proprietà ecclesiastica, e quindi il successore nel titolo o, ancora, un pensionario che non avrebbe potuto riscuotere il dovuto; non ne avrebbe certo sofferto il patrimonio familiare. V’era insomma solo da guadagnare: le possibilità di insuccesso dopo la nomina erano praticamente inesistenti; nel caso, avrebbero coinvolto il solo titolare del beneficio.
A riprova di quanto ora detto è il singolare, frequente, atteggiamento di molti esponenti del patriziato che, o come reazione a qualche dissidio familiare, o perché delusi da una candidatura sfumata o spossati da gravose e magari dispendiose esperienze di servizio pubblico, o per altro ancora, prendevano a proporsi in occasioni di vacanze, dichiarandosi alla ricerca di «tranquillità» o di «quiete». Basterà citare Giorgio Emo, che divenne pastore di Corfù nel 1688 dopo essere stato per lungo tempo in quella stessa isola commissario pagatore dell’armata veneziana: incarico questo di cui si era stancato, dopo averne già sostenuti tanti altri, molto impegnativi, al servizio della Serenissima (114). Prendere gli ordini sacri e ottenere un beneficio poteva garantire il «quieto» riposo dopo una carriera operosa; vivere di Chiesa poteva rivelarsi poi molto più piacevole che vivere di patrimoni assoggettati alle rigide regole della «fraterna» (115).
In questo senso il percorso ecclesiastico poteva rivelarsi effettivamente «tranquillo» e «quieto»: il ricorso che se ne fece in questi anni, in misura molto più significativa che nel passato, costituisce un segnale evidente della crisi in corso nella classe dirigente della Serenissima Repubblica. Testimonia un desiderio di riflusso, di disimpegno, caratterizzato da una singolare vocazione all’opportunismo, che motivava buona parte delle diffidenze, di cui si è detto all’inizio, che verso il corpo degli ecclesiastici veneziani nutrivano sia i nunzi che i consultori in jure. Opportunismo che si realizzava nella sua forma più compiuta quando quegli ecclesiastici riuscivano a tenersi sulla linea di confine tra le pretese di due stati di natura senz’altro invadente, uno dei quali reclamava giurisdizione pure nelle cose di Chiesa e l’altro, la Santa Sede, si rivelava capace, grazie agli strumenti di cui disponeva, di invadere anche la sfera civile e sociale, oltre a quella politica e istituzionale, del concorrente. Riuscendo a districarsi tra gli obblighi connessi al duplice impegno di fedeltà — al doge e al papa — e dimostrando soprattutto di saper governare a proprio vantaggio le inevitabili oscillazioni tra l’uno e l’altro, era possibile in determinate congiunture conseguire vantaggi cospicui (o solo in apparenza tali, come poco più sotto si vedrà), anche in una scena dominata dalla competizione tra quei due stati e in certo qual modo proprio grazie ad essa.
Si prenda il caso del frequente ricorso di ecclesiastici al foro laico. Era uno dei maggiori «pregiudizi» alla giurisdizione ecclesiastica, denunciavano i rappresentanti diplomatici del papa:
sapendo essi di essere accolti et ascoltati volentieri et in questi tempi più che in altri, li frati e preti puoco buoni hanno preso maggiormente ardire per l’alienatione manifesta di questi Signori alle cose di Roma,
scriveva il nunzio nel 632 (116). Il fenomeno era diffusissimo (nel 1635 il nunzio Vitelli commentava: «così la poca conscienza de’ nostri ci fa grazia» (117)) e così grave per Roma che, presentando la nota dei candidati alla vacanza di Padova nel 1636, il nunzio disse di Luca Stella, che fu poi provvisto di quel titolo, che era ecclesiastico diligente e amato, «più d’ogni altro prattico nel maneggio del governo ecclesiastico [...] e puntualmente ha pagate le pensioni sempre». Nella stessa nota informativa presentava l’esempio, invece a rischio, di Marco Giustiniani, vescovo di Verona, il quale, pur essendosi spesso dimostrato renitente al pagamento di pensioni, aveva tuttavia evitato di ricorrere in collegio, come aveva fatto al contrario il fratello Vincenzo, vescovo di Brescia (118).
A partire dagli anni ’30, i nunzi cercarono di prevedere sempre più, rimanendo però poi spesso delusi, tal genere di qualità: sempre Luca Stella, nel 1641, contestò la collazione che il pontefice aveva fatto di un beneficio in Padovana a favore di Pietro Ottoboni. Quello stesso titolo lui aveva già conferito a un suo segretario e per vedersi riconosciute le proprie ragioni portò la causa in collegio (119). Per il nunzio sembrava proprio che non vi fosse rimedio per convincere almeno i titolari di diocesi a resistere alla facile tentazione: «a pena eletti i Vescovi si sente che ricusino di voler pagare con ricorsi al foro secolare con segno ancora di grandissima ingratitudine» (120). Tutto era peraltro disposto in Venezia per favorire tali ricorsi:
Il negotio dell’Immunità Ecclesiastica qui è punto durissimo e se ne sono impossessati in maniera che non se ne fanno scrupolo alcuno e praticano l’autorità con gli Ecclesiastici indifferentemente come co’ laici. E perché l’audienza di Collegio particolare è aperta continuamente radunandosi ogni matina dalla Domenica in poi, ancora gli stessi Ecclesiastici vi concorrono volentieri, massime se hanno l’appoggio di qualche Senatore, che ordinariamente tutti l’hanno o immediatamente o per mezzo d’altri [...]. Si suoi dire: alle Porte del Collegio vi sono più frati e preti che secolari (121).
Venezia favoriva dunque le chiamate in giudizio presso i propri tribunali per le cause ecclesiastiche, ma se ciò infastidiva Roma oltre ogni modo e consentiva alla Repubblica di rivendicare in forma significativa la propria sovranità, questo finì anche per creare una situazione paradossale. Il continuo ricorso alla lite giudiziaria intasò infatti i tribunali: «l’andar al giudizio ecclesiastico nel stato della Republica è un eternar le cause con sicurezza certa di non vedervi mai il fine» (122), e proprio questo portò ad incrementare ulteriormente il fenomeno. Le sentenze del foro secolare erano infatti equilibrate, o perlomeno non ispirate ad uno spirito «antiromano», e non necessariamente favorevoli ai ricorrenti, ma erano da un lato più lente rispetto a quelle che era in grado di produrre il tribunale della nunziatura, e dall’altro l’esistenza di un foro alternativo a quello ecclesiastico offriva la possibilità di ricorrere a questa o a quell’altra autorità pur di prolungare la lite.
«Si litiga molte volte non per sottrarsi da’ pagamenti ma per prolungarli», scrisse Angelo Correr nel 1671 (123), ed è immediato cogliere, su queste basi, come gli stessi vantaggi che gli attori delle liti riuscivano a conseguire in una situazione di caos dovessero essere inevitabilmente controbilanciati da effetti negativi. Nel Dominio veneto divenne sempre più difficile — qualcuno diceva allora che era anzi impossibile — riscuotere le pensioni ecclesiastiche; e sempre più complessi divennero tra l’altro i rapporti tra titolari e affittuari dei benefici. Al foro laico finiva con l’essere presentata ogni genere di causa: quelle relative a contestate collazioni beneficiarie (124), o, addirittura, il mancato pagamento a Roma da parte di un vescovo designato delle bolle di provvisione del suo beneficio. Quest’ultimo caso riguardò il titolare di Feltre Simone Difnico, la cui inadempienza, denunciata dal capitolo della Cattedrale che presentò la denuncia alla pubblica autorità, fu scoperta nel 1653, a distanza di cinque anni dalla designazione a quel titolo (125).
La frequenza con cui si ricorreva al foro secolare e gli inconvenienti che ne derivavano spinsero peraltro molti in Venezia a studiare rimedi. Per Gasparo Lonigo andavano soprattutto frenati i ricorsi riguardanti le pensioni. Era vero che in molti casi esse si rivelavano intollerabili perché troppo cospicue, ma era anche indubitabile che i titolari di un beneficio, al momento di accettarne la collazione, avevano approvato anche ogni onere connesso al titolo che ricevevano. Chi accettava perciò benefici su cui gravavano pensioni, non avrebbe dovuto far altro che pagarle, oppure rinunciare il titolo. Lonigo identificava tre requisiti minimi necessari per rivolgersi al foro secolare: non aver acconsentito alle pensioni nel momento della collazione del beneficio; non disporre di almeno 100 ducati «liberi», nel caso di benefici con cura d’anime; non disporre di una rendita pari alla quarta o quinta parte del valore del titolo nei benefici sine cura (126).
La pratica. di ricorrere al foro laico non si interruppe mai, e i nunzi vennero però sempre invitati a combatterla quando se ne presentasse l’occasione. Continui, si scriveva al nunzio Cesi nel 1645,
colla medesima dolcezza e soavità che ha mostrata, che se bene vedesse di non far quel frutto che V.S. vorrebbe, non lasci già mai né per questo né per altro motivo di tornare a parlare perché quello che non si fa in cento volte può esser che si facci in cento e una.
In qualche caso, però, era difficile conservare la freddezza necessaria. Fu tanta la foga che il nunzio nel 1648 adoperò per sostenere che «sarebbe una cosa mostruosa e inaudita che il foro secolare volesse entrare in questa materia» — un dissidio insorto tra il patriarca di Aquileia e il suo capitolo — che «essagerai con tanto vigore questo punto che il Doge mi pregò a volermi quietare» (127).
Malgrado ciò Venezia non accettò però mai che le cause riguardanti le «cose di Chiesa» fossero ricondotte «a quei fori che da Christo Signore nostro furono assegnati» (128). Punto fermo in una materia delicatissima quale quella relativa alle «cose» ecclesiastiche, dove la sovrabbondanza di motivazioni, pubbliche e private, generava tante opinioni quanti erano i membri della classe politica veneziana.
