Abstract
Gli ultimi decenni sono stati caratterizzati da una profonda ristrutturazione del processo produttivo e da una ridefinizione della divisione del lavoro fra imprese. Non è raro oggi che un’impresa affidi ad altre imprese quote o fasi della sua produzione. Le strategie attraverso le quali si attua il decentramento sono varie e fra queste si colloca la conclusione di contratti di subfornitura. Nel 1998 il legislatore italiano ha ritenuto di dover disciplinare il fenomeno e ha emanato la l. 18.6.1998, n. 192, «Disciplina la subfornitura nelle attività produttive». Il legislatore ha dettato una serie di norme, in larga parte imperative, in materia di forma, contenuto del contratto, responsabilità del fornitore, ritardi di pagamento, interposizione, proprietà industriale, iter processuale e disciplina fiscale in materia subfornitura. La disciplina è apparsa caratterizzata da una forte spinta protezionistica nei confronti del subfornitore, assunto come soggetto debole da proteggere. Nel testo si analizza la disciplina sopra citata e ci si sofferma sull’abuso di dipendenza economica.
Non è raro oggi che un’impresa affidi ad altre imprese quote o fasi della sua produzione.
Il decentramento avviene anche attraverso la conclusione di contratti di subfornitura.
Nel 1998 il legislatore italiano ha ritenuto di dover disciplinare il fenomeno e ha emanato la l. 18.6.1998, n. 192, «Disciplina della subfornitura nelle attività produttive».
Ai sensi dei co. 1 e 2 dell’art. 1, l. n. 192/1998: «Con il contratto di subfornitura un imprenditore si impegna a effettuare per conto di una impresa committente lavorazioni su prodotti semilavorati o su materie prime forniti dalla committente medesima, o si impegna a fornire all'impresa prodotti o servizi destinati ad essere incorporati o comunque ad essere utilizzati nell'ambito dell'attività economica del committente o nella produzione di un bene complesso, in conformità a progetti esecutivi, conoscenze tecniche e tecnologiche, modelli o prototipi forniti dall'impresa committente. Sono esclusi dalla definizione di cui al comma 1 i contratti aventi ad oggetto la fornitura di materie prime, di servizi di pubblica utilità e di beni strumentali non riconducibili ad attrezzature».
Come si può cogliere facilmente, il legislatore delimita il campo di applicazione della disciplina definendo il ‘contratto di subfornitura’ e non le caratteristiche strutturali dell’impresa subfornitrice.
In vero, una medesima impresa può rivestire, nei diversi rapporti, ora il ruolo di committente ora il ruolo di subfornitore, e può offrire sia una produzione ‘dedicata’ che una produzione diretta al mercato.
Nella definizione di cui all’art. 1, si fa riferimento sia alla subfornitura di lavorazione («lavorazioni su prodotti semilavorati o su materie prime forniti dalla committente medesima») sia a quella di prodotti o servizi («prodotti o servizi destinati ad essere incorporati o comunque ad essere utilizzati nell'ambito dell'attività economica del committente o nella produzione di un bene complesso»).
I «prodotti» o «servizi» devono confluire nel ciclo produttivo del committente. La norma, però, non limita l’ambito di applicazione all’incorporazione del prodotto o servizio nel bene finale, ma lo estende, più in generale, alle ipotesi di utilizzazione di questi nell’ambito dell’attività economica del committente
Ci si chiede se l’ultimo inciso del co. 1, «in conformità a progetti esecutivi, conoscenze tecniche e tecnologiche, modelli o prototipi forniti dall'impresa committente» sia da riferire solo alla subfornitura di prodotto o servizio, a cui la norma fa riferimento subito prima della virgola, o anche a quella di «lavorazione», che precede nel testo una «o», considerata in grammatica una congiunzione disgiuntiva. Seppur l’infelice formulazione della norma possa legittimare il dubbio che così non sia, dal punto di vista degli assetti di interessi non vi è ragione alcuna per operare una siffatta distinzione. Tale soluzione sembra avallata anche dai lavori preparatori e dalla circostanza che l’art. 7 parli di progetti e prescrizioni di carattere tecnico comunicati al fornitore, senza distinguere tra subfornitura di lavorazione e subfornitura di prodotto.
La questione più controversa è, però, quella relativa a cosa debba essere inteso per «in conformità a progetti esecutivi, conoscenze tecniche e tecnologiche, modelli o prototipi forniti dall'impresa committente». Se, cioè, sia sufficiente a integrare gli estremi del requisito in questione la mera richiesta da parte del committente di una ‘customerizzazione’ o personalizzazione della lavorazione, del prodotto o del servizio, senza che venga fornito, da parte di questo, al subfornitore uno specifico apporto tecnico e anzi confidando sulle specifiche competenze tecniche di quest’ultimo, o se, viceversa, gli estremi del requisito siano integrati solo quando si sia in presenza di quella dipendenza tecnologica tipica della subfornitura cd. di capacità.
In altre parole, ciò su cui ci si interroga è se la disciplina contenuta nella l. n. 192/1998 si applichi solo a quegli accordi in cui il committente abbia le competenze tecniche mentre il subfornitore non le abbia o se, invece, sia applicabile anche laddove il subfornitore abbia competenze che il committente non ha. La maggioranza della dottrina e della giurisprudenza ritiene che la disciplina risulti applicabile solo nell’ipotesi in cui vi sia una dipendenza tecnologica. La soluzione sembra da preferire, perché la formula «progetti esecutivi, conoscenze tecniche e tecnologiche, modelli o prototipi forniti dall'impresa committente» sembra fare riferimento a un quid diverso rispetto alla mera indicazione di come personalizzare il prodotto, la lavorazione o il servizio. Le ipotesi contemplate, cioè, fanno riferimento alla trasmissione di un certo know-how dall’impresa committente alla subfornitrice e non alla mera indicazione della lavorazione, prodotto o servizio specifico, ancorché diverso da quelli in circolazione, che si intende ottenere. Tale soluzione non comporta, però, che il subfornitore debba essere assolutamente non dotato di una sua capacità tecnica perché risulti applicabile la disciplina analizzata. Ciò a cui la norma attribuisce rilevanza, infatti, è che il trasferimento di know-how da parte del committente ci sia e risulti qualitativamente decisivo secondo un criterio di prevalenza.
La circostanza che sia richiesta la cd. dipendenza tecnologica fa sì che la disciplina non possa trovare applicazione in presenza di beni di catalogo o di serie. Così come la stessa non troverà applicazione né in presenza di esternalizzazione di servizi alla produzione la cui competenza tecnica sia di tipo comune, quali i servizi di mensa, pulizia o contabilità, né in presenza di esternalizzazione di servizi alla produzione caratterizzati dall’essere il fornitore un operatore ad alta specializzazione nel settore di riferimento (si pensi all’esternalizzazione dello sviluppo del sistema informatico aziendale).
Il co. 2, art. 1, l. n. 192/1998 esclude espressamente che possano essere considerati contratti di subfornitura i contratti aventi ad oggetto la fornitura di materie prime, di servizi di pubblica utilità e di beni strumentali non riconducibili ad attrezzature.
Seppur l’espressione «servizi di pubblica utilità» sia stata nelle diverse discipline (alcune molto risalenti) riferita a servizi non del tutto coincidenti, con riferimento alla norma analizzata tali servizi non possono che essere quelli erogati e necessari al pubblico in generale e non alla singola impresa in particolare (luce, acqua, gas, telecomunicazioni, ecc.).
Ci si è interrogati sul cosa si debba intendere per «beni strumentali non riconducibili ad attrezzature». Alla luce dei lavori parlamentari si può ritenere che i primi siano gli investimenti in capitale fisso non riconducibili ad attrezzature, ossia gli immobili. Sono, pertanto, contratti di subfornitura i contratti aventi ad oggetto le attrezzature (ad esempio stampini o forme) fabbricate adhoc per l’esecuzione della fornitura ordinata dal committente.
Prima dell’entrata in vigore della l. n. 192/1998, per concludere un contratto di subfornitura si ricorreva al telefono, alla stretta di mano o ad altre promesse vaghe. Non poteva, dunque, sorprendere che sorgessero spesso contestazioni circa i termini dell’accordo, dovute a incomprensioni fra le parti, e che prevalesse solitamente la posizione del committente.
Al fine di evitare ciò, l’art. 2, co. 1, dispone che il contratto di subfornitura debba essere stipulato in forma scritta a pena di nullità, precisando, però, che «costituiscono forma scritta le comunicazioni degli atti di consenso alla conclusione o alla modificazione dei contratti effettuate per telefax o altra via telematica». Nel caso di contratti a esecuzione continuata o periodica, anche gli ordinativi relativi alle singole forniture devono essere comunicati dal committente al fornitore in una delle suddette forme (art. 2, co. 3).
