STRATEGIA
. È quel ramo dell'arte militare che - prosecuzione e strumento della politica - regola e coordina le operazioni belliche. In relazione alle finalità, alle forze disponibili e a quelle dell'avversario, alla configurazione geografica del terreno, determina gli obiettivi da assegnare alle forze armate perché lo scopo finale sia raggiunto col massimo rendimento, nel minimo tempo, col minimo sacrificio. Nell'arte militare terrestre lo stratego porta, per mezzo di movimenti, l'esercito alla battaglia; prepara l'urto con la massima potenza e celerità nella direzione più conveniente e ne sfrutta il successo. Così la strategia predomina fuori del campo di battaglia, la tattica dentro; quella s'inspira a questa nel condurre le masse alla battaglia in modo che possano tatticamente preponderare; e questa a quella impiegandole in modo che si raggiunga l'obiettivo strategico. In fondo la strategia è l'arte del condottiero che concepisce i piani, determina ed esegue le operazioni. Se la politica plasma la condotta strategica della guerra, l'uomo, strumento primo del combattimento, atto conclusivo di ogni manovra, dà il tono all'esecuzione dei piani; elementi sociali, economici, statistici, geografici interferiscono nella strategia; ma sono sempre preminenti quelli spirituali. Il condottiero raccoglie il frutto delle sue concezioni, dell'arte e della fermezza di esecuzione, ma raccoglie altresì il frutto delle passioni e dei sentimenti degli uomini cui comanda; grandissima è la sua potenza, ché egli è anima e guida; immensa la sua responsabilità, ché a lui si affida la nazione in armi. La sua arte poggia sulle scienze più svariate e trae profitto da ogni ritrovato della tecnica; non ha però limiti definiti né regole; i principî immutabili tratti dallo studio delle guerre possono dirsi puramente teorici, e sono del resto ridotti a pochi postulati; tutte le altre massime strategiche hanno piuttosto valore contingente e impratica grandi capitani hanno riportato segnalate vittorie pur avendo ad esse contravvenuto. La strategia è arte di esecuzione, le sue fondamenta stanno nell'operare con grande attività così da accumulare sul punto decisivo la maggior somma di forza relativa. Prontezza di movimenti, riunione della massa a tempo e luogo opportuni, ricerca della sorpresa, delineano la strategia dei maggiori condottieri; ciascuno dei quali - a seconda dello scopo, della situazione delle linee di rifornimento, della conformazione del teatro di operazioni, del proprio carattere e dello spirito degli uomini - ha attuato l'una e l'altra manovra: lo sfondamento frontale, la manovra per linee interne o esterne, l'avvolgimento d'ala, cercando sempre quella combinazione che promettesse di battere definitivamente il nemico e spesso attuando manovre imposte dalla situazione; attuandole però con tale forza di volontà, con tale fede, in sé e nelle truppe, da trarre vittorie conclusive da situazioni talvolta disperate. Il più geniale piano è privo di valore se non è eseguito; né la previsione può spingersi oltre il primo incontro con le principali forze del nemico.
La concezione strategica ha base nella geografia; questa facilita, con l'indicazione dei punti vitali del territorio nemico, la ricerca della direzione di convergenza degli sforzi; incanala le grandi operazioni, legate per necessità logistiche alle maggiori comunicazioni, assurte a maggior valore con l'affermarsi delle ferrovie e dei mezzi meccanici di trasporto. Fra le manovre ha, perciò, grande valore quella che punta sulle comunicazioni dell'avversario. L'offensiva strategica permette di scegliere e condurre a fondo la manovra più conveniente nella direzione più redditizia; chi sa e può assumerla ha in sua mano l'iniziativa delle operazioni e regola l'andamento della guerra. La difensiva, pur necessaria, deve consistere nel mettersi in grado di riprendere l'offesa, al momento opportuno, col massimo vigore.
Le gesta dei grandi condottieri, ciascuno dei quali porta le stigmate del suo tempo ed è espressione del suo popolo, impersonano l'evoluzione della strategia (v. guerra, arte della), cui l'umana civiltà porge mezzi sempre nuovi di movimento e di lotta senza però alterarne le linee fondamentali; le differenze fra l'uno e l'altro capo nascono dall'ambiente, dagli scopi variabili, dalla situazione politica, dalla libertà maggiore o minore di ciascuno nella condotta delle operazioni e soprattutto dalla personalità dei singoli.
La strategia nell'antichità.
L'idea e la pratica di predisporre le azioni di guerra a seconda dei mezzi disponibili e degli scopi da raggiungere e di adottare certi espedienti per giungere all'urto tattico con il nemico nelle condizioni più opportune o per piegarlo in altro modo alla propria volontà, è certo antichissima, anche se solo molto tardi questi espedienti furono oggetto di riflessione e ridotti a teoria. Quando, ad es., le nostre cognizioni topografiche ci permettono di seguire le operazioni degli eserciti assiri, noi rileviamo che i loro condottieri ben sapevano condurre strategicamente la guerra, ciò che è anche confermato dal confronto con le guerre moderne combattute nelle stesse regioni. Della strategia dei Greci noi possiamo formarci un'idea adeguata almeno dal tempo delle guerre persiane. Il piano strategico dei Greci contro la grande invasione persiana importava la rinuncia alla difesa dei passi dell'Olimpo, un tentativo di difendere, pare a solo scopo ritardante, il passo delle Termopile con parte dell'esercito appoggiato dalla flotta, mentre il grosso delle forze fu tenuto a portata del Peloponneso, estremo ridotto della resistenza. Era una strategia prudente, ma giustificata dalla composizione degli eserciti greci, che non si potevano mantenere in campagna per lungo tempo, dalle difficoltà del vettovagliamento e dall'importanza della posta che si giocava. Dopo Salamina, si tentò per terra l'offensiva, che fu coronata dalla vittoria di Platea; ma alla flotta greca, più agile strumento di guerra, spetta il merito di aver impresso dal 478 un carattere vivacemente offensivo alla guerra contro i Persiani, portando la lotta nei mari costieri dell'Asia Minore sino a Cipro. La vittoria di Cimone all'Eurimedonte tolse ai Persiani ogni speranza di ripresa. Un importante documento per la storia della strategia è il discorso nel quale Pericle (in Tucidide, I, 140: cfr. anche II, 13) espone i criterî strategici, secondo i quali gli Ateniesi polevano condurre, con speranza di successo, la guerra contro la Lega del Peloponneso capitanata da Sparta. Le due potenze in lotta avevano l'una una netta superiorità marittima e finanziaria, l'altra una netta superiorità terrestre. Pericle dimostra che gli Spartani erano meno in grado degli Ateniesi di tirare in lungo la guerra; e consiglia perciò di abbandonare al nemico la campagna dell'Attica, ritirando l'intera popolazione entro le vastissime fortificazioni di Atene. Gli Spartani non avrebbero così potuto né ottenere una decisione battendo l'esercito ateniese, né assediare o affamare la città, alla quale le fortificazioni assicuravano le comunicazioni col mare. Il dominio del mare permetteva invece agli Ateniesi di avere in abbondanza sussidî di denaro e di materiali e di bloccare e attaccare le coste del Peloponneso, tirando in lungo la guerra sino ad esaurimento del nemico. Questo piano di Pericle fu oggetto di molte discussioni, ma rivela una singolare attitudine a considerare l'impostazione strategica di una guerra. Con geniale intuito strategico lo spartano Brasida tentò di colpire per terra l'impero ateniese con la sua spedizione nella Calcidica (424); ma la sua morte arrestò l'impresa. Atene rovinò la sua situazione allontanandosi, con la spedizione di Sicilia, dalle direttive di Pericle e soggiacque a sua volta all'esaurimento, che egli voleva invece infliggere agli Spartani. Un grande progresso nella strategia dei Greci è dovuto a Epaminonda, per quanto egli sia famoso specialmente per le sue innovazioni tattiche. La sua strategia fu decisamente offensiva, ma nello stesso tempo calcolata e prudente; προνοίας ἔργα καὶ τόλμς dice Senofonte (Hell., VII, 5, 8) le sue gesta, "opere di previdenza e di audacia". Egli seppe liberarsi dalle pastoie tradizionali, come l'abitudine di sospendere le operazioni nella cattiva stagione (invase nel 370-369 la Laconia in pieno inverno), e non esitava a richiedere alle truppe grandi sforzi quando era necessario. Nello stesso tempo notevoli progressi tecnici (v. fortificazione; macchine guerresche) e organici (truppe mercenarie o comunque più addestrate delle milizie cittadine, v. esercito: Grecia) aprivano nuove possibilità alla condotta della guerra. Si passa così da Epaminonda alla strategia di Filippo di Macedonia e di Alessandro, strategia impetuosa, dalle grandi linee, che agiva con eserciti agguerriti e saldamente inquadrati. Le campagne di Alessandro rappresentano forse il capolavoro della strategia greca, che deve ora agire su spazî immensamente più vasti e superare difficoltà ardue, specialmente logistiche. La rapida occupazione delle coste per togliere le basi alla minacciosa flotta persiana, la rinuncia dopo Isso all'immediata invasione nell'interno dell'impero persiano per occupare invece l'Egitto e costituirsi sulle coste solide e vaste basi alle spalle prima di addentrarsi nell'interno, con un esatto calcolo del tempo necessario al nemico per riprendersi; e così dopo Gaugamela l'occupazione di Babilonia e di Susa, nuove basi per la marcia su Ecbatana e l'Iran, rivelano il genio strategico di Alessandro, calcolatore e nello stesso tempo irruente nel cercare la decisione per mezzo della battaglia completata da un implacabile inseguimento strategico. Le guerre che seguirono alla sua morte, combattute da generali della sua scuola in lotta fra loro, impegnarono eserciti e flotte di mole prima mai vista e si svolsero ordinariamente su parecchie fronti, offrendo complicati problemi strategici risolti spesso magistralmente da condottieri come Eumene, Antigono e Seleuco.
I caratteri della strategia romana dipendono dalla concezione che i Romani avevano degli scopi della guerra e dai mezzi dei quali essi disponevano per raggiungerli. Lo scopo della guerra è per essi la debellatio, la vittoria totale; una guerra con i Romani non porta a una pace di compromesso o ad un accordo fra pari, ma, nel caso migliore, ad una subordinazione del vinto a Roma. Quindi la strategia romana è di regola decisamente offensiva. Essa si basava sulla superiorità di forze che Roma, da tempo molto antico, ebbe di regola sui suoi avversarî e sulla sicura fiducia nelle virtù dei suoi soldati e nella bontà dei suoi ordinamenti militari. È caratteristico il fatto che per lungo tempo Roma impiegò nelle sue guerre (o sullo stesso scacchiere o sui due scacchieri più importanti) di solito due eserciti consolari organicamente sempre identici, costituiti cioè ciascuno prima di una e poi di due legioni e del relativo contingente di alleati: si ritenevano quindi questi eserciti e per numero e per armonica costituzione organica sufficienti a battere qualsiasi nemico. Ma la strategia offensiva romana, conformemente al carattere romano riflessivo e quindi prudente, si giovava di alcuni importanti e caratteristici sussidî. Un esercito romano non sostava mai senza chiudersi in un campo fortificato, dietro i cui valli avrebbe potuto sfidare un nemico di molto superiore o trovare protezione in caso d'insuccesso; ciò permetteva una grande libertà di manovra. Inoltre un ricco sistema di colonie-fortezze e di strade militari offriva appoggi per la difesa, basi per l'offensiva e facilità di movimenti e di rifornimenti.
Conseguenza di quanto si è ora avvertito, è che lo schema tipico della strategia romana era la marcia risoluta in massa contro il nemico per batterlo. Ma la posizione geografica centrale di Roma in Italia e le molte guerre combattute su due o tre fronti suggerirono ai Romani il frequente impiego della manovra per linee interne: il caso più famoso è quello della manovra che condusse alla vittoria del Metauro (207). Ma i Romani seppero anche adattare la loro strategia a circostanze particolari, come quando, dopo le prime sconfitte ricevute da Annibale, nel 217 Fabio Massimo adottò contro di lui una strategia temporeggiatrice e logorante, basata sul principio di evitare la battaglia campale, se le condizioni dell'urto non si fossero presentate specialmente favorevoli ai Romani. Ma questa strategia era contraria all'innato senso offensivo dei Romani, e, com'è noto, si tornò subito all'idea di cercare la battaglia decisiva, che fu però Canne. Dopo la terribile disfatta, si ritornò a un'attiva strategia di logoramento, e quando essa ebbe prodotto i suoi effetti, Scipione preparò e osò la mossa risolutiva con l'invasione dell'Africa. Il maggiore avversario dei Romani, Annibale, fu grande e nella tattica e nella strategia. Lo dimostra la concezione del suo piano di guerra contro Roma, l'esecuzione della marcia dalla Spagna in Italia, la campagna in Etruria, la rinuncia alle sue linee di comunicazione e il trasporto del teatro delle operazioni nell'Italia meridionale, dove più deboli erano i vincoli dei confederati italici con Roma, e infine il suo stesso contegno dopo Canne di fronte a una grande città fortificata qual'era Roma. Come spesso nella storia, egli fu il maestro dei suoi nemici. Infatti, durante la lotta contro Annibale, non solo l'esercito romano trasformò la sua intima costituzione e gli organi del comando, ma anche la strategia dei suoi capi acquistò un carattere di libertà dagli schemi e di audacia, prima pressoché sconosciute. Basti ricordare l'audace marcia di Scipione risalendo il Bagrada nella campagna africana del 202.
La graduale, trasformazione dell'esercito romano in un esercito professionale e la nuova psicologia dei comandanti accentuarono il carattere libero e personale della strategia romana. Specialmente le campagne di Silla, di Lucullo e di Pompeo in Oriente furono concepite con un'ampiezza ed eseguite con un'abilità spesso sorprendenti. La strategia romana raggiunse il suo apogeo con Giulio Cesare. Nell'organica e nella tattica egli non ebbe bisogno d'innovare; l'esercito romano, com'era stato plasmato da Mario, era uno strumento perfetto. Ma nessun capitano fu stratego completo come Cesare. Le sue doti erano prudenza e audacia (Suet., Iul., 58: in obeundis expeditionibus dubium cautior an audentior), grandezza d'animo (gl'insuccessi lo stimolavano e dei pochi avuti si prese rivincite clamorose), senso della realtà (si noti la considerazione sulla grande influenza della fortuna in guerra, De bello civ., III, 68), conoscenza dell'animo del soldato (v. De bello civ., III, 92), rapidità di decisione e di esecuzione. Non si potrebbe dire che l'una o l'altra forma di strategia sia la cesariana: egli non era unilaterale e tutte le praticò. Fu molte volte fulmineo, ma in certi casi fu anche maestro di difensiva o prudente assediatore e nessun altro generale romano fece smuovere tanta terra come Cesare; era del resto suo principio di vincere il nemico fame potius quam ferro (Frontino, Strat., IV, 7, 1). Nel sapiente sfruttamento della superiorità logistica dei Romani e nell'organizzazione delle sue linee di comunicazione sta in gran parte il segreto delle sue vittorie sui barbari. La personale arte della guerra di Cesare non poté essere imitata; ma la generazione che seguì mantenne la strategia romana a un'altezza degna del maestro. Le campagne dei generali d'Augusto nelle Alpi e in Germania furono concepite con larghezza; si videro varî eserciti agire secondo un unico piano o un esercito marciare su diverse colonne convergenti allo stesso obiettivo: si ricordò a questo proposito il principio moderno di marciare divisi e di combattere riuniti. Ma sino dai primi imperatori, la strategia che le condizioni generali dello stato impongono all'esercito romano è la difensiva, per quanto campagne offensive siano state di tanto in tanto intraprese in tutte le direzioni, e anche con successo, fino al sec. III e anche più tardi. Perciò le forze militari romane furono dislocate lungo le frontiere, che avevano uno sviluppo immenso e che furono quasi ovunque munite con valli, forti staccati e strade d'arroccamento. Per secoli, fino a quando cioè l'esercito romano nel sec. IV non fu distinto in esercito confinario ed esercito di campagna (v. esercito: Roma), praticamente esso non aveva riserve in posizione centrale, e ogni sforzo difensivo od offensivo su un dato punto della frontiera richiedeva spostamenti di truppe da altre zone confinarie. È ovvio come questa situazione non potesse essere favorevole a brillanti concezioni strategiche. Però, quando noi siamo in grado di poter ricostruire nelle linee generali la condotta strategica di guerre dell'impero (guerre germaniche del sec. I, guerra civile del 69 d. C., guerra dacica e partica di Traiano, guerre orientali del sec. II e III d. C., campagne di Costantino), vediamo che i generali romani seppero spesso mantenere alte le tradizioni strategiche della fine della repubblica. Loro degni successori furono i generali bizantini, strateghi ingegnosi e astuti.
