Stranieri. Diritto penale e governo dei flussi migratori
La scadenza, il 24.12.2010, del termine per l’attuazione della direttiva 2008/115/CE (cd. direttiva rimpatri) ha comportato lo stravolgimento della disciplina amministrativa e penale in materia di espulsione degli stranieri extra-comunitari irregolarmente soggiornanti nel nostro Paese. Prima la giurisprudenza interna e la Corte di giustizia europea (sentenza El Dridi) hanno sancito l’inapplicabilità delle fattispecie delittuose previste dall’art. 14 t.u. imm. cond. stran. a carico dello straniero inottemperante all’ordine di allontanamento; poi, proprio in reazione alla grave censura del sistema interno proveniente dalla Corte comunitaria, il legislatore nazionale è intervenuto con un decreto legge (convertito in legge i primi giorni di agosto) che ha riscritto il sistema delle espulsioni, e sotto il profilo penalistico ha reintrodotto i delitti dichiarati illegittimi in sede europea, sostituendo la pena pecuniaria della multa alla pena detentiva prevista in precedenza ed espressamente dichiarata contraria alla direttiva-rimpatri dalla Corte europea. Il sistema introdotto ad agosto presenta ancora, tuttavia, notevoli profili di criticità rispetto alla normativa comunitaria, tanto da far ritenere che il processo di adeguamento della disciplina interna in materia di rimpatri possa ritenersi tutt’altro che compiuto.
L’anno appena trascorso ha segnato un fondamentale punto di svolta in materia di diritto penale dell’immigrazione, con il passaggio da un sistema che vedeva al centro della risposta sanzionatoria del fenomeno dell’immigrazione clandestina la pena detentiva nei confronti del migrante irregolare, alla situazione attuale in cui invece l’uso di tale strumento è confinato ad ipotesi residuali, dalla scarsissima portata applicativa1. Il primo passo in questa direzione è del febbraio 2011, quando le Sezioni Unite penali della Cassazione2 stabiliscono l’inapplicabilità agli stranieri irregolari della contravvenzione di omessa esibizione dei documenti di identità e di soggiorno di cui all’art. 6, co. 3, d.lgs. n. 286/1998 (di seguito, t.u. imm. cond. stran.). Il secondo (e assai più importante) momento di questo percorso è rappresentato dalla sentenza El Dridi della Corte di giustizia europea del 28.4.2011(C-61/11PPU), che non solo ha dichiarato comunitariamente illegittima, espungendola dall’ordinamento giuridico, la norma-chiave dell’intero arsenale sanzionatorio nei confronti del migrante irregolare (il delitto di cui all’art. 14, co. 5 ter, t.u. imm. cond. stran. che a partire dal 2004 ha condotto in carcere migliaia di stranieri per il solo di fatto di essersi trattenuti in Italia nonostante l’emanazione di un provvedimento amministrativo di allontanamento dal territorio dello Stato); ma ha anche affermato in termini più generali che il mero ‘status’ di irregolare, anche se successivo ad un ordine di allontanamento, non può comportare la carcerazione dello straniero. Ciò in quanto l’uso della sanzione detentiva nei confronti del clandestino viola il sistema di garanzie apprestato dalla direttiva 2008/115/CE e non è neppure funzionale ad un razionale disegno di contrasto all’immigrazione irregolare, l’efficacia del sistema dipendendo dalla capacità dello Stato di eseguire effettivamente i rimpatri, mentre la pena detentiva finisce per rappresentare un ulteriore ostacolo al conseguimento di tale obiettivo. Mai una pronuncia della Corte del Lussemburgo aveva avuto effetti di così ampio respiro sul sistema penale italiano. La Corte infatti non ha censurato soltanto uno specifico aspetto della disciplina interna, o una norma incriminatrice di modesto rilievo applicativo, bensì ha dichiarato illegittima al metro del diritto comunitario una delle scelte qualificanti la politicacriminale delle maggioranze di centro-destra dell’ultimo decennio, che proprio dalla rivendicata «mano dura» nei confronti del clandestino, da inserire nel circuito penitenziario per il solo fatto di risiedere illegalmente in Italia, hanno attinto (specie in alcune regioni del nostro Paese) una parte consistente del proprio consenso elettorale. La sentenza El Dridi, peraltro, non ha escluso la possibilità per un ordinamento interno di porre ancora lo strumento penale al centro del sistema di contrasto all’immigrazione irregolare, purché le pene comminate non comportino una privazione della libertà personale dello straniero: proprio quanto è avvenuto da ultimo nel nostro Paese con il d.l. n. 89/2011, che nel riformare il sistema delle espulsioni al fine di conformarlo alla direttiva 2008/115/CE, non solo ha riformulato il delitto di cui all’art. 14, ma ha addirittura introdotto nuove figure di reato connesse all’irregolarità del soggiorno, prevedendo però per ciascuna di tali fattispecie l’applicazione della sola pena della multa.
Veniamo ora ad analizzare nello specifico i momenti più significativi di questo processo di profonda modificazione del diritto penale dell’immigrazione.
2.1 La sentenza delle Sezioni Unite sul reato di mancata esibizione dei documenti di identità e di soggiorno
Come anticipato, le Sezioni Unite della Cassazione hanno risolto nel febbraio 2011 la controversa questione relativa all’applicabilità agli stranieri irregolari della contravvenzione di mancata esibizione dei documenti di identificazione e di soggiorno (art. 6, co. 3, d.lgs. n. 286/1998), così come modificata dal cd. pacchetto sicurezza del 2009 (l. n. 94/2009). Prima di tale modifica normativa, le stesse Sezioni Unite della Cassazione – ponendo fine ad un annoso contrasto tra chi riteneva tale fattispecie non applicabile agli stranieri irregolari, in quanto essi risultavano per definizione sprovvisti dei documenti attestanti la regolarità del soggiorno di cui la norma richiedeva l’esibizione, e chi invece reputava che anch’essi potessero rispondere di tale reato – erano giunte nel 2003 alla conclusione che la contravvenzione fosse imputabile anche agli stranieri irregolari, qualora essi non esibissero almeno i documenti di identificazione, di cui potevano essere in possesso nonostante la loro condizione di clandestinità3. Il legislatore del 2009, oltre ad aumentare in maniera significativa la cornice edittale del reato, interviene sulla formulazione della norma, modificando per quanto qui interessa la relazione tra i documenti oggetto del dovere di esibizione, dalla precedente natura disgiuntiva (si puniva lo straniero che non mostrava i documenti di identità «o» i documenti attestanti la regolarità del soggiorno) all’attuale relazione congiuntiva (si punisce lo straniero che non esibisce i documenti di identità «e» quelli relativi al soggiorno). La giurisprudenza si è da subito divisa circa gli effetti da riconoscere a tale modifica, delle cui ragioni non vi è traccia nel dibattito parlamentare. Secondo le prime decisioni di legittimità, il diverso tenore letterale della disposizione non compromette la possibilità di ritenere ancora applicabile il principio affermato dalle Sezioni Unite nel 2003, restando imputabili per tale reato gli stranieri irregolari che non mostrino neppure i documenti di identità; secondo invece un diverso indirizzo ermeneutico, sicuramente maggioritario in sede di merito, la norma ora esplicitamente prevede che sullo straniero incomba il dovere di mostrare entrambe le tipologie di documenti, sicché essa risulta applicabile ai soli stranieri regolari, non potendo agli irregolari venire contestata la mancata esibizione di documenti (quelli attestanti la legalità del soggiorno) di cui per definizione non hanno la disponibilità4. Investite della questione, le Sezioni Unite – all’esito di un articolato percorso argomentativo, che non vi è purtroppo qui lo spazio per riferire – sposano la tesi da ultimo esposta, ritenendo quindi la fattispecie applicabile ai soli stranieri in regola con la disciplina sul soggiorno, con conseguente abolitio criminis parziale della fattispecie per quanto concerne gli stranieri irregolari. Il Supremo Collegio ha altresì cura di precisare come l’irragionevole lacuna sanzionatoria che in questo modo pare venirsi a creare sia in realtà solo apparente, posto che la contestuale introduzione nel 2009 del cd. reato di clandestinità espone comunque al rimprovero penale lo straniero che ad un controllo di polizia non esibisca un valido documento di soggiorno5.
2.2 La direttiva 2008/115/CE
Nel frattempo, il 24.12.2010 era scaduto il termine per la trasposizione nell’ordinamento interno della cd. direttiva rimpatri, le cui disposizioni avrebbero generato quella vera e propria rivoluzione in materia di diritto penale dell’immigrazione cui abbiamo già fatto cenno nell’introduzione. Prima di analizzare la sentenza della Corte europea, che di tale direttiva ha fatto applicazione, e la legge di trasposizione infine adottata dal legislatore italiano, è necessario brevemente analizzare le linee portanti del testo comunitario e i suoi più evidenti profili di contrasto con il sistema interno. I principi ispiratori della direttiva sono esplicitati nei numerosi «considerando » introduttivi. Da un lato il legislatore comunitario intende contribuire ad implementare «una politica di rimpatrio efficace quale elemento necessario di una politica di immigrazione correttamente gestita»6; al contempo, la direttiva mira ad elaborare «norme comuni affinché le persone siano rimpatriate in maniera umana e nel pieno rispetto dei loro diritti fondamentali e della loro dignità»7. La disciplina dettata dalla direttiva costituisce dunque l’esito di un delicato bilanciamento tra l’interesse a rendere effettivi i rimpatri disposti dalle autorità nazionali, delineando un sistema improntato a criteri di razionalità ed efficacia, e la necessità di garantire che tale intento non venga perseguito a discapito dei diritti fondamentali comunque spettanti allo straniero anche se irregolarmente soggiornante8. Nelle prime reazioni all’approvazione della direttiva, da più parti era stato rimproverato al legislatore comunitario di avere in realtà ceduto alle pressioni rigoriste provenienti dall’opinione pubblica e dai media, concedendo in concreto assai poco spazio alle esigenze di tutela dei diritti, tanto che alcuni dei primi commentatori l’avevano addirittura definita «la direttiva della vergogna»9. In Italia, tuttavia, almeno nei mesi immediatamente successivi alla scadenza del termine di attuazione, l’attenzione si è piuttosto concentrata sui profili di maggiore garanzia riconosciuti dalla direttiva rispetto all’ordinamento interno: il nostro sistema era talmente poco rispettoso degli interessi del migrante, che anche un testo normativo da molti ritenuto sbilanciato in senso repressivo predisponeva una serie di garanzie sostanziali e procedurali assenti nel nostro sistema. Limitando l’attenzione ai profili di contrasto più evidenti, e che maggiore spazio hanno trovato nel successivo dibattito dottrinale e giurisprudenziale, vi erano almeno due difformità di natura strutturale tra il sistema interno antecedente all’ultima riforma e quello della direttiva. La prima concerne le procedure esecutive del provvedimento espulsivo: la direttiva prevede come modalità ordinaria di esecuzione della decisione di rimpatrio la cd. partenza volontaria, cioè l’intimazione allo straniero espulso di abbandonare il territorio dello Stato entro un termine compreso tra sette e trenta giorni (art. 7, § 1, dir.), mentre nel sistema interno la regola era che, ove possibile, si procedesse immediatamente al rimpatrio coattivo dello straniero (art. 13, co. 4, t.u imm., prima della riforma del 2011). La seconda riguarda invece le misure coercitive utilizzabili dallo Stato per eseguire la decisione di rimpatrio, quando lo straniero non vi abbia proceduto volontariamente: secondo la direttiva lo Stato può procedere al trattenimento dello straniero solo quando nel caso concreto risultino insufficienti a garantire il rimpatrio misure meno afflittive (come l’obbligo di dimora o la costituzione di una adeguata garanzia finanziaria), mentre in Italia invece non esistevano misure coercitive diverse dal trattenimento, che l’autorità amministrativa deve sempre disporre quando non sia per qualsiasi ragione possibile il rimpatrio immediato.
2.3 La giurisprudenza penale anteriore alla sentenza El Dridi
Scaduto il termine per l’attuazione senza che il legislatore avesse proceduto ad adeguare il sistema interno alle prescrizioni comunitarie, è stata la giurisprudenza a iniziare a dare applicazione ai contenuti della direttiva. Stimolata dalla dottrina, infatti, la giurisprudenza penale ha da subito iniziato a porsi il problema degli effetti della scadenza della direttiva in ordine alla legittimità dei delitti di inottemperanza dello straniero all’ordine di allontanamento previsti dall’art. 14, co. 5 ter e 5 quater t.u. imm. cond. stran., giungendo in molte occasioni a disapplicare le norme incriminatrici per contrasto con la direttiva anche prima dell’intervento della Corte europea. Nel volgere delle poche settimane che intercorrono tra la scadenza della direttiva (26.12.2010) e la soluzione definitiva del problema circa i suoi effetti fornita dalla sentenza El Dridi (28.4.2011), ha avuto modo di svolgersi un interessante dibattito dottrinale e giurisprudenziale10, al quale ci pare qui importante perlomeno accennare. In estrema sintesi, sono emerse quattro diverse soluzioni alla questione in esame.
a) Secondo la tesi più radicale – sostenuta già qualche mese prima della scadenza della direttiva nei primi lavori pubblicati in materia11, e le cui argomentazioni, giova anticiparlo, troveranno poi pressoché integrale riscontro nella decisione della Corte europea– sussisteva un irriducibile contrasto tra le disposizioni della direttiva che disciplinano le modalità ed i limiti del trattenimento (artt. 15 e 16 dir.) ed i delitti di inottemperanza all’ordine di allontanamento previsti dall’art. 14 t.u. imm. cond. stran.: benché infatti la direttiva non vieti espressamente agli Stati membri di sanzionare penalmente le condotte dello straniero che ostacolano o ritardano il rimpatrio, tuttavia da essa si desume in modo inequivocabile la volontà del legislatore europeo di limitare il più possibile la privazione di libertà personale dello straniero all’interno della procedura di rimpatrio, limitandola entro i precisi confini funzionalistici (la detenzione amministrativa dell’irregolare deve essere finalizzata esclusivamente all’esecuzione del rimpatrio, tanto che essa deve immediatamente cessare quando «non esiste più alcuna prospettiva ragionevole di allontanamento»: art. 16, § 4, dir.) e temporali (sei mesi, prorogabili a diciotto in casi eccezionali tassativamente descritti) fissati nella direttiva. Se si ritenesse che la natura penalistica della privazione di libertà basti ad escludere l’applicabilità della direttiva, si consentirebbe ad uno Stato membro di sottrarsi all’adempimento dei propri obblighi comunitari semplicemente qualificando come penalmente rilevanti le stesse condotte che la direttiva disciplina in via amministrativa: ma ciò non significherebbe altro che legittimare una evidente «truffa delle etichette», che contrasta con il criterio ermeneutico dell’effetto utile e con l’obbligo di fedeltà comunitaria incombente sugli Stati membri, vanificando di fatto le tutele dei diritti fondamentali apprestate in sede comunitaria. Le norme della direttiva violate dalla disciplina interna possiedono, poi, tutti i requisiti perché, alla scadenza del termine di attuazione, le singole disposizioni di una direttiva non trasposta acquistino effetto diretta nell’ordinamento interno. Gli artt. 15 e 16, infatti, sono chiari e precisi, sono incondizionati (nel senso che non necessitano per la loro applicazione dell’intervento del legislatore interno, ponendo anzi dei limiti all’esercizio della forza da parte degli Stati) e producono effetti verticali in bonam partem (cioè attribuiscono ai singoli posizioni di vantaggio esercitabili nei confronti dello Stato); quindi, trascorso inutilmente il termine per l’attuazione, tali disposizioni sono direttamente applicabili dal giudice interno, che nella sua veste istituzionale di primo giudice del diritto comunitario è tenuto altresì a disapplicare le norme nazionali con essi in contrasto. Sulla scorta di questi due argomenti (il contrasto dei delitti di cui all’art. 14 t.u. imm. cond. stran. con gli artt. 15 e 16 dir., e l’effetto diretto di tali ultime disposizioni), sin dai primi giorni del 2011 diversi giudici di merito pervengono ad assolvere gli imputati per i delitti in questione12, e diverse Procure della Repubblica danno indicazione alla polizia giudiziaria di non procedere più agli arresti per tali reati13.