La norma (diversa da quella in materia di appalto che, come è noto, può essere di regola stipulato senza vincoli di forma) è, per l’appunto, posta a tutela del subfornitore e ha la funzione di rendere riconoscibile, chiaro e non manipolabile da parte del committente il contenuto del contratto, eliminando le incertezze e consentendo la conservazione dei dati.
In caso di proposta scritta del committente il contratto si considera concluso per iscritto anche se il subfornitore si limiti a iniziare le lavorazioni o le forniture senza richiedere modificazioni degli elementi della proposta (v. art. 2, co. 2). La norma appare distonica rispetto alla communis opinio secondo la quale non possono essere conclusi mediante esecuzione i contratti formali. La deviazione dal modello, però, ben si spiega se si tiene conto della ratio della prescrizione della forma scritta in materia di subfornitura che, per l’appunto, è quella di evitare che il committente (e non il subfornitore) possa manipolare a suo vantaggio i termini dell’accordo.
Il subfornitore deve dare pronto preavviso all’altra parte dell’iniziata esecuzione, così come è previsto dall’art. 1327, co. 2, c.c.
In caso di conclusione del contratto mediante esecuzione, al contratto si applicheranno le condizioni indicate nella proposta, ferma restando, però, l’applicazione dell’art. 1341 c.c.
In caso di nullità per mancanza di forma, il subfornitore ha comunque diritto al pagamento delle prestazioni già effettuate e al risarcimento delle spese sostenute in buona fede ai fini dell'esecuzione del contratto (art. 2, co. 1).
Ai sensi del co. 5, art. 2, l. n. 192/1998, «Nel contratto di subfornitura devono essere specificati: a) i requisiti specifici del bene o del servizio richiesti dal committente, mediante precise indicazioni che consentano l'individuazione delle caratteristiche costruttive e funzionali, o anche attraverso il richiamo a norme tecniche che, quando non siano di uso comune per il subfornitore o non siano oggetto di norme di legge o regolamentari, debbono essere allegate in copia; b) il prezzo pattuito; c) i termini e le modalità di consegna, di collaudo e di pagamento».
Il co. 4 dispone, inoltre, che «Il prezzo dei beni o servizi oggetto del contratto deve essere determinato o determinabile in modo chiaro e preciso, tale da non ingenerare incertezze nell'interpretazione dell'entità delle reciproche prestazioni e nell'esecuzione del contratto».
Il legislatore non indica espressamente quale sia la conseguenza del mancato rispetto dei due commi e la dottrina non sembra aver trovato convergenze sul punto.
L’art. 6, l. n. 192/1998 impone anche limiti all’autonomia dei privati con riferimento al contenuto del contratto. Ed infatti è, in primo luogo, nullo il patto tra subfornitore e committente che riservi ad uno di essi la facoltà di modificare unilateralmente una o più clausole del contratto di subfornitura. Sono tuttavia validi gli accordi contrattuali che consentano al committente di precisare, con preavviso ed entro termini e limiti contrattualmente prefissati, le quantità da produrre ed i tempi di esecuzione della fornitura.
È altresì nullo il patto che attribuisca ad una delle parti di un contratto di subfornitura ad esecuzione continuata o periodica la facoltà di recesso senza congruo preavviso.
Il congruo preavviso, dunque, si deve dare anche nell’ipotesi in cui il soggetto non sia in stato di dipendenza economica, o sia in stato di dipendenza economica ma l’interruzione del rapporto non sia arbitraria (per ipotesi perché siano radicalmente cambiate le condizioni di mercato e/o si assista a forti contrazioni della domanda del prodotto del committente). Il congruo termine di preavviso, in altre parole, risponde all’esigenza di garantire un lasso di tempo per la riorganizzazione della produzione che prescinde del tutto dalla presenza o meno di eventuali investimenti dedicati, sunk costs o tempi di ammortamento degli investimenti. Nella prassi si ritiene solitamente congruo il termine di preavviso di un anno.
La disciplina contenuta nell’art. 6 non impone l’esistenza di una giusta causa di recesso. Si ricorda, però, che la Suprema Corte (Cass., 18.09.2009, n. 20106), invocando la buona fede e il divieto di abuso del diritto, ha individuato dei limiti generali all’esercizio del recesso ad nutum, anche laddove – sembra di capire – non ricorrano gli estremi dell’abuso di dipendenza economica.
È nullo il patto con cui il subfornitore disponga, a favore del committente e senza congruo corrispettivo, di diritti di privativa industriale o intellettuale (art. 6, co. 3).