Abbiamo sopra notato che i Greci adottarono una strategia più libera e offensiva prima per mare, che non per terra. Questo carattere di maggiore vivacità della strategia navale si mantenne per tutta l'antichità. Nella maggioranza dei casi, le flotte muovono decisamente contro l'avversario; gli esempî di strategia difensiva, come da parte di Antonio nella guerra di Anzio, sono piuttosto rari. Più frequenti sono i casi di strategia difensiva mediante la guerra di corsa. Conviene però tener presente, che l'azione delle flotte antiche era sottoposta a numerose limitazioni dipendenti dalla scarsa attitudine delle navi a tenere a lungo e con autonomia il mare e dai gravi danni che esse potevano improvvisamente subire dalle tempeste. Gli antichi ebbero naturalmente ben chiara l'importanza del dominio del mare, che per le difficoltà dei trasporti terrestri era sotto certi aspetti maggiore che non oggi; ma questo dominio non poteva essere di solito assoluto ed era esposto ad essere temporaneamente o per sempre infranto da accidenti estranei alla condotta strategica o tattica della guerra. Operazioni combinate dell'esercito e della flotta furono più frequenti nell'epoca romana, specialmente nelle guerre civili e solo la collaborazione della flotta permise in certi casi ai grossi eserciti dell'epoca di mantenersi in regioni di scarse risorse.
Bibl.: H. Liers, Das Kriegswesen der Alten mit besonderer Berücksichtigung der Strategie, Breslavia 1895; H. Delbrück, Geschichte der Kriegskunst, I: Das Altertum, 3ª ed., Berlino 1920, passim; E. Lammert e F. Lammert, Kriegskunst, in Pauly-Wissowa, Real-Enc., XI, col. 1853 e Suppl. IV, col. 1086; F. Miltner, Seewesen, ibid., Suppl. V, col. 898; I. Kromayer e G. Veith, Heerwesen und Kriegfürhung der Griechen und Römer, Monaco 1928, pp. 147, 191, 454, 601.
La strategia nell'età moderna.
Strategia terrestre. - Decaduta nel Medioevo (così come è decaduta la grande politica), la strategia risorgerà col costituirsi di stati a forte potere centrale; risorgerà gradualmente, ché saranno remora alle elevate concezioni, all'arditezza e alla celerità delle mosse, alla ricerca della battaglia, i costosi eserciti mercenarî che si cercherà di risparmiare, e la piccolezza delle masse che vieterà operazioni a largo raggio, ostacolate altresì dai sistemi di rifornimento, magazzini fissi nelle piazze forti, attorno alle quali gli eserciti giostreranno nello spazio di poche miglia. Così la strategia di Gustavo Adolfo, pur offensiva, è lenta e irresoluta nello spingersi alla battaglia, né sempre coglie il frutto di vittoriose battaglie; quella del Turenne, ardita e movimentata, non mira a schiacciare l'avversario ma si limita con la manovra a minacciarne le comunicazioni perché la politica vuole che non si affidi tutto ad una battaglia, quando i popoli hanno per difesa solo una limitata quantità di truppa costosamente raccolta. Segna un progresso la strategia di Eugenio di Savoia: concezioni audaci, esecuzione vigorosa, celerità di manovra, ricerca della sorpresa e tendenza all'urto con forze riunite la caratterizzano; la campagna del 1706, quando per soccorrere Torino arrischia scientemente le comunicazioni e le taglia ai Francesi, è un capolavoro di condotta strategica coronato sul campo di battaglia da insuperabile condotta tattica.
Nettamente offensiva, la strategia di Federico II di Prussia tende alla battaglia, che prepara e conduce sapientemente; è quella di un carattere che osa, consapevole del rischio, senza spingere l'audacia oltre i limiti consentiti dalla potenza dei mezzi; è consona alle finalità politiche, modeste, che egli si proponeva. Opera dapprima per le linee esterne facendo convergere le forze sul campo di battaglia contro un nemico; poi, con forze riunite, per linee interne, contro i nemici che si vanno moltiplicando. Pago, all'inizio, della conquista della Slesia, non insegue l'esercito austriaco il cui annientamento accrescerebbe la potenza di Francia; più tardi dal soverchiante numero di nemici è costretto a contentarsi di infliggere separatamente a ciascuno un colpo d'arresto; l'inseguimento potrebbe costargli la perdita della Prussia; né vuole soverchiamente logorare il piccolo suo esercito. Concezioni strategiche che s'inspirano tutte alle contingenze della politica dello stato.
Dopo Federico, gli ordini sociali e politici nati dalla rivoluzione francese creano nuovi orizzonti e trasformano lo strumento bellico. La lotta contro l'assolutismo monarchico europeo per salvare le conquiste della rivoluzione, costringe la Francia a guerre a fondo; volontarismo e coscrizione forniscono masse numerose, scarsamente addestrate ma aggressive; impiegabili senza parsimonia: si riafferma l'offensiva tattica e con essa il concetto che per difendersi contro molti conviene attaccare. L'offensiva strategica è favorita dalla giovane età dei generali improvvisati; con scarsa preparazione tecnica, ma fiduciosi, entusiasti, di saldo carattere, ambiziosi; col movimento rapido, con l'offensiva impetuosa e tenace hanno ragione dei professionisti avversarî, impacciati dai magazzini e dalle piazze forti. Il piano di Hoche del 1793 esprime la strategia della rivoluzione: "radere al suolo le piazze forti che non potremmo difendere senza disseminare le forze; cacciarsi in mezzo alle armate nemiche separate; con forze riunite marciare dalla massa nemica che avremo vinta a quella che vinceremo". È il nocciolo dell'arte di Napoleone. Poggiare sui valori spirituali; preparare con cura; operare con ardire; somma fede in sé e nelle truppe sono i caratteri della strategia napoleonica, cui la manovra strategica serve all'unico fine di apparecchiare la battaglia dove si tende ad annientare l'esercito nemico. Talvolta (Ulma, Jena) avvolge il nemico riunito costringendolo a battersi a fronte rovesciata ossia con le proprie comunicazioni sul dinnanzi. Contro masse divise batte la più importante per sopraffare separate le altre: è la manovra centrale di Montenotte, di Castiglione, di Ratisbona, della campagna di Francia del 1814; ed è quella che tenta in Russia nel 1812, in Sassonia nel 1813 e nella breve campagna del 1815 nel Belgio. Incalza con impeto e celerità; se l'avversario cerca di contromanovrare per evitare una sconfitta decisiva (come a Eylau, a Friedland, a Ratisbona, a Wagram), l'incalzante manovra napoleonica lo costringe a cedere. L'offensiva predomina sempre; la difensiva è solo elemento di manovra per fronti secondarie o atteggiamento temporaneo per riprendere al più presto l'iniziativa delle operazioni. Non poche guerre di Napoleone sono politicamente difensive; ma la condotta è sempre offensiva, specie contro avversarî prevalenti. Ottiene così la superiorità nel punto decisivo. L'inseguimento è prosecuzione ed epilogo del successo tattico e mira a punti vitali per dare al nemico il colpo di grazia. Non tutti intendono l'arte napoleonica nella sua essenza. H. Jomini formula rigidi principî strategici e schematici ordini di battaglia; l'arciduca Carlo tende a materializzare la strategia in linee geometriche, quantunque si sia mostrato in pratica ottimo condottiero. Il Clausewitz comprende invece il profondo substrato morale della guerra ed esalta l'importanza dei valori spirituali; con lui gl'italiani L. Blanch e N. Marselli vedono nella guerra un problema sociale e politico e affermano che la strategia non ha principî rigidi che possano guidarla; essa apparecchia la battaglia mediante le mosse degli eserciti in guisa da far perdere all'avversario vibrandogli colpi su colpi, le virtù dell'animo, saldo cemento dell'organismo militare. Questo va intanto diventando talmente complesso e partecipe della vita sociale, da confondersi col popolo da cui promana; maggiore diventa la connessione fra politica e strategia; la prima non solo assegna le finalità, ma sostiene la situazione interna, morale, sociale, economica, industriale, per dare il massimo apporto all'esercito.
Gli stati nazionali con l'obbligo generale del servizio militare dànno vita a eserciti assai numerosi; con la maggiore complessità degli scopi politico-strategici i teatri di guerra si allargano; le ferrovie agevolano gli ampî spostamenti. Il condottiero, pur valendosi dei nuovi mezzi celeri di trasmissione, non può guidare direttamente gli interi eserciti. Sorge la necessità di creare unità strategiche, le armate, i cui comandanti non possono essere sorretti che da direttive; si forma presso ciascun esercito una dottrina, alla quale i comandanti siano educati così che l'interpretazione delle direttive stia nel quadro del piano di guerra del comandante supremo.
