STRATEGIA
(XXXII, p. 823; App. II, II, p. 916; III, II, p. 854)
La s. è nata come strumento per risolvere con la forza le vertenze fra stati, quale scienza o arte di cui si avvale lo strategos (generale) per condurre la guerra. La s. è ''militare'' alle sue origini e come tale risponde tuttora alla definizione di K. von Clausewitz, "teoria dell'impiego della battaglia per gli scopi della guerra". Proprio con Clausewitz, quindi, la s. acquista la sua dimensione politica, in quanto è politico lo scopo della guerra, da lui definita peraltro come "continuazione della politica con altri mezzi". Questo rapporto fra s., guerra e politica si modifica insieme alla crescita, in dimensione e violenza, dei rischi connessi con la guerra. Cause determinanti dell'accrescimento sono state l'aumento della capacità delle armi in gittata e potenza e l'evoluzione dei sistemi politici. La crescente gittata delle armi ha assorbito progressivamente la ''separazione geografica della potenza'' che sempre meno ostacola il confronto armato fra entità politiche (stati o coalizioni) fra loro distanti. L'incremento di potenza distruttiva e la sua diffusione hanno aumentato sia la violenza potenziale della conflittualità sia i rischi a livello globale. Sul piano politico, il sistema internazionale ha polarizzato la potenza militare attorno a coalizioni d'inusitata stabilità, creando opposte e statiche concentrazioni di forza militare. Ciò ha indirettamente consentito, peraltro, la moltiplicazione di soggetti di potenza militare più o meno autonomi rispetto alle coalizioni e quindi in grado di sviluppare una propria, diffusa, conflittualità. Questa situazione ha portato alla proliferazione di conflitti d'intensità di violenza media (Iran-῾Irāq) e bassa (Ciad), mentre si è verificato un arresto dei confronti a livello globale.
Tale evoluzione ha inevitabilmente condizionato la s. costretta a modificare la sua sfera d'azione e le sue modalità d'intervento alle nuove esigenze. La crescita di potenza e l'associata distruttività dei sistemi d'arma oltre accettabili limiti ha determinato situazioni di stallo politico-militare. Il conseguente aumento del rischio ha fatto infatti dubitare del vantaggio politico conseguibile attraverso un conflitto, soprattutto se fra potenze o coalizioni dotate di armi nucleari. La maggiore autonomia e potenza militare acquisita dagli stati minori contrapposta alla minore autonomia delle medie potenze, condizionate dall'appartenenza a opposte coalizioni, ha finito per dissociare sempre di più le medie potenze anche dai conflitti minori (unica eccezione l'impegno militare britannico nelle isole Falkland).
La competizione fra stati, così congelata sul piano militare, si è indirizzata verso altri tipi d'intervento, e la s. è stata chiamata a gestire anche forme di guerra non guerreggiata e a impiegare modi e strumenti di competizione diversi da quelli militari. Sul piano politico-militare ha per lungo tempo dominato la cosiddetta s. della ''deterrenza'' intesa a impedire i conflitti anziché a gestirli.
Un formidabile sforzo intellettuale ha portato alla formulazione delle nuove concezioni strategiche. È nata così la grand strategy, definita "scienza o arte dell'impiego delle forze politiche, economiche, psicologiche e militari di una nazione o coalizione per assicurare il massimo sostegno all'azione politica sia in pace come in guerra". La s. così si è arricchita di altri mezzi e strumenti, oltre quelli militari, ampliando la sua sfera d'interesse, e si è estesa inoltre al tempo di pace, non solo come preparazione al conflitto ma soprattutto come esercizio delle proprie funzioni. La s. militare rimane come un elemento del tutto, teoria della condotta della guerra, parte integrante dello sforzo politico-militare asservito alla ''deterrenza'' di cui costituisce lo strumento di forza, meccanismo complementare di altre s. (per es., l'assistenza militare nel quadro dell'assistenza generale a paesi terzi). Uno stato o una coalizione di stati si dispongono cioè a perseguire il loro fine politico impiegando lo strumento che loro appare più conveniente ed efficace: oltre che militare, economico, industriale, culturale, politico e diplomatico. Questo ricorso a strumenti diversi da quello militare per finalità politiche non rappresenta di per sé un fatto nuovo. La novità sta, invece, nel fatto che tali strumenti sono impiegati non isolatamente, come entità indifferenti fra loro, bensì come parte della stessa s., in combinazione sinergica all'interno di un comune discorso strategico.