L’idea di disciplinare in senso protettivo la subfornitura è nata dalla constatazione dell’esistenza in questo mercato di cronicizzate pratiche distorsive nel settore dei termini di pagamento.
Il 12.5.1995 la Commissione Europea ha pubblicato una Raccomandazione (n. 95/198/CE) riguardante in generale i termini di pagamento nelle transazioni commerciali in cui gli Stati Membri venivano invitati «ad adottare i provvedimenti giuridici e pratici necessari per far rispettare i termini di pagamento contrattuali nelle transazioni commerciali e negli appalti pubblici».
Il legislatore italiano ha raccolto in un primo momento le sollecitazioni della Commissione solo in relazione ai rapporti di subfornitura, inserendo l’art. 3, l. n. 192/1998. Successivamente, dovendo dare recepimento alla Direttiva 2000/35/CE sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, ha dettato una disciplina applicabile a tutti i contratti, comunque denominati, tra imprese ovvero tra imprese e pubbliche amministrazioni, che comportino, in via esclusiva o prevalente, la consegna di merci o la prestazione di servizi, contro il pagamento di un prezzo. Il recepimento della dir. è avvenuto attraverso il d.lgs. 9.10.2002, n. 231. Quest’ultimo, dovendo raccordare la disciplina del 1998 con le nuove indicazioni dell’Unione, si è limitato a modificare l’art. 3, co. 3, l. n. 192/1998, lasciando per il resto invariato il testo. Di recente il d.lgs. n. 231/2002 è stato modificato ad opera del d.lgs. 9.11.2012, n. 192 (Modifiche al d.lgs. 9.10.2002, n. 231, per l'integrale recepimento della dir. 2011/7/UE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, a norma dell'art. 10, co. 1, della l. 11.11.2011, n. 180). Per quanto qui rileva, l’art. 2 di quest’ultimo d.lgs., in particolare ha modificato nuovamente l’art. 3 innalzando di un punto percentuale (da 7 a 8) la maggiorazione prevista ai fini del calcolo degli interessi dovuti.
Si ritiene che nei contratti di subfornitura, per tutto quanto non sia espressamente disciplinato dalla Legge, trovi applicazione il d.lgs. n. 192/2012 in quanto disciplina generale avente valore di principio. In caso di contrasto prevale la disposizione più favorevole per il creditore (art. 11, d.lgs. n. 192/2012).
I co. 2 e 3 dell’art. 3 della l. n. 192/1998 prevedono che il contratto debba fissare i termini di pagamento della subfornitura, decorrenti dal momento della consegna del bene o dal momento della comunicazione dell'avvenuta esecuzione della prestazione, e debba precisare, altresì, gli eventuali sconti in caso di pagamento anticipato rispetto alla consegna. Il prezzo pattuito deve essere corrisposto in un termine che non può eccedere i sessanta giorni dal momento della consegna del bene o della comunicazione dell'avvenuta esecuzione della prestazione. Tuttavia, può essere fissato un diverso termine, non eccedente i novanta giorni, in accordi nazionali per settori e comparti specifici, sottoscritti presso il Ministero dell'industria, del commercio e dell'artigianato da tutti i soggetti competenti per settore presenti nel Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro in rappresentanza dei subfornitori e dei committenti. Può altresì essere fissato un diverso termine, in ogni caso non eccedente i novanta giorni, in accordi riferiti al territorio di competenza della camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura presso la quale detti accordi sono sottoscritti dalle rappresentanze locali dei medesimi soggetti di cui al secondo periodo. Gli accordi devono contenere anche apposite clausole per garantire e migliorare i processi di innovazione tecnologica, di formazione professionale e di integrazione produttiva.
Occorre chiedersi, in primo luogo, quale sia la conseguenza della mancata fissazione dei termini di pagamento. Secondo parte della dottrina, sarebbe da escludere in questo caso la nullità dell’intero contratto e risulterebbe, invece, applicabile l’art. 1339 c.c.
Nel caso in cui le parti abbiano convenuto un termine superiore a quello previsto dal co. 2 dell’art. 3, l. n. 192/1998, tale termine sarà sostituito, ex art. 1339 c.c., con quello massimo.
Il co. 3, così come modificato dal d.lgs. n. 231/2002, dispone che in caso di mancato rispetto del termine di pagamento il committente dovrà al subfornitore, senza bisogno di costituzione in mora, un interesse determinato in misura pari al saggio d'interesse del principale strumento di rifinanziamento della Banca centrale europea applicato alla sua più recente operazione di rifinanziamento principale effettuata il primo giorno di calendario del semestre in questione, maggiorato di otto (prima sette) punti percentuali, salva la pattuizione tra le parti di interessi moratori in misura superiore e salva la prova del danno ulteriore. Il saggio di riferimento in vigore il primo giorno lavorativo della Banca centrale europea del semestre in questione si applica per i successivi sei mesi. Ove il ritardo nel pagamento ecceda di 30 giorni il termine convenuto, il committente incorre, inoltre, in una penale pari al 5 per cento dell'importo in relazione al quale non ha rispettato i termini.
Ai sensi del co. 4 dell’art. 3, la mancata corresponsione del prezzo entro i termini pattuiti costituirà titolo per l'ottenimento di ingiunzione di pagamento provvisoriamente esecutiva ai sensi degli artt. 633 ss. c.p.c.
Ai rimedi sopra descritti, si aggiungono ora quelli introdotti dalla l. n. 180/2011, e in particolare quelli legati all’attribuzione della legittimazione ad agire alle associazioni rappresentate in almeno cinque camere di commercio, al Cnel e alle loro articolazioni territoriali e di categoria e quelli derivanti dalla modifica della disciplina che consente all’Autorità Garante della concorrenza e del mercato di reprimere l’abuso (l’art. 10, co. 2, ha, infatti, aggiunto un periodo al co. 3-bis dell’art. 9 della l. n. 192/1998, che permette all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato di intervenire contro l’abuso, in caso di violazione diffusa e reiterata della disciplina di cui al d.lgs. n. 231/2002, a prescindere dall’accertamento della dipendenza economica).
Ai sensi dell’art. 4, l. n. 192/1998, la fornitura di beni e servizi oggetto del contratto di subfornitura non può, a sua volta, essere ulteriormente affidata in subfornitura senza l'autorizzazione del committente per una quota superiore al 50 per cento del valore della fornitura, salvo che le parti nel contratto non abbiano indicato una misura maggiore.
La disciplina è diversa da quella prevista dall’art. 1656 c.c. in materia di subappalto, secondo la quale «L’appaltatore non può dare in subappalto l’esecuzione dell’opera o del servizio, se non è stato autorizzato dal committente».
Ciò si spiega se si tiene conto dell’evoluzione nell’organizzazione della produzione. Il legislatore del 1998 ha preso atto della sempre più accentuata ristrutturazione del processo produttivo, che porta sempre più spesso l’impresa ad affidare all’esterno quote o fasi della sua produzione, e ha ritenuto di dover garantire anche al subfornitore la possibilità di organizzare, al pari del committente, la propria attività d’impresa in modo flessibile e decentrato.
Gli accordi con i quali il subfornitore, senza autorizzazione, affidi ad altra impresa l'esecuzione delle proprie prestazioni per una quota superiore al 50 per cento del valore della fornitura sono nulli.
L’ipotesi dell’affidamento va distinta dalla cessione del contratto, che resta disciplinata in via esclusiva dall’art. 1406 c.c..
Il co. 3 dell’art. 4 dispone che in caso di ulteriore affidamento in subfornitura di una parte di beni e servizi oggetto del contratto di subfornitura, gli accordi con cui il subfornitore affida ad altra impresa l'esecuzione parziale delle proprie prestazioni sono oggetto di contratto di subfornitura, così come definito dalla l. n. 192/1998. I termini di pagamento di detto nuovo contratto di subfornitura non possono essere peggiorativi di quelli contenuti nel contratto di subfornitura principale.
I co. 1 e 2 dell’art. 5 stabiliscono che il subfornitore ha la responsabilità del funzionamento e della qualità della parte o dell'assemblaggio da lui prodotti o del servizio fornito secondo le prescrizioni contrattuali e a regola d'arte e che lo stesso non può essere ritenuto responsabile per difetti di materiali o attrezzi fornitigli dal committente per l'esecuzione del contratto, purché li abbia tempestivamente segnalati al committente. Le norme sono inderogabili e ogni diversa pattuizione deve essere ritenuta nulla (co. 3). Il co. 4 dell’art. 5 dispone che eventuali contestazioni in merito all'esecuzione della subfornitura debbono essere sollevate dal committente entro i termini stabiliti nel contratto che non potranno tuttavia derogare ai più generali termini di legge.
L’art. 9, l. n. 192/1998, vieta l’abuso da parte di una o più imprese dello stato di dipendenza economica nel quale si trova, nei suoi o nei loro riguardi, una impresa cliente o fornitrice.