La figura del titolare del patriarcato cittadino è una delle più significative e complesse della scena ecclesiastica veneziana. Il beneficio era giuspatronato della Repubblica: le autorità marciane conservavano perciò il diritto di presentare al pontefice un elenco di candidati ufficiali votato dal senato. Costoro erano il più delle volte dei patrizi che avevano svolto importanti servizi pubblici prima di aspirare a quel prestigioso titolo: tra i nominati al patriarcato si ritrova così Matteo Zane, eletto nel 1600, che aveva servito a lungo lo stato; Francesco Vendramin, che resse il titolo dal 1605 fino al 1618, al quale fu addirittura necessaria una speciale dispensa papale prima della consacrazione perché aveva sanzionato condanne a morte quando aveva fatto parte del consiglio dei X (129); ancora, Luigi Sagredo (1678-1688), che era stato — tra l’altro — ambasciatore nelle principali corti europee. Già ecclesiastici al momento della candidatura erano invece Giovanni Tiepolo (1619-1631) che era primicerio di San Marco; il cardinale Federico Cornaro, che fu l’unico decisamente di parte «papalista», ma la sua nomina ebbe motivazioni così particolari da costituire piuttosto un’eccezione alla regola; Giovan Francesco Morosini (1644-1678), che era stato cameriere d’onore del papa; Giovanni Alberto Badoer (1688-1706), che era anch’egli primicerio di San Marco quando fu nominato titolare di quella sede (130).
Malgrado tutto ciò, i rapporti tra le pubbliche autorità e i patriarchi furono generalmente conflittuali, in forma anche assai accesa. Alla base v’era la contesa con il doge, che si pretendeva «solus patronus et verus gubernator ecclesiae et capellae Sancti Marci» (131) e, in virtù di ciò, non si limitava solo a rivendicare l’autonomia della Basilica e del suo clero dalla giurisdizione patriarcale, ma tendeva anche ad imporre una propria supremazia nelle «cose» ecclesiastiche nei confronti del titolare della diocesi veneziana in virtù delle prerogative che gli assicurava quel prestigioso patronato (132). Ciò si attuava in pratica con la continua contrapposizione della figura del primicerio della Basilica (oltre che, naturalmente, di quella dello stesso doge) a quella del patriarca; con provvedimenti sul clero di San Marco e di Rialto che il doge pretendeva fossero sottoposti alla propria autorità; con dispute accesissime ad esempio sul diritto di precedenza in occasione di talune cerimonie.
La questione non era da poco, come ha notato Gaetano Cozzi. La giurisdizione dogale sulla Basilica «costituiva il titolo per omologare la carica del doge a quella dei re e degli imperatori»: chi «ha maggior prerogative», e questa era una delle più significative, scriveva il consultore Marc’Antonio Pellegrini, «deve havere più honorato loco» tra i Principi. Ma l’esclusivo patronato sulla Basilica non solo garantiva al doge un ruolo più forte nel rivendicare l’autonomia della Chiesa veneta da Roma: pure gli consentiva di atteggiarsi a officiante dell’intensa, tradizionale e patriottica religiosità veneziana (133). Nel 1648 il nunzio notava come in Venezia si fosse addirittura vicini a ritenere che la dignità patriarcale spettasse allo stesso doge: «è vero che [quella sede] è juspatronato della Republica, ma quelle parole [così come le si adoperava] pare che significhino qualche cosa di più» (134).
Su tali basi, tutti i patriarchi, che pure venivano selezionati dalle autorità marciane, finirono col trovarsi contrapposti al doge, su questioni di principio, ma anche su fatti minuti. Basti pensare che un ecclesiastico della città che in qualsiasi modo avesse potuto vantare un legame con la basilica di San Marco o con altro luogo di giuspatronato dogale, poteva considerarsi sostanzialmente immune dalla giurisdizione del vescovo ordinario, con grave nocumento per la stessa dignità del titolare del patriarcato. Un popolare detto veneziano, che recitava «legge patriarchina, dura dalla sera alla mattina», testimonia più d’ogni altra fonte il difficile ruolo del patriarca (135).
Lo scontro più duro avvenne a metà secolo, con il patriarca Giovan Francesco Morosini: un uomo dal carattere «ruvido», notava il rappresentante del papa (136), che non poteva vantare l’autorevolezza né i legami nella classe politica veneziana che avevano agevolato nelle contese che pure erano insorte il suo predecessore Federico Cornaro. Morosini si impegnò contro il doge in forma molto decisa: mutando collocazione all’altare della Cattedrale (nel 1646) per porre in posizione di inferiorità il «rivale» (137); applicandosi costantemente, in modo assai duro, nel combattere le pretese di precedenza del doge nelle cerimonie pubbliche (138). Nel 1649, provocando gran scandalo, preferì recarsi in visita ad una sua abbazia nel Bresciano piuttosto che partecipare in posizione subalterna alle cerimonie della festa dell’Ascensione (139).
Da questa serie di notizie sembrerebbe che il Morosini — il quale tra l’altro, nell’esercizio del suo ruolo pastorale, si rivelò un ardente applicatore del dettame tridentino (140) — si impegnasse nella contesa difendendo con le proprie prerogative anche quelle della Santa Sede, ma così invece non era. Morosini era infatti sfuggito del tutto su questo campo al controllo romano e criticato anzi per la cieca ostinazione che dimostrava impegnandosi nella contesa in quel modo. Nel 1646 il nunzio si ispirava proprio al suo caso quando lamentava come
vi sono veramente de’ prelati et ecclesiastici che danno causa a disturbi col Prencipe e per la poca prudenza o [...] zelo indiscreto e durezza stravagante o [per] troppa viltà pregiudizievolissima alla Chiesa (141).
Nel 1648 veniva notato come il patriarca, in quattro anni, avesse inviato a Roma una sola lettera: nessuno dalla segreteria di stato aveva così la possibilità di indicare al nunzio qualche soluzione (142). Nel 1649 il rappresentante papale si dichiarava apertamente spaventato per i suoi atteggiamenti (143). Solo nel 1668, infine, dopo più di vent’anni, come veniva pesantemente rimarcato dal nunzio, il Morosini partiva per la canonica visita ad limina apostolorum (144).
Un combattente solitario il Morosini, duro e ostinato, tale da non poter essere inserito nel tradizionale schema della contesa tra Roma e Venezia. Il nunzio Angelo Cesi attribuiva lo scontro tra quel patriarca e la Serenissima alla particolare natura delle «Repubbliche, dove le cose sono più gelose e si ha da fare con tanti cervelli». Il giudizio è singolare ed è sorprendente come Cesi riducesse una contesa giurisdizionale di questo tipo a motivazioni, per così dire, «interne». Il patriarca, aggiungeva il nunzio, era reputato dai Veneziani «per testa dura» (145), e lui stesso doveva considerare tali tutti gli abitanti della città, capaci non solo di impegnarsi in conflitti di giurisdizione ecclesiastica con Roma, ma anche di trovare motivo per farlo tra loro stessi. Il contrasto tra il patriarca e il doge aveva un carattere troppo particolare e complesso: il nunzio decideva perciò di tenersi sostanzialmente fuori da una contesa in cui sarebbe stato forse peraltro inutile intervenire, e la riduceva ad un’inevitabile patologia delle Repubbliche (146). Coglieva con ciò i motivi per cui risulta oggi così interessante, e pure difficile, occuparsi della storia veneziana sotto il profilo delle vicende legate alle «cose di Chiesa».
Su quanto si è fino a qui descritto pesò in modo determinante il riflesso della competizione tra Venezia e Roma, conflitto che subì nel corso del secolo una decisa evoluzione.
Alla dimensione della disputa giuridica che aveva visto fiorire al tempo dell’Interdetto la contrapposizione di canoni a parti e di pareri a consulti, se ne sostituì man mano un’altra, incontrollabile, che se era da un lato determinata dalle private e sempre più numerose iniziative di ecclesiastici — soprattutto esponenti della classe politica veneziana —, era anche caratterizzata dalla situazione di crisi in cui si vennero progressivamente a trovare i due stati contendenti, sia sul piano interno che sulla scena internazionale.
La Serenissima, sottoposta a metà secolo all’attacco turco, reclamò invano l’aiuto delle potenze europee, e queste lasciarono invece consumarsi il sacrificio veneziano, che avrebbe comunque tenuto lontano ancora per qualche decennio la minaccia musulmana al continente. Solo Roma non poté sottrarsi agli appelli veneti a contribuire allo sforzo di difesa della Cristianità, e sovvenzionò lo stato «rivale» anzitutto con l’imposizione di sussidi che drenarono risorse dai benefici ecclesiastici del Dominio veneziano e quindi con soppressioni di enti religiosi. Provvedimenti, questi, che misero tra l’altro in seria difficoltà il clero locale (che denunciò inutilmente con frequenti memoriali la situazione) intaccandone risorse che in molti casi erano già esigue e stimolandone ulteriormente le capacità d’iniziativa.
Il ridimensionamento del ruolo della Santa Sede nello scenario europeo era stato invece definitivamente sancito dall’esito delle paci di Westfalia del 1648. Il baricentro della politica continentale si era ormai definitivamente spostato a Nord, nelle grandi corti europee, e all’interno della Curia si impose in quei decenni l’influenza di un gruppo di cardinali — uno dei principali animatori ne fu Pietro Ottoboni — cui fu attribuito il nome di «squadrone volante», conservatore e rigido nelle questioni interne della Chiesa e dello stato pontificio (difensore del nepotismo, del Santo Uffizio...), ma sostenitore del principio di equidistanza della Santa Sede dai grandi potentati continentali e, quindi, di una politica estera molto più guardinga e prudente che nel passato.
