Storia evolutiva del corpo
L'aspetto sotto cui il corpo umano appare oggi ai nostri occhi è il prodotto di un lungo cammino evolutivo che la nostra specie ha percorso in milioni di anni: a partire dalle più antiche forme preumane, infatti, lo scheletro, la morfologia dei caratteri esterni, gli organi e i sistemi hanno subito numerosi cambiamenti, attraverso una serie di tentativi e aggiustamenti, così da acquisire caratteri che, alla fine, si sono dimostrati vincenti dal punto di vista adattativo. Questo processo evolutivo ha avuto nell'uomo caratteristiche del tutto peculiari: mentre molte altre specie animali sono rimaste ancorate alla propria nicchia ecologica, a causa della specializzazione delle loro strutture anatomiche e dei loro atteggiamenti comportamentali, la specie umana è tipicamente ubiquitaria, grazie alla sua esclusiva capacità di adattarsi agli ambienti più diversi. Per arrivare a questo traguardo, oltre all'indispensabile conquista dell'intelligenza, uno dei vantaggi principali è stata la plasticità morfologica che la specie ha raggiunto, conservando anche nell'adulto caratteri morfologici non specializzati. In conseguenza di questa flessibilità, nell'ambito del modello anatomico dell'uomo esiste una straordinaria gamma di variazioni, tanto che non esistono due individui uguali, nemmeno i gemelli monozigotici, che, sebbene identici rispetto al loro genotipo, cioè al patrimonio genetico ereditato dai genitori, non lo sono mai completamente per quanto riguarda il fenotipo, ovvero l'aspetto esterno, risultato dell'interazione genotipo-ambiente. Alla descrizione del modello anatomico umano, studiato dall'anatomista, si affianca così l'analisi delle modifiche cui questo è andato incontro nel tempo, a partire da forme ancestrali preumane, e nello spazio, fino a dare le attuali differenze tra le popolazioni: tale studio è di pertinenza dell'antropologia, disciplina evoluzionistica, che traccia le tappe del cammino dell'uomo da un punto di vista naturalistico.
I primi tentativi di assegnare un posto alla specie umana all'interno dell'ordine della natura hanno origini molto remote: nel sistema di classificazione animale elaborato da Aristotele nel 4° secolo a.C., l'uomo è posto nella stessa categoria delle scimmie, rispetto alle quali tuttavia, secondo la visione antropocentrica del tempo, viene mantenuto ben distinto e in posizione predominante, grazie alla sua singolarità come unico animale bipede, dotato di un grande cervello e in grado di comunicare verbalmente. I primi dati esatti sull'anatomia del corpo umano risalgono però a tempi molto successivi, con l'opera di A. Vesalio del 16° secolo; poco dopo, il medico inglese E. Tyson, paragonando il corpo umano a quello di uno scimpanzé, che riteneva fosse un pigmeo, evidenziò la presenza di ben 48 caratteri anatomici comuni alle due specie. Il primate, così, venne interpretato come una forma intermedia tra umano e non umano. La definizione completa della posizione sistematica dell'uomo si ha con C. Linneo: nella prima edizione del Systema Naturae (1735) il genere Homo viene posto nell'ordine degli Antropomorfi (che poi diventerà l'ordine dei Primati), insieme alle scimmie. Nella decima edizione (1758), Linneo comprende nel genere Homo la specie Homo diurnus (Homo sapiens) e la specie Homo nocturnus o troglodytes, cioè l'orango. Con l'opera di Linneo, la linea di demarcazione tra umani e non umani, pur rimanendo invalicabile, comincia così ad assottigliarsi, ma è necessario comunque arrivare al 19° secolo, all'epoca del grande naturalista C. Darwin, affinché l'uomo, considerato una delle tante forme mutevoli dell'universo, venga finalmente osservato e studiato come tale. Introducendo nel sistema della natura la dimensione temporale, l'opera di Darