storia
Il complesso delle azioni umane nel corso del tempo, nel senso sia degli eventi politici sia dei costumi e delle istituzioni in cui esse si sono organizzate; ma, modernamente, anche tutto ciò che le condiziona e ciò che esse coinvolgono (fatti geografici ed ecologici, fatti demografici, presupposti antropologici e sociologici, fatti economici).
A iniziare dalla cultura greca, il termine storia ha indicato sia gli eventi storici sia il loro racconto, e tale ambiguità, nonostante da tempo si sia operata la distinzione fra s. e storiografia, permane tuttora; non è del resto possibile separare nettamente l’analisi dell’evoluzione del concetto filosofico di s. dall’evolversi della storiografia, la cui riflessione metodologica coinvolge necessariamente il momento precedente. Già con Erodoto, le cui Storie sono considerate il primo testo storiografico dell’Occidente, riscontriamo due tratti caratteristici. Il primo è che l’oggetto della s. si confonde con la descrizione di costumi e istituzioni stranieri, cioè con quella che oggi chiamiamo «antropologia»; è questa una connessione che ricomparirà molti secoli dopo e che ormai è un’acquisizione stabile della disciplina storica. Il secondo elemento è il carattere narrativo, la dimensione di «racconto», l’alto livello letterario che caratterizzano l’opera, scritta in dialetto ionico come i poemi omerici. Con Aristotele la concezione della s., nel senso letterale del termine greco (ἱστορία, «racconto»), prevale nettamente e la s. fornisce solo la conoscenza del particolare: è questo il senso del passaggio della Poetica (9, 1451 b 1-5) in cui s. e poesia vengono distinte da Aristotele secondo il criterio per cui «lo storico e il poeta […] differiscono […] in questo, che l’uno dice le cose accadute e l’altro quelle che potrebbero accadere». Nella cultura greca sono presenti però anche concezioni che vedono la s. come un campo organizzato dell’esperienza e non come un insieme di eventi più o meno casuali e irrelati. È questo il caso, in primo luogo, de Le opere e i giorni di Esiodo (I, 106-2019), testo che esprime le concezioni religiose arcaiche dei Greci, dove la s. è caratterizzata da una successione di cinque epoche che vanno progressivamente verso la decadenza, dall’epoca aurea all’epoca del ferro. Inoltre, si trovano anche concezioni cicliche, relative all’Universo intero o alla sola s. umana: esempio classico è la concezione della successione delle forme di governo che, nel 2° secolo a.C., nell’epoca del fiorire della repubblica romana, Polibio elabora come sfondo teorico delle sue Storie (VI, 3-9). Al di fuori della cultura greco-romana, assai diverse sono le concezioni della s. che caratterizzano il mondo ebraico: nella visione monoteista il mondo è frutto della creazione di Dio, così come il tempo stesso è prodotto dall’uscita di Dio al di fuori di sé stesso, e per questa ragione l’evento assume un ruolo di primo piano. Per gli Ebrei, inoltre, nel complesso la s. è essenzialmente s. del popolo eletto e del tutto marginalmente e di riflesso s. dei «gentili». A partire da questo dato comune, che pone al centro della s. il rapporto con Dio, nella visione ebraica del mondo storico troviamo due concezione alternative. La prima, modellata sul libro dell’Esodo e che avrà largo corso, dopo la Riforma protestante, soprattutto per la ripresa che ne farà il calvinismo nei paesi anglosassoni, vede gli eventi storici come dominati dal patto ricorrente che Jehova stringe con il suo popolo: l’uomo è considerato come responsabile e protagonista, in un certo senso coprotagonista, con Dio, della storia. Inoltre, l’avvento del Messia è considerato sempre di là da venire, proiettato in un futuro indeterminato. Questa concezione, quindi, che caratterizzerà in modo prevalente l’atteggiamento ebraico verso il tempo e la s. nei secoli futuri, modellandolo secondo l’attesa e la tensione infinita verso un futuro mai definitivamente realizzabile, configura un modello della s. insieme come campo di valorizzazione e come incompiutezza essenziale. La seconda concezione, che trova la sua espressione canonica nell’Antico Testamento, e più precisamente nel libro di Daniele, risalente probabilmente al 2° sec. a.C., considera imminente l’avvento del Messia e del suo Regno: una visione apocalittica e millenaristica che conoscerà molte riprese in epoca medioevale e anche nei secoli successivi. Con l’avvento del cristianesimo, nell’epoca del tardo impero romano, diverrà dominante la concezione che Agostino espone ne La città di Dio e che si colloca sulla linea della visione ebraica dell’evento, aggiungendo però una novità essenziale, non riconducibile né al modello di Esiodo né a quello di Daniele: la s. appare un cammino progressivo e unitario attraverso cui l’umanità progredisce, attraverso varie tappe, dalla città terrena alla città divina. È già presente qui il nucleo di quella che sarà la moderna filosofia della s.: la direzione verso il futuro, la successione degli eventi e il loro tendere verso una meta finale positiva rappresentano una concezione radicalmente diversa da quella classica antica e sono un portato della visione giudaico-cristiana. Se nel Medioevo sarà questo il modello dominante, continueranno però a esistere, seppure marginalizzate, anche le altre concezioni della s., in partic. quelle estremizzazioni del dettame di Daniele che, come già nel cristianesimo primitivo e nell’Apocalissi di Giovanni, consideravano imminente l’avvento del Messia e dell’era finale e dunque credevano in una prossima fine della s. (un altro tema che tornerà in modo ricorrente in epoca moderna e contemporanea). L’esempio più significativo è costituito dalla concezione di Gioacchino da Fiore, il quale riprenderà questa linea di pensiero dando luogo ai vari esiti millenaristici che hanno caratterizzato quest’epoca.