La grand strategy presume, oltre che grande consapevolezza strategica, anche grande capacità di visione e gestione politica perché alla formulazione segua un'adeguata gestione. Discepoli meticolosi e convinti della grand strategy sono stati i sovietici. La s. originata dalla loro dottrina politica, che ne fissava fini e strumenti, si estendeva a tutto ciò che serviva la ''ragione di stato'': il perseguimento del marxismo-leninismo nel mondo, la sicurezza della nazione, la preparazione delle guerre, i programmi di forza, i negoziati. Invece negli Stati Uniti il dibattito sulla grand strategy è stato più articolato e vivace, ma meno conseguenti e logiche le sue applicazioni, dettate da una ''dottrina politica'' riformulata più volte (almeno ogni amministrazione) e troppo esposta agli umori del pubblico. La grand strategy si è fermata a livello delle due superpotenze. Qualche tentativo a livello medie-potenze in Europa (Francia, Germania e Gran Bretagna) e in Asia (Giappone) non ha avuto sufficiente respiro e continuità per l'obiettivo condizionamento conseguente alla gestione della sicurezza mondiale a livello bipolare
La grand strategy comprende, inevitabilmente, varie s. di settore, fra cui la s. ''indiretta'', s. al servizio della ''guerra in tempo di pace'' e rivolta prevalentemente al confronto psicologico, creando la psicologia e le occasioni per usare la forza o per minacciarne l'uso, avvalendosi anche della ''disinformazione'' applicata su scala mondiale e finalizzata allo scopo strategico.
La s. militare acquisisce anch'essa più dimensioni, sia come livello di forze e ampiezze dello sforzo militare sia in funzione degli strumenti a essa asserviti e nella scelta delle forme di lotta. Esiste quindi la s. di ''teatro'' che interessa la condotta di operazioni all'interno di una zona ben definita e distinta da altre, zona normalmente di notevole ampiezza, che può includere anche un subcontinente (per es., la NATO definisce ''teatro europeo'' il complesso geo-strategico che comprende l'Europa occidentale e orientale). A livello inferiore si colloca la s. ''operativa'', cui compete la condotta delle operazioni negli scacchieri in cui si divide il teatro di operazioni. Quanto a specificità della lotta, si hanno s. ''navali'' o ''aeree'', quando si tratta di condurre operazioni navali o aeree distinte da quelle terrestri e fra loro. Non vi può essere invece una s. solo terrestre in quanto è indispensabile la cooperazione delle forze terrestri con altre. Si parla, perciò, di operazioni ''combinate'' condotte in comune da forze armate diverse.
Vi è la tendenza a considerare alcune s. come ''risolutive'' in sé e quindi in grado di servire, in piena autonomia, uno scopo politico. Questa convinzione era una volta associata alla s., in campo navale, del ''dominio del mare'' e, in campo aeronautico, del ''dominio dell'aria''. Entrambe hanno segnalato le proprie forti limitazioni nel corso della seconda guerra mondiale. La peculiarità di alcune forme di lotta (impiego di missili nucleari o difesa antimissile) e la tendenza ad attribuire prevalente importanza in campo strategico a sistemi d'arma di nuova tecnologia continuano a suggerire la formulazione di s. specifiche. Si parla, rispettivamente, di s. nucleare e di difesa strategica. Anche in questo caso si è però rilevata l'artificiosità delle tesi di autonomia d'impostazione e condotta. Le armi nucleari non risolvono, infatti, un conflitto in quanto la loro capacità distruttiva fa sì che la vittoria abbia un prezzo inadeguato al vantaggio politico. Inoltre, la possibilità che un impiego anche limitato di armi nucleari (a livello tattico o dimostrativo, non necessariamente ''operativo'' e tantomeno strategico) dia origine a una reazione a catena non controllata ha finito per negare un ruolo nel quadro di una guerra combattuta (warfighting) alle armi nucleari, che non possono essere quindi strumento di s. militare e conservano valenza strategica solo al servizio della ''deterrenza''. Questa convinzione provocò la ''convenzionalizzazione'' della dottrina militare negli ultimi anni dello stato dell'URSS. La NATO, peraltro, aveva sempre considerato l'arma nucleare solo quale strumento di dissuasione e di ''punizione'' nel quadro della gestione politico-militare del conflitto. Per motivi analoghi si è negata dignità di s. alla difesa strategica in chiave antimissile la quale, anche perché difensiva, non si può ripromettere fini risolutivi. Per conciliare offesa/difesa nel contesto di un'unica s. si propone d'impostare s. ''miste'', servite da sistemi sia offensivi che difensivi.