Le campagne del 1866 e del 1870 sono le prime in cui si cimentano le nuove concezioni. Quella germanica mantiene la tendenza spiccatamente offensiva dell'arte napoleonica, con ricerca del nemico nella direzione strategica prescelta, manovra suggerita dallo scopo, esecuzione energica e rapida, cooperazione spinta al massimo. Malcerta e acerba la teoria francese, lontana dagl'insegnamenti del grande imperatore, che, ossessionata dalla potenza delle armi da fuoco nel campo tattico, predilige la difensiva, mette in secondo piano i valori spirituali e arriva a una difficile concezione difensivo-controffensiva, da cui nasce una strategia pigra, legata alle fortezze, incapace di ardimenti, che lascia al nemico l'inizativa.
La dottrina germanica trova nel von Moltke il capo che educa comandanti e stati maggiori, portandone ad alto grado la disciplina delle intelligenze, l'amore dell'iniziativa e della responsabilità; il condottiero che, in Boemia e sul Reno, fa strategia napoleonica, tende alla ricerca del nemico e alla battaglia; con la manovra, spesso avvolgente, dà all'urto la direzione che consenta il successo maggiore e più profondo. Non ha tipi preferiti di manovra: essa nasce dalla situazione ed è, il più delle volte, frutto dell'iniziativa dei comandanti d'armata. Naturalmente, dopo il 1870, la dottrina tedesca, vittoriosa, fa scuola. In Germania permane la concezione offensiva pur non escludendo la difensiva strategica e tattica; sono esaltati i valori spirituali e l'iniziativa; ma ci si irrigidisce in un tipo di manovra, l'avvolgimento per le ali; ne nascerà per la guerra mondiale un piano che, mentre considera la manovra per linee interne nella lotta su due fronti (francese e russo), si basa per la condotta strategica nel settore francese - il principale - quasi esclusivamente sulla manovra di avvolgimento.
Frattanto la dottrina francese reagiva all'atteggiamento passivo del 1870 e si orientava verso una decisa offensiva. La nuova strategia spinge l'esercito innanzi su tutta la fronte per agganciare il nemico e batterlo, senza riserve, senza avanguardie strategiche; rigido anch'esso, rende difficile la manovra, giacché un'offensiva uniforme rende dovunque l'attacco incapace di sfruttare a fondo la favorevole situazione, la dove essa si determini.
In Italia, la dottrina primitivamente inspirata alla stretta difensiva (ciò era imposto dalla necessità di assestamento del regno e di formazione dell'esercito) passò a concezioni difensivo-controffensive, quando l'organizzazione militare e la garanzia data alla mobilitazione e alla radunata dalle fortificazioni di confine mutarono le basi del problema bellico. Tuttavia la situazione politico-strategica del 1915 impose l'offensiva, cui l'esercito era spiritualmente pronto, ma materialmente impreparato. Il Cadorna punta decisamente verso oriente alla ricerca della massa nemica e della battaglia decisiva, mentre sulla fronte nord la difensiva costituisce elemento di facilitazione e di forza per le armate operanti.
Nessuna dottrina strategica trionfò nella guerra mondiale; tutti i piani di campagna iniziali fallirono. Ovunque, dopo una serie di manovre e di battaglie, gli eserciti, esausti, equivalentisi per forze, si aggrapparono al terreno e si arrestarono. La strategia non era riuscita ad apparecchiare l'urto sì da renderlo decisivo; la difensiva, sorretta dalla sistemazione del terreno, dagli ostacoli passivi e dalla potenza delle armi, prevaleva a tal punto da arrestare ogni urto, rompere ogni manovra. Le successive concezioni politico-strategiche, vaste e anche geniali, non furono quindi mai portate a compimento; la pace imposta alla Russia nel 1917 non conseguì dalla strategia germanica, ma dalla rivoluzione bolscevica; a nulla valsero le vittorie tedesche nella Penisola Balcanica; abortì il tentativo del 1917 di disfarsi dell'Italia; la strategia inglese portò all'infelice spedizione di Gallipoli; la francese temporeggiò in attesa dell'esaurimento del nemico e dell'intervento di forze americane; quella italiana preparò e condusse nuovi urti che sboccarono al successo di Vittorio Veneto. La strategia nel complesso, si muove impacciata. A ciò contribuisce l'aviazione, che - vigile nell'aria - rende difficile la sorpresa. La radio accelera le trasmissioni ma facilita le intercettazioni. Lo spionaggio, sempre più esteso, insidia il segreto. Le masse numerose e i mezzi potenti hanno scarsa mobilità strategica, nonostante alle ferrovie si sia aggiunto il carreggio a motore. La strategia del Foch si mostra capace solo di condurre difesa manovrata. Unica, la concezione italiana di Vittorio Veneto ha esecuzione e successo, riuscendo Diaz a separare le armate austro-ungariche del piano da quelle dei monti e dopo uno sfondamento profondo, ad annientare le due frazioni: l'urto apparecchiato nella direzione strategica più conveniente e le riserve manovrate con rapidità riescono a condurre l'attacco, con continuità, sino in fondo e a trarre dalla vittoria il massimo frutto operativo.
Ma di fronte a quattro anni di tenace prevalenza della difesa, non poteva un esempio fare scuola. Trionfava perciò nella dottrina dell'immediato dopoguerra la strategia di posizione, favorita dalla politica che esigeva ad ogni costo la conservazione del territorio nazionale, e tendente, col temporeggiamento, ad esaurire il nemico. La battaglia, più che il successo tattico e il suo sfruttamento, cercava con colpi successivi di logorare l'avversario. Strategia costosa, confacentesi agli stati ricchi, padroni delle vie di comunicazione, sicuri dei rifornimenti; eminentemente materialista, che nella sfibrante attesa poteva far perdere le energie morali anche ai popoli più forti. Contro questo tipo di condotta bellica reagiva la corrente spiritualista, che vedeva tuttora possibile la guerra di movimento, basata sulle energie dell'animo. Progrediva intanto sempre più l'aeronautica, capace di conseguire risultati strategici e di agevolare alle forze di superficie il conseguimento dei loro obiettivi. I colpi che essa avrebbe portato con grande rapidità all'organizzazione, alla preparazione, al morale dell'avversario dovevano essere sollecitamente sfruttati; si profilava sempre più la possibilità d'immediata apertura di ostilità con azioni repentine per aria, per terra, per mare. Gli eserciti perciò, mentre cercavano di accelerare al massimo la mobilitazione e la radunata, tendevano alla massima speditezza di manovra nel campo strategico, valendosi di veicoli ognora più veloci a integrazione delle ormai insufficienti ferrovie, e a rendere decisivo e penetrante l'urto aumentando la potenza di fuoco con veicoli da combattimento invulnerabili alle armi portatili e capaci di muovere dovunque; a rendere l'attacco continuo fino al successo completo con il sollecito impiego delle riserve facilitato dagli autoveicoli; e diventava ognora più stretta la cooperazione con l'aeronautica, nel campo strategico e nel tattico. Risorgeva così la tendenza alla guerra di movimento, improntata a maggiore dinamismo nei popoli poveri, desiderosi di espandersi; più metodica e posata nei popoli ricchi e conservatori; l'inviolabilità del territorio nazionale cercata dagli uni nel tentativo di portare la guerra sul suolo nemico, e dagli altri nell'apprestamento difensivo continuo lungo le frontiere.
Oggi, la dottrina francese e quella germanica sono volte ambedue alla guerra di movimento. La francese, pur basata sulle grandi risorse spirituali di quel popolo, tiene largo conto delle deduzioni della guerra 1914-18, le cui situazioni possono ripresentarsi, e delinea una strategia offensiva, ma metodica, a lento movimento largamente basata sui mezzi materiali. La germanica esprime più decisa la volontà di condurre guerra di movimento; esalta l'iniziativa delle operazioni, l'offensiva strategica e tattica, che deve tendere all'avviluppamento; fa appello alle forze morali, specie dei comandanti; utilizza a massa l'aviazione, sino dall'inizio; ricerca con i mezzi motorizzati e meccanizzati mobilità e potenza.
La dottrina italiana, che si basa sopra l'elevata preparazione degli spiriti conseguita dal regime fascista, sull'approntamento dei nuovi mezzi e sul riordinamento delle unità, è nettamente protesa alla guerra di movimento. Le condizioni del paese ricco di uomini, scarso di terre e di materie prime, quasi completamente contorniato dal mare, la impongono. Essa esige spirito offensivo e coscienza del rischio; volontà d'imporsi al nemico, di prevenirlo nelle decisioni, superarlo in celerità, per sorprenderlo e batterlo. Strategia che vuole prendere l'iniziativa delle operazioni; fare massa per realizzare la superiorità delle forze nel punto decisivo; manovrare con rapidità; attaccare con decisione; sfondare; portare la guerra in territorio nemico, il più lontano possibile. È questo il nocciolo della dottrina italiana, che giustamente vede nella strategia la continuazione della politica.
