sublime
Dal lat. sublimis, comp. di sub «sotto» e limen «soglia»: propr. «che giunge fin sotto la soglia più alta», quindi (in senso spirituale, intellettuale, estetico) «nobilissimo, eccelso», «la manifestazione del bello e del grande, nel suo più alto grado». In estetica, concetto elaborato in ambiente neoplatonico tra il 1° e il 2° sec. a.C. (la trattazione più antica è contenuta nell’opera, del 1° sec. d.C., Περὶ ὕψους, nota anche come Anonimo del Sublime, o come pseudo-Longino), allo scopo di definire la proprietà dell’arte di indurre, per le sue connotazioni di mistero e di ineffabilità, a uno stato di estasi, e poi ripreso nei secc. 18° e 19° per sottolineare, con varie interpretazioni, la capacità dell’arte, in conflitto con la razionalità, di dare consapevolezza emotiva dell’infinità e della potenza irresistibile della natura.
Ciò che innanzitutto caratterizza la nozione di s. è il fatto che a essa è sempre connesso il riconoscimento di una sproporzione, ossia di uno scarto di fatto incolmabile, tra qualcosa di finito e con ciò stesso di determinato (il contingente), e qualcosa che invece si presenta come irriducibilmente altro rispetto a quella determinatezza (l’infinito, e quindi l’assoluto). Da questo punto di vista, quando utilizziamo la nozione di s. – in riferimento a un oggetto naturale o artistico –, ciò a cui propriamente ci riferiamo è quell’indeterminato che nel sensibile si dà come altro del sensibile e che, come tale, può essere solo pensato. S., in questo senso, è quell’eccedenza alla quale nessuna rappresentazione è in grado di dare una forma compiuta e che, proprio per questo, non può che restare irrappresentabile. Ed è appunto di una tale irrappresentabilità che l’oggetto naturale o artistico, al quale ci riferiamo evocando il s., può costituire propriamente la presentazione sensibile: la presentazione di qualcosa che in quell’oggetto si sottrae, sempre e di nuovo, a ogni possibilità di rappresentazione. In partic., in riferimento all’opera d’arte il s. consiste nel fatto che la forma stessa dell’opera, vale a dire la sua stessa configurazione sensibile, lungi dal saturare pienamente il contenuto intelligibile di cui è carica, al contrario esibisce la sua inadeguatezza rispetto all’eccedenza, e quindi rispetto alla irrappresentabilità, di un tale contenuto. Si tratta di un’eccedenza che l’immagine artistica è in grado, in qualche modo, di esibire, evocandola per via negativa, ossia allusivamente. È quanto accade, in modo esemplare, nel caso dell’immagine-icona (l’icona greco-russa, innanzitutto). Questa infatti si presenta non come il tentativo di portare del tutto a visibilità la trascendenza dell’assoluto (l’irrappresentabile), bensì come un’immagine visibile dell’invisibile in quanto invisibile. Questo significa che l’immagine deve non svelare, bensì ri-velare, ossia mostrare e insieme nascondere, quell’invisibile al quale l’immagine rimanda. È quanto ritroviamo, nel Novecento, nell’ambito della pittura astratta e, in partic., nel suprematismo di Malevič, per il quale è la ricerca del ‘supremo’, ossia la tensione della pittura all’assenza della rappresentazione, a farsi esibizione del s.; così il Quadrato bianco su fondo bianco (1918) mostra esemplarmente come il tratto distintivo dell’arte astratta sia il tentativo di portare a manifestazione quel ‘niente’ (l’irrappresentabile, l’altro del mondo) del quale l’opera deve mostrare la paradossale presenza- assenza: la presenza, insomma, di qualcosa che sempre si ritrae. Già nel trattato Περὶ ὕψους dello pseudo-Longino, dove la nozione di s. fa la sua prima apparizione nell’ambito della cultura occidentale, il s. esibisce in modo esemplare quello che ne sarà, anche in età moderna, il valore semantico fondamentale, vale a dire l’idea di un ‘movimento verso l’alto’. Si tratta di una nozione che, già nel mondo antico, esprime l’esigenza di trascendere le condizioni emotive della nostra esperienza ordinaria. S., in questo senso, è innanzitutto il pathos dell’anima originariamente protesa verso l’alto, verso qualcosa cioè che eccede l’insopprimibile finitezza della nostra condizione. Di qui, allora, la connessione che lega la nozione di s. e quella platonica di ispirazione, intesa come stato di possessione mistica (ϑεὶα μανὶα), ossia come slancio dell’anima verso l’assoluto. Così il s., lungi dal risolversi nella dimensione meramente emotiva della paura e dell’afflizione, è quel pathos che, sollevandoci «nelle vicinanze del divino», si fa espressione di un sentire elevato.
Nell’età moderna, la nozione di s. assume un’importanza decisiva nell’ambito della riflessione estetica sviluppata in partic. in Francia e in Inghilterra nel corso del sec. 18°. Ed è proprio in Inghilterra, grazie all’opera di Addison, che la nozione di s. viene distinta per la prima volta da quella di ‘bello’; secondo Addison, infatti, il tratto caratteristico del s. è il suo farsi espressione di un «orrore piacevole». È quanto sarà ripreso da Burke il quale, nella sua opera Philosophical enquiry into the origin of our ideas of the sublime and beatiful (1757; trad. it. Inchiesta sul bello e il sublime), dopo aver distinto tra ‘bello’ e ‘s.’, afferma che vedere nel s. l’espressione di un «orrore piacevole» è una conseguenza del fatto che, in esso, la percezione da parte del soggetto di un pericolo o di un rischio estremo – la percezione, per es., dell’informe, del terribile o dello smisurato – è strettamente connessa alla consapevolezza della distanza che separa quello stesso soggetto dal pericolo appunto percepito. Il s., dunque, come espressione di quel «naufragio con spettatore» che Lucrezio, per la prima volta, tematizza nel II libro del De rerum natura. In questo senso, sempre secondo Burke, il sublime tende a presentarsi come una dimensione propriamente empirica, e quindi come qualcosa di eminentemente psicologico e fisiologico.
Solo con Kant la riflessione filosofica sul s. giunge al suo sviluppo più maturo. È quanto emerge già dalle Beobachtungen über das Gefühl des Schönen und Erhabenen (1764; trad. it. Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime), dove Kant riconosce nell’idea di ‘grandezza’ il tratto distintivo della sublimità. Questa connessione tra l’idea di ‘grandezza’ e quella di ‘s.’ si precisa ulteriormente nella Kritik der Urteilskraft (1790; trad. it. Critica del giudizio), dove il s. è definito come «ciò che è assolutamente grande» (§ 25), o come «ciò che è grande al di là di ogni comparazione». In questo senso, sublime è ciò che, «per il fatto di poterlo anche solo pensare, attesta una facoltà dell’animo superiore ad ogni misura dei sensi». Più in generale, rispetto alla connotazione ancora fortemente empirica e psicologica che il termine assume nella prospettiva di Burke, nella riflessione kantiana il s. è non un ‘oggetto’, né tantomeno un predicato che possa essere riferito alla realtà fenomenica, bensì il risultato di un giudizio. Si tratta insomma di una dimensione che riguarda innanzitutto le facoltà conoscitive del soggetto e, con ciò stesso, la nostra originaria apertura al mondo e all’esperienza. La conseguenza è il valore propriamente trascendentale, e insieme il significato universale, che Kant tenta di conferire alla nozione di sublime. In questa prospettiva, se il bello, in quanto fondato sul «libero gioco di immaginazione e intelletto», esprime l’accordo (ossia il proporzionamento) delle nostre facoltà conoscitive, al contrario ciò che fonda il sentimento del s. è non l’accordo bensì il contrasto delle facoltà che, appunto, partecipano alla determinazione del giudizio, ossia l’immaginazione e la ragione. Così, se il bello è in grado di mantenere l’animo in una «contemplazione statica», al contrario il tratto caratteristico del s. è la sua capacità di indurre «un movimento dell’animo». È rispetto a un tale movimento che Kant distingue tra un s. «matematico», che riguarda «ciò che è assolutamente grande», e un s. «dinamico», che riguarda invece la natura, laddove questa sia percepita come una potenza terrificante che sovrasta l’uomo. In entrambi i casi, al riconoscimento della nostra costitutiva impotenza e inadeguatezza rispetto all’incommensurabilità dell’oggetto percepito, è indissolubilmente connesso il «sentimento della nostra destinazione sovrasensibile», vale a dire il riconoscimento della nostra insopprimibile tensione verso l’assoluto (le «idee della ragione»). Ne deriva il carattere nello stesso tempo etico ed estetico della nozione di s.: è quanto lo stesso Kant mette in evidenza, quando definisce il s. come «ciò che piace immediatamente per la sua opposizione all’interesse dei sensi» (Critica del giudizio, § 29). Di qui, ancora, il carattere paradossale del s.: questo infatti, nel momento stesso in cui esibisce l’insuperabilità della nostra finitezza, allude a quella dimensione sovrasensibile (l’assoluto, la totalità, l’infinito) che, come tale, si sottrae a ogni possibilità di rappresentazione e che, tuttavia, in qualche modo deve poter essere rappresentata.
Tra gli esiti più recenti della riflessione teorica sul s. si deve ricordare la posizione di Lyotard (1991; Leçons sur l’analytique du sublime; trad. it. Lezioni sull’analitica del sublime), per il quale la nozione di s. è l’espressione del tentativo sempre rinnovato di rappresentare l’irrappresentabile. È quanto lo stesso Lyotard sottolinea, facendo riferimento in partic. all’esperienza artistica delle avanguardie storiche. E tuttavia, se è vero che è proprio l’arte delle avanguardie dei primi decenni del Novecento a esibire in modo esemplare l’attualità della nozione di s. nell’ambito della cultura moderna, è anche vero che il riemergere del s. nelle neoavanguardie della seconda metà del Novecento è strettamente connesso a un equivoco di fondo. Si tratta della pretesa, propria di tante forme artistiche contemporanee, di portare a manifestazione l’irrappresentabile non più attraverso la rappresentazione, e quindi attraverso la forma, bensì rinunciando alla forma, come se l’irrappresentabile potesse appunto ‘presentarsi’ in modo assolutamente immediato, vale a dire indipendentemente da ogni possibile rappresentazione.