I due fieri contendenti che all’inizio del secolo avevano aperto una disputa che aveva appassionato l’Europa apparivano insomma dopo qualche decennio trasformati: non del tutto fiaccati, ma ormai sostanzialmente incapaci d’applicare un qualsiasi progetto ideologico ad una realtà in rapida evoluzione. Il confronto tra i due stati sulla politica ecclesiastica nel Dominio veneto — in questo quadro — costituisce un’ottima chiave di lettura, e dal punto di vista veneziano e da quello romano, di questo importante processo.
La concorrenza tra Venezia e Roma pesò molto sulle questioni della Chiesa veneta, ma su di esse influirono comunque altri fattori interni. La crisi del patriziato, anzitutto, che di riflesso provocò un maggior afflusso di nobili (spesso poco motivati) nelle carriere ecclesiastiche. La povertà delle rendite di molti benefici che obbligava i titolari ad industriarsi a cercarne di nuovi più che a svolgere le proprie mansioni.
Se però i problemi creati dal clero venivano costantemente denunciati, ad esempio nelle relationes dei patriarchi e dai nunzi, quei pericolosi comportamenti non impedirono lo svilupparsi di «una pietà popolare, fiorente per tante messe, istituzioni devozionali e caritative [...], pratiche pie» (147), esemplare per partecipazione e devozione sincera. Nonostante poi quanto descritto degli ecclesiastici, uno dei grandi personaggi della Chiesa del XVII secolo, san Gregorio Barbarigo, fu veneziano, per giunta patrizio, e straordinario esempio di vescovo — di Bergamo e poi di Padova (148) — oltre che di cardinale. Non bisogna generalizzare, né commettere l’errore di trarre improprie conseguenze da taluni pur significativi elementi.
Quanto si è insomma descritto nelle pagine che precedono — il peso degli interessi privati, di strategie politiche spesso sofisticate e ispirate soprattutto a realismo — non impedì alla Chiesa veneta di progredire e prosperare sotto altri profili, che si potrebbero considerare più consoni.
Ciò avvenne in qualche momento anche all’insegna di una collaborazione più o meno diretta tra le autorità dello stato e quelle pontificie. Si pensi alla richiesta d’aiuto presentata dal nunzio Altoviti in pregadi nel 1661 affinché gli organi politici veneziani si impegnassero a collaborare con lui nel combattere il malcostume dei regolari che giravano per la città da soli (e non in coppia come era prescritto) ed entravano nelle case per far tutt’altro che recitare «il Pater Noster» (149). Il nunzio, che pure in altre occasioni aveva denunciato di trovarsi «in un Paese dove ogni dì più cresce la carestia della giurisditione ecclesiastica» (150), legittimava così ulteriormente le pretese del potere concorrente. Ma si pensi ancor di più alla convocazione dei pievani di Venezia, predisposta dal collegio nel 1637 al fine di ricostruire, sulla base delle loro testimonianze, il numero delle cortigiane operanti in città. Uno del consiglio, Marco Giustiniani, si oppose al progetto sostenendo che i pievani non avrebbero potuto né dovuto rivelare particolari appresi in confessione. I religiosi vennero così rispediti alle loro abitazioni, e lo stesso nunzio, che invece a quanto risulta non si era dimostrato per nulla allarmato per la minaccia implicita al segreto confessionale e che avrebbe forse preferito veder ridurre il preoccupante fenomeno delle cortigiane, si dimostrò ammirato per l’accaduto (151).
La competizione veneziana con Roma non riguardava certo il fatto religioso ma le sole «cose di Roma», quanto era cioè riconducibile al papa e al suo desiderio, reale o presunto, di invadere il campo dell’autonomia veneziana e di ridurre all’obbedienza la Repubblica. Il principale campo d’azione del pontefice in quell’area era però costituito proprio dalla Chiesa veneta, in cui operavano patrizi, cittadini e sudditi della Serenissima ed era sempre più difficile per le autorità marciane, anche per il sempre maggior interesse che dimostravano i membri del patriziato per le carriere ecclesiastiche, definire il limite del lecito nelle competenze «romane». La forza ideologica dei vecchi contendenti si affievoliva e cadevano molti tabù: gli ecclesiastici veneziani poterono diventare senza difficoltà cardinali; svolgere attività diplomatica per conto proprio — ovvero crearsi clientele personali e intrattenersi in corrispondenze un tempo vietate —, o per conto dello stato; un patrizio «repubblichista» poté diventare pontefice dopo che per più di due secoli, e non per caso, non ve ne erano stati (152) (e questo anche in Roma si faticò a digerire).
Era tutto mutato. Alla fine del secolo qualcuno in Venezia poteva anche coltivare l’immagine di una tradizione «civica» e insieme spirituale veneziana e qualcun altro poteva anche idealizzare lo «stato sacrale», ma le condizioni di base in cui si sviluppavano ora tali idee (o, forse, si potrebbe meglio dire sogni) erano radicalmente diverse da quelle che avevano ispirato ad inizio secolo ben altri, assai più caratterizzati e motivati, protagonisti.
1. Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano, Segreteria di Stato. Venezia, 40, «Lettere di Mons. Gessi vescovo di Rimini Nuntio in Venetia dalli 3 gennaio 1609 sino al primo gennaio 1611», c. 15r-v.
2. V. ad esempio I consulti di Fulgenzio Micanzio. Inventari e regesti, a cura di Antonella Barzazi, Venezia 1986 (Supplementi di Studi Veneziani). «È un mondo di clerici brulicante, litigiosissimo, ferreamente dominato dalla legge del più forte, che si muove dietro le righe dei pareri del Micanzio», commenta A. Barzazi, che presenta tali ecclesiastici quali «succubi tutti, volenti o nolenti, della Corte [romana]», costringendo con ciò «il governo veneziano ad atteggiarsi alternativamente a difensore e giudice» (ibid., pp. XVII s.). Quel brulicare, come si vedrà oltre, imbarazzava in realtà la stessa Sede romana.
3. Fulgenzio Micanzio, Annotazioni e pensieri, in Storici, politici e moralisti del Seicento, II, Storici e politici veneti del Cinquecento e del Seicento, a cura di Gino Benzoni-Tiziano Zanato, Milano-Napoli 1982, p. 853 (pp. 757-863).
4. Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano, Segreteria di Stato. Venezia, 361, «Lettere della Nunziatura alla Segreteria. 4 gennaio 1541 al 3 febbraio 1798», c. 341.
5. Gaetano Cozzi, Venezia dal Rinascimento all’Età barocca, in Storia di Venezia, VI, Dal Rinascimento al Barocco, a cura di Id.-Paolo Prodi, Roma 1994, pp. 83 ss. (pp. 3-125). V. anche, dello stesso, Venezia nello scenario europeo (1517-1699), in Id.-Michael Knapton-Giovanni Scarabello, La Repubblica di Venezia nell’età moderna. Dal 1517 alla fine della Repubblica, Torino 1992 (Storia d’Italia, diretta da Giuseppe Galasso, XII, 2), pp. 5-200.
6. Paolo Prodi, Chiesa e società, in Storia di Venezia, VI, Dal Rinascimento al Barocco, a cura di Gaetano Cozzi-Paolo Prodi, Roma 1994, pp. 329 ss. (pp. 305-339).
7. Su queste basi suggerisce anche di muoversi Fulvio Salimbeni, La Chiesa veneziana nel Seicento, in La Chiesa di Venezia nel Seicento, a cura di Bruno Bertoli, Venezia 1992 (Contributi alla storia della Chiesa veneziana, 5), p. 46 (pp. 19-54), quando scrive del «tenace filo rosso del giurisdizionalismo [veneziano] che lega e trama tutta la storia religiosa secentesca, impedendo per un verso il libero esplicarsi del riformismo post-tridentino e per un altro scontrandosi con l’altrettanto rigido curialismo romano, che ostacolava il pieno dispiegarsi della potestà civile nello stesso temporale, suscitando malumori e risentimenti e rafforzando i sempre latenti spiriti anticlericali del patriziato». Tale giurisdizionalismo «è in buona misura corresponsabile proprio di quei mali morali che mirava ad estirpare e che anche il curialismo, non meno desideroso di cancellarli, finiva con l’incoraggiare e incrementare». Solo una corretta analisi della dinamica religiosa nel rapporto con quella sociale, politica e culturale può consentire, per Salimbeni, di cogliere i motivi autentici di un «mondo spirituale tanto chiaroscurato, contraddittorio e polifonico come quello che per colonne d’Atlante da un lato ha l’appassionata opera di Paolo Sarpi e dall’altro l’elevazione agli altari di Lorenzo Giustiniani».
8. I dati sono tratti da Silvio Tramontin, La diocesi nelle relazioni dei patriarchi alla Santa Sede, in La Chiesa di Venezia nel Seicento, a cura di Bruno Bertoli, Venezia 1992 (Contributi alla storia della Chiesa veneziana, 5), pp. 55-90, cui si fa ampio riferimento in questo paragrafo. Tramontin ricostruisce il tutto sulla base delle relationes ad limina dei patriarchi di Venezia.
9. Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano, Segreteria di Stato. Venezia, 119, «1678. Lettere di Mons. Nunzio in Venezia», c. 624: si tratta degli Ordini da osservarsi nell’elettione de titoli vacanti nelle parochiali di Venetia, pubblicati dal consiglio dei X il 31 marzo 1621.
10. V. ibid., e v. il dossier inviato dal nunzio al segretario di stato cardinale Cybo nel 1678 per denunciare la situazione (ibid., cc. 622-623). I brani tra virgolette appartengono al rappresentante pontificio.
11. L’arcivescovo di Edessa, nel 1678, non era riuscito a trovare nessuna presa di posizione dei suoi predecessori «né dalla Corte di Roma [...] per opporsi a questo pregiudizio della Giurisdizione Ecclesiastica». A questo punto, il nunzio era assai scettico che potesse porvisi «qualche riparo».
12. S. Tramontin, La diocesi nelle relazioni, p. 60 e Gaetano Cozzi, Giuspatronato del doge e prerogative del primicerio sulla Cappella ducale di San Marco (secoli XVI-XVIII). Controversie con i Procuratori di San Marco de supra e i Patriarchi di Venezia, «Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti», classe di scienze morali, lettere ed arti, 151, 1992-1993, p. 37 (pp. 1-69).
13. Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano, Segreteria di Stato. Venezia, 42, «Lettere di Monsignor Gessi vescovo di Rimini Nuntio in Venetia dal primo gennaio 1611 sino [al 29 dicembre 1612]», cc. 7v-8.
14. S. Tramontin, La diocesi nelle relazioni, pp. 61, 75 ss.; Antonio Niero, I Sinodi del secolo, in La Chiesa di Venezia nel Seicento, a cura di Bruno Bertoli, Venezia 1992 (Contributi alla storia della Chiesa veneziana, 5), pp. 105 s. (pp. 91-123).
15. S. Tramontin, La diocesi nelle relazioni, pp. 67 ss. e Id., Ordini e congregazioni religiose, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 4/I, Il Seicento, Vicenza 1983, pp. 26 ss. (pp. 23-60).
16. Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano, Segreteria di Stato. Venezia, 86, «Lettere di Monsignor Nuntio in Venetia del 1655», cc. 320-321, 388-389. V. anche S. Tramontin, La diocesi nelle relazioni, p. 67; Giovanni Spinelli, I religiosi e le religiose, in La Chiesa di Venezia nel Seicento, a cura di Bruno Bertoli, Venezia 1992 (Contributi alla storia della Chiesa veneziana, 5), pp. 173-209, e Antonio Menniti Ippolito, Politica e carriere ecclesiastiche nel secolo XVII. I vescovi veneti fra Roma e Venezia, Bologna 1993, pp. 42 s.
17. Un beneficio ecclesiastico è costituito di due elementi: il primo, spirituale, è rappresentato dall’ufficio sacro; il secondo, temporale, è il diritto di percepire il reddito che a mo’ di dote è legato all’ufficio. La rendita è uno «ius perpetuum percipiendi fructus ex bonis ecclesiasticis, ratione spiritualis officii personae ecclesiasticae competens, auctoritate Ecclesiae constitutum»: v. Pio Fedele, Beneficio ecclesiastico (dir. can.), in Enciclopedia del diritto, V, Milano 1959, pp. 144-156.
18. Ciò fin dagli atti di dedizione stipulati al tempo della conquista veneziana. Tali richieste non furono mai, sostanzialmente, accolte (su un piano formale le autorità venete si impegnavano invece sempre a fare il possibile perché tutto avvenisse) e proprio per questo venivano pazientemente ribadite. Nel 1611, ad esempio, fu il consiglio cittadino bergamasco ad approvare una (inutile) parte che prescriveva l’attribuzione di benefici ecclesiastici solo a gente del luogo (Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano, Segreteria di Stato. Venezia, 42, c. 67).
19. Si trattava delle diocesi cretesi di Agien (Canea), dove l’ultimo titolare, durando ancora l’assedio dei Turchi, viene nominato nel 1657; di Candia, dove furono in pratica tutti veneziani e l’ultimo fu Giovanni Querini nel 1644; di Chironissos (l’ultimo vi è destinato nel 1645); di Hierapetra e Sythia (la nomina più recente è del 1634); di Mylopotamos (1628) e Rethimo (l’ultimo nel 1641). Sempre a Creta, la diocesi di Arcadia che per tale motivo non viene qui computata nel conto delle quarantasei diocesi, era stata soppressa nel 1604. A Cipro continuarono ad essere designati vescovi veneti in partibus infidelium, cioè senza possibilità di residenza, a Famagosta e a Paphos, ma in quest’ultimo luogo solo fino il 1629. Nei vescovati cicladici di Andros, Milo, Naxos e Paros, Tinos e Mikonos, vescovi veneti continuano ad essere designati per tutto il secolo; così pure nelle diocesi di Santorini, Syros e Chio che continuarono a gravitare in qualche modo su Venezia per quanto conquistate dai Turchi. In questo quadro generale non trovano invece posto le effimere diocesi peloponnesiache create alla fine del secolo in seguito alla conquista veneziana di quella penisola. Su tutto ciò v. il mio Politica e carriere ecclesiastiche, pp. 24 ss.
20. L’ambasciatore veneziano aveva anzi chiesto in quello stesso 1617 di sopprimere l’inutile diocesi: il pontefice decise invece di mantenerla in vita e di destinare colà qualcuno gradito a Venezia. V. Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano, Segreteria di Stato. Venezia, 39, «Registro a Mons. il Vescovo di Rimini Nuntio di N. Signore a Venetia 1608[-...]», cc. 308v-309.
21. Ibid., 42f, «Lettere di Mons. Nunzio in Venezia al Signor Cardinal Borghese», c. 39r-v.
22. A.S.V., Collegio, sez. III, Secreta, «Lettere di vescovi e altri ecclesiastici. Novembre 1626 a gennaro 1646», filza 4bis, c. 37v.
23. Ibid., c. 583. Il vescovo era il padovano Giacomo Filippo Tomasini.
24. A. Menniti Ippolito, Politica e carriere ecclesiastiche, pp. 251 ss.
25. Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano, Segreteria di Stato. Venezia, 280, «Lettere scritte a Monsignor Nuntio di Venetia dal 1655 a tutto il 1661», c. 22v. Ciò nonostante, Rusca, l’anno successivo, presentò un memoriale in cui chiedeva di essere sovvenzionato ulteriormente: il valore della mensa era assai esiguo, e la sua chiesa era priva d’ogni suppellettile, «massime quelle ecclesiastiche» (ibid., 281, «Lettere originali scritte a Monsignor Nunzio in Venezia l’anno 1656 con varie scritture spettanti al ritorno de’ Gesuiti in Venezia e sopra la nullità della Professione del P. Columera», c. 91).
26. Il già nominato vescovo Jacopo Altoviti distingueva le sedi vescovili venete per categorie. Alle «primarie»: Padova, Brescia, Vicenza, Bergamo e Treviso (è forse per dimenticanza che non citava Verona) si affiancavano le chiese arcivescovili di Corfù, che essendo «tutta in fortezza» era solitamente destinata a un patrizio, e Spalato e Zara. Queste chiese, scrive Altoviti, costituivano una sorta di base di lancio per arrivare poi a una delle sedi «primarie». Le diocesi «secondarie» erano quelle di Adria, Belluno, Ceneda, Concordia, Crema, Feltre, Torcello. Anche i titolari di queste sedi potevano sperare di essere trasferiti in una di quelle «primarie». Ibid., 361, cc. 341-344: si tratta di una «memoria» compilata dal nunzio a beneficio dei suoi successori.
27. V. A. Menniti Ippolito, Politica e carriere ecclesiastiche, pp. 35-38.
28. Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano, Segreteria di Stato. Venezia, 146, «1698. Lettere di Monsignor Nuntio in Venetia», c. 286: fu però un falso allarme e Labia morì poi nel 1701.
29. A. Menniti Ippolito, Politica e carriere ecclesiastiche, pp. 47 s. Tra i vescovi provenienti dal patriziato poco più del 37% aveva ottenuto la nomina entro i 35 anni di età, e un altro 50% tra i 36 e i 45 anni. Con poche eccezioni, chi tra i patrizi era stato consacrato vescovo oltre il quarantacinquesimo anno d’età aveva ricevuto gli ordini poco prima o contemporaneamente alla nomina, dopo aver speso la precedente esistenza servendo a vario titolo la Repubblica. L’età media del vescovato per i Veneziani non nobili era invece di 43 anni (e il 41% di questi aveva ottenuto la nomina solo dopo aver varcato la soglia dei 45 anni di età); per i sudditi di Terraferma l’età media saliva a 46 anni; per quelli che provenivano dai dominii del «Golfo» adriatico detta età era invece di 44 anni; i vescovi greci furono consacrati a un’età media di 47 anni.
30. Ibid., pp. 40-42.
31. Ibid., pp. 42 s. Sui vescovi veneti di questo periodo, e di quello immediatamente precedente, v. Olivier Logan, The Venetian Upper Clergy in the Sixteenth and Early Seventeenth Centuries; a Study in Religious Culture, I-II, Salzburg 1995 (Analecta Cartusiana, 35:18).
32. Anna Pizzati, La commenda ecclesiastica in area veneta dal periodo tridentino al secondo ’600, tesi di dottorato, a. 1995, pp. 259 ss. e passim. Il dato è approssimativo, e riguarda esclusivamente i benefici in commenda di collazione concistoriale e pontificia. Non sono così compresi nell’elenco gli enti assegnati da collatori ordinari.
33. Ibid.
34. Ibid., pp. 68 s.
35. La sua rendita viene stimata ibid., p. 64, in 4-6.000 ducati. V. ibid., pp. 70 ss. sulla storia patrimoniale dell’abbazia, che nel 1660, per la prima volta nella sua storia, venne conferita a un non veneziano, il nipote di papa Alessandro VII cardinale Flavio Chigi.
36. Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano, Segreteria di Stato. Venezia, 43, «Registro di cifre del Nunzio in Venezia da ottobre 1623 fin tutto il 1627», cc. 10 ss.