L'offensiva è nota dominante. Eccezione è la difesa, che però deve essere manovrata e deve costituire un mezzo per essere più forti in altro punto o in altro momento. La manovra ha importanza capitale, nella forma che la situazione suggerirà. L'avvolgimento di una o di ambedue le ali è sempre il più fecondo di risultati, perciò il condottiero apparecchierà la battaglia così da tendere ad avvolgere la massa avversaria, sia che questa si presenti già con le ali scoperte, sia che si debba prima sfondarne - con accurata preparazione - la fronte per creare i tronconi da avvolgere.
Tempo e sorpresa, fattori preminenti di successo. La rottura della copertura avversaria (i primi contatti saranno fra le coperture) va immediatamente cercata per vietare al nemico di rafforzarsi; la rapidità delle mosse sarà tanto maggiore quanto più sollecite saranno mobilitazione e radunata; concorrerà ad agevolarla l'azione dell'armata aerea sulle basi aeree nemiche e sugli elementi che interessano l'approntamento, la mobilitazione e la radunata dell'avversario.
La direzione, sulla quale influiscono le grandi comunicazioni e in terreno montano i nodi stradali, punti di convergenza delle direttrici strategiche, la tempestività, la potenza dell'urto concorrono ad agevolare la vittoria nella battaglia decisiva, epilogo della manovra: primo atto l'azione dell'avanguardia generale, cui compito precipuo è di mettere il grosso in condizioni di dare battaglia dove il comandante vuole; ultimo l'inseguimento, che corona il successo. Il nemico battuto deve essere inseguito, sorpreso nei movimenti e nelle intenzioni, fiaccato sino all'esaurimento; inseguimento strategico, lanciato nelle direzioni più redditizie e verso gli obiettivi più importanti e lontani così da sfruttare al massimo la vittoria.
In breve sintesi la dottrina militare italiana vuole: preparazione rapidissima, inizio fulmineo delle operazioni anche a costo d'impiegare nelle prime battaglie qualche grande unità in meno; decisa iniziativa; guerra impetuosa, risolutiva, manovrata spingendosi addosso all'esercito nemico, obiettivo primo delle operazioni, nella direzione per lui più dannosa, cercando di avvolgerlo o di sfondarlo per poi operare sul suo tergo; sorprenderlo, costringerlo a pronta battaglia decisiva, batterlo, incalzarlo senza tregua; tutto ciò mentre, fino dai primissimi istanti l'aviazione opera sulle sue linee di rifornimento, immediate e mediate, e prepara, scuotendone le basi e minacciandone il morale, il successo definitivo.
Strategia che esige uomini e strumento bellico adatti: condottieri di ferma volontà, di elevato spirito che superino le difficoltà di muovere le grandi masse con celerità, che amino il rischio, strettamente legato alla manovra, che per forza di carattere s'impongano a loro stessi, ai loro uomini, al nemico; gregarî che li seguano perché sentono che al di là di ogni fatica, di ogni sofferenza, di ogni martirio, al di là del nemico vi è la vittoria.
L'applicazione che di tale dottrina si è fatta nell'Africa Orientale dall'ottobre 1935 al maggio 1936, ha avuto il collaudo di un sorprendente successo.
Bibl.: Opere principali: E. Barone, Studi sulla condotta della guerra, I: I grandi capitani, Torino 1928; L. Blanch, Della scienza militare, a cura di A. Giannini, Bari 1910; K. v. Clausewitz, Vom Kriege, Lipsia 1915 segg. (trad. it. "Pagine scelte", a cura di A. Beria e W. Müller, Torino 1930); N. Marselli, La guerra e la sua storia, Torino 1930; Ministero della guerra, Direttive per l'impiego delle G. U., Roma 1925. - Vedi anche bibl. in guerra, arte della; e le opere di A. Pollio, L. Cadorna, F. Foch, C. Corsi, D. Guerrini, ecc.
Strategia navale. - Per strategia navale s'intende la parte dell'arte militare marittima riguardante i criterî generali per l'impiego del potere marittimo, ossia le grandi linee per la condotta delle operazioni fino al diretto contatto con l'avversario.
I compiti della marina. - I criterî di condotta della guerra sul mare devono essere fondati sulla concezione integrale della guerra, cioè sulla necessità di correlazione fra la marina e le forze di terra e dell'aria. Il mare è una grande via di comunicazione; le coste sono frontiere. I compiti della marina, genericamente considerati, sono perciò i seguenti: a) proteggere i rifornimenti della nazione per le vie del mare e contrastare quelli del nemico (difesa e attacco delle comunicazioni marittime); b) proteggere i trasporti di truppe fra i proprî territorî e impedirli al nemico (difesa e attacco delle spedizioni marittime); c) difendere le proprie coste e attaccare quelle del nemico (cioè, principalmente, impedire o assicurare la riuscita dei tentativi d'invasione dal mare).
L'importanza relativa delle diverse specie di compiti non può definirsi in modo astratto, essendo assai variabile col carattere della guerra e con la situazione dei belligeranti nelle successive fasi del conflitto. Quando la guerra terrestre non sia prontamente decisiva, la difesa e l'attacco delle comunicazioni marittime assumono importanza predominante (così nella guerra mondiale con lo stabilizzarsi delle fronti); la difesa delle comunicazioni costituisce un compito essenziale per la marina del belligerante, per il quale la capacità di resistenza sarebbe seriamente compromessa se i rifornimenti marittimi non potessero affluire in sufficiente quantità; invece per la marina del belligerante che si trovi nelle condizioni opposte il compito essenziale è l'attacco delle comunicazioni. Ma l'influenza dell'azione contro il commercio diviene sensibile in progresso di tempo, mentre è ovvio che quando si verifica la necessità di eseguire fra i proprî territorî trasporti di truppe per via marittima tale necessità ha carattere impellente; così all'inizio della guerra mondiale la protezione dei trasporti delle truppe in Francia dall'Algeria, dall'Inghilterra e dalle colonie e, nell'ultima fase del conflitto, il trasporto delle truppe dagli Stati Uniti, avevano carattere di massima urgenza e d'importanza essenziale. Se un belligerante porta l'offesa sul territorio avversario eseguendo un'invasione marittima, alla marina spetta il compito di assicurare la traversata e lo sbarco; reciprocamente, per l'altro belligerante, il compito essenziale diviene quello della difesa costiera, esercitata mediante l'attacco dei trasporti durante la traversata o nella fase critica dello sbarco, e poi contro le comunicazioni marittime delle truppe sbarcate.
Le finalità delle operazioni di guerra marittima si riassumono nella formula: assicurare alle proprie navi libertà di movimento sul mare, ossia la libertà di uso del mare, e contrastarla all'avversario.
Concetto del dominio del mare. - La libertà di uso del mare sarebbe assicurata in modo assoluto da attacchi navali soltanto se si potesse infliggere alla marina avversaria una disfatta veramente decisiva, nel senso più esteso della parola. A questo risultato ideale corrisponde letteralmente l'espressione "dominio o padronanza del mare". In realtà il dominio del mare, anziché essere completo e definitivo, avrà, generalmente, importanti limitazioni, cioè: a) sarà temporaneo e limitato a uno scacchiere di operazioni; potrà quindi essere compromesso dall'arrivo di nuove forze avversarie; b) sarà incompleto; questo carattere è aggravato dall'importanza assunta dai sommergibili e dai mezzi aerei.
Per quanto nel caso concreto l'espressione "dominio del mare" abbia dunque un significato vago, sussiste l'importanza fondamentale del concetto che è insito in tale espressione, ossia la necessità di orientare la condotta della guerra marittima riferendosi alla predetta situazione "limite". Il concetto del dominio del mare si può quindi esprimere nei seguenti termini.
L'azione delle forze navali deve togliere al nemico la possibilità di contrastare in modo decisivo la nostra libertà di movimento e togliergli la possibilità di valersi delle vie marittime per il conseguimento dei suoi compiti essenziali. L'applicazione di questo concetto costituisce la condotta intesa a conquistare il dominio del mare; evidentemente essa richiede prevalenza di mezzi e vantaggiosa situazione geografica. Reciprocamente, in condizioni d'inferiorità, si deve impedire che il nemico ottenga un vantaggio corrispondente alla situazione "limite"; quindi è necessario infliggere danni alla flotta nemica, ma senza compromettere decisamente la propria forza principale e agire direttamente contro le navi che portano i rifornimenti e le truppe del nemico. Tale condotta è quella intesa a contrastare il dominio del mare, che si usa chiamare "difensiva strategica", perché essa implica di evitare la battaglia decisiva tra le forze principali; deve però essere difensiva attiva, ispirata ad alto spirito offensivo, così da impedire al nemico di esercitare l'uso del mare nella misura necessaria ai suoi compiti essenziali.
La suddetta distinzione è utile in quanto serve a chiarire due diversi estremi orientamenti della condotta delle operazioni; ma nel caso concreto la distinzione non può essere facilmente precisata. La difensiva strategica può essere un'attitudine transitoria in quanto miri a conseguire un miglioramento della situazione marittima, o sia imposta dalla correlazione con le altre forze armate; la condotta di un belligerante può essere diversa nei varî scacchieri e produrre improvvisi mutamenti di situazione con lo spostamento di forze. Da ciò risulta come in pratica l'offensiva e la difensiva debbano combinarsi nei modi più svariati secondo le circostanze.
Criterio della tempestività. - Dalla illustrazione del concetto del dominio del mare si deduce come in pratica la condotta debba discostarsi dalla concezione teorica, che porterebbe a eseguire in primo tempo le operazioni tendenti alla conquista del dominio del mare o almeno a infliggere alla flotta avversaria perdite così rilevanti da potere, in secondo tempo, esercitare l'uso del mare in condizioni di relativa sicurezza.
È evidente che il miraggio della sicurezza non può far dimenticare l'importanza della tempestività. Le forze navali contrapposte non possono stare in permanente contatto come gli eserciti; l'applicazione del principio della distruzione dell'avversario incontra nella guerra marittima difficoltà che non hanno riscontro nella guerra terrestre. Infatti può riuscire impossibile costringere l'avversario alla battaglia navale decisiva se la sua forza principale si mantiene in una base potentemente difesa, per quanto tale forza conservi la facoltà di prendere il mare; d'altra parte non si può fare sicuro affidamento di costringere prontamente a combattere le forze navali al largo, data la loro libertà di movimenti: non si può dunque prevedere in che misura il dominio del mare potrà essere effettivamente conquistato, o quanto tempo sarà necessario per conseguire un vantaggio da potersi stimare sufficiente. Ciò posto, giova rilevare che quando si devono eseguire trasporti di truppe per via marittima essi hanno carattere di necessità immediata (nella guerra mondiale non sarebbe stato possibile rinviare il transito delle truppe inglesi attraverso la Manica fino a una decisiva vittoria sulla flotta tedesca). Anche la protezione del traffico occorre fin dall'inizio del conflitto, sì da richiedere ogni sforzo per mantenere la continuità dei rifornimenti. Sotto questi aspetti la predetta concezione teorica non risponde al complesso delle esigenze guerresche; tale concezione è logica quando si debba portare l'offesa contro il territorio avversario, inquantoché i rischi a cui si espone l'invasore sono così considerevoli che la possibilità dell'impresa è subordinata a un netto vantaggio nella situazione marittima: però anche per queste imprese il criterio della sicurezza può essere applicato solo in misura limitata.
Concludendo: in generale l'uso del mare sarà contrastato; la condotta della guerra marittima dovrà essere ispirata principalmente al criterio della tempestività sia nel difendere l'uso del mare sia nel contrastarlo. La condotta strategica non può dunque irrigidirsi stabilendo come dogma che l'azione risolutiva contro la flotta nemica debba essere il primo obiettivo nel tempo; gran parte delle occasioni di contrasto tra le forze navali sarà conseguenza delle necessità di contrastare gli obiettivi.
Ripartizione ed economia delle forze. - Da quanto precede emerge che la battaglia navale non è scopo a sé stessa, ma tuttavia il contrasto tra le forze armate costituisce il fondamento di ogni concezione strategica; a tale criterio deve soddisfare anzitutto la ripartizione delle forze tra i varî scacchieri di operazioni.
L'applicazione del principio assiomatico della concentrazione delle forze incontra nella guerra marittima gravi difficoltà, dovendosi adattare a esigenze contraddittorie per proteggere o contrastare numerosi, sparsi e importanti obiettivi. Detto principio deve essere armonizzato con quello dell'economia delle forze, stabilendo in quali scacchieri interessa esercitare l'uso del mare, e in quali l'azione deve essere limitata a contrastarlo; agli scopi devono essere adeguati i mezzi, riducendo al minimo le forze dove gli obiettivi hanno importanza secondaria, così da ottenere la massima concentrazione di forze nello scacchiere principale.
Per applicare il principio dell'economia delle forze la ripartizione deve fondarsi sull'alleggerimento dei compiti che in qualche scacchiere può derivare dall'assegnamento sull'azione degli aerei e dei mezzi marittimi insidiosi e da quello sulla difesa costiera (che risponderà al suo scopo quando nei punti minacciati sia assicurata una capacità di resistenza tale da costituire per il nemico un rischio superiore all'utile che esso può promettersi nel mirare a quegli obiettivi). Gli scacchieri in cui per le condizioni geografiche o per altre ragioni non sarà conveniente la dislocazione di importanti forze navali saranno quelli dove occorrerà fare maggiore assegnamento sull'azione degli aerei in concorso con i mezzi marittimi insidiosi. Il principio dell'economia delle forze non esclude l'opportunità di "diversioni" navali purché esse siano redditizie. Infatti non si va incontro a una dispersione di forze, ma al contrario si applica il principio dell'economia facendo una diversione che obblighi il nemico a fronteggiarla con forze di maggiore entità di quelle da noi impiegate, cosicché risulti alleggerito il compito delle nostre forze per il conseguimento degli obiettivi essenziali.
La dislocazione in rapporto alle basi navali. - Affinché le forze possano dislocarsi nel modo necessario per agire opportunamente, occorre la disponibilità di basi che soddisfino alle necessità logistiche (v. logistica: Logistica navale) e abbiano i requisiti di posizione strategica, così da conferire alle forze la sicurezza d'azione, ossia che alla dislocazione corrisponda la possibilità di conseguimento degli obiettivi.
Le difficoltà di scelta delle basi, in modo da conciliare la sicurezza materiale e la sicurezza d'azione, influirono grandemente sulla condotta delle operazioni navali nella guerra mondiale (v.), in futuro esse saranno ancora più rilevanti a causa dell'azione degli aerei. Perciò si rende necessario che le forze navali in attitudine di attesa risultino sufficientemente salvaguardate in relazione alla loro importanza; sotto questo riguardo si deve specialmente tener conto del modo in cui, secondo la situazione geografica, una determinata dislocazione espone le forze navali a intense offese dall'aria. Rispetto alle possibilità d'azione dei mezzi nautici sarebbe evidentemente assai rischiosa la dislocazione di grandi navi in una posizione che consentisse al nemico la facilità di contrastarne l'uscita facendo largo uso di mine e impiegando oltre che i sommergibili anche piccole unità di superficie: la base della principale forza navale deve quindi essere lontana dalle acque del nemico. Da questo emerge come nella dislocazione delle forze di superficie operanti in un medesimo scacchiere s'incontrino difficoltà per applicare il principio del concentramento, perché quanto più la base della forza principale è lontana dal nemico tanto più si è portati a fare distaccamenti, cioè a dislocare reparti di naviglio minore in posizioni avanzate che per il grosso delle forze presenterebbero troppi rischi.
"La concentrazione esiste purché i reparti siano in grado di prestarsi mutuo appoggio, il che può verificarsi anehe quando essi siano conve-. nientemente distanziati. La separazione fra i reparti di una medesima flotta può avere oggi una più grande ampiezza che nel passato, per la sicurezza di movimenti consentita dal vapore e per la rapidità delle comunicazioni" (A. T. Mahan); tuttavia occorre essere molto cauti nell'applicazione di questo concetto. Naturalmente è facile coordinare i movimenti di due reparti distanziati se il nemico è inerte o se si ha il vantaggio di possedere un servizio d'informazioni che faccia sapere in anticipo quando e come il nemico opererà. Ma la dislocazione delle forze deve poter soddisfare alla peggiore ipotesi; si deve tener conto di molteplici elementi per apprezzare se le situazioni presumibili, nel caso di operazioni d'iniziativa del nemico, consentano di fare affidamento che reparti separati agiscano in modo coordinato e tempestivo. I pericoli del frazionamento devono essere meditati; come scrive il Castex, una dispersione intelligente può costituire un'efficace preparazione della manovra strategica, quando sia redditizia determinando da parte del nemico una dispersione maggiore, con criterio analogo a quello che abbiamo innanzi accennato per giustificare le diversioni; ma se ciò non si verifica il frazionamento è pericoloso, specialmente nel caso d'inferiorità di forze, perché in tal caso si accrescerebbe la propria debolezza frazionando le forze, per poi cercare di risolvere in condizioni difficili il problema della riunione. La possibilità che questa riesca tempestiva deve essere valutata tenendo presente che le forze nelle basi, che debbono star pronte a contrastare le iniziative di un nemico che abbia la scelta del momento per operare, non possono essere mantenute di continuo in condizioni di rapido approntamento senza esporle a logorio.