Un cenno a parte merita la s. della deterrenza, che è stata al servizio della guerra fredda, quale sforzo intellettuale dell'era postbellica. Sulla deterrenza si è basato fino alla caduta del muro di Berlino (1989)l'equilibrio bipolare nel mondo, nonché l'equilibrio in Europa fra la NATO e il Patto di Varsavia. Per s. della deterrenza s'intendeva una s. legata alla filosofia della dissuasione, che si affidava alla capacità di minacciare una ritorsione di tale gravità contro un potenziale aggressore, da vanificare la posta politica che egli si riprometteva di conseguire. Lo squilibrio fra posta politica e rischio militare ha il vantaggio di esercitare un effetto dissuasivo. Intorno alla deterrenza, si sono sviluppati vari filoni di pensiero e varie tendenze. Il fatto che l'arma nucleare non sia stata usata dopo il termine della seconda guerra mondiale e la massiccia immissione di strateghi ''civili'' nel contenzioso strategico ha provocato negli Stati Uniti un eccesso di elaborazione accademica sulle finalità, possibilità e modalità d'impiego dell'arma nucleare. Più semplice e realistico fu invece il dibattito in materia nucleare nella ex URSS, dove il legame con la realtà politico-strategica era stato costantemente mantenuto.
Delle tesi strategiche statunitensi se ne ricordano solo alcune che sono state ufficialmente riconosciute come parte della ''deterrenza''.
Minaccia diretta contro le città. Si tratta di una s. che si ripropone un chiaro fine punitivo senza alcuna finalità strategico-militare: in breve, chi aggredisce ha ragione di temere l'attacco contro il suo retroterra civile per piegare il morale della popolazione, con un'estensione in chiave ''nucleare'' della s. propugnata negli anni Venti per l'aviazione dal generale G. Douhet. Tale s. è propria dei paesi con monopolio assoluto o regionale dell'arma nucleare nonché di quelli a limitata potenzialità nucleare, non in grado cioè di competere con le opposte forze nucleari. Adottata dagli USA fino agli anni Sessanta, in regime di monopolio nucleare, è tuttora in vigore nelle potenze nucleari minori.
Distruzione reciproca e certa (Mutual Assured Destruction, MAD). Nacque alla fine degli anni Sessanta, dopo che i sovietici acquisirono la capacità di colpire nuclearmente il territorio degli Stati Uniti. L'olocausto reciproco avrebbe negato la vittoria a ciascuno dei due contendenti. In questo contesto fu elaborata la tesi della ''risposta'' o ''secondo uso'' quale rappresaglia al ''primo uso'' (preventivo), adeguando alla s. armi e struttura delle forze. Poiché il ''secondo uso'' richiede che le armi sopravvivano al ''primo uso'', si è formata la ''triade'' nucleare (missili schierati a terra, su nave e aerei) che, composta da vettori diversamente installati e con diverse prestazioni, assicura maggiore sopravvivenza del sistema di risposta e una credibile residua capacità di rispondere. All'interno della MAD furono sviluppate sub-s. quale l'impiego ''selettivo'' e ''controforza'', strumenti concettuali di un impiego militare disegnato non per fini militari ma per un potenziamento della capacità di dissuasione. Nel 1979 J. Carter approvò con la Presidential Directive la countervailing strategy, con la quale si contemplava la possibilità di condurre un conflitto nucleare a livello selettivo e controforza senza necessariamente sfociare nella rappresaglia ''massiccia'' della MAD. La countervailing non sostituiva comunque la MAD, ma era a essa complementare.
Strategia della ''risposta flessibile''. È una s. complementare a quella della distruzione reciproca e certa, finalizzata al problema strategico della NATO, e che fu approvata nel 1967. Si basa sulla ''flessibilità di risposta'', ossia sulla capacità di rispondere a un'aggressione in vari modi e con varia intensità di violenza. Per questi motivi, dispone di una vasta gamma di forze di capacità distruttiva e raggio di azione diversi, che compongono la ''Triade'' NATO, detta di ''teatro'' per distinguerla da quella strategica degli Stati Uniti. Queste forze sono, in ordine di pericolosità crescente e quindi di relativa successione nell'impiego: convenzionali, nucleari di teatro (ossia quelle schierate in Europa), strategiche. La temuta inferiorità delle proprie forze convenzionali ha convinto la NATO a minacciare il ''primo uso'' delle sue forze nucleari in caso di serio cedimento della propria difesa.