Già con la civiltà comunale del tardo Medioevo, lo svilupparsi di un’attività mercantile e il rinnovamento della vita politica cittadina che a essa si accompagna portano a un nuovo interesse verso la tradizione classica e verso i modelli pagani: e infatti un’idea della s. come opera degli uomini e del loro agire concreto, mondano, politico si fa strada già, fra il 14° e il 15° sec., nella cultura dei due grandi cancellieri fiorentini Coluccio Salutati e Leonardo Bruni. Ma il segno netto di discontinuità con le concezioni medioevali della s. è dato dalla scoperta dell’America nel 1492 e dallo sconvolgimento che tale evento provoca nella cultura del vecchio mondo, dando vita non solo a una nuova idea di spazio, ma anche a una nuova idea di tempo. La scoperta di segmenti di s. del tutto irrelati con quella occidentale cristiana, l’affiorare di culture assolutamente altre, di mondi nuovi e del tutto differenti, la scoperta che l’azione dell’uomo può produrre enormi mutamenti: tutto ciò contribuisce a introdurre nella concezione della s. la dimensione della novità, un’idea di evento come rottura ed eterogeneità, segnando una trasformazione ben più profonda di quella inaugurata dalla visione ebraico-cristiana rispetto a quella classica. La riflessione dei secoli successivi sarà dedicata a elaborare tutti gli aspetti di questa idea di nuovo, ma già nell’epoca rinascimentale essa comincia ad agire in modo potente. Se infatti la «rinascita del paganesimo antico», a cui si assiste in tutti i campi, a partire dall’Italia e poi nell’intera Europa, sembra per certi versi ricondurre nuovamente a una concezione meramente ciclica del tempo, l’idea rinascimentale di tempo e di s. è in realtà profondamente differente: essa si radica in una pratica di riattualizzazione dell’antico che è allo stesso tempo un lavoro dell’uomo su sé stesso e sulla realtà esterna volto a un grande rinnovamento. In altri termini, quello che è sentito come un ritorno al passato è uno dei più grandi esempi di trasformazione di una civiltà e di creazione di un modello nuovo. Che questo elemento di novità fosse sentito e consapevolmente perseguito è dimostrato, sul finire dell’epoca rinascimentale, dal pensiero di Bruno, che con la sua visione infinitistica e la sua idea della possibilità di infiniti altri mondi abitati aprirà la s. a una molteplicità di percorsi fra loro nettamente eterogenei e irrelati. L’idea di un cambiamento attraverso la riscoperta del passato, di un passato che diventa attiva fonte di rinnovamento, trova però la sua espressione più compiuta nel pensiero di Machiavelli, la cui opera storico-politica ha per più versi trasformato profondamente la visione precedente della storia. Se è vero, infatti, che per Machiavelli la natura degli uomini rimane, nel corso della s., sostanzialmente costante e che ogni civiltà, ciclicamente, è condannata alla decadenza, non è meno vero che a tale inevitabile decadenza può essere opposto il «rinnovamento» riportando le società «inverso i principii loro» (Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, III, §1). A ciò si aggiunga la valorizzazione del tema del caso, attuata da Machiavelli con il suo concetto di «fortuna», e di quello del conflitto, visto come risorsa vitale per lo sviluppo della Repubblica romana. Infine, si deve a Machiavelli il primo e precoce tentativo di collegare riflessione sulla s. e riflessione sociologica, ossia la ricerca delle leggi generali che reggono la politica e le società umane, aprendo così la strada a Hobbes, Harrington e, successivamente, a Montesquieu. Nel 17° sec., la lezione di Machiavelli viene ripresa, ma anche impoverita, in varie altre direzioni. Specie in connessione con il costituirsi dell’assolutismo francese, la cosiddetta concezione pragmatica della s., riprendendo il pensiero di Tacito, sviluppa una visione sostanzialmente atea in cui le azioni e gli intrighi dei potenti diventano centrali. Le concezioni libertine, tipiche di La Mothe Le Vayer o dell’anonimo autore del Theophrastus redivivus (prima metà del 17° sec.) rinnovano pienamente la visione ciclica, insieme all’idea di un’infinita antichità del mondo. Queste visioni hanno certo il merito, oltre che di aprire (o riaprire) il tempo verso quelle «sterminate antichità» che saranno il punto di partenza per la s. naturale e umana del Sette e dell’Ottocento, di proporre