b) Alla medesima conclusione di mandare assolti gli imputati per i delitti di inottemperanza all’ordine di allontanamento è pervenuto anche un secondo indirizzo giurisprudenziale, che percorre un diverso ed autonomo itinerario argomentativo. Secondo tale orientamento, dal momento che la direttiva non si occupa direttamente della materia penale, non è possibile desumerne il divieto per il legislatore interno di compiere determinate scelte di incriminazione. Il problema non riguarda, allora, la legittimità in sé della decisione di punire con la reclusione le condotte di inottemperanza all’ordine di allontanamento, quanto piuttosto la legittimità dell’ordine, la cui violazione viene rimproverata allo straniero. La direttiva, come abbiamo visto, detta una disciplina dell’esecuzione dei provvedimenti espulsivi del tutto diversa ed incompatibile con quella vigente nel nostro sistema, e le norme della direttiva che contengono tale disciplina (in particolare l’art. 7 dir.) hanno i requisiti per spiegare effetto diretto nell’ordinamento italiano: di conseguenza, un ordine di allontanamento emanato in mancanza delle garanzie previste in sede comunitaria (in primis il diritto a beneficiare di regola di un termine minimo di sette giorni per la partenza volontaria) risulta illegittimo, ed in quanto tale non può fungere da presupposto del reato consistente nella sua violazione. Alla luce, infatti, di un consolidato orientamento giurisprudenziale, nei procedimenti ex art. 14, co. 5 ter, il giudice deve verificare che l’ordine del questore violato dallo straniero sia legittimo, pronunciando sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste qualora riscontri dei vizi nella sua emanazione: vizi rappresentati qui proprio dal contrasto con la direttiva comunitaria, dotata di effetto diretto e prevalente sulla normativa nazionale14.
c) A fronte di tali pronunce, che hanno ritenuto non più applicabili i reati previsti dall’art. 14, non sono mancate tuttavia – in dottrina come in giurisprudenza – voci anche aspramente critiche contro gli argomenti appena riportati15. Si contestava anzitutto la possibilità di ricavare dagli artt. 15 e 16 dir. un implicito divieto per il legislatore nazionale di sanzionare penalmente la condotta di inottemperanza all’ordine di allontanamento, sottolineandosi che tali norme avrebbero inteso disciplinare solo il trattenimento amministrativo in vista del rimpatrio, lasciando impregiudicata la possibilità che lo straniero venga ad altro titolo privato della propria libertà personale, posto che tra l’altro la sanzione penale ha una funzione (sanzionatoria e general-preventiva) del tutto diversa da quella del trattenimento disciplinato in sede europea. E da parte di taluni si sosteneva, più in radice, che il diritto comunitario – prima del Trattato di Lisbona – non avesse alcuna competenza ad incidere sull’applicazione del diritto penale negli Stati membri. Anche il preteso effetto diretto degli artt. 15 e 16 dir. veniva posto in discussione, dubitandosi soprattutto della natura incondizionata di tali disposizioni, che si limitano a fissare principi, per la cui implementazione sarebbe stato tuttavia indispensabile l’intervento del legislatore interno. Quanto infine alla tesi dell’illegittimità degli ordini di allontanamento presupposti, se ne ammetteva la correttezza soltanto in relazione agli ordini emanati dopo il 24 dicembre, rispetto ai quali non siano state effettivamente rispettate le garanzie procedurali fissate nella direttiva. In ordine però ai procedimenti riguardanti condotte di inottemperanza ad ordini antecedenti a tale data, la loro legittimità non poteva ritenersi inficiata dalla successiva diretta applicabilità della direttiva, alla quale non vi sarebbe stata ragione per attribuire efficacia retroattiva.
d) In presenza di orientamenti così contrastanti, vari giudici decisero così di rimettere, con rinvio pregiudiziale, la questione alla Corte di giustizia europea, chiedendo all’interprete di ultima istanza del diritto comunitario se gli artt. 15 e 16 dir. ostino alla comminazione di una significativa pena detentiva nei confronti dello straniero che, all’interno di una procedura amministrativa di rimpatrio, non ottemperi all’intimazione a lasciare il territorio dello Stato16.