La vicenda che ha condotto all’introduzione di tale espresso divieto nel nostro ordinamento è stata – come è ormai noto – particolarmente articolata e complessa. Essa, infatti, ha preso le mosse da un disegno di legge della XII legislatura che, nel disciplinare la subfornitura, qualificava come abuso di posizione dominante (e non – si badi bene – dell’altrui dipendenza economica), ai sensi dell’art. 3, l. 10.10.1990, n. 287 «Norme per la tutela della concorrenza e del mercato» (di qui in poi l. antitrust), alcuni comportamenti posti in essere dai committenti dotati di una posizione di maggiore forza contrattuale rispetto ai subfornitori e pregiudizievoli per questi ultimi. L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (di qui in poi Agcm), chiamata a esprimere pareri sul punto, si è più volte dichiarata contraria all’estensione dell’art. 3 della l. antitrust. Il legislatore del 1998 ha accolto l’obiezione dell’Agcm ed ha collocato la norma sull’abuso di dipendenza economica all’interno della disciplina della subfornitura.
L’art. 9 della l. n. 192/1998, prima della modifica del 2001, disponeva, infatti, quanto segue: «1. È vietato l’abuso da parte di una o più imprese dello stato di dipendenza economica nel quale si trova, nei suoi o nei loro riguardi, una impresa cliente o fornitrice. Si considera dipendenza economica la situazione in cui un’impresa sia in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e obblighi. La dipendenza economica è valutata tenendo conto anche della reale possibilità per la parte che abbia subito l’abuso di reperire sul mercato alternative soddisfacenti. 2. L’abuso può anche consistere nel rifiuto di vendere o nel rifiuto di comprare, nella imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie, nella interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto. 3. Il patto attraverso il quale si realizzi l’abuso di dipendenza economica è nullo».
A circa un anno e mezzo dall’emanazione della l. n. 192/1998, la Commissione Industria, Commercio e Turismo (X) del Senato si è riunita per verificare lo stato di attuazione e di efficacia della stessa, così come era stato previsto in fase di approvazione. In quella sede è emerso che uno dei problemi interpretativi ed operativi più controversi riguardava l’abuso di dipendenza economica. In particolare è stato sottolineato che «nella impostazione originaria della legge sulla subfornitura, tale fattispecie era destinata ad essere inserita, non a caso, nell’ambito delle disposizioni regolatrici della concorrenza. E ciò sia perché già presente in altri ordinamenti in ambito comunitario (Repubblica federale tedesca e Francia), sia perché appariva evidente come essa si prestasse ad essere attivata, in quanto strumento di tutela, soprattutto d’ufficio da una istituzione terza rispetto ai rapporti di forza delle parti. La configurazione nell’ambito del diritto civile, a cui si è invece pervenuti a seguito dell’indicazione dell’Antitrust, ne comporta l’azionabilità esclusivamente nell’ambito del giudizio civile, ad iniziativa di parte; ciò ne limita di fatto la praticabilità per le imprese interessate che, trovandosi in stato di dipendenza economica, difficilmente potranno portare allo scoperto gli eventuali abusi delle controparti: l’interesse delle imprese subfornitrici in dipendenza economica a protrarre il rapporto piuttosto che a distruggerlo nel conflitto giudiziario è lapalissiano. Questo punto, fortemente evidenziato dalle organizzazioni di rappresentanza delle piccole imprese e confermato dai dati da esse fin qui forniti, dovrebbe indurre a ripensare ad una ricollocazione della norma nella sua sede naturale, rimettendo l’ordinamento in linea con i modelli giuridici europei (si sono aggiunti nel frattempo anche quello greco e portoghese) che già conoscono norme antitrust sull’abuso di dipendenza economica».
Sembra evidente che il problema delle organizzazioni di rappresentanza delle piccole imprese fosse proprio quello dell’attribuzione della competenza ad un organo che potesse intervenire a prescindere dall’impulso di parte, pena l’inefficacia dei rimedi.
La volontà di dare risposta alla suddetta istanza è stata perseguita attraverso l’approvazione di un emendamento ad un d.d.l. che disciplinava l’apertura e la regolamentazione dei mercati, e in particolare attraverso l’approvazione del co. 2, art. 11, della l. 5.3.2001, n. 57, che ha modificato l’art. 9, l. n. 192/1998, introducendo il co. 3-bis secondo il quale: «Ferma restando l'eventuale applicazione dell'art. 3 della legge 10 ottobre 1990, n. 287, l'Autorità garante della concorrenza e del mercato può, qualora ravvisi che un abuso di dipendenza economica abbia rilevanza per la tutela della concorrenza e del mercato, anche su segnalazione di terzi ed a seguito dell'attivazione dei propri poteri di indagine ed esperimento dell'istruttoria, procedere alle diffide e sanzioni previste dall'articolo 15 della legge 10 ottobre 1990, n. 287, nei confronti dell'impresa o delle imprese che abbiano commesso detto abuso».