una visione completamente laica, anche se spesso assai cinica e pessimistica, della storia. Ma chi riprenderà creativamente, insieme alla tradizione galileiana, il lascito di Machiavelli sarà Vico, la cui Scienza nuova (1a ed. parziale 1725, 2a ed. completa 1744) alla vigilia dell’Illuminismo, costituisce una delle tappe fondamentali del moderno concetto di s., ponendo contemporaneamente le basi della futura filosofia della storia. Sulla base del principio del «verum-factum», Vico anticipa per un verso quella che sarà la visione tipica dello storicismo, che contrappone alle scienze della natura le scienze dello spirito, di ciò che è «fatto» dall’uomo. Egli elabora poi una concezione ciclica della s. che vede la distinzione di tre epoche (degli dei, degli eroi, degli uomini), sulla base di tre diverse strutture della mente umana (mente dei «bestioni», ragion poetica, ragione dispiegata, ossia filosofia). Il collegamento fra sociologia e s. è portato avanti e sviluppato molto più articolatamente che in Machiavelli, mentre l’idea di un corso storico dominato da una «Provvidenza», pur sotto una veste ancora teologica, rappresenta una netta laicizzazione della visione cristiana della s., apparendo piuttosto come la ricerca di un interno principio di regolarità e legalità dei fatti storici. Ma su un punto fondamentale la visione vichiana appare nettamente originale rispetto all’interpretazione che ne farà lo storicismo e in continuità con quella riflessione sul rapporto fra «nuovo» e «antico» che costituiva il fuoco problematico del concetto di s. fin dal 15° sec.: la sua concezione dei «corsi e ricorsi» non è assimilabile né a una visione ciclica, come quella antica, né a una concezione del progresso, come è nel pensiero settecentesco, ma si riallaccia piuttosto alla dialettica machiavelliana di «principio» e riattivazione, vale a dire di un’origine e di una sua possibile ripresa.
La vecchia idea, legata alla polemica romantica, del Settecento come secolo antistorico è stata abbandonata a partire da Dilthey (Weltanschauung und Analyse des Menschen seit Renaissance und Reformation, 1901; trad. it. L’analisi dell’uomo e l’intuizione della natura dal Rinascimento al secolo XVIII). In realtà nel 18° sec. vengono posti alcuni tasselli fondamentali per una nuova concezione della s.: sono questi i punti su cui farà leva, per la sua concezione della s., la cultura idealistica e romantica; e gli stessi elementi tradizionalmente considerati ‘antistorici’ della cultura illuministica (l’esigenza di una rottura assoluta con il passato, la feroce distruzione delle tradizioni) saranno una premessa indispensabile per la più ricca concettualizzazione del concetto messa in opera dall’idealismo e dal Romanticismo. Della vasta messe di opere che hanno profondamente modificato il concetto di s. in questo secolo, bisognerà innanzitutto ricordare L’esprit des lois di Montesquieu (1748; trad. it. Lo spirito delle leggi), che, ponendo le basi della moderna sociologia, secondo la strada già tracciata da Machiavelli e da Vico, costituiva una disciplina le cui categorie costituiscono ancora uno dei punti di riferimento essenziali per la concettualizzazione della storia. Ancora, l’Essai sur les moeurs et l’esprit des nations di Voltaire (1754; trad. it. Saggio sui costumi), all’idea di individuare delle leggi in campo storico univa l’apertura alle civiltà non occidentali e l’attenzione per gli usi e i costumi dei popoli; per quanto riguarda l’idea di progresso, è da osservare che essa è presente in modo assai moderato in Voltaire e temperata dalla considerazione para-manichea dell’inevitabilità del male, come appare nel Candide e nel Poema sul disastro di Lisbona. L’impresa dell’Encyclopédie, dal canto suo, avrebbe dato un decisivo impulso all’idea di una s. gradualmente rischiarata dalla ragione e dal progresso delle tecniche umane, successivamente raccolto e sistematizzato in una visione di epoche successive di progresso da vari esponenti dell’Illuminismo scozzese (Ferguson, Smith, Millar). Infine, nei vari scritti di Kant sulla s., all’idea del progresso come possibile e alla positiva accoglienza riservata alla Rivoluzione francese, vista come segnale dell’aprirsi di una nuova epoca dell’umanità, si associano considerazioni più pessimistiche sull’inestinguibile radice di male che è contenuta nella natura umana.