2.4 La sentenza El Dridi della Corte di giustizia europea ed i suoi effetti nell’ordinamento interno
Alla Corte di giustizia approdano dunque tutti gli argomenti che erano stato oggetto di dibattito in ambito interno e che abbiamo appena sintetizzato: l’Avvocato generale, il rappresentante della Commissione europea e la difesa della parte privata sostengono la tesi dell’incompatibilità delle incriminazioni dell’art. 14 con la direttiva, mentre il governo italiano si difende adducendo le argomentazioni già avanzate dai sostenitori della perdurante applicabilità di tali fattispecie17. Con la sentenza El Dridi del 28.4.2011 la Corte, come anticipato, ritiene fondata la tesi dell’incompatibilità, riproponendo in motivazione molti dei passaggi argomentativi sviluppati dalla dottrina e dalla giurisprudenza interne che già erano pervenute al medesimo esito interpretativo18. I giudici del Lussemburgo liquidano innanzitutto in poche battute alcune delle obiezioni più ricorrenti alla tesi dell’incompatibilità. Per quanto concerne il problema dell’effetto diretto, la Corte si limita a ricordare i requisiti perché le norme di una direttiva non trasposta possano essere direttamente invocate dai singoli nei confronti dello Stato inadempiente (§ 46), e ad affermare senza ulteriori specificazioni che «ciò vale per gli artt. 15 e 16 dir., i quali, come si evince dal punto 40 della presente sentenza19, sono incondizionati e sufficientemente precisi da non richiedere ulteriori specifici elementi perché gli Stati membri li possano mettere in atto» (§ 47). Circa poi l’argomento secondo cui, prima del Trattato di Lisbona, il diritto comunitario non poteva avere incidenza diretta in materia penale, la Corte ricorda che «se è vero che la legislazione penale e le norme di procedura penale, rientrano in linea di principio, nella competenza degli Stati membri, su tale ambito giuridico può nondimeno incidere il diritto dell’Unione; di conseguenza … gli Stati devono fare in modo che la propria legislazione penale rispetti il diritto dell’Unione; in particolare, detti Stati non possono applicare una normativa, sia pure di diritto penale, tale da compromettere la realizzazione degli obiettivi perseguiti da una direttiva e da privare quest’ultima del suo effetto utile» (§§ 53, 54, 55). Lo snodo centrale della motivazione riguarda però la possibilità di inferire dalla direttiva, che non si occupa esplicitamente della materia penale, un divieto di comminare una pena detentiva a carico dello straniero inadempiente all’ordine di allontanamento. La sentenza, pur affermando che gli Stati membri «restano liberi di adottare misure, anche penali, atte segnatamente a dissuadere i cittadini di Paesi terzi dal soggiornare illegalmente nel territorio di detti Stati» (§ 52), ritiene tuttavia che la previsione della pena della reclusione privi di «effetto utile» le disposizioni della direttiva, in quanto «una tale pena, segnatamente in ragione delle sue condizioni e modalità di applicazione, rischia di compromettere la realizzazione dell’obiettivo perseguito dalla direttiva, ossia l’instaurazione di una politica efficace di allontanamento e di rimpatrio dei cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno sia irregolare; in particolare ... una normativa nazionale quale quella oggetto del procedimento principale può ostacolare l’applicazione delle misure di cui all’art. 8, § 1, Dir.20, e ritardare l’esecuzione della decisione di rimpatrio» (§ 59). Decisivo risulta, dunque, nell’argomentazione della Corte, il ricorso al canone ermeneutico dell’effetto utile, che tradizionalmente viene utilizzato dalla giurisprudenza europea per estendere il contenuto precettivo di una normativa comunitaria al di là del suo contenuto letterale. Mentre però tale principio era stato invocato nel dibattito interno in riferimento all’obiettivo della direttiva di garantire allo straniero irregolare la tutela dei propri diritti fondamentali, la Corte sembra invece individuare soltanto nell’efficacia del sistema di rimpatrio la finalità che verrebbe frustrata dalla previsione della pena detentiva, posto che la detenzione ha come inevitabile conseguenza il rinvio dell’esecuzione dell’allontanamento. Delle due finalità che, secondo la stessa ricostruzione operata dalla Corte in apertura della motivazione, hanno ispirato l’intervento del legislatore comunitario (l’implementazione di un sistema di rimpatrio efficace, ma anche rispettoso dei diritti fondamentali dello straniero), la sentenza, al momento di portare a conclusione il proprio iter argomentativo, valorizza solo quella dell’efficacia, evitando di affermare esplicitamente che la previsione della pena detentiva comporti una violazione dei diritti del migrante. La scelta della Corte si spiega probabilmente per ragioni lato sensu politiche: proprio nelle settimane in cui è stata assunta la decisione era in corso un aspro confronto tra il governo italiano e le istituzioni comunitarie proprio in materia di immigrazione, l’Italia rimproverando all’Europa di averla lasciata sola a gestire le imponenti ondate migratorie provenienti dai Paesi del nord Africa; e la Corte ha verosimilmente voluto evitare di esacerbare ulteriormente il clima con una esplicita affermazione che lo Stato italiano viola i diritti fondamentali dei migranti. Leggendo la motivazione nel suo complesso, emerge tuttavia con chiarezza come le considerazioni relative alla tutela dei diritti siano centrali nella decisione della Corte, che in altri passaggi insiste sulla necessità che l’uso di strumenti coercitivi sia orientato al principio di proporzionalità, e che in particolare la privazione di libertà dello straniero rimpatriando sia limitata entro limiti ragionevoli (cfr. in particolare § 42 e 43). Del resto, se tra le finalità frustrate dalla previsione di una pena detentiva non fosse stata ricompresa anche la tutela dei diritti del migrante, neppure si comprenderebbe l’esplicito riconoscimento dell’effetto diretto degli artt. 15 e 16 dir., dal momento che imprescindibile condizione perché una norma comunitaria possa esplicare effetto diretto – per consolidata giurisprudenza della stessa Corte di giustizia – è proprio che tale norma riconosca un diritto al singolo, ingiustamente non riconosciuto dalla legislazione dello Stato membro. Le decisioni della Corte UE, come noto, non producono effetti solo nel giudizio al cui interno sono state pronunciate, ma hanno efficacia vincolante per i giudici di tutti gli Stati membri21. In seguito alla sentenza El Dridi, pertanto, l’art. 14, co. 5, ter t.u. imm. cond. stran. è stato immediatamente disapplicato in tutti i procedimenti in corso: in questo senso si sono orientate già le primissime decisioni della Cassazione (rese note addirittura il giorno stesso del deposito della sentenza europea), nelle quali viene pronunciata l’assoluzione «perché il fatto non è previsto come reato» non solo nei procedimenti per l’art., 14 co. 5 ter, t.u. imm. (al quale faceva espresso riferimento la sentenza europea), ma anche in quelli relativi alla «fattispecie gemella» di cui al co. 5 quater, ove era punita con la reclusione nel massimo sino a cinque anni l’inottemperanza reiterata a diversi ordini di allontanamento22. Il pronto intervento della Cassazione contribuisce poi a risolvere da subito in termini inequivoci una questione che era emersa come controversa nel corso del dibattito antecedente alla sentenza El Dridi, e cioè la questione degli effetti dell’affermazione di illegittimità comunitaria dei delitti di cui all’art. 14 sulle sentenze di condanna per tale reato già passate in giudicato. La Suprema Corte, che pure si esprime in relazione a procedimenti ancora pendenti, fa espresso riferimento nell’individuare la formula assolutoria più appropriata agli artt. 2, co. 2, c.p. e 129 c.p.p., assimilando in sostanza la dichiarazione di illegittimità comunitaria ad una forma di abolitio criminis, della quale si applica in via analogica la rispettiva disciplina, con conseguente cessazione degli effetti delle sentenze definitive di condanna. In questo senso si è del resto orientata senza eccezioni la giurisprudenza successiva, che ha proceduto a revocare le condanne ex art. 14, co. 5 ter e quater, t.u. imm. cond. stran.23 (cfr. amplius sul punto Retroattività della legge penale più favorevole 3.3).