37. Fu per tale motivo che «Mons. Venier» (si tratta probabilmente di Andrea, che nel 1674 si trovava in Roma come cameriere d’onore del papa), designato al patriarcato di Aquileia, prima accettò e poi rifiutò la nomina, dopo «haver inteso le rissolutioni presesi intorno alli ecclesiastici per non pregiudicare alla propria casa»: v. ibid., 147, «1699. Lettere di Monsignor Nunzio in Venetia», c. 518. La nota del nunzio allude ai provvedimenti contro i papalisti approvati in quello stesso anno.
38. Ibid., 274, «Lettere scritte dall’Illustrissimo Signor Cardinal Barberini a Mons. Vescovo di Montefiascone Nuntio Apostolico in Venetia 1623, a Mons. Vescovo di Amasia nel 1624, 1625, 1626», cc. 227v-228. A rendere più difficile la situazione era la scarsa presenza di Veneziani in Curia, dovuta alle difficoltà di rapporti tra i due stati: era difficile assegnare i benefici a soggetti che non si conoscevano e tra i candidati «niuno ne rimane[va] di quelli che [avevano] pratticato questa Corte [romana] e quelli che costì s’allevano sono anche sospetti di haver appreso massime poco ecclesiastiche», scriveva al nunzio il cardinale Barberini.
39. Ibid., c. 232v, 20 settembre 1625.
40. Ibid., 37, «Registro di lettere di Monsignor Offredi vescovo di Molfetta Nuntio in Venetia, scritte al cardinal San Giorgio, sotto il pontificato di papa Clemente VIII dalli 5 gennaro 1602 sino alli 28 dicembre 1602 [e al 27 dicembre 1603]», cc. 312v-314. A margine della lettera è riportato il giudizio del pontefice: «il discorso è bello ma non so se sia buono, ci penseremo».
41. Ibid., 53, «Cifre di Venetia. 1629», c. 92. Ibid., 54, «Lettere del Nuntio in Venetia 1631», c. 429, analogo giudizio del nunzio che scrive nel 1631 che «l’esperienza de’ laici [nelle vacanze] è pericolosa».
42. Ibid., 58a, «Cifre di Monsignor di Tessalonica Nuntio in Venetia dal primo di gennaro per tutto maggio 1633», cc. 115r-v, 116.
43. Ibid., 35, «Registro di lettere di Monsignor Offredi vescovo di Molfetta Nuntio in Venetia, scritte al cardinal San Giorgio nel pontificato di papa Clemente Ottavo dal primo gennaro 1600 sino alli 30 decembre dell’istesso anno», c. 25r-v.
44. Ibid., 40, cc. 104v-105. Nel 1618 Contarini si trovava da tempo a Venezia e si rifiutava di ritornare nella sua residenza (ibid., 42g, «1618. Lettere di Monsignor Nunzio in Venezia al Signor Cardinal Borghese», c. 202).
45. Ibid., 57, «Cifre del Secretario di Monsignor Nuntio in Venetia da gennaro sino ad agosto 1632», c. 121v.
46. Ibid., 78, «Cifre di Monsignor Nunzio in Venetia del 1649», cc. 43-44v.
47. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Ottoboniani latini, 3275, «Registro di lettere scritte dal Cardinale Pietro Basadonna al Cardinale Pietro Ottoboni che fu Alessandro VIII dall’anno 1667 all’anno 1668 [ma novembre 1673]», cc. 38 s. Giudizi del genere non sono rari, si v. ad esempio quello espresso dal nunzio, nel 1636, denunciando la difficoltà nell’affrontare tali questioni a Venezia, «dove sono tanti interessi distinti e dove regna un’invidia grandissima con simulatione regolata col proprio interesse et mutabile ad nutum»: Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano, Segreteria di Stato. Venezia, 60a, «Decifrati di Monsignor Francesco Arcivescovo di Tessalonica Nuntio a Venetia dalli XI d’agosto 1635 sino a tutto l’anno 1638», c. 90. Sul Basadonna che fu ambasciatore della Serenissima a Roma e poi, nel 1673, nominato, tra lo stupore generale, cardinale, v. Gino Benzoni, Basadonna, Pietro, in Dizionario Biografico degli Italiani, VII, Roma 1965, pp. 51-53, nonché Antonio Menniti Ippolito, «Amor proprio» e «amor di patria» in due epistolari seicenteschi: le lettere di Pietro Basadonna e Angelo Correr a Pietro Ottoboni, in AA.VV., Studi veneti offerti a Gaetano Cozzi, Venezia 1992, pp. 264-269 (pp. 261-274).
48. Il passo fa parte di una Scrittura sulla provvisione di Vescovati, che il nunzio veneziano, nel 1651, ritenne opportuno inviare in copia in segreteria di stato (Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano, Segreteria di Stato. Venezia, 81, «Lettere di Monsignor Nuntio in Venetia del 1651», cc. 182-198).
49. Ibid., 42b, «1614. Lettere di Monsignor Nunzio in Venetia al Signor Cardinale Borghese da settembre a novembre», c. 14r-v, è testimoniata la contestata candidatura di tal Vincenzo Franceschi alla sede di Spalato. «Per essere egli cittadino la fattione de’ Nobili gli era contraria» e si era così deciso in Venezia di proporre qualcuno per quella sede con raccomandazione pubblica. Il che si rivelava difficile, spiegava però il nunzio, perché il vescovo in carica di Spalato, che intendeva rassegnare la diocesi, era disposto a lasciare solo 300 ducati di congrua al successore. Fatto è che il rappresentante pontificio ricevette in seguito un pessimo rapporto sulle qualità del Franceschi, che non venne riproposto (ibid., c. 90). A quella sede venne poi destinato, e solo due anni dopo a testimoniare la difficoltà del «negozio», un altro cittadino veneziano, Sforza Ponzoni, che se pure non si poteva «dire persona molto isquisita» (non avendo tuttavia «mancamenti che lo esclud[essero] da simili dignità», assicurava il nunzio), era l’unico che si era dichiarato disposto ad accettare una così ingente riserva di frutti in favore del rassegnante il beneficio (ibid., 42e, «1616. Lettere di Monsignor Nunzio in Venezia al Signor Cardinal Borghese», cc. 329, 357r-v).
50. V. A. Menniti Ippolito, Politica e carriere ecclesiastiche, pp. 32 s. Ad Adria ci fu così solo un vescovo patrizio per tutto il secolo, e lo stesso avvenne a Feltre. A Pola però la preoccupazione veneziana prevalse solo fino al 1640. Poi si cominciò a destinare in quella sede anche elementi del patriziato.
51. Ibid., pp. 29 ss.
52. Bolla che fu poi confermata e rafforzata da Urbano VIII con l’Instructio particolaris del 1627, che titolava Si processus inquisitionis.
53. Il § I 9 della Bolla gregoriana prescriveva che il candidato dovesse essere nato «ex legitimo matrimonio atque ex parentibus catholicis, annum trigesimum iam explevisse, sacris ordinibus, saltem ante sex menses, initiatum esse, gradum doctoratus aut licentiae in theologia vel iure canonico aut certe publicum alicuius academiae testimonium obtinuisse, quoad alios docendos idoneus esse declaretur, ad haec in ecclesiasticis functionibus diu esse versatum, item fidei puritate, innocentia vitae, prudentia, usu rerum, integra fama, doctrina denique praedictum esse».
54. È noto l’episodio riguardante la soddisfazione espressa da Paolo Sarpi e Leonardo Donà per l’evitata nomina a cardinale di veneziani nel 1611. La mancata promozione aveva invece provocato lo sconforto tra i parenti dei «prelati» veneziani che aspiravano alla porpora, sconcertati «che la Repubblica non vo[lesse] fare raccomandatione de’ suoi soggetti»: v. Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano, Segreteria di Stato. Venezia, 42, c. 228. Per una visione complessiva v. Gaetano Cozzi, I rapporti tra Stato e Chiesa, in La Chiesa di Venezia tra riforma protestante e riforma cattolica, a cura di Giuseppe Gullino, Venezia 1991, pp. 11-36. Sulla difficoltà degli ecclesiastici di intrattenere rapporti con Roma in quei decenni v. il mio «Amor proprio» e «amor di patria», pp. 262-263.
55. Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano, Segreteria di Stato. Venezia, 42i, «Registro delle lettere scritte al Signor Cardinale Ludovisi, alla Santità d’Urbano, Signor Cardinal Barberini et altri da Monsignor Zacchia nella sua Nunziatura di Venetia l’anno 1623», c. 33. Il caso più clamoroso riguardò Carlo Querini, che scampò con la fuga alla condanna capitale dopo essere stato nominato nel 1626 alla diocesi di Sebenico. Tra le sue carte erano state rinvenute due lettere di cardinali e altra corrispondenza non autorizzata con uomini della Curia romana: l’accusa era quella di aver stabilito contatti non leciti per ottenere un beneficio e di aver approfittato a tal fine del proprio ruolo pubblico (era tra l’altro stato in quarantia criminale). Il nunzio considerava assurda l’accusa, per il solo motivo che tutti i patrizi si comportavano in quello stesso modo: per il rappresentante pontificio si era voluto dare un esempio a spese di un nobile «di piccola condizione». V. ibid., 47, «Nuntio a Venetia del 1626», cc. 213, 340, 362-364, 365; e ibid., 48, «Nuntio di Venetia del 1627», cc. 13-14v.
56. Ibid., 69, «Cifre del Monsignor Nuntio in Venetia del 1645», c. 124. Nel 1633, il nunzio constatava come «non si trova[sse] alla Corte nissun nobile Venetiano»: ibid., 58a, c. 82r-v. Nel 1640, il pontefice fece invece vescovo di Spalato il suo cameriere d’onore Leonardo Bondumier, «acciò si inanimischino gli altri a stare nella Corte, et così pretendere»: v. ibid., 65, «Cifre di Monsignor Nuntio in Venetia dalli 21 luglio 1640 sino li 19 ottobre 1641», c. 33v. Nel 1647 il rappresentante papale non «lascia[va] di motivare [ai postulanti] che per simili vacanze quelli che si trova[va]no in Roma ha[vevano] più pronta la commodità d’aiutarsi per il conseguimento della gratia»: ibid., 73, «Lettere di Monsignor Nunzio in Venezia del 1647», c. 638. Su questo tema, v. A. Menniti Ippolito, «Amor proprio» e «amor di patria», pp. 263 s.