Alla fine del Settecento due eventi dirompenti porteranno a un rinnovamento radicale dell’idea di s., definendo la prospettiva tuttora dominante: i due eventi, sfalsati spazialmente e temporalmente, ma variamente intrecciati sono la Rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione industriale avviata negli ultimi decenni del 17° sec. in Inghilterra. L’evento rivoluzionario francese rappresenta probabilmente, al di là dei suoi tragici risvolti di sangue e di totalitarismo, «il passaggio dell’umanità dallo stato di minorità a quello della maggior età», per applicare a esso ciò che Kant ebbe a dire a proposito dell’Illuminismo: la possibilità di innovare, e di farlo attraverso una rottura netta e assoluta, entrava a pieno titolo nella s., di cui viene anzi esaltata la componente dell’immediatezza, della presa di coscienza collettiva e in qualche modo istantanea di valori universali ed eterni. Se, per un lato, il facere umano era enormemente potenziato, anzi assolutizzato (e l’idealismo tedesco in alcuni suoi filoni fondamentali sarebbe incomprensibile senza questo presupposto), per l’altro il principio universalistico ed essenzialistico su cui si basava la Rivoluzione sembrava predeterminarne fin dall’inizio i risultati e lasciar poco spazio alla novità: quel che nella s. si produceva era il riemergere di un’essenza umana già costituita, eterna, libera e universale che, a lungo repressa, poteva infine venire alla luce; poco spazio, nella s., rimaneva qui per la libertà individuale (il collettivo, la volontà generale di Rousseau appariva l’unico vero soggetto della libertà). D’altra parte, in terra inglese, Burke formulava le sue riserve, che tanto peso ebbero nelle discussioni successive, sui limiti della volontà e della libertà collettiva, contestando a esse la possibilità di operare una rottura netta con la tradizione. Contemporaneamente la rivoluzione industriale, che fu innanzitutto un fatto britannico, poneva al centro dell’attenzione un diverso aspetto della volontà collettiva che sulla s., sul modo di concepirla come sul modo di agirla, doveva avere un peso non meno importante: è a partire dalla rivoluzione industriale, infatti, che il mito di un integrale soggiogamento della natura da parte dell’uomo è venuto a occupare (e occupa tuttora) un posto essenziale nella visione della storia. Così, se il prometeismo totalitario assumeva in terra francese un aspetto soprattutto politico orientando in tal senso la concezione della s., in terra inglese si poneva in primo piano il rapporto uomo-natura e sulla fagocitazione della seconda da parte del primo veniva prevalentemente modellata la sua nuova concezione della storia. Naturalmente questi modelli tipico-ideali si sono venuti sempre più allacciando e ibridando nel seguito del divenire storico. Per intanto, bisogna tener conto del modo in cui i due eventi rivoluzionari furono vissuti e interpretati dalla cultura tedesca: il nucleo più forte della nuova concezione della s. si svilupperà infatti proprio dal Romanticismo e dall’idealismo tedeschi, che costituiranno un terzo modello alternativo a quello francese e inglese. Tale modello sarà quello che riprenderà maggiormente il tema del rapporto ‘nuovo-antico’ posto al centro dalla cultura italiana fin dal sec. 15°. In apparenza, al di là della varietà delle posizioni, sembra si possa riscontrare nella cultura tedesca un atteggiamento sostanzialmente negativo verso i due grandi eventi: viene rifiutata sia la rottura con la tradizione sia la distruzione prometeica del mondo naturale. In realtà, l’atteggiamento più profondo e duraturo della cultura tedesca verso la rivoluzione politica e la rivoluzione industriale, specie fra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento (e in partic. nel Romanticismo jenese) è assai più complesso: nessuno di quei due grandi eventi è del tutto rifiutato, ma piuttosto inglobato in un progetto più ampio di riconciliazione dell’uomo con i suoi simili e con la natura, che deve correggere gli eccessi totalitari e omogeneizzanti di quelle rivoluzioni. Per questo si fa leva su un’idea di ‘presenza dell’infinito’ (e anche, in alcuni esponenti, di un suo avvento nel presente storico, in chiave apocalittica) e di possibilità per gli uomini di realizzare, su tale base, nuovi rapporti fra loro e con la natura. È da questo che nasce rimodellata un’idea di s. radicalmente nuova che si affermerà fino alle discussioni contemporanee e che ha anche evidenti nessi di continuità con l’approccio al problema del ‘nuovo’ che si è visto emergere fin dal tardo Quattrocento. Rivalutazione delle tradizioni, rivalutazione delle culture popolari e primitive, rivalutazione della