2.5 La legge di trasposizione della direttiva
Oltre a dichiarare inapplicabile la fattispecie-chiave dell’apparato sanzionatorio in materia di immigrazione irregolare, la sentenza El Dridi aveva altresì incidenter tantum posto in rilievo come fosse l’intero sistema di esecuzione dei provvedimenti espulsivi vigente in Italia ad essere in contrasto con la disciplina comunitaria24. Un intervento normativo di adeguamento della disciplina interna alla direttiva non era quindi più procrastinabile, pena il rischio che fosse tutto il sistema dei rimpatri (e non solo i delitti dell’art. 14) a risultare inapplicabile da parte dei giudici interni. Il 24 giugno 2011, con sei mesi esatti di ritardo rispetto al termine di attuazione fissato dalla direttiva, il Governo con il d.l. 24.6.2011, n. 89, convertito con pochissime modificazioni nella l. 2.8.2011, n. 129, ha così finalmente provveduto a ristrutturare l’intera procedura esecutiva dei provvedimenti espulsivi alla luce delle indicazioni fornite dalla normativa comunitaria. La modifica di maggior rilievo consiste nella previsione della partenza volontaria quale modalità ordinaria di esecuzione dei provvedimenti espulsivi. Sia pure con una forma redazionale involuta, per cui la procedura ordinaria viene disciplinata dopo quella derogatoria, il novellato art. 13 dispone al co. 5 che «lo straniero, destinatario di un provvedimento di espulsione, può chiedere al prefetto25, ai fini dell’esecuzione dell’espulsione, la concessione di un periodo per la partenza volontaria» entro un termine compreso tra sette e trenta giorni, che «può essere prorogato, se necessario, per un periodo congruo, commisurato alle circostanze specifiche del caso individuale, quali la durata del soggiorno nel territorio nazionale, l’esistenza di minori che frequentano la scuola ovvero di altri legami familiari e sociali». Il nuovo art. 14 ter ha introdotto anche dei «programmi di rimpatrio volontario ed assistito», cui il Ministero dell’Interno dovrà dare concreta attuazione al fine di agevolare il rimpatrio di chi dimostri la volontà di fare ritorno nel proprio Paese, ma non abbia le disponibilità economiche per eseguire tale proposito. Il termine non viene concesso, e si procede con l’accompagnamento immediato alla frontiera a mezzo della forza pubblica, oltre ai casi in cui lo straniero, debitamente informato di tale possibilità26, non abbia formulato la richiesta del termine, anche nelle ipotesi elencate al co. 427, ove tra le diverse condizioni che legittimano il ricorso immediato alla forza riveste un ruolo di particolare rilievo, in ragione delle sue elevate potenzialità applicative, la sussistenza di un rischio di fuga, la cui definizione è rimessa al successivo co. 4 bis28. Quanto poi alle misure coercitive necessarie ad eseguire la decisione di rimpatrio, e meno afflittive rispetto al trattenimento, il nuovo comma 5.2 prevede che, nelle ipotesi in cui sia stato concesso il termine per la partenza volontaria, il questore chieda allo straniero di «dimostrare la disponibilità di risorse economiche sufficienti derivanti da fonti lecite, per un importo proporzionato al termine concesso, compreso tra una e tre mensilità dell’assegno sociale annuo», e possa altresì disporre le misure della consegna del passaporto, dell’obbligo di dimora e dell’obbligo di presentazione presso un ufficio della forza pubblica: misure queste ultime che devono essere adottate con provvedimento motivato, sottoposto a convalida del giudice di pace. Nelle ipotesi in cui si debba procedere all’accompagnamento coattivo, ma non sia possibile eseguire immediatamente il rimpatrio, il questore può decidere di applicare tali misure, in luogo del trattenimento in un CIE, qualora lo straniero sia in possesso del passaporto o di altro documento di identità (art. 14, co. 1 bis). Il trattenimento è, dunque, subordinato oggi alla verifica che non siano sufficienti a garantire l’esecuzione del rimpatrio misure meno afflittive; quando però esso sia stato disposto, il novellato art. 14, co. 5, prevede la possibilità di prorogarlo oltre i sei mesi previsti in precedenza, e sino ad un massimo di ulteriori dodici mesi, «qualora non sia stato possibile procedere all’allontanamento, nonostante sia stato compiuto ogni ragionevole sforzo, a causa della mancata cooperazione al rimpatrio del cittadino del Paese terzo interessato o di ritardi nell’ottenimento della necessaria documentazione dai Paesi terzi». Diverse sono, infine, le fattispecie di reato previste a carico dello straniero irregolare. Configurano autonome figure delittuose tanto le ipotesi di inottemperanza alle misure coercitive diverse dal trattenimento (art. 13, co. 5.2, quando tali misure siano state disposte nelle more della partenza volontaria; art. 14, co. 1 bis, quando siano state applicate in luogo del trattenimento), quanto quelle di inottemperanza all’ordine di allontanamento (art. 14, co. 5 ter, e co. 5 quater, in caso di inottemperanza reiterata ad un secondo ordine di allontanamento). Tutti tali delitti sono puniti con la sola pena della multa (che varia da un minimo compreso tra 3.000 a 18.000 euro nei casi di trasgressione delle misure coercitive, ad un massimo tra 15.000 e 30.000 nelle ipotesi di inottemperanza reiterata all’ordine di allontanamento); la competenza in tutti i casi è del giudice di pace (art. 4, co. 2, d.lgs. n. 274/2000, nuova lett. s ter), che nei procedimenti relativi ai delitti di cui all’art. 14, co. 5 ter e 5 quater, procede con il rito «accelerato» di cui agli artt. 20 bis, 20 ter e 32 bis d.lgs. n. 274/2000.
Le reazioni dei primi commentatori alla riforma sono state generalmente negative29. La sensazione diffusa è che, a fronte di un formale ossequio alla normativa comunitaria, manifestato dalla trasposizione sinanco letterale di molte disposizioni della direttiva, il governo italiano abbia colto molte occasioni per aggirare la portata garantistica del modello delineato in sede europea, in un’ottica di «riduzione del danno» derivante dalla necessità di applicare una direttiva i cui profili di garanzia sono evidentemente poco graditi al legislatore nazionale.
3.1 La legge di trasposizione recepisce davvero la direttiva? I profili amministrativi
Prendiamo ad esempio la scelta-chiave in materia di rimpatri, cioè quella di ricorrere alla partenza volontaria o all’accompagnamento coattivo come modalità ordinaria di esecuzione del provvedimento espulsivo. Il Governo è stato costretto ad abbandonare il modello introdotto nel 2002 con la cd. legge Bossi-Fini, che prevedeva l’uso immediato della forza nell’esecuzione del rimpatrio, per tornare al sistema mediante intimazione, previsto nella versione originaria del testo unico del 1998. Secondo la direttiva, tuttavia, è possibile derogare alla regola della partenza volontaria, procedendo immediatamente all’accompagnamento coattivo, quando ricorrano alcuni requisiti, tra cui il rischio di fuga, la cui definizione è lasciata al legislatore nazionale. Ebbene, dall’analisi del nuovo co. 4 bis dell’art. 13, ove è fornita tale nozione, emerge la riluttanza con cui il nostro legislatore ha proceduto alla trasposizione della direttiva. Tra le circostanze che integrano il rischio di fuga, infatti, il legislatore ha posto alla lett. a) «il mancato possesso del passaporto o di altro documento equipollente, in corso di validità»: così che tutti gli irregolari sprovvisti di valido documento identificativo (cioè una quota vastissima di stranieri) saranno per ciò solo privati del diritto alla partenza volontaria, in aperto contrasto con quanto disposto dalla direttiva all’art. 9, co. 2, lett. a), dove «il mancato allontanamento a causa dell’assenza di identificazione» è considerato non già come una circostanza per negare il diritto alla partenza volontaria, ma al contrario come uno degli elementi di cui gli Stati devono tenere conto per individuare i casi di rinvio dell’allontanamento30. Nel nostro sistema, in altri termini, il mancato possesso dei documenti – che nella direttiva rappresenta un elemento da valutare nell’ottica di un rinvio dell’allontanamento per consentire allo straniero di ottenere tali documenti – costituisce di per sé una ragione per procedere subito al rimpatrio coatto: indipendentemente dalle ragioni, magari a lui non imputabili, per cui lo straniero si trovi sprovvisto di documenti, tale sua condizione lo priva