strutturalismo
Orientamento metodologico, affermatosi dapprima in linguistica, alla fine degli anni Venti, e poi estesosi via via a tutte le altre scienze umane, secondo cui gli elementi di un sistema culturale (lingua, poetica, mitologia, ecc.) non sono definiti in sé stessi prima della loro entrata in un sistema; essi hanno invece un valore che è delimitato relazionalmente, per opposizione agli altri termini dello stesso sistema. Il termine s. e le concezioni da esso designate cominciano a diffondersi nell’Europa occidentale e negli Stati Uniti a partire dagli anni Trenta. Le scienze linguistiche sono terreno privilegiato delle prime manifestazioni consapevoli. La critica letteraria e l’etnologia sono i campi contigui di più immediata espansione. Tuttavia, gli antecedenti dello s. sono molto più antichi e dispersi. In diversi settori delle scienze umane tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento vi sono studiosi e scuole che sottolineano il ruolo del tutto rispetto alle parti, il ruolo del sistema, delle modalità generali di genesi e organizzazione rispetto ai singoli avvenimenti e fenomeni atomici. Come scrive R. Jakobson negli anni Trenta, riconoscere l’esistenza di gerarchie non accidentali nei fenomeni è coessenziale allo s.; questo riconoscimento ha luogo in campo psicologico con la Gestalttheorie, in antropologia con gli studi degli americani F. Boas, R. Benedict, E. Sapir e B.L. Whorf, nella teoria economica e nella sociologia fin dal tardo Ottocento, nella linguistica con F. de Saussure, ecc. In generale, si distingue uno s. ontologico, impregnato di naturalismo e antistoricismo, che proietta in re e nella natura biologica dell’uomo le strutture di cui è questione; uno s. storicizzante, che riconosce nelle strutture un prodotto temporalmente e storicamente circoscritto dell’agire umano; uno s. metodologico, che concepisce le strutture come mero «arrangiamento» e modo di presentazione pragmaticamente opportuno dei fenomeni; uno s. epistemologico, che nel riconoscimento del carattere strutturato di un campo di esperienza vede una necessità non derogabile della conoscenza umana. L’esigenza di affermare posizioni strutturalistiche ha avuto larga diffusione al di fuori della linguistica durante gli anni Sessanta. Lévi-Strauss nel campo dell’antropologia, Barthes in quello della critica letteraria e del generico dibattito culturale, hanno fatto valere uno s. ontologico e naturalistico. Lo s. epistemologico, con diversa accentuazione, ha trovato sostenitori attivi in Althusser e nello psicologo J. Piaget, cui si deve un tentativo di sintesi generale del senso e della natura dello s., sintesi nella quale trovano posto, oltre alle tendenze menzionate, anche gli studi logico-matematici e biologici. Nella filosofia, specialmente europea, lo s. ha attratto l’attenzione sia di neokantiani, come Cassirer, sia di fenomenologi, i quali hanno rivendicato l’esistenza di un’autonoma componente strutturalistica nel pensiero di Husserl.
In linguistica il termine s. fu proposto, con il significato attuale e valore polemico nei confronti delle tendenze precedenti, nel 1929 a Praga nelle Tesi del Circolo e poco dopo a Copenaghen da L. Hjelmslev, cioè dalle due scuole principali dello «s. europeo», che si richiama all’insegnamento di Saussure (nel cui Cours de linguistique générale, 1916; trad. it. Corso di linguistica generale, invece del termine s. è usato il sinonimo «sistema», ma la problematica è già completamente delineata). Benché il termine di sistema, sinonimo di struttura, si trovi utilizzato in linguistica già in precedenza, esso subisce con l’avvento dello s. una profonda trasformazione concettuale (che spinge alcuni a parlare di «struttura di un sistema»). Parlando di sistemi fonetici, prima della fonologia strutturale si attribuiva a ogni lingua una disposizione ordinata di elementi: per es., allo spagnolo un sistema vocalico composto da a, e, i, o, u, ma la a dello spagnolo era considerata la stessa dell’inglese o del francese, benché questi avessero un numero maggiore di vocali. La fonetica prestrutturale considerava le entità linguistiche come aventi una loro definizione naturale: le singole lingue trasceglievano per comporre i loro sistemi alcuni pezzi da una sorta di catalogo universale. In questa prospettiva l’organizzazione di una lingua non richiedeva altre analisi e spiegazioni, se non l’enumerazione delle entità (già date prima di essa) che entravano a comporla. L’interesse era quindi rivolto esclusivamente allo studio