religione nel suo senso più lato, rivalutazione del diritto consuetudinario non hanno (se non nell’ala specificamente conservatrice del Romanticismo, che si fa, in un momento successivo, ideologia della restaurazione) il significato di una difesa del passato contro la modernità, ma, al contrario, sono una proposta del moderno nei termini di una nuova storicità, intesa come capacità di ridar vita, nelle nuove condizioni politiche e tecnico-scientifiche della modernità, alle tradizioni del passato. La s., insomma, esce rimodellata come un gioco di passato, presente e futuro, in cui il nuovo e l’antico sono in un rapporto irriducibilmente dialettico. Niente dimostra quest’assunto meglio della discussione, centrale per la nascita del Romanticismo, sul rapporto fra poesia antica e moderna, nella quale decisivi furono i contributi di Schiller (che fu più un ispiratore del Romanticismo che romantico in proprio) e di F. Schlegel: il Romanticismo è rottura con la poesia antica, presa di coscienza definitiva che essa non può essere più un modello eterno per la letteratura e che quella moderna deve inventare nuove forme, volgendosi al proprio presente, storico e tecnico-scientifico; ma ciò non significa né che essa non possa reinventare l’antico in modo nuovo (al contrario: all’antico la nuova filologia romantica sostituirà il ‘classico’, frutto di una ricostruzione filologica condotta alla luce del dialogo con i valori contemporanei), né che il momento della rottura sia assoluto: al contrario, esso è la scoperta di tutta una falda di passato che la tradizione classica aveva oscurato o marginalizzato. Inoltre, poiché per i romantici la natura non era qualcosa di totalmente altro rispetto alla s., essa non viene esclusa, ma ricompresa nella s. e il problema di una nuova, più rispettosa relazione con essa è visto come una meta storica irrinunciabile: certo qui pesavano negativamente tutti gli equivoci della filosofia romantica della natura, ma il problema profondo sotteso a tale filosofia si riproporrà incessantemente sino all’epoca contemporanea. Appare così nelle concezioni romantiche un modello della temporalità e della storicità in cui antico e nuovo, ripetizione e innovazione, s. e natura non sono più su versanti opposti ed esclusivi, ma sono strettamente solidali. Questo ricco concetto di s., che può dar luogo a una molteplicità di modelli, è un filo nascosto che, più o meno sotterraneamente, percorre tutte le discussioni sulla s. filosoficamente rilevanti fino ai nostri giorni: infatti tutti i dibattiti su continuità e rottura, su ripetizione ed evento, su modello pagano del circolo e modello cristiano della linearità aperta e progressiva, su tempi lunghi e tempi brevi, su s. evenemenziale e s. delle strutture non sono che riprese e sviluppi di questo nucleo concettuale. Va infine ricordato che la riflessione romantica tedesca privilegia nettamente, a differenza dei francesi, il modello greco rispetto a quello romano, certamente per la sua lontananza dal mondo romanzo, ma anche per ragioni intrinseche che non sono state ancora sufficientemente indagate: è evidente comunque che ne risulta una concezione della s. profondamente differente, soprattutto sul punto essenziale del rapporto fra civiltà e natura.
Hegel è stato il filosofo della s. per eccellenza: piegando le concezioni romantiche verso una visione panlogista, egli ha però nettamente fatto prevalere il tema della riducibilità della s. a leggi e il momento universale su quello individuale. Riguardo poi al nesso di innovazione e ripetizione, sebbene alcuni aspetti della sua riflessione dimostrino che sulla questione la sua posizione è difficilmente banalizzabile, rimane certo che quello che ha finito per prevalere, nell’influenza successiva del modello hegeliano, è il tema del progresso. Progressivo è lo sviluppo dello spirito nella s. attraverso le vicende dei vari popoli, come progressivo è lo svolgersi della logica verso una sempre più piena realizzazione dell’idea. Ben altro modello proponeva Schelling con la sua «teoria delle potenze» (in partic. in Philosophie der Mythologie, 1842; trad. it. Filosofia della mitologia) e con la sua concezione di un Dio che è coinvolto in una faticosa lotta con un abisso di natura, che è parte di lui stesso e che ne resta risorsa e condizione. Schelling prospettava, infatti, un movimento di «progresso retroattivo», una solidarietà di avanzamento verso il futuro e di tuffo nel passato e dava piena dignità all’elemento singolare, casuale ed eventuale del corso storico. Il principio stesso del primato dell’esistenza sul Logos, «sull’essenza» poneva radicalmente la storicità come elemento irriducibile, non