La situazione attuale. - Cinque anni dopo il crollo del sistema globale costruito attorno ai due poli, Stati Uniti e Unione Sovietica, non si è ancora avviato un serio rinnovamento strategico, sia per l'inerzia dei grandi sistemi ad adeguarsi a mutamenti epocali, sia perché la traumaticità, molteplicità e globalità degli eventi messi in moto da quei cambiamenti ha sottratto attenzione politica e militare impedendo un serio e approfondito riesame della dottrina strategica. Gli anni Novanta, infatti, hanno segnato per l'Occidente non solo la scomparsa del ''nemico'', l'Unione Sovietica, ma anche l'emergere di conflittualità di vario tipo, provocando la crisi della strategia NATO, ancora solidamente assestata sul confronto fra blocchi. Dalla guerra fredda, ossia guerra non combattuta, fra due potenti macrosistemi, si è immediatamente passati a guerre reali, civili, regionali e locali. L'ordine mondiale è così entrato in crisi e ha cercato di rispondere come poteva alla crescente domanda di impegni militari a rischio al servizio della sempre più pressante causa della pace.
Nel clima conflittuale che si è venuto a creare, le operazioni di ''mantenimento della pace'' (peace-keeping) fra due stati consenzienti, prima condotte dall'ONU, si sono mostrate inadeguate all'esigenza quando è mancato l'accordo fra paese aggressore e paese aggredito. Esse venivano quindi sostituite da altre operazioni anch'esse previste dallo statuto dell'ONU, ma complesse e ad alto rischio, di ''imposizione della pace'' (peace-enforcing), che richiedevano l'uso della forza. Si tratta però di una categoria che non può essere servita da una s. comune, valida per tutte le missioni, poiché comprende una vasta gamma di operazioni a partire dall'intervento in un conflitto fra stati per finire alla guerra civile all'interno di uno stato. La guerra contro l'῾Irāq, che ha inaugurato questo tipo di operazioni, aprendo la strada all'interventismo per giusta causa dell'ONU, è sembrata preludere a un nuovo ordine mondiale, sotto la direzione politica e militare dell'ONU, nel quale assumono maggior credito i paesi occidentali, i soli a possedere la capacità militare richiesta.
Quella guerra fu però cattiva maestra perché convinse l'Occidente che con eguale facilità avrebbe potuto imporsi in ogni altro conflitto contro avversari militarmente inferiori all'῾Irāq. Tale sicurezza era in realtà frutto d'un errore strategico: la guerra del Golfo, infatti, era stata condotta contro uno stato, in uno scenario strategico ad alta tecnologia e con potenti forze aeree e corazzate, scenario cioè assimilabile a quello per cui le forze occidentali s'erano preparate in Europa per mezzo secolo. Inoltre l'avversario era, per numero, addestramento, qualità delle armi e preparazione, di gran lunga inferiore alla coalizione capitanata dagli Stati Uniti, e l'attacco aereo con ''armi intelligenti'' aveva reso facile e incruenta la battaglia terrestre. Era stata una guerra facile, rapida e con poche perdite, più che guerra, una palestra sperimentale per l'arsenale occidentale, per la prima volta messo a confronto con forze addestrate, comandate e armate secondo il modello sovietico. La convinzione che fosse possibile prevalere, con eguali armi e procedimenti, in ogni altro conflitto ha portato nelle crisi successive a una serie di errori, sulla s. da adottare, sulle armi da impiegare, sulla direzione politica e militare. Si è inseguita una s. generale perdente, perché ignorava la differenza fra la Guerra del Golfo e le altre crisi, in prevalenza più simili alla guerra in Vietnam. In Somalia e in Bosnia le armi ''intelligenti'', già strumento vincente in ῾Irāq, si sono dimostrate inadeguate o controproducenti. Nel 1994 sia l'ONU sia alcuni stati, fra cui gli Stati Uniti, hanno cercato di correre ai ripari per prepararsi meglio alle missioni di ''imposizione della pace''.
Altre sfide s'aprono sullo scenario mondiale, conseguenza della crisi di assestamento dell'ex Unione Sovietica e delle incerte ambizioni della sua strategia, dei nuovi equilibri di sicurezza in Europa, dell'emergere di una velleità di potenza della Cina, del fondamentalismo islamico sponsorizzato da stati arabi, del problema demografico, potenziale fonte di destabilizzazione. Per ognuna di queste sfide occorre una s. politica, economica e militare tagliata su misura, ma poiché sono tutte legate fra loro, nel contesto del ''villaggio globale'', si imporrebbe la necessità anche di una s. globale all'interno della quale si possano individuare ruoli, responsabilità e iniziative per le istituzioni internazionali e per gli stati. Tuttavia l'esigenza di rinnovamento strategico difficilmente troverà risposta, perché essa risulta bloccata in un sistema internazionale dagli incerti equilibri in cui i problemi, i conflitti e le crisi si moltiplicano rapidamente e si sovrappongono.
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