Modalità d'azione. - Dalla dislocazione e relatività delle forze belligeranti, dalla configurazione geografica e dagli obiettivi, risulta una situazione che in ogni scacchiere si può così schematizzare:
Un belligerante (A) esercita l'uso del mare, che si svolge sotto la protezione diretta di un insieme di forze DA (costituito dalle forze di scorta e dai nuclei di protezione del traffico nelle varie zone) e sotto la protezione indiretta di un insieme di forze FA.
L'altro belligerante (B) contrasta l'uso del mare, impiegando un insieme di forze DB per l'attacco diretto al traffico (guerra di corsa con navi di superficie isolate, azioni di sommergibili e di nuclei di forze di superficie) col sostegno indiretto di un insieme di forze FB.
Le forze FA hanno interesse a vincolare FB in modo da impedire che sia scompigliato il sistema di protezione DA; ma nelle moderne condizioni, anche se la relatività di forze è vantaggiosa per A, i sommergibili, le mine e gli aerei non consentono a FA di bloccare FB. Quando le forze FA e FB sono nelle basi esiste fra esse una reciproca larga vigilanza, esercitata mediante le esplorazioni aeree e i sommergibili scaglionati sulle probabili rotte dell'avversario; in tali condizioni la relatività delle forze navali non determina disparità nei riguardi della libertà di movimento, che dipende principalmente dalle condizioni geografiche e dal carattere degli obiettivi. È ovvio che allorché FB prende il mare, FA debba cercare di affrontarla e anzi, nel caso di prevalenza di forze, convenga a FA seguire una condotta che provochi l'attività dell'avversario in condizioni che rendano possibile d'imporre una battaglia risolutiva. Invece FB può ottenere notevoli successi se riesce a eludere il contatto con FA per sopraffare DA (ciò non significa da parte di FB trascuranza di FA per l'attrazione che su tale forza viene esercitata con la minaccia agli obiettivi che FA deve proteggere); perciò nei periodi in cui il traffico avrà importanza più saliente la vigilanza esercitata da FA dovrà indispensabilmente essere alquanto serrata, assumendo caratteri prossimi al blocco, mediante incursioni nelle acque del nemico.
Da ciò si comprende come per A il carattere degli obiettivi implichi maggiori difficoltà per la condotta strategica; mentre B può riportare sensibili vantaggi anche limitandosi alla guerriglia, cercando d'infliggere perdite a FA mediante i mezzi insidiosi, normalmente mantenendo FB allo stato potenziale (flotta in potenza), e saltuariamente impiegando FB in azioni che, per quanto di carattere non decisivo, portino a creare all'avversario sempre maggiori difficoltà per l'esercizio dell'uso del mare (guerra di attrito). La situazione più vantaggiosa è quella di un belligerante che oltre alla prevalenza di forze di superficie abbia un vantaggio di situazione geografica in modo tale che la condotta strategica possa simultaneamente soddisfare allo scopo di esercitare l'uso del mare e impedirlo al nemico (v. guerra mondiale: La guerra mondiale sul mare). La situazione più critica si verifica quando per necessità vitali si debba esercitare l'uso del mare avendo inferiorità nelle forze di superficie.
In ogni modo, per quanto possano essere complesse le forme del contrasto marittimo, dallo schema suaccennato emerge che la condotta della guerra marittima consiste nell'impiego coordinato delle varie specie di mezzi, che s'impernia sul contrasto fra le forze principali, ossia fra quelle che di FA e FB costituiscono i nuclei.
Il quadro così abbozzato è assai incompleto. Fra gli elementi che in pratica vengono a complicarlo sono i vincoli a cui l'azione marittima deve sottostare a causa dei neutri; per quanto una nazione si proponga di far valere con somma energia i suoi diritti di belligerante, tuttavia, a rischio di serie complicazioni internazionali, l'azione contro il traffico dovrà essere svolta in modo che i neutri siano costretti ad ammetterne la legittimità, derivante da sufficienti garanzie ad essi riconosciute. Sul contrasto fra le forze armate influisce il criterio del rischio del materiale navale, poiché una nave di grande importanza può essere fulmineamente distrutta da un piccolo mezzo e, nella contrapposizione di forze della stessa specie, l'uguaglianza di perdite da ambo le parti può produrre un'alterazione del rapporto di potenzialità, in modo svantaggioso per la marina che complessivamente dispone di minori forze. Ma ciò non significa che la condotta strategica nel campo marittimo debba essere caratterizzata dalla prudenza più che dall'ardimento. I rischi devono essere affrontati in relazione all'importanza degli obiettivi; la relatività di forze deve essere considerata in rapporto alla situazione, ossia il criterio di relatività non deve dettare norme rigide per prestabilire la condotta. È ovvio che il più alto spirito aggressivo deve guidare l'azione della marina che ha la superiorità complessiva di forze su quella avversaria; ma ancor più occorre che da questo spirito sia animata la marina che nel complesso dispone di minori forze.
Strategia aeronautica. - Si può affermare che la strategia aeronautica sia già costituita in dottrina, per quanto non così completamente e rigorosamente come lo sono da tempo quella terrestre e quella marittima; troppo recente è infatti l'origine dell'armata dell'aria e manca perciò la sanzione pratica dell'impiego suo in una grande guerra. È vero che un primo largo uso dei mezzi aerei fu fatto nella guerra mondiale, ma esso ebbe finalità per lo più tattiche e solo in alcuni casi strategiche, sempre però in appoggio delle operazioni, condotte dalle altre due forze armate.
Caratteristiche dell'armata aerea odierna. - a) Potenza distruttrice senza pari: un'armata aerea può lanciare sugli obiettivi un carico esplodente o aggressivo uguale a un quarto del proprio peso e, poche ore dopo, si può ritrovare sul posto di combattimento, con lo stesso potenziale offensivo, per ripetere l'azione di tempo in tempo, in identiche condizioni. b) Azione dall'alto, elemento principale di dominio: la quota pratica d'impiego spazia per ora da rasente la terra fino agli 8000 metri, con tendenza a un progressivo innalzamento che raggiungerà probabilmente e in breve i limiti inferiori della stratosfera, cioè i 10 e 12.000 metri. c) Velocità altissima, non confrontabile con quella degli altri mezzi di locomozione di superficie: gli attuali velivoli da bombardamento volano già a 400 km. l'ora; ma anche la velocità, come la quota d'impiego, è in aumento rilevante e continuo. d) Indifferenza nei riguardi del terreno sottostante. e) Raggio d'azione che supera già i mille chilometri, per modo che il territorio della maggior parte delle nazioni si trova sotto il controllo aereo di quelle confinanti. f) Possibilità di attaccare qualunque punto del territorio nemico, senza bisogno di aver prima abbattuta alcuna linea di resistenza, all'uopo predisposta, appunto per le precitate caratteristiche.
Il complesso di queste caratteristiche denota a quale altissimo grado sono spinti i canoni fondamentali della strategia: l'alto potenziale offensivo, la facilità e la rapidità della formazione della massa nello spazio e nel tempo, la rapidità e la facilità della manovra per linee interne o esterne, la sorpresa, resa normale dalla velocità, dalla invisibilità, favorita dalla quota, dalla notte e dalle nubi.
Obiettivi aeronautici. - Per renderne organica l'enumerazione distingueremo quelli peculiari dell'armata aerea, che non possono cioè essere raggiunti dalle forze di superficie, da quelli il cui raggiungimento può essere facilitato dal suo intervento, ma che spettano invece particolarmente alle forze di superficie.
Gli obiettivi del primo gruppo possono essere civili o militari.
Quelli civili sono: a) industriali (stabilimenti di produzione del materiale necessario alla vita nazionale, centrali termiche e idroelettriche per la produzione dell'energia, dighe, opere di bonifica, miniere, ecc.); b) logistici (centri ferroviarî e rete stradale e ferroviaria con le opere relative, porti, depositi di combustibili e di viveri, materiale per trasporti terrestri o marittimi); c) demografici (capitali, città con forte addensamento di popolazione).
Gli obiettivi militari sono: a) aeronautici, in quanto costituenti l'insieme della forza aeronautica avversaria (basi aeree, depositi di materiale bellico, velivoli della linea); b) terrestri, in quanto interessano il raggiungimento di finalità strategiche o tattiche da parte dell'esercito (depositi di materiale, basi di rifornimento e forze in linea); c) marittimi, in quanto interessano il raggiungimento di quelle della flotta (basi navali, magazzini, opere fortificatorie e naviglio).
Come si è accennato, la sorpresa derivante dalla velocità e dall'invisibilità, la rapidità del concentramento di grandi masse su un obiettivo e dell'immediato irradiamento delle unità verso le regioni di sosta e di rifornimento, permettono molto spesso di astrarre dall'aviazione della difesa, la quale, ignorando dove si pronuncerà l'attacco, verrà a trovarsi in condizione d'inferiorità rispetto a un nemico che ha l'iniziativa della massa, del luogo, del tempo e della regione dello spazio nella quale navigare e offendere. Quindi, sovente, l'aviazione della difesa o sarà costretta a rifiutare il combattimento o opporrà una resistenza non temibile o non potrà neppure intervenire.
Ma si può anche pensare che gli obiettivi siano talmente evidenti e interessanti che l'armata attaccante incontri quella della difesa, in forza ed in grado di combattere. Si sviluppa, in tale ipotesi, l'impiego delle grandi masse d'aviazione contro altre masse, presso a poco equivalenti. La strategia aerea, che governa la battaglia tra le aeronautiche rivali, non ha in questo campo precedenti e non è per ora costringibile in formule.
Molti scrittori di cose militari considerano come obiettivo principale e immediato dell'aviazione l'attacco e la distruzione di quella avversaria, perché, raggiunto questo primo obiettivo militare aeronautico, verrebbe a costituirsi il cosiddetto "dominio dell'aria", con la possibilità di raggiungere poi facilmente, quasi senza colpo ferire, tutti gli altri obiettivi, militari e civili, dianzi indicati. Altri, invece, crede che l'aviazione commetterebbe un grave errore se, sull'orma delle idee dominanti nella guerra di superficie, si prefiggesse, come primissimo obiettivo, la distruzione dell'aeronautica avversaria onde affermare il dominio dell'aria. In favore di questa seconda tesi militano due importanti argomenti: a) l'impossibilità, per un'armata aerea, di protrarre la propria permanenza nel cielo nemico fino a che l'armata avversaria accetti la battaglia; b) il rapido logoramento che causerebbe ad entrambe le armate una "guerra di trincea nell'aria", quale sarebbe l'accennata lotta per il predominio. Se uno dei belligeranti dispone di materiale adatto, anche in chiara inferiorità di numero di macchine rispetto all'avversario, potrà sempre agire contro gli obiettivi prescelti senza che quello possa, quasi mai, reagire in tempo utile. L'avversario potrà a sua volta praticare la rappresaglia.
Obiettivi industriali. - L'azione più caratteristicamente aeronautica è l'offensiva contro la produzione dei mezzi di guerra dell'avversario, dall'origine della materia prima fino alla sua manipolazione finale. Poiché però non è possibile perseguirne tutta la produzione fino a risalire alle piccole e disperse sorgenti, occorre limitare l'azione solo contro i principali settori. Azione, dunque, continua e metodica contro un settore della produzione nemica (e in particolare contro le sorgenti di questa), la cui mancanza determini una condizione di grave inferiorità.
Naturalmente nella scelta del settore da attaccare tra quelli accuratamente preparati durante la pace, si rivelerà lo stratega di genio, che sa prendere la via più diretta per giungere alla vittoria.
Centri logistici. - La grandezza e la complessità delle forze armate moderne esigono una vasta organizzazione dei servizî di rifornimento le cui correnti si ramificano per tutto il paese, ma per necessità geografiche e militari s'incanalano lungo certe determinate vie e si accentrano in certi determinati nodi; la disorganizzazione di questi centri, nei momenti nei quali più intenso è il bisogno del loro funzionamento, può avere una grave ripercussione nello sviluppo delle azioni e quindi rappresenta un obiettivo di primaria importanza per l'aviazione avversaria. Altrettanto si può ripetere per quei centri che riguardano la vita civile della nazione.
Obiettivi demografici. - Taluno ha sostenuto, con grande abbondanza di argomenti e di calcoli, l'azione disorganizzante, disorientatrice e terroristica contro le grandi città, allo scopo precipuo di paralizzare lo spirito combattivo della nazione e diminuirne la capacità morale di resistenza.
Per contro vi è chi sostiene che molte nazioni si sono già preparate, moralmente e materialmente, a una guerra siffatta; né bisogna dimenticare che all'azione seguirà di certo la rappresaglia da parte nemica, cosicché la gara nella distruzione troverà un freno nella poca convenienza reciproca.
Non sarebbe quindi, secondo costoro, questa la strada migliore per raggiungere lo scopo ultimo, cioè la vittoria, che tutte le considerazioni militari, civili ed economiche consigliano di far dipendere dal rapido svilupparsi di una guerra prontamente risolutiva.
Obiettivi militari. - a) Obiettivi per l'aeronautica. Possono essere specificamente aeronautici, lo scaglionamento in profondità delle forze aeree avversarie, dalla linea fino ai depositi di materiale, scuole, ecc. Questa serie di obiettivi militari si salda con quella corrispondente d'obiettivi civili.
b) Obiettivi dell'esercito. Si ammette da moltissimi cultori dell'arte militare che nuclei di aviazione, particolarmente istruiti all'uopo, debbano essere a disposizione delle grandi unità dell'esercito per la ricognizione strategica e tattica e per l'osservazione del tiro delle artiglierie; questi nuclei aerei debbono agire in stretto collegamento tattico anche con le unità minori dell'esercito e di esse sono considerati ausiliarî indispensabili, tanto che si era pronunciata la tendenza di farli dipendere, anche organicamente, dalle unità terrestri.
Ma l'aeronautica può concorrere nelle operazioni militari dell'esercito in modo più diretto, sia appoggiando l'azione delle forze terrestri con appositi bombardamenti di obiettivi retrostanti al fronte e non raggiungibili col cannone, sia partecipando agli attacchi con volo rasente la terra, in stretto contatto dei reparti terrestri, quale truppa aerea d'assalto. Esempî recenti e caratteristici di tale impiego si sono avuti nella guerra italo-etiopica (1935-1936). In tali casi l'impiego strategico dell'aviazione è strettamente connesso e inquadrato con l'impiego delle forze terrestri.
c) Obiettivi della marina. - Ragionamenti analoghi a quelli fatti per gli obiettivi dell'esercito si possono ripetere nei riguardi degli obiettivi della marina: in questo caso la necessità di un collegamento quanto mai stretto è stata sentita a tal punto che unità della forza aerea sono imbarcate, specialmente per i fini della ricognizione e dell'aggiustamento del tiro dell'artiglieria: è spiccata, in molte marine, la tendenza ad avere forze aeree proprie, considerandole come una indispensabile integrazione della forza di superficie: tale tendenza è favorita dal fatto che il personale dei mezzi aerei deve essere perfettamente al corrente delle manovre navali e delle particolari circostanze con le quali si sviluppa il combattimento. A ciò si oppone la necessità di non disperdere, con la suddivisione, le forze aeree delle quali la nazione può disporre.
Strategia della difesa. - In tutta questa esposizione sono state considerate solo operazioni offensive delle forze aeree e ciò perché la capacità difensiva dell'aeroplano consiste, com'è ovvio, unicamente nell'offesa.
Arma o armata? - Il concorso nelle operazioni delle altre forze armate può raggiungere, secondo alcuni, un alto grado di sviluppo, fino a concepire l'armata aerea come quella che prepara, rafforza, e accompagna le azioni dell'esercito e della marina, secondo i casi. Altra scuola più estremista sostiene invece la cosiddetta "guerra aerea integrale", la quale può riassumersi nell'aforisma: far massa nell'aria e resistere in superficie. Secondo questa scuola l'azione predominante e risolutiva dovrebbe essere affidata a una congrua aviazione; i compiti dell'esercito e della marina sarebbero limitati: 1. a impedire che l'esercito e la marina avversarî potessero tentare l'occupazione del territorio nazionale; 2. a occupare materialmente il territorio nemico, dopo ottenutane la resa a discrezione per opera dell'armata aerea. Tutti gli stati più progrediti che in passato si erano orientati verso la concezione di un'armata aerea più o meno ausiliaria delle forze di terra e del mare, oggi, pur lasciando negli organismi militari una funzione notevole alle aviazioni ausiliarie per la guerra di superficie, si sono decisamente volti verso la concezione più vasta e completa dell'indipendenza strategica delle armate aeree per la guerra nell'aria; il che probabilmente prelude ad un mutamento di indirizzo verso l'attribuzione di un potere predominante e decisivo all'aviazione.