logicizzabile, originario e, pur avendo in seguito fornito la base a molte negazioni della storicità, ne costituisce in realtà la difesa di uno degli aspetti più importanti. È infine da ricordare che, se Hegel era stato coerentemente avverso alla filosofia della natura, Schelling, in continuità con l’impostazione romantica, congiunge la sua diversa filosofia della s. con la filosofia della natura. Rispetto a queste posizioni, il contributo della riflessione di Nietzsche, altro grande momento della concettualizzazione filosofica della s. nell’Ottocento, apporta, più che una novità assoluta, una radicalizzazione e una sistematizzazione in forma estremamente conseguente ed efficace: la seconda delle Unzeitgemässe Betrachtungen (Vom Nutzen und Nachteil der Historie für das Leben, 1874; trad. it. Sull’utilità e il danno della storia per la vita), primo grande contributo nietzschiano alla questione, più che una negazione della s. tout court, è una critica del cattivo utilizzo di essa e della riduzione al passato, nonché della negazione della vita, che conseguiva dal modo in cui Hegel aveva delineato il concetto. Al cattivo storicismo Nietzsche contrappone un uso critico della s. che è a sua volta un aspetto fondamentale della vita stessa e del suo rinnovamento. Per quanto riguarda l’idea nietzschiana di «eterno ritorno», le letture ormai prevalenti tendono a interpretarla non già come una riaffermazione della concezione classica antica, ma come una solidarietà fra un momento della novità e un momento della ripetizione, fra innovazione e ripresa della tradizione e della memoria nel solco della concezione romantica di cui si è detto. Infine, il Nietzsche della Genealogie der Morale (1887; trad. it. Genealogia della morale), passato attraverso l’esperienza della sua peculiare Aufklärung e la rimeditazione di Darwin, penserà la s. in termini di «genealogia», di eventi come scontri di forza, e dunque di «riprese» e «reinterpretazioni» che sono sempre in rapporto con momenti di radicale discontinuità (secondo un modello che la riflessione sulla s. di Foucault, nel 20° sec., riscoprirà nel saggio Nietzsche, la généalogie, l’histoire, 1971; trad. it. Nietzsche, la genealogia, la storia). Ma col Nietzsche della genealogia siamo già all’incontro della cultura romantico-idealistica con la grande lezione scientifica di Darwin.
Con l’opera di Darwin il concetto di s. subiva un vero e proprio terremoto: agli aspetti eversivi che On the origin of species (1859; trad. it. L’origine delle specie) aveva sul piano teologico e alla ricollocazione dell’uomo nella natura si aggiungeva il fatto che a tale natura, e in partic. al vivente, era attribuito un carattere essenzialmente storico. Che questo tema, a partire da Darwin stesso, fosse poi all’origine di un evoluzionismo positivistico tendenzialmente deterministico poco toglieva al fatto che Darwin avesse compiuto una mossa che andava ben al di là dei confini del positivismo, rimettendo in questione la netta separazione di s. e natura su cui sembrava essersi assestato il pensiero occidentale, almeno nei suoi filoni più importanti e appariscenti. La pronta accoglienza da parte di Nietzsche di alcuni aspetti del naturalismo darwiniano, e in partic. della radicale idea di caso che lo contraddistingueva, era una prima, precoce conferma di tale assunto. In questa stessa direzione andavano gli aspetti meno caduchi della riflessione sulla s. di Marx. L’enorme ricaduta politica di quest’ultima, che avrebbe condizionato quasi per intero il secolo successivo, non può oscurare il fatto che su alcuni punti essenziali essa non fuoriuscisse dal modello hegeliano, aggravandone anzi i limiti: tentativo di ridurre la s. a un campo governato da leggi obiettive, che Marx avvicinava addirittura a quelle delle scienze naturali, scarsa attenzione per il rilievo del momento individuale e contingente, netta opzione per una metafisica del progresso (che lo condurrà in un passo famoso a parlare del socialismo come «fine della preistoria») sono aspetti del pensiero di Marx che vanno tutti in tale direzione. Ma in senso opposto andavano sicuramente, nell’elaborazione del pensatore di Treviri, il rilievo del momento materiale, la scoperta del ruolo del fattore economico nel determinare il corso storico, l’accettazione della lezione darwiniana sulla storicità del vivente e l’intuizione, certamente non ricondotta da Marx a un quadro coerente, ma profondamente radicata, che fra la storicità del mondo naturale e quella del mondo storico vi fosse un legame profondo: per questo aspetto, egli si poneva su una strada che la filosofia del 20° sec. e anche quella più recente sta ancora faticosamente battendo.