57. V. A. Menniti Ippolito, Politica e carriere ecclesiastiche, pp. 213 s., 225, 230 ss.
58. Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano, Segreteria di Stato. Venezia, 126, «Cifre con la Nunziatura di Venetia dal 1683 a tutto 1687», c. 85.
59. V. A. Menniti Ippolito, Politica e carriere ecclesiastiche, p. 248 n. e soprattutto, per le norme sui «papalisti», Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. VII. 1660 (= 8630), «Ordini regolari e privilegi della Chiesa di S. Marco», fase. 9.
60. Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano, Segreteria di Stato. Venezia, 41, «Registro di lettere scritte in cifra dalli vescovi di Lodi, d’Amelia e di Molfetta Nunzi in Venetia al Signor Cardinal S. Giorgio nel Pontificato di Papa Clemente VIII dalli 20 decembre 1592 fino alli 22 maggio 1604 [e lettere dal 1607 al 1617]», c. 433v.
61. A. Menniti Ippolito, Politica e carriere ecclesiastiche, pp. 188 ss.
62. Si tratta di un passo di un’allarmata relazione redatta dal nunzio il 6 settembre 1631: Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano, Segreteria di Stato. Venezia, 55, «Cifre di Venetia l’anno 1631», cc. 103v-104. Il rappresentante papale accennava al singolare caso del patriarcato di Aquileia. Sulla sede Venezia vantava diritto di giuspatronato. Quest’ultimo avrebbe sostanzialmente comportato il diritto di presentare al pontefice, in occasione della vacanza, una rosa di quattro candidati, ma tale pratica era stata in realtà superata dall’uso che andò imponendosi di nominare un coadiutore (con diritto di successione) del titolare quando questi era ancora in vita. Al papa veniva comunque presentata una lista di quattro candidati ufficiali, ma tra questi avrebbe dovuto scegliere il coadiutore, che risiedeva a Venezia e riceveva uno stipendio di 1.000 ducati l’anno dalla Serenissima.
63. V. una interessante ricostruzione della contesa in Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. VII. 2450 (5 10578), cc. 52-53v.
64. V. A.S.V., Consultori in jure, filza 481, «Adversaria episcopalia. Tom. II», cc. 267 ss., 273 e passim. Le procedure formali che venivano seguite in Roma in occasione della nomina dei vescovi erano alquanto complesse e le fonti consentono di ricostruirle nel modo che segue. Una volta selezionato il titolare del beneficio, e dopo che questi aveva superato il processo concistoriale e pronunciato la professione di fede, quello stesso cardinale che il pontefice aveva designato per istruire il processo era pure incaricato di farne relazione in concistoro e di ottenere il consenso scritto da parte dei capi dei tre ordini dei porporati. Una volta ottenuta la sottoscrizione di questi, il cardinale designato informava dell’esito delle procedure e proponeva (preconizzava) la Chiesa in favore del prescelto. Nel concistoro successivo il medesimo cardinale siglava la proposizione della Chiesa dopodiché potevano finalmente essere spedite le bolle di provvisione.
65. Nel 1630 l’ambasciatore in Roma venne appunto incaricato di sostenere questa tesi. Il cardinale Bentivogli era ascritto al patriziato e avrebbe potuto sostenere la parte: v. A.S.V., Consultori in jure, filza 481, alla data 28 novembre 1630.
66. V. un caso limite in Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano, Segreteria di Stato. Venezia, 70, «Registro di cifre scritte a Monsignor Cesi vescovo di Rimini Nuntio Apostolico in Venetia [aprile 1645-novembre 1651]», c. 147v. Roma lodò nel maggio 1649 la censura operata dalle autorità venete nei confronti dell’ambasciatore Giovanni Giustiniani: «È paruto opportuno l’ordine dato a questo signore ambasciatore veneto di non raccomandar soggetti alle chiese vacanti di cotesto Dominio senza ordine publico poiché è incredibile la frequenza con la quale egli insiste per la provvisione de’ suoi domestici in qualunque occorrenza di beneficio che vachi et ultimamente per ottener la Chiesa di Belluno al suo maggiordomo [Giulio Berlendi] ha con tanta multiplicità et importunità d’offitii e di mezzani e con maniere così violente stancate l’orrecchie di N. Signore fino con lasciarsi intendere di dichiararsi disgustato quando ne ricevesse la negativa che Sua Beatitudine è stata necessitata per non haverlo affatto contrario di condescendere alla sua richiesta».
67. V. ad esempio ibid., 64, «Proposte e risposte delli Monsignori Nunzi di Venetia e Francia e Spagna», c. 284v: richiesta di informazioni su Marino Badoer che l’ambasciatore veneziano candidava con insistenza per la vacanza di Pola. La risposta fu favorevole (ibid., 63, «Venetia. Lettere dalli 31 dicembre 1639 sino li 2 luglio 1643. Monsignor Nuntio Vitelli», c. 43r-v) e il Badoer fu poi effettivamente provvisto di quella sede.
68. Nel 1624, il collegio intimò a Pietro Pisani, designato dal pontefice a reggere la diocesi cretese di Hierapetra e Sythia, di non recarsi a Roma dove avrebbe dovuto sostenere l’esame sulle proprie qualità di vescovo. Ciò per l’istanza di Giovanni Soranzo, aspirante lui stesso a quel beneficio. Il nunzio si recò in collegio e lì sostenne l’impraticabilità della candidatura Soranzo, a causa delle insufficienti capacità del veneziano, cui il papa avrebbe comunque potuto attribuire delle rendite ecclesiastiche. La Repubblica continuò a insistere sul Soranzo e a bloccare la partenza di Pisani, fino a che l’ambasciatore veneziano a Roma non inviò un rapporto in cui sosteneva che il protetto delle pubbliche autorità era di «mala lingua» e che «sparla[va] fin della Repubblica». Non meritava così alcun sostegno e vennero conseguentemente rimossi gli ostacoli che impedivano l’andata di Pisani a Roma: v. ibid., 44, «Monsignor Zacchia e Monsignor Agucchia. 1624», cc. 324 s., 412, 443, 445, 489; ibid., 274, c. 80r-v.
69. Ciò avvenne dal 1630 al 1632, in seguito ad uno scontro avvenuto in Roma tra il seguito dell’ambasciatore veneziano e quello del prefetto della città, nipote del pontefice. Tra il 1635 e il 1644 le relazioni tra i due stati si raffreddarono invece decisamente in seguito alla decisione di papa Urbano VIII di far sostituire una iscrizione inneggiante ai meriti storici della Serenissima nei confronti del papato nell’occasione della pace del 1177 tra il pontefice Alessandro III e il Barbarossa. Tra il 1647 e il 1653 nuovamente i rapporti tra Roma e Venezia furono ostacolati dalla pretesa veneziana che fossero i porporati veneziani ad annunciare in concistoro la provvista di benefici veneti (ma di questo si parlerà più avanti). Ancora, nel 1674 si accese in Roma il caso dei «quartieri» delle legazioni di Venezia, Francia, Spagna e Impero: la Santa Sede contestava l’arbitrario allargamento della zona diplomatica operato dai rappresentanti di quegli stati. Nel 1678 la questione si riaprì, questa volta solo per contrasti con l’ambasciatore veneziano. Costui venne richiamato in patria e il nunzio da Venezia fu costretto a portarsi a Milano. La situazione si trascinò fino agli inizi del 1684. V. A. Menniti Ippolito, Politica e carriere ecclesiastiche, pp. 193 ss., 204 ss., 226, 230 ss.
70. V. A.S.V., Consultori in jure, filza 112, «Libro secondo. Padre Emo», cc. 699 ss.
71. V. A. Menniti Ippolito, Politica e carriere ecclesiastiche, p. 62.
72. V. A.S.V., Consultori in jure, filza 112, c. 707 e ibid., filza 269, «Possessi de’ benefici del 1624 sino al 1627, N. 1», cc. n.n., alla data del 15 ottobre 1624. V. A. Barzazi, in I consulti di Fulgenzio Micanzio, pp. XIX ss.
73. V. su ciò Gaetano Cozzi, Il doge Nicolò Contarini. Ricerche sul patriziato veneziano all’inizio del Seicento, in Id., Venezia barocca. Conflitti di uomini e idee nella crisi del Seicento veneziano, Venezia 1995 (si tratta della ristampa dello studio apparso nel 1958), pp. 235 ss. (pp. 1-245).
74. A reggere il beneficio fu il suo vicario Monsignor Sanguinacci che si comportò a quanto pare benissimo «nell’esercitare il suo vicariato [..] sostenendo la giurisdittione senza urtar ne’ scogli», notava il nunzio nel 1632. V. Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano, Segreteria di Stato. Venezia, 57, c. 12.
