STRATOSFERA (XXXII, p. 835)
Il volo stratosferico. - La navigazione stratosferica si ripromette quale vantaggio essenziale l'aumento delle velocità di volo, ottenibile con il diminuire della densità dell'aria, in ragione inversa della radice quadrata della densità stessa. La misura di tale possibile aumento appare assai elevata se si considera che la densità dell'aria alla quota di 11.000 metri si riduce a circa 30 centesimi della densità a quota zero, alla quota di 15.000 metri si riduce a circa 16 centesimi, alla quota di 20.000 metri si riduce a circa 7 centesimi. È però da notare che la potenza di un normale motore diminuisce con il diminuire della densità dell'aria aspirata; per questo fino ad una certa epoca le massime quote raggiungibili dai velivoli sono rimaste molto al disotto della stratosfera.
La situazione è migliorata con i motori sovralimentati (dotati di compressore), che riescono entro certi limiti a conservare costante la potenza: con tali motori è stata raggiunta nel 1938 la quota di 17.083 metri ad opera del ten. col. Mario Pezzi. Ma solo con l'avvento della propulsione a reazione si è potuto disporre di unità propulsive di elevatissima potenza, che hanno reso agevole il raggiungimento di alte quote di volo e di alte velocità.
Dei varî tipi di reattori, quello che meglio si presenta idoneo all'impiego stratosferico ed alle velocità supersoniche è l'endoreattore, poiché, non abbisognando dell'ossigeno dell'aria ambiente, funziona indipendentemente dalla quota e anche nel vuoto.
Il velivolo che per primo ha superato la velocità del suono, volando a quote stratosferiche, è stato il Bell XS-1 dotato appunto di propulsore a razzo. Lo stesso velivolo avrebbe raggiunto (febbraio 1949) la quota di 24.000 metri e la velocità di circa 2800 km/h, per la quale era stato progettato.
Nel volo stratosferico un'altra esigenza da rispettare è il mantenimento di un ambiente di vita possibile per l'uomo. Fino alle quote di circa 14.000 metri è sufficiente un apposito apparecchio respiratore, mediante il quale si introduce nei polmoni ossigeno nella quantità necessaria ai bisogni dell'organismo, prelevandolo da bombole portate a bordo. A quote superiori il respiratore non è più sufficiente e bisogna sottrarre tutto l'individuo alla depressione esterna; per questo si è ricorso in un primo tempo ad uno scafandro come si fa per i palombari (il problema è analogo seppure inverso), e successivamente alla cabina stagna, consistente in un ambiente chiuso a tenuta d'aria, nel quale è mantenuta la desiderata pressione immettendovi aria esterna, preventivamente compressa e condizionata. Sia lo scafandro sia la cabina stagna furono inizialmente studiati e realizzati dai tecnici italiani del reparto alta quota di Guidonia, in occasione dei primati d'altezza del ten. col. Pezzi (anni 1936-38). Oggi si costruiscono velivoli stratosferici per l'aviazione civile con cabine stagne.