Con lo stesso provvedimento è stato anche aggiunto, al co. 3 dell’art. 9, il seguente periodo: «Il giudice ordinario competente conosce delle azioni in materia di abuso di dipendenza economica, comprese quelle inibitorie e per il risarcimento dei danni». Con tale ultima modifica il legislatore ha sciolto ogni dubbio circa la possibilità per l’impresa in stato di dipendenza economica di ottenere sia il risarcimento del danno sia tutela inibitoria.
L’art. 9 è stato di recente ulteriormente modificato. Ed infatti, l’art. 10, co. 2, l. n. 180/2011, ha aggiunto al co. 3-bis dell’art. 9 il seguente periodo: «In caso di violazione diffusa e reiterata della disciplina di cui al decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231, posta in essere ai danni delle imprese, con particolare riferimento a quelle piccole e medie, l'abuso si configura a prescindere dall'accertamento della dipendenza economica». Inoltre il co. 3, dell’art. 10, della l. n. 180/2011 ha attribuito, anche in caso di abuso di dipendenza economica e di abuso tout court nell’ipotesi di violazione diffusa e reiterata della disciplina di cui al d.lgs. n. 231/2002 (ai sensi del novellato co. 3-bis dell’art. 9), la legittimazione «a proporre azioni in giudizio sia a tutela di interessirelativi alla generalità dei soggetti appartenenti alla categoria professionale, sia a tutela di interessi omogenei relativi solo ad alcuni soggetti» alle associazioni rappresentate in almeno cinque camere di commercio, al Cnel e alle loro articolazioni territoriali e di categoria.
Sembra evidente che lo scopo del legislatore del 2011, che ha facilitato l’intervento dell’Agcm e ha attribuito la legittimazione ad agire alle associazioni, sia ancora una volta quello di rafforzare il cd. public enforcement al fine di rendere effettivo il divieto, posta la già segnalata difficoltà che incontrano le imprese in stato di dipendenza economica ad agire contro l’impresa forte.
L’art. 9, l. n. 192/1998, ha certamente risentito del complesso iter legislativo descritto sopra. La disciplina in esso contenuta sembra essere, infatti, di non facile lettura. Gli interventi del 2001 e del 2011 hanno lasciato irrisolte molte delle questioni interpretative su cui la dottrina si era interrogata.
In particolare, non sembra risolta le questione relativa all’ambito di applicazione della disciplina. Ci si chiede, infatti, se la disciplina possa essere applicata anche a rapporti diversi da quelli di subfornitura. Il dubbio nasce dalla circostanza che l’art. 9 della l. n. 192/1998, pur essendo collocato, per l’appunto, all’interno della disciplina sulla subfornitura, ha un tenore letterale tale da consentire di ritenere che si possa applicare a qualsiasi rapporto commerciale fra imprese.
La maggioranza assoluta della dottrina, facendo leva (fra l’altro) sia sul dato letterale (e cioè sull’uso dell’espressione «cliente» anziché committente), sia sui lavori preparatori, sia sul dato comparatistico, sia sul dato sistematico, ritiene a ragione che la disciplina possa essere applicata anche a rapporti diversi.
La giurisprudenza, seppur con qualche eccezione, in un primo tempo sembrava essere orientata nel senso di escludere l’estensione della tutela a contratti diversi rispetto a quello di subfornitura. La Cassazione ha, però, ora scelto l’interpretazione estensiva, affermando che «L’abuso di dipendenza economica di cui all’art. 9 della legge n. 192 del 1998 configura una fattispecie di applicazione generale, che può prescindere dall’esistenza di uno specifico rapporto di subfornitura, la quale presuppone, in primo luogo, la situazione di dipendenza economica di un’impresa cliente nei confronti di una sua fornitrice, in secondo luogo, l’abuso che di tale situazione venga fatto, determinandosi un significativo squilibrio di diritti e di obblighi, considerato anzitutto il dato letterale della norma, ove si parla di impreseclienti o fornitrici, con uso del termine cliente che non è presente altrove nel testo della L. n. 192 del 1998» (Cass., S.U., ord., 25.11.2011, n. 24906).