75. La formula riservava la futura pensione «pro locis piis seu aliis usibus». Le accuse contro Zollio e Cosmi erano in realtà più complesse. L’aspirante vescovo di Crema non era stato preconizzato in concistoro da cardinali veneti; non sarebbe stato gradito alla popolazione cremasca; aveva risieduto troppo a Roma per potersi ancora considerare un suddito veneto e inoltre suo padre era nativo di Como (v. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Patetta, 1839, «Raccolta di lettere autografe inviate a Marcantonio Zollio vescovo di Crema [1678-1702]», cc. 25-39v). A pesare contro Cosmi era invece anche l’accusa, per la verità pretestuosa, di essersi procurato il beneficio senza richiedere l’appoggio del Pubblico: doveva così essere considerato «membro separato dall’affetto della Repubblica e solo innamorato degl’interessi di Roma» (v. Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano, Segreteria di Stato. Venezia, 123, «Cifre con la Nunziatura di Venetia dal 1680 a tutto 1682», cc. 395-397v). Nella bolla di provvisione per Spalato, il pontefice si riservava il diritto di accordare una pensione su quella mensa «pro locis piis seu aliis usibus». Con una formula così vaga avrebbe potuto accordare tale rendita, si sosteneva a Venezia, anche a non veneti, oppure in favore di istituzioni che non si trovavano nel Dominio.
76. A. Menniti Ippolito, Politica e carriere ecclesiastiche, pp. 240-244.
77. A.S.V., Consultori in jure, filza 112, c. 708. Già prima che venissero approvate queste parti, tuttavia, nelle richieste di possessi temporali di benefici venivano incluse precise notizie riguardanti le pensioni, come risulta agevole notare dallo spoglio di ivi, Collegio, Possessi e di ivi, Consultori in jure, filze 269, 270, 271, 272, «Possessi de’ Benefici», anni 1624-1653. Sulle parti del 1641 in materia v. ivi, Consultori in jure, filza 46, «Consulti di F. Fulgenzio dal 1641 sino al 1642. Torno VI», cc. 128, 130v, 153. Ancora, sulle numerose parti relative a possessi di benefici e pensioni v. ibid., filza 509, «Miscellanea ecclesiastica», cc. n.n.
78. V. l’elenco dei quattordici sussidi concessi dai pontefici alla Repubblica nel corso del secolo in Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano, Segreteria di Stato. Venezia, 113, «1673. Lettere di Monsignor Nunzio in Venezia», cc. 174-178v, e in A.S.V., Senato, Deliberazioni Roma expulsis, reg. 4, «Roma da 20 maggio 1695 sin 30 maggio 1699 del Sign. Cardinale Ottoboni», c. 199. Sull’importanza di detti sussidi per Venezia v. Giuseppe Del Torre, La politica ecclesiastica della Repubblica di Venezia nell’età moderna: la fiscalità, in Fisco religione Stato nell’età confessionale, a cura di Hermann Kellenbenz-Paolo Prodi, Bologna 1989, pp. 387-426.
79. A. Menniti Ippolito, Politica e carriere ecclesiastiche, pp. 149 ss., 251 ss.
80. V. ad esempio A.S.V., Collegio, Risposte di dentro, 1682, filza 95, un campionario dei ricorsi al foro secolare in materia.
81. Città del Vaticaino, Archivio Segreto Vaticano, Segreteria di Stato. Venezia, 275, «Lettere scritte di Roma a Mons. Nuntio in Venetia l’anno 1627 fino tutto l’anno 1632», c. 66.
82. Ibid., 49, «Nuntio in Venezia del 1628», cc. 368-370, la notizia che fu Ubertino Papafava, vescovo di Adria, a presentare per primo la richiesta di possesso per le proprie pensioni nel 1628. Nel 1633, Marco Zeno, vescovo di Torcello, fu il primo ad inaugurare invece la serie di ricorsi al foro laico per cause legate a pensioni. Il pontefice rimase sconcertato: «un vescovo sua creatura amata [era stato] il primo a ricorrere in una causa meramente ecclesiastica al foro secolare [...] doveva pur temere [scriveva il nunzio] l’ira di Dio, quella del suo Vicario in terra, la grave memoria che lascia d’esser stato il primo vescovo che sia ricorso al Tribunal laico»: ibid., 276, «Lettere di Roma a Venetia 1632 e 1633», cc. 67v-68v. Si pensò pure di sostituirlo, ma ciò avrebbe creato una grave situazione di scontro con le autorità veneziane (ibid., 58b, «Cifre di Monsignor Nunzio a Venetia l’anno 1633 giugno, luglio et agosto», c. 3; ibid., 58a, «Cifre di Monsignor di Tessalonica Nuntio in Venetia dal primo di gennaro per tutto maggio 1633», c. 227).
83. Ibid., 60, «Venetia [cifre dal] 1634 a 1635», c. 349.
84. V. A.S.V., Consultori in jure, filza 112, cc. 699 ss.
85. Altro possibile accordo sottobanco (questo però meno grave) era quello che obbligava l’aspirante titolare a un beneficio a promettere al futuro pensionario di pagare per conto di quello le decime, i sussidi, le tasse per le lettere di possesso anche per la parte di rendita che finiva in realtà in pensione.
86. A.S.V., Consultori in jure, filza 112, c. 699.
87. Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano, Segreteria di Stato. Venezia, 70, c. 146v.
88. Ibid., 37, c. 164.
89. V. A. Menniti Ippolito, Politica e carriere ecclesiastiche, pp. 127 ss., dove vengono ricostruiti i percorsi per nulla lineari di taluni vescovi — Agostino Gradenigo, Marco Zeno, Giovanni Dolfin — esemplarmente ondeggianti tra l’obbedienza dovuta a Roma e quella a Venezia.
90. Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano, Segreteria di Stato. Venezia, 85, «Lettere di Monsignor Nuntio in Venetia del 1654», c. 408r-v.
91. Ibid., 351, «Registro di lettere alla Segreteria di Stato della Nunziatura di Venezia. Tomo III. 29 dicembre 1691 a 24 gennaio 1694», c. 97v; ibid., 353, «Registro di lettere de’ Negozii della Nunziatura di Venetia a diversi. Tomo I da 28 gennaio 1690 a 20 dicembre 1692», c. 24v. La sua esperienza di vescovo, iniziata nel 1668, era stata fallimentare sotto ogni aspetto: nel 1676 il clero di Concordia presentò in collegio un memoriale contro di lui accusandolo tra l’altro di simonia e sensualità. Qualcosa di poco regolare doveva esservi, perché il nunzio, che pure aveva sostenuto per un momento la falsità delle accuse, che sembravano essere solo provocate dalle tensioni esistenti tra il vescovo e i canonici, in una nuova nota rivelò come i canonici avessero preso a difendere il Premoli preoccupati di venire a perdere le proprie libertà in caso di una sostituzione del vescovo (ibid., 116, «1676. Lettere di Monsignor Nunzio in Venezia», c. 550; 117, «Cifre con la Nunziatura di Venetia dal 1676 a tutto 1679», cc. 227, 234; 118, «1677. Lettere di Monsignor Nunzio in Venezia», cc. 126, 180, 184, 311 s., 370, 424, 454).
92. Ibid., 59a, «Cifre di Monsignor Nuntio Apostolico a Venetia l’anno 1634», cc. 61v-62v.
93. Cf. ibid., 60a, cc. 22-24v. Nel caso specifico il nunzio alludeva agli inconvenienti creati dal troppo zelante vescovo di Verona Marco Giustiniani che vide con ciò pregiudicata la possibilità di andare a reggere, nel 1636, la sede padovana.
94. Ibid., 58, «Di Venetia d’agosto per tutto dicembre 1632», c. 86: «accidenti» stava invece provocando il vescovo di Belluno Giovanni Dolfin, cui il nunzio qui si riferiva.
95. Ibid., 53, c. 67; ibid., 55, c. 61.
96. Ibid., 42a, «1614. Lettere di Monsignor Nunzio a Venetia al Signor Cardinal Borghese da gennaio a settembre», c. 68.
97. Su ciò mi permetto di rimandare al mio Politica e carriere ecclesiastiche, pp. 99 ss.
98. Nel 1609 la segreteria di stato chiese informazioni al nunzio sull’abate Navagero cui sembrava potesse essere attribuita la Chiesa di Parenzo: era vero che fosse deforme? che avesse una gamba sola o altri gravi difetti? (v. Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano, Segreteria di Stato. Venezia, 268, «Registro di Segreteria di Stato al Nunzio in Venezia. 28 maggio 1605-13 settembre 1608», c. 248). Nel 1681 Roma chiese al nunzio se fosse vero, come aveva fatto sapere qualcuno, che il candidato al titolo di primicerio di San Marco avesse «qualche difetto o sparutezza nella faccia. Di questo ancora si desidera da lei informatione»: v. ibid., 123, c. 20v.
99. Ibid., 43, cc. 232v, 233-235.
100. Ibid., 104, «1667. Lettere di Monsignor Nunzio in Venezia», c. 455: il nunzio notava come per la vacanza di Ceneda e per quella, probabile, per le cattive condizioni di salute del titolare, di Concordia, si fosse scatenata una serratissima competizione, soprattutto tra nobili.
101. V. il mio Politica e carriere ecclesiastiche, p. 94.
102. Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano, Segreteria di Stato. Venezia, 128, «1685. Lettere de’ Ministri della Nunziatura di Venezia», c: 118r-v. Appena dodicenne, nel 1647 Molino chiese una dispensa per poter ottenere un beneficio: v. ivi, Archivio dei Memoriali, 3, «Registro de’ Memoriali del 1647», c. 134v.
103. Giovane di ventidue anni e studente a Padova, diceva il nunzio, che sarebbe poi stato vescovo di Ceneda dal 1639 al 1653 e di Verona dal ’53 al 1668.
104. Procuratore dell’ordine somasco e poi vescovo di Famagosta dal 1633 al 1654.
105. Che sarebbe poi divenuto vescovo di Sebenico nel 1635 e di Pola dal 1653 al 1661.
106. Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano, Segreteria di Stato. Venezia, 52, «Lettere del Nunzio in Venezia 1629», cc. 179-180.
107. Ibid., 50, «Registro di cifre del Nuntio in Venetia. 1628 fin a giugno», c. 43v.
108. Carlo Labia fu poi titolare di Corfù dal 1659 al 1677, e quindi di Adria fino al 1701.
109. Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano, Segreteria di Stato. Venezia, 73, cc. 600r-v, 795.