Il periodo a cavallo di 19° e 20° sec. vede dispiegarsi due movimenti in gran parte contraddittori: per un lato, il tentativo della corrente storicistica, da Dilthey a Croce (➔ storicismo) di dare assetto sistematico alla separazione s.-natura, tentando di congedare definitivamente il modello romantico; per l’altro, il costituirsi di una serie di discipline, certo anche per l’influsso potente della «concezione materialistica della s.» di Marx, come l’antropologia, la sociologia e la stessa psicoanalisi, che avrebbero portato a sostituire alla vecchia s. politica e pragmatica una nuova storia. In questa l’elemento materiale, geografico, economico, demografico, aveva un ruolo centrale: i ritmi della natura, il ruolo dell’ambiente erano fondamentali; le strutture sociali, slegate dalle volontà coscienti degli attori, assumevano il peso di vere e proprie strutture materiali; le stesse mentalità, sottratte a un’idea di coscienza trasparente e arricchite della idea freudiana, così dirompente, dell’inconscio, diventavano, con la densità che avevano così assunto, nuovi oggetti di storia. In questo modo, la lezione di Darwin e di Marx veniva emancipata dai suoi esiti positivistici immediati e sviluppata nella sua ispirazione più profonda, quella di colmare il baratro fra mondo della natura e mondo della storia. Grandissima è stata la schiera di intellettuali di grande rilievo che hanno dato vita a questo profondo cambiamento del concetto di s.: si ricordano solo, a titolo di esempi particolarmente illustri, i nomi degli antropologi E. Tylor e F. Boas, dei sociologi e antropologi Durkheim, Lévy-Bruhl e M. Mauss, dello storico, sociologo e antropologo Weber, degli storici M. Bloch e L. Febvre. Di quest’ultimo, come importante tentativo di integrare l’elemento geografico nel paradigma storico senza cadere nel positivismo, va particolarmente ricordata l’opera La terre et l’evolution humaine (1922; trad. it. La terra e l’evoluzione umana).
In campo filosofico, il grande movimento di cui si è appena detto sembra a prima vista non essere stato recepito dai due filosofi da cui sono venuti gli apporti più profondi sul concetto di s., cioè Husserl e Heidegger: ma attraverso un loro percorso schiettamente filosofico, essi (più segnatamente Husserl) convergono sostanzialmente con esso. La riflessione novecentesca sulla questione della s. sarebbe incomprensibile al di fuori di una serie di eventi tragici che hanno segnato tale secolo e che hanno, se non definitivamente congedato, per lo meno seriamente incrinato la metafisica del progresso: si vuole qui alludere a due guerre mondiali che hanno comportato stragi e carneficine mai viste in precedenza, l’utilizzo della tecnica a fini distruttivi e, in partic., la distruzione, mediante bombe atomiche, di Hiroshima e Nagasaki, la Shoah e altri episodi di genocidio che hanno costellato, fino ad anni recenti, il sec. 20°. Le stesse concezioni di Husserl e di Heidegger sono state, al di là delle loro ben diverse posizioni politiche, profondamente segnate da questo insieme di eventi. Per quanto riguarda Husserl, infatti, è proprio l’opera in cui la riflessione sul tema della s. è centrale, Die Krisis der europäischen Wissenschaften (1936; trad. it. La crisi delle scienze europee), a essere scritta nel pieno della tormenta del nazismo e come esplicito tentativo di risposta al riemergere della barbarie che esso rappresentava: l’idea di fondo di Husserl è che il pensiero occidentale e la sua punta di diamante, le scienze, hanno perso le loro radici di senso, che affondano nel mondo della vita; solo la riattivazione di tale elemento fondativo potrà permettere un ritorno alla civiltà. Al di là delle questioni storico-politiche, il nesso passato-presente-futuro, il reciproco rinvio di progresso e ripetizione, che Husserl definiva, conformemente alla sua terminologia fenomenologica, come nesso inscindibile di arché e telos, costituiva il maggior sforzo per pensare, con un apparato categoriale più adeguato e con una consapevolezza più piena delle complessità epistemologiche e ontologiche che erano in gioco, il nucleo della questione lungamente discussa a partire dal 15° sec. e dalla cultura romantico-idealistica. Né è da trascurare come dalla prospettiva husserliana emergesse con forza anche l’altra esigenza fondamentale che si era venuta imponendo, cioè la necessità di legare di nuovo natura e storia. La visione della s. di Heidegger era, d’altra parte, segnata da caratteristiche assai diverse: da un lato, egli ha contrapposto «s.» (Geschichte) a «storiografia» (Historie) e delineato nel suo famoso saggio Die Zeit des Weltbildes (trad. it. L’epoca dell’immagine del mondo, in Holzwege, 1950; trad. it. Sentieri interrotti) una «s. dell’Essere» scandita in «epoche» fra loro ben distinte; in tal modo egli sembrava, nonostante i rilievi critici, riprendere alcune istanze hegeliane o dello storicismo tedesco (come l’idea di un corso storico organizzato secondo un logos tutto filosofico, anche se assai diverso da quello di Hegel; l’idea che esistano delle regolarità che governano in modo necessario gli eventi apparentemente disordinati e casuali). Per un altro