La dipendenza economica è definita come quella «situazione in cui un’impresa sia in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e obblighi. La dipendenza economica è valutata tenendo conto anche della reale possibilità per la parte che abbia subito l’abuso di reperire sul mercato alternative soddisfacenti».
Ciò che rileva, dunque, è l’assenza di alternative soddisfacenti per la parte che subisce l’abuso e l’avere l’impresa forte partecipato alla costruzione dello stato di dipendenza.
L’espressione «soddisfacente» è da intendere come possibilità per l’impresa di rimanere competitiva sul mercato se costretta al cambiamento di partner. Quindi, non è sufficiente che l’alternativa esista in via oggettiva.
Il co. 1 dell’art. 9 contiene un divieto generale di abuso di dipendenza economica. Il co. 2, invece, contiene un elenco esemplificativo di ipotesi di abuso. Esso, infatti, dispone che l’abuso può “anche” consistere: nel rifiuto di vendere e nel rifiuto di comprare; nella imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie; nella interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto.
Non sembra si nutrano molti dubbi circa il senso da attribuire all’espressione «rifiuto di vendere e rifiuto di comprare». Essa va intesa come rifiuto di intrattenere in generale rapporti commerciali e non, certamente, come rifiuto di concludere contratti di compravendita. Nonostante non sia espressamente previsto, in coerenza con quanto previsto con riferimento alle altre ipotesi di abuso espressamente contemplate, si deve affermare che non tutti i rifiuti integrano gli estremi dell’abuso ma solo quelli ‘arbitrari’ o ingiustificati.
La circostanza poi che il rifiuto di vendere o di comprare venga distinto dall’ipotesi dell’interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto non può che rafforzare l’idea secondo la quale la disciplina contenuta nell’art. 9 protegga anche il cd. new comer.
Il termine «interruzione» è da intendere come sinonimo di cessazione di fatto, il che significa, fra l’altro, che non possa escludersi a priori l’abuso quando l’interruzione coincida con la naturale scadenza del contratto o quando questa derivi da un recesso da un contratto a tempo indeterminato (anche se, per ipotesi, la clausola preveda la possibilità di recedere ad nutum). Il legislatore considera abusive solo le interruzioni ‘arbitrarie’ (non potrà, per ipotesi, considerarsi abusivo il recesso da un contratto a tempo indeterminato dovuto alla modifica significativa delle condizioni di mercato).
Il piano dei rimedi contro l’abuso è molto articolato.
Il patto attraverso il quale si realizza l’abuso di dipendenza economica è nullo, ex art. 9, co. 3, l. n. 192/1998.
L’impresa che ha subito l’abuso potrà inoltre ottenere il risarcimento del danno.
Il legislatore utilizza l’espressione plurale «inibitorie«. Ed invero, sembra ormai accolta anche fra i giuristi continentali l’idea secondo la quale il comando inibitorio possa essere variamente articolato. Con riferimento all’abuso di dipendenza economica si potrebbe pensare oltre al comando di cessare l’abuso, inibitoria cd. negativa, anche a un’inibitoria cd. positiva, ad esempio un obbligo a contrarre. La violazione dell’ordine inibitorio potrebbe ora comportare il pagamento delle astreintes ex art. 614 bis c.p.c.
L’Agcm può comminare sanzioni ma solo nell’ipotesi in cui l’abuso di dipendenza economica abbia rilevanza per la tutela della concorrenza e del mercato. In ragione di ciò, non si segnalano ad oggi sanzioni comminate dall’Autorità e si dubita fortemente, nonostante la riforma, che se ne possano avere nel prossimo futuro.
Nonostante la norma relativa alla legittimazione delle associazioni sia particolarmente infelice nella formulazione e di difficile interpretazione, sembra non possa essere negata alle associazioni la possibilità di agire al fine di ottenere quanto meno una condanna inibitoria nei confronti dell’impresa che perpetra l’abuso. Anche in questo caso il mancato rispetto dell’ordine potrebbe condurre al pagamento di astreintes. L’enforcement attivato dalle associazioni potrebbe rivelarsi, per le ragioni dette sopra, particolarmente favorevole per le imprese che subiscono i vari tipi di abuso.
L. 18.6.1998, n. 192; l. 10.10.1990, n. 287; l. 5.3.2001, n. 57; d.lgs. 9.10.2002, n. 231; l. 11.11.2011, n. 180.
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