110. Ibid., 77, «Lettere di Monsignor Nuntio in Venetia del 1649», c. 253.
111. V. i miei Ecclesiastici veneti, tra Roma e Venezia, in AA.VV., Venezia e la Roma dei papi, Milano 1987, pp. 209-234; Politica e carriere ecclesiastiche, in partic. pp. 81 ss., 103 ss.; Fortuna e sfortune di una famiglia veneziana nel Seicento. Gli Ottoboni al tempo dell’aggregazione al patriziato, Venezia 1996.
112. Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano, Fondo Ottoboni, 5, «Lettere scritte da diversi al Sign. Cardinal Ottoboni poi Alessandro VIII dal primo gennaro a tutto giugno 1669», cc. 431, 433 ss.
113. A. Menniti Ippolito, Fortuna e sfortune di una famiglia veneziana.
114. Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano, Segreteria di Stato. Venezia, 132, «1687. Lettere di Monsignor Nunzio in Venezia. Torno secondo», cc. 5v, 51v, 191. Descrive il fenomeno anche F. Salimbeni, La Chiesa veneziana nel Seicento, p. 43, che si riallaccia peraltro agli studi sul Meridione italiano di Gabriele De Rosa, evidenziando come non si tratti affatto di un fenomeno esclusivamente veneziano.
115. A Venezia si ricorreva assai raramente alla primogenitura nella trasmissione dei patrimoni. Al fine anzitutto di garantire mezzi di sostentamento adeguati ai numerosi componenti della classe dirigente veneziana, i patrimoni venivano trasmessi in parti uguali tra i discendenti maschi e gestiti in comune nella forma della «fraterna». Le regole di quest’ultima erano molto rigide e i diritti e doveri dei suoi componenti erano fissati con estrema precisione. Uno degli obblighi più impegnativi era quello della coabitazione, che consentiva cospicui risparmi sulle spese e il controllo reciproco tra i familiari. Se pure la «fraterna» poteva garantire di evitare la dispersione dei patrimoni essa lo consentiva in realtà in forme opprimenti se non addirittura odiose, di cui è data testimonianza nel mio Fortuna e sfortune di una famiglia veneziana.
116. Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano, Segreteria di Stato. Venezia, 57, c. 31v. Il problema sembrava allora riguardare soprattutto i regolari: in un’altra corrispondenza, anzi, il nunzio si diceva impegnato a cercare il modo «per mortificar li Religiosi che ricorrono al Collegio»: ibid., 58c, «Cifre di Monsignor Nuntio di Venetia detto Monsignor Arcivescovo di Tessalonica da settembre fino a dicembre 1633», c. 53v.
117. Ibid., 59, «Venetia, Nuntio Vitelli. 1633. 1634. 1635. 1636. 1637. 1638. 1639», c. 476.
118. Ibid., 60a, cc. 22v-24v. Nella nota veniva poi dato conto anche dei problemi che un altro candidato, Luigi Grimani, aveva creato nel pagamento sempre di pensioni.
119. Ibid., 65, cc. 139, 143v, 171, 182.
120. Ibid., 60a, cc. 27-28v.
121. Ibid., 69, c. 83, «cifra» del 19 agosto 1645.
122. V. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Ottoboniani latini, 3228, t. I, «Lettere familiari scritte dal 1627 al [1642] a Pietro Ottoboni che fu poi Alessandro VIII», cc. 380-382.
123. Ibid., 3277, «Registro di lettere del Procuratore Angelo Corraro al Cardinale Pietro Ottoboni che fu poi Alessandro VIII dal 1670 al 1674», c. 36r-v. Sul Correr v. Angelo Baiocchi, Correr, Angelo, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXIX, Roma 1983, pp. 480-485.
124. In Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano, Segreteria di Stato. Venezia, 69, cc. 161-162, è la notizia della decisione del collegio, chiamato in causa da un ricorso, di attribuire ad altro ecclesiastico un canonicato collazionato dal pontefice.
125. Ibid., 84, «Lettere di Monsignor Nuntio in Venetia del 1653», cc. 78, 79, 146, 173, 174, 480. Il nunzio riuscì poi a convincere il capitolo feltrino a ritirare la denuncia «al Pubblico» di modo che la questione potesse venire affrontata dalle sole autorità ecclesiastiche.
126. Cf. A.S.V., Consultori in jure, filza 59, «Gaspare Lonigo. Tomo 1», cc. 99-100.
127. Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano, Segreteria di Stato. Venezia, 76, «Cifre di Monsignor Nunzio in Venezia del 1648», c. 89. Il dissidio tra patriarca e capitolo aveva dell’incredibile. Entrambi reclamavano il diritto di collazionare una parrocchiale. Il patriarca fece allora un monitorio contro il capitolo il quale rispose con un ricorso al tribunale del nunzio, esempio che fu poi pure seguito dal loro concorrente. Crescendo intanto la tensione, capitolo e patriarca finirono col rivolgersi anche al foro laico. Di fronte ad una situazione così confusa, peraltro, le autorità marciane non dimostrarono nessun interesse ad assumere il giudizio e si impegnarono anzi con successo con il patriarca perché ritirasse la censura scagliata contro il capitolo. La vicenda non si sarebbe poi conclusa con ciò: il capitolo ricorse infatti nuovamente in collegio (ibid., cc. 108, 130r-v).
128. Ibid., 70, cc. 22r-v, 42, 43v, 80v.
129. Ibid., 38, «Lettere di Mons. Gessi, Vescovo di Rimini Nuntio in Venetia dalli 14 di giugno 1607 sino alli 3 di gennaio 1609», c. 184.
130. V. Antonio Niero, I patriarchi di Venezia da Lorenzo Giustiniani ai nostri giorni, Venezia 1961, pp. 106 ss.
131. V. G. Cozzi, Giuspatronato del doge e prerogative del primicerio e v. Bianca Betto, La chiesa ducale, in La Chiesa di Venezia nel Seicento, a cura di Bruno Bertoli, Venezia 1992 (Contributi alla storia della Chiesa veneziana, 5), pp. 25-171.
132. G. Cozzi, Giuspatronato del doge e prerogative del primicerio, è la descrizione di altre conseguenze derivanti da tale atteggiamento del doge: le dispute, anzitutto, con i procuratori di San Marco.
133. Ibid., p. 53.
134. Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano, Segreteria di Stato. Venezia, 70, cc. 127v-128v.
135. A. Niero, I Sinodi del secolo, p. 93.
136. Il giudizio fu espresso dal nunzio nel 1648: v. Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano, Segreteria di Stato. Venezia, 76, c. 374.
137. Ibid., 72, «Cifre di Monsignor Nunzio in Venetia del 1646», cc. 68, 96, 98, 124, 235-238.
138. Ibid., 70, cc. 127v-128v, 134v.
139. Ibid., 77a, «Lettere e memoriali della Nunziatura di Venezia 1649-1652», c. 65.
140. V. A. Niero, I patriarchi di Venezia, pp. 127-130, e Id., I Sinodi del secolo, pp. 93 ss.: qui Niero insiste sulla «bontà» e «mitezza» del Morosini nello svolgere le sue funzioni episcopali facendo così intravedere, alla luce delle altre notizie qui presentate, una personalità molto complessa.
141. Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano, Segreteria di Stato. Venezia, 72, c. 68.
142. Ibid., 70, c. 134v.
143. Ibid., 77a, c. 65.
144. Ibid., 107, «1668. Lettere di Monsignor Nunzio in Venezia», c. 120.
145. Ibid., 72, cc. 235-238.
146. Quando i pontefici intervennero nella delicata questione lo fecero peraltro cercando di compiacere la Repubblica: ciò avvenne con Clemente VIII nel 1596 e con Alessandro VIII nel 1690. I due definirono e confermarono le competenze e i privilegi dei primiceri di San Marco senza sostanziale riguardo per le pretese dei patriarchi: v. B. Betto, La chiesa ducale e G. Cozzi, Giuspatronato del doge e prerogative del primicerio, pp. 64-68, dove viene rievocato il singolarissimo episodio che nel 1712 riguardò il primicerio Vincenzo Michiel. Questi dichiarò di ritenere eccessive talune delle prerogative riconosciute al primicerio e — per il suo tramite — al doge, dal breve di Alessandro VIII. Nel 1713 Michiel venne rimosso e sostituito dalle autorità veneziane.
147. V. F. Salimbeni, La Chiesa veneziana nel Seicento, p. 44 e S. Tramontin, La diocesi nelle relazioni, pp. 78 ss.
148. V. al proposito Liliana Billanovich, Fra centro e periferia. Vicari foranei e governo diocesano di Gregorio Barbarigo vescovo di Padova (1664-1697), Padova 1993 e Ead., Intorno al governo pastorale di Gregorio Barbarigo, «Ricerche di Storia Sociale e Religiosa», n. ser., 46, 1994, pp. 77-94.
149. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Chigiani, D.II. 17, «Registro di cifre e lettere scritte da Monsignor Altoviti Arcivescovo di Atene nella sua Nunziatura di Venetia alla Segreteria di Stato della sa.me. di Alessandro VII con le risposte della medesima ad esso Monsignor Nuntio dalli 15 ottobre 1658 alli 10 aprile 1666 [tomo IV]», cc. 59 ss.
150. La citazione, scelta tra le tante altre che sarebbe stato possibile riprendere, è ibid., c. 363.
151. Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano, Segreteria di Stato. Venezia, 58c, c. 76v.
152. Sui motivi della diffidenza veneziana v. Gaetano Cozzi, Stato e Chiesa: vicende di un confronto secolare, in AA.VV., Venezia e la Roma dei papi, Milano 1987, pp. 25 s. (pp. 11-56).