storico, cioè evolutivo, per cui tali entità (e il sistema che ne è la somma) si mutano in altre. Quindi, Saussure si pose il problema della natura di queste entità e ne distinse due tipi: gli oggetti concreti, come i suoni, appartenenti alla parole, e le sistemazioni cognitive, come i fonemi, che compongono la langue. Il sistema linguistico diviene così il risultato di una classificazione arbitraria, cioè non fondata naturalmente, compiuta dai parlanti che riconoscono ogni entità come appartenente a una classe diversa dalle altre che fanno parte dello stesso sistema. Il suo studio sincronico è allora non solo legittimo ma anzi fondamentale: non essendoci più una delimitazione degli oggetti reali a cui rifarsi, due entità di due lingue diverse, per quanto simili sostanzialmente, ricevono una differente definizione strutturale perché gli altri termini cui si oppongono nel sistema non sono gli stessi. Da questa polemica originaria con lo «storicismo» deriva una contrapposizione diffusa tra struttura e storia. Ora, se è vero che lo s. rivendica la necessità, prima ancora che la legittimità, di studiare sincronicamente, cioè nella loro organizzazione logica, i sistemi culturali, esso pone anche basi nuove per studiarli diacronicamente. Il termine «sincronia» di Saussure è stato in effetti male interpretato, come se si riferisse a un momento determinato, mentre esso si riferisce alla compresenza e codeterminazione (atemporale) degli elementi di una struttura. Alla luce di ciò la distinzione sincronia-diacronia non è superabile, ma la teoria della «storia» delle strutture culturali deve tener presente questa loro natura, e non può assimilarla all’evoluzione degli organismi, o in genere al mutare del concreto. Una lingua non è una «cosa», ma un principio di classificazione che gli uomini viventi in una comunità applicano a certi oggetti da un certo punto di vista: la linguistica esplicita tale classificazione. Le strutture individuate dal ricercatore in un dominio devono corrispondere a quelle effettivamente utilizzate dagli individui che operano in esso. Una lingua che il linguista descrive non avrebbe interesse se fosse «altra» rispetto a quella con cui i parlanti di tale lingua producono e interpretano i loro atti espressivi. La lingua del linguista tuttavia si caratterizza rispetto alla lingua del parlante per alcuni aspetti importanti. In primo luogo, essa è esplicitata e descritta in un metalinguaggio, mentre le strutture possedute dai parlanti sono conoscenze pratiche, del saper fare senza saper dire ciò che si fa, e per questo qualificate spesso di «inconscie». In secondo luogo le strutture esplicitate dai ricercatori sono ordinate secondo criteri di semplicità e rigore teorico, non necessari nell’operare pratico (soprattutto per quanto riguarda l’analisi «sintagmatica»). A ciò si connette anche il fatto che, rispetto all’unicità della sistemazione descrittiva, la struttura soggiacente alle pratiche dei diversi individui di una comunità può variare presso i singoli, sia pure entro i limiti e con i riferimenti stabiliti dalla normatività sociale. In seguito il termine s. è stato usato, soprattutto da Chomsky (➔) e dai fautori della grammatica generativa, a indicare, restrittivamente e negativamente, in particolare la tradizione bloomfieldiana. È degno di nota che in questa prospettiva il termine strutturale viene associato a caratteristiche come l’atomismo, l’empirismo, la scarsa consapevolezza della necessità dell’astrazione nel metodo scientifico, cioè appunto a quegli aspetti contro i quali lo s. reagiva nel periodo della sua formazione. In realtà, è possibile vedere in queste posizioni generativiste una forzatura di prospettiva che accentua polemicamente il distacco rispetto a quella linguistica strutturale in cui la grammatica generativa trovava invece la sua matrice e di cui costituisce uno degli sviluppi più interessanti. Nel passaggio dalla linguistica alle altre scienze umane, dello s. è stato colto soprattutto un aspetto, quello cioè della definizione relazionale, oppositiva, delle entità del sistema. Esso acquista però tutto il suo valore solo quando lo si completi con il fatto che tale classificazione, non essendo imposta dagli oggetti cui si applica, deve derivare la sua giustificazione da un punto di vista. Non è mai cioè in gioco una sola «struttura», ma sempre una coppia biplanare di classificazioni (per la lingua: significanti e significati) che si forniscono reciprocamente la pertinenza e fra cui vigono rapporti di significazione.