del diritto al rimpatrio volontario. E non solo. La disponibilità di documenti validi è anche il presupposto perché lo straniero, del quale sia stato disposto l’accompagnamento coattivo, possa nell’attesa del rimpatrio essere sottoposto a misure coercitive meno afflittive del trattenimento in un centro di identificazione e di espulsione (CIE): il sistema gradualistico delineato dalla direttiva e trasposto dal legislatore interno (secondo cui il trattenimento può essere disposto solo quando non siano in concreto sufficienti a garantire l’esecuzione del rimpatrio misure meno gravose per lo straniero: art. 15, § 1, dir.) vale ai sensi dell’art. 14, co. 1 bis, solo per gli stranieri provvisti di documenti validi, mentre per gli altri rimane in sostanza applicabile ancora il sistema previgente, con il trattenimento come unica opzione cautelare in attesa del rimpatrio. Questa creazione di un sottosistema differenziato per gli stranieri privi di documenti, ai quali sono negate le garanzie che la direttiva prevede per tutti i migranti irregolari, è il punto di frizione più evidente tra l’attuale sistema interno e la direttiva. Molti altri sono peraltro gli aspetti di illegittimità della riforma che la dottrina ha già avuto modo di individuare e sui quali non possiamo qui che rimandare ai contributi già citati sopra. L’auspicio è che, oltre alla dottrina, anche la magistratura onoraria (cui la riforma continua ad attribuire competenza esclusiva in materia di rimpatri) si mostri consapevole della conformità solo apparente del nuovo sistema alla direttiva, e proceda con rigore a disapplicare le norme interne incompatibili con le prescrizioni europee, o a investire con rinvio pregiudiziale la Corte europea quando vi sia ragione di dubitare di un tale contrasto. Il ruolo della magistratura onoraria sarà anche decisivo per evitare che i diversi requisiti stabiliti dalla legge per l’applicazione di misure coercitive vengano intesi dall’autorità amministrativa (come spesso è avvenuto in passato) in senso meramente formalistico, svuotando di contenuto reale le garanzie apprestate dalla direttiva. Pensiamo ad esempio alla possibilità (prevista dalla direttiva e trasposta ora nel sistema interno) di prolungare sino ad un massimo di diciotto mesi il trattenimento dello straniero in un CIE quando non sia stato possibile procedere all’allontanamento «nonostante sia stato compiuto oltre ogni ragionevole sforzo». Già di per sé la previsione di un periodo così lungo di privazione della libertà personale ha suscitato in Italia come all’estero fortissime perplessità; ma qualora a ciò si aggiungesse una prassi che facesse del requisito dell’oltre ogni ragionevole sforzo una semplice postilla motivazionale, invece che un elemento da riconoscere in casi eccezionali e solo all’esito di una dimostrazione rigorosa da parte dell’autorità procedente, allora davvero il trattamento dello straniero risulterebbe del tutto incompatibile con gli standards di tutela richiesti dalla normativa europea.
3.2 I profili penalistici
Venendo infine alle novità in materia penale, anche in questo caso le scelte del legislatore interno denotano la resistenza ad una reale conformazione del sistema alle indicazioni provenienti dal diritto comunitario. Di fronte alla inequivoca dichiarazione della Corte europea circa l’illegittimità dell’uso della pena detentiva nel contesto della procedura di rimpatrio, il nostro legislatore, invece di cogliere l’occasione della riforma per rivedere funditus la scelta pan-penalistica dell’ultimo decennio, ha ribadito tale opzione, sostituendo semplicemente alla pena detentiva prevista in precedenza per i delitti di cui all’art. 14 la sanzione pecuniaria della multa31, ed altresì estendendo la qualificazione in termini penalistici alle condotte di inottemperanza ai nuovi obblighi che l’autorità può disporre nelle more del rimpatrio. In sostanza, ogni condotta di inosservanza ad un ordine impartito nel corso della procedura di rimpatrio configura una fattispecie delittuosa punita però, a differenza del passato, con la sola pena pecuniaria. Certo la differenza non è di poco conto, ma rimane confermato il «velleitarismo»32 di voler combattere con lo strumento penale un fenomeno di massa e dalla portata storica come è diventata l’immigrazione nel nostro Paese negli ultimi decenni, anche a costo di costringere l’autorità giudiziaria a istruire una mole di procedimenti deflagrante per il nostro già sovraccarico sistema penale. Con il risultato così di distogliere le limitate forze dei nostri apparati repressivi dalla ricerca e dalla punizione degli autori di reati davvero offensivi dei beni giuridici oggetto di tutela (coloro che sfruttano il lavoro nero degli irregolari, o gestiscono la tratta dei clandestini)33. Proprio l’inefficienza della sanzione detentiva era stata – come già ricordato sopra – l’argomento centrale speso dalla Corte europea per dichiararla comunitariamente illegittima. Tale argomento ci pare possa senz’altro essere utilizzato per contestare la legittimità anche delle nuove norme, che se non rappresentano direttamente un ostacolo al rimpatrio come nel caso della pena detentiva, tuttavia costituiscono un fattore di sicura inefficienza del sistema di gestione dei rimpatri nel suo complesso. Inoltre, la pena pecuniaria comminata dalle nuove norme, di entità talmente elevata da essere destinata a restare praticamente sempre ineseguita, dovrà essere convertita – ai sensi della disciplina generale relativa alle sanzioni del giudice di pace – nella misura della permanenza domiciliare, che in quanto misura comunque privativa della libertà personale si espone alle medesime critiche svolte dalla sentenza El Dridi riguardo alla pena della reclusione. Tra l’altro, proprio questi argomenti sono già stati evocati in un’ordinanza di rinvio alla Corte europea34 relativa alla contravvenzione di cui all’art. 10 bis (il cd. reato di clandestinità, introdotto nel 2009): per cui, anche se ci pare comunque auspicabile che venga sollevata questione ad hoc in relazione alle nuove norme, la risposta che fornirà la Corte europea al quesito relativo all’art. 10 bis darà indicazioni importanti anche riguardo alla legittimità delle figure di reato di nuovo conio. Oltre alla sostituzione della pena detentiva con quella pecuniaria per i delitti di cui all’art. 14, l’altra rilevante novità introdotta con la riforma è l’attribuzione al giudice di pace, invece che al giudice ordinario, della competenza per i delitti puniti dall’art. 14, co. 5 ter e quater, e per gli altri delitti di inosservanza degli obblighi imposti dall’autorità. Una volta costretto dalla Corte europea a rinunciare alla pena detentiva, per la cui applicazione era necessitata l’attribuzione di competenza al giudice ordinario, il legislatore approfitta della riforma per fare della magistratura onoraria la giurisdizione competente non solo alla convalida dei provvedimenti amministrativi, ma anche delle sanzioni penali da applicare allo straniero inosservante degli ordini dell’autorità. Oggi, insomma, il diritto dell’immigrazione è interamente nelle mani dei giudici di pace: la magistratura ordinaria, che ha interpretato sino in fondo il proprio ruolo di garante della legalità, ponendo un freno alla deriva securitaria della nostra legislazione, è stata estromessa dalla materia dell’immigrazione, a tutto vantaggio di una giurisdizione che negli ultimi anni si è mostrata assai sensibile al clima politico dominante ed assai poco propensa a tutelare i diritti fondamentali dei migranti dagli eccessi punitivi dei pubblici poteri. La speranza è che le cose possano cambiare, e che la magistratura onoraria inizi finalmente a condividere la cultura della giurisdizione, che proprio nella difesa dei diritti dei singoli dagli arbitri dell’amministrazione trova la sua espressione più alta; ed inizi altresì a dare mostra di aver compreso, nella sua veste di primo giudice del diritto comunitario, il ruolo decisivo che le fonti sovranazionali rivestono nel definire la legittimità del sistema interno. Se così non sarà, ed i giudici di pace continueranno a mostrarsi come in passato troppo timidi nella verifica della compatibilità comunitaria della disciplina interna, assisteremo all’ennesima conferma di quanto gli stranieri che entrano irregolarmente nel nostro Paese siano tenuti ai margini della legalità costituzionale.