verso, la sua concezione più profonda è quella dell’Ereignis, inteso come un «avvento singolare» dell’Essere, come momento della sua puntuale «illuminazione», e qui l’aggancio al filone schellinghiano della «caduta», del caso irriducibile, dell’esistente irriducibile all’essenza è evidente e anche dichiarato. Riguardo alla tematica del nesso fra origine e futuro, ripetizione e differenza, si riscontra anche in Heidegger l’accettazione del modello che pone una solidarietà fra questi concetti: l’Ereignis è un modo di darsi dell’Essere in cui il suo manifestarsi rinvia a un fondamento, a un passato che non ha altra consistenza ontologica al di fuori del darsi della manifestazione stessa e ha dunque la tipica struttura paradossale del «fondamento che fonda sé stesso», dell’arché che è in sé stessa telos. In una visione che estremizza il tema della casualità della s. fino a ridurla a un insieme di manifestazioni meramente puntuali e assolutamente imprevedibili, «infondate», rimane fermo il nesso della s. con la natura, anche se declinato in termini assai più arcani (un Essere irraggiungibile e per definizione risoluto a nascondersi) rispetto alla visione di Husserl. L’idea di una s. che affonda di nuovo le sue radici nella natura è stata invece sviluppata in termini assai più concreti, sulle tracce delle ricerche etologiche già decollate negli anni Cinquanta del Novecento e dei risultati delle scienze della vita degli stessi anni, dall’ultimo Merleau-Ponty, specie nei corsi su La nature (post., 1995; trad. it. La natura), che perseguono consapevolmente il tentativo di pensare s. e cultura come momenti che non esauriscono mai un fondo «primordiale», uno strato vitale e naturale che è il rovescio e la risorsa di ogni «istituzione» storica: anche qui ripetizione e innovazione appaiono inestricabilmente legate. Nel pensiero francese strutturalistico e poststrutturalistico, sviluppatosi a partire dagli anni Sessanta, si sono succedute le posizioni radicalmente antistoriche del Lévi-Strauss di Tristes tropiques (1955; trad. it. Tristi tropici) e, in parte, di La pensée sauvage (1962; trad. it. Il pensiero selvaggio), e del Foucault più vicino allo strutturalismo, che in Les mots et les choses (1966; trad. it. Le parole e le cose) proclamava la fine della s. insieme a quella dell’uomo, destinato a «essere cancellato, come sull’orlo del mare un volto di sabbia». A queste si sono poi affiancate la ripresa, da parte dello stesso Foucault, del concetto nietzschiano della s. come «genealogia» e le riflessioni di Deleuze, che in Différence et répétition (1968; trad. it. Differenza e ripetizione) pone la solidarietà fra questi due concetti come nucleo essenziale di una nuova idea di storia. Nel loro complesso lo strutturalismo e il poststrutturalismo francesi, apparentemente negatori della s., sono piuttosto da leggersi come una critica al concetto tradizionale, umanistico, di s. e come gli eredi maggiori del rinnovamento del concetto di s. operato nelle scienze umane fra Otto e Novecento, e continuato in Francia lungo buona parte del Novecento. D’altra parte, specie in ambiente anglosassone, gli studi ecologici, antropologici, biologici, etologici sono approdati a concezioni come quella di G. Bateson Steps to an ecology of mind (1972; trad. it. Verso un’ecologia della mente), che spiazzano ogni contrapposizione fra scienze naturali e scienze umane; e, ancora in Francia, si è avuto il lavoro solitario, ma di grande rilievo, di E. Morin (di cui si veda in partic. La méthode, voll. I-VI, 1977-2004; trad. it. Il metodo), esponente di spicco della moderna «teoria dei sistemi», in cui l’allaccio fra s. e natura viene perseguito e approfondito con modelli sempre più raffinati e fuori dalla contrapposizione tradizionale fra positivismo e idealismo o spiritualismo.
Una frangia estrema del poststrutturalismo, nell’epoca della crisi del sistema sovietico e poi del suo collasso (dai tardi anni Ottanta agli anni Novanta) si è spinta, con J.F. Lyotard, J. Baudrillard e F. Fukuyama, allievo ed emulo americano di Kojève, a proclamare la fine della s., in stretto nesso con quella della modernità (da cui l’etichetta di «postmoderno» con la quale questa concezione si è autodefinita). Ma sembra ormai potersi dire che si è trattato di un movimento effimero: con il 21° sec. il problema della s. è tornato prepotentemente a imporsi all’attenzione proprio insieme a quello della natura, e il nucleo concettuale che si era affacciato fin dall’origine della contemporaneità, rinnovato dagli apporti novecenteschi, sembra confermare la sua vitalità. Nei dibattiti più recenti, se la discussione storica rinvia sempre più frequentemente ai contesti ambientali in cui essa affonda (basti pensare al fatto che il destino della civiltà, e dunque il corso della s., appare sempre più legato a quello del globo terrestre), la discussione ecologica non integra solo molteplici discipline scientifiche e tecniche, e segnatamente la ricerca biologica e tecnologica, ma appare sempre più legata alla s., al recupero e alla riattivazione delle tradizioni e delle tecniche che l’umanità ha elaborato per relazionarsi, nei millenni, con la natura.