1 Attualmente la sola figura di reato connessa allo status di irregolare e sanzionata con pena detentiva è il delitto di illecito reingresso in Italia dello straniero espulso, punito dall’art. 13, co. 13, e 13 bis t.u. imm. cond. stran.
2 Cass., S.U., 24.2.2011, n. 16453, in www.penalecontemporaneo.it.
3 Cass., S.U., 29.10.2003, n. 45801, in Cass. pen., 2004, 776, con nota di Gambardella, Lo straniero clandestino e la mancata esibizione del documento di identificazione.
4 Per una più distesa ricostruzione di tali orientamenti, sia consentito rinviare a Masera, Art. 6 D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, in Codice penale commentato, a cura di Marinucci-Dolcini, III ed, 2011, 7623 ss.
5 Per un primo commento all’ultima decisione delle Sezioni Unite, cfr. Giliberto, Omessa esibizione dei documenti di identità e del permesso di soggiorno, in Dir. pen. cont.; per una riflessione sul tema prima dell’intervento delle Sezioni unite, cfr. Gambardella, Lo straniero irregolare ed il reato di mancata ottemperanza all’ordine di esibizione dei documenti, ibidem.
6 Considerando introduttivo n. 4.
7 Considerando introduttivo n. 2.
8 Quanto sia centrale nell’ottica della direttiva lo scopo di predisporre uno standard minimo di tutela dei diritti del migrante, lo si desume in particolare dall’art. 4 dir., laddove si dispone che la direttiva lascia impregiudicate tutte le «disposizioni più favorevoli» per lo straniero già previste dagli accordi internazionali in vigore, nonché dall’acquis comunitario in materia di immigrazione ed asilo, e laddove soprattutto la direttiva precisa che resta ferma la facoltà per gli Stati membri di introdurre o mantenere disposizioni più favorevoli alle persone cui si applica, purché compatibili con le norme in essa stabilite» (§ 3).
9 La disposizione maggiormente criticata era quella che consentiva agli Stati di trattenere coattivamente lo straniero in attesa del rimpatrio per un periodo prorogabile sino a complessivi 180 giorni di detenzione amministrativa (art. 15, co. 6, dir.): più in generale, per un commento alla direttiva, cfr. in particolare Favilli, La direttiva rimpatri ovvero la mancata armonizzazione dell’espulsione dei cittadini di paesi terzi, in www.osservatoriosullefonti.it, e Maiani, Directive de la honte ou instrument de progrès? Avancées, régressions et status quo en droit des étrangers sous l’influence de la Directive sur le retour, in Annuaire suisse de droit européen, 2009, 291 ss.
10 Per un’ampia ed approfondita ricostruzione di tale dibattito, cfr. Natale, La direttiva 2008/115/CE ed i reati previsti dall’art. 14 d.lgs. 286/1998, in www.penalecontemporaneo.it. 11 Viganò-Masera, Illegittimità comunitaria della vigente disciplina delle espulsioni e possibili rimedi giurisdizionali, in Riv. it. dir. proc. pen., 2010, 560 ss. e Viganò- Masera, Inottemperanza dello straniero all’ordine di allontanamento e «Direttiva rimpatri» UE: scenari prossimi venturi per il giudice penale italiano, in Cass. pen., 2010, 1710 ss.
12 Cfr. Trib. Torino, 5.1.2011; Trib. Torino, 8.1.2011; Trib. Nola, 17.1.2011; Trib. Torino, 20.1.2011, tutte in www.penalecontemporaneo.it
13 Cfr. Proc. Rep. Rovereto, 17.1.2011; Proc. Rep. Firenze, 18.1.2011; Proc. Rep. Roma, 7.2.2011; Proc. Rep. Lecce, 10.2.2011; Proc. Rep. Milano, 11.3.2011, tutte in www.penalecontemporaneo.it
14 Cfr. Trib. Milano, 19.1.2011; Trib. Cagliari, 14.1.2011; Trib. Torino, 4.1.2011; Trib. Torino, 3.1.2011, tutte in www.penalecontemporaneo.it
15 Cfr. in questo senso in giurisprudenza Trib. Bologna, 29.12.2010; Trib. Verona, 18.1.2011; Trib. Milano, 18.1.2011; Proc. Gen. Torino, 9.2.2011, ed in dottrina Epidendio, Direttiva rimpatri e art. 14 t.u. imm. – Intervento nel dibattito; Focardi, Ancora sull’impatto della direttiva comunitaria 2008/115/CE sui reati di cui all’art. 14 co. 5 ter e quater d.lgs. 286/98; D’Ambrosio, Qualche ulteriore osservazione sulle illegittimità comunitaria della vigente disciplina amministrativa e penale in materia di espulsioni; per una replica a tali critiche, cfr. Viganò, Il dibattito continua: ancora in tema di direttiva rimpatri ed inosservanza all’ordine di allontanamento, e Viganò, Disapplicazione dell’art. 14 co. 5 ter e quater: sette repliche ad altrettante obiezioni: tutte le sentenze ed i lavori citati sono stati pubblicati in www.penalecontemporaneo.it
16 Cfr. in sede di merito ex multis cfr. Trib. Milano, 24.1.2011; Trib. Rovereto, 27.1.2011; C. App. Trento, 2.2.2011, ed in sede di legittimità Cass., sez. I, 8.3.2011, n. 11050, tutte in www.penalecontemporaneo.it
17 Per una breve sintesi dell’udienza del 30.3.2011 davanti alla Corte UE, cfr. Viganò, Discusso davanti alla Corte di giustizia il primo rinvio pregiudiziale sulla direttiva rimpatri, in www.penalecontemporaneo.it
18 Per un’analisi della sentenza, cfr. tra gli altri Viganò-Masera, Addio art. 14; Collica, Gli effetti della direttiva rimpatri sul diritto vigente; Di Martino-Raffaelli, La libertà di Bertoldo: «direttiva rimpatri» e diritto penale italiano, tutti in www.dirittopenalecontemporaneo.it; Favilli, Il reato di inottemperanza all’ordine di allontanamento del questore di fronte alla Corte di giustizia, in Dir. pen. proc., 2011, 904 ss.; Barberini-Casucci, La Corte di giustizia dichiara l’incompatibilità tra i reati previsti dall’art. 14 co. 5, e la direttiva rimpatri, in Cass. pen., 2011, 1615 ss.
19 Punto dove la Corte aveva sinteticamente riassunto il contenuto di tali articoli.
20 Art. 8, § 1: «Gli Stati membri adottano tutte le misure necessarie per eseguire la decisione di rimpatrio qualora non sia stato concesso un periodo per la partenza volontaria a norma dell’art. 7, § 4, o per mancato adempimento dell’obbligo di rimpatrio entro il periodo per la partenza volontaria concesso a norma dell’art. 7».
21 Per una interessante ricognizione degli effetti della sentenza El Dridi in un altro Paese dell’Unione, cfr. D’Ambrosio, I rapporti tra diritto europeo e diritto penale francese in materia di immigrazione irregolare alla luce della sentenza El Dridi, in www.penalecontemporaneo.it
22 Cfr. Cass., sez. I, 28.4.2011, n. 22105 e Cass., sez. I, 28.4.2011, n. 24409. Più controversi sono invece gli effetti della sentenza sull’unica fattispecie a carico dello straniero clandestino punita con la pena detentiva anche dopo la riforma del 2011, il delitto di illecito reingresso di cui all’art. 13, co. 13, e 13 bis t.u. imm. cond. stran.: vi è chi ritiene che il principio affermato dalla Corte europea, secondo cui è illegittimo il ricorso alla pena detentiva nell’ambito della procedura di rimpatrio, valga ad escludere la legittimità anche di tale incriminazione, con la quale si punisce lo straniero che non rispetta il divieto amministrativo di reingresso (cfr. Trib. Roma, 9.5.2011 e Trib. Bologna, 9.6.2011, in www.penalecontemporaneo.it); ma vi è anche chi al contrario sottolinea come la sentenza europea si sia espressa sulla legittimità di una fattispecie tutt’affatto diversa, e non possa essere fatta valere in ordine ad un reato che sanziona una condotta attiva (il reingresso in Italia) ben distinta da quella omissiva presa in esame dalla Corte UE (la mera inottemperanza ad un ordine di allontanamento: cfr. in questo senso Proc. Rep. Caltagirone, 4.7.2011, sempre in www.penalecontemporaneo.it). Per gli effetti della sentenza sul cd. reato di clandestinità, disciplinato all’art. 10 bis t.u. imm. cond. stran., cfr. infra, nota 37.
23 Cfr. ex plurimis, Trib. Milano, 29.4.2011; Trib. Torino, 4.5.2011; Trib. Ravenna, 5.5.2011; Trib. Bari, sez. dist. Altamura, 10.5.2011, oltre ad una nota del Procuratore generale presso la Cassazione del 3.5.2011, che invita tutte le procure italiane a procedere d’ufficio con le istanze di revoca delle sentenze definitive di condanna per tali reati: tutti i provvedimenti sono disponibili in www.penalecontemporaneo.it
24 Cfr. § 50, dove la Corte constata come «la procedura di allontanamento prevista dalla normativa italiana in discussione nel procedimento principale differisce notevolmente da quella stabilita nella direttiva».
25 La possibilità che l’attivazione della procedura mediante partenza volontaria sia subordinata alla richiesta dell’interessato è espressamente prevista dalla direttiva all’art. 7, § 1, secondo cui «gli Stati membri possono prevedere nella legislazione nazionale che tale periodo sia concesso unicamente su richiesta del cittadino di un Paese terzo interessato».
26 L’obbligo di informare lo straniero della possibilità di accedere alla partenza volontaria, previsto dalla direttiva ancora all’art. 7, §1 («In tal caso – quando gli Stati subordinano la concessione del termine alla richiesta dell’interessato: n.d.a. –, gli Stati membri informano i cittadini di Paesi terzi interessati della possibilità di inoltrare tale richiesta»), è stato trasposto nell’ordinamento interno all’art. 13, co. 5.1, secondo cui «la questura provvede a dare adeguata informazione allo straniero della facoltà di richiedere un termine per la partenza volontaria, mediante schede informative plurilingue ».
27 Art. 13, co. 4: «L’espulsione è eseguita dal questore con accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica: a) nelle ipotesi di cui ai co. 1 e 2 lett. c), ovvero all’art. 3, co. 1, del d.l. 27.7.2005, n. 144, convertito, con modificazioni, dalla l. 31.7.2005, n. 155; b) quando sussiste il rischio di fuga, di cui al co. 4 bis; c) quando la domanda di soggiorno è stata respinta in quanto manifestamente infondata o fraudolenta, d) qualora, senza un giustificato motivo, lo straniero non abbia osservato il termine concesso per la partenza volontaria di cui al co. 5; e) quando lo straniero abbia violato anche una delle misure di cui al co. 5.2 e di cui all’art. 14, co. 1 bis; f) nelle ipotesi di cui agli artt. 15 e 16 e nelle altre ipotesi in cui sia stata disposta l’espulsione dello straniero come sanzione penale o come conseguenza di una sanzione penale; g) nell’ipotesi di cui al co. 5.1».
28 Art. 13, co. 4 bis: «Si configura il rischio di fuga di cui al co. 4, lett. b), qualora ricorra almeno una delle seguenti circostanze da cui il Prefetto accerti, caso per caso, il pericolo che lo straniero possa sottrarsi alla volontaria esecuzione del provvedimento di espulsione: a) mancato possesso del passaporto o di altro documento equipollente, in corso di validità; b) mancanza di idonea documentazione atta a dimostrare la disponibilità di un alloggio ove possa essere agevolmente rintracciato; c) avere in precedenza dichiarato o attestato falsamente le proprie generalità; d) non avere ottemperato ad uno dei provvedimenti emessi dalla competente autorità, in applicazione dei co. 5 e 13, nonché dell’art. 14; e) aver violato anche una delle misure di cui al co. 5.2».
29 Per diverse considerazioni critiche nei confronti della riforma, cfr. Collica, Gli effetti della direttiva, cit.; Natale, La direttiva 2008/115/CE ed il decreto legge di attuazione – Prime riflessioni a caldo; Pistorelli-Andreazza, Novità legislative: il d.l. 23 giugno 2011, n. 89, tutti in www.penalecontemporaneo.it; Favilli, L’attuazione della direttiva rimpatri in Italia: dall’inerzia all’urgenza con scarsa leale cooperazione, testo aggiornato della relazione all’incontro di studio del CSM del 16-18.5.2011 dal titolo La condizione giuridica dello straniero e la tutela giurisdizionale dei diritti fondamentali tra diritto interno e normativa sovranazionale, disponibile su www.csm.it; Savio, La nuova disciplina delle espulsioni risultante dalla legge 129/2011, in www.asgi.it; valuta invece in maniera positiva l’intervento del Governo, almeno per quanto riguarda le disposizioni del decreto di natura amministrativa, Pisa, Nuove norme penali in tema di immigrazione irregolare, in Dir. pen. proc., 2011, 804 ss.
30 Cfr. sul punto in particolare Natale, La direttiva, cit., p. 8.
31 Riguardo alla questione di diritto intertemporale circa l’applicabilità delle nuove e più favorevoli disposizioni anche ai reati compiuti prima della riforma, le prime decisioni di merito si sono orientate (sia pure con motivazioni diverse) nel senso di ritenere che il fenomeno successorio sia da inquadrare nello schema dell’abolitio criminis, e dunque le condotte antecedenti al decreto non siano punibili neppure con la pena pecuniaria: cfr. in questo senso in giurisprudenza Trib. Torino, 27.6.2011; Trib. Torino, 29.6.2011; Trib. Pinerolo, 14.7.201, tutte in www.penalecontemporaneo.it, ed in dottrina Gambardella, Le conseguenze di diritto intertemporale prodotte dalla pronuncia della Corte di giustizia El Dridi (direttiva rimpatri) nell’ordinamento italiano e Masera, Il «nuovo» art. 14 co. 5 ter e la sua applicabilità nei procedimenti per fatti antecedenti all’entrata in vigore del d.l. 89/2011, tutti in www.penalecontemporaneo.it
32 L’espressione è di Pisa, Nuove norme, cit., p. 809.
33 Per questa riflessione cfr. ancora Pisa, loc. ult. cit.
34 Trib. Rovigo, sez. dist. Adria, 15.7.2011, in www.dirittopenalecontemporaneo.it. È stato proposto rinvio pregiudiziale in relazione all’art. 10 bis anche da GdP. Mestre, 16.3.2011, in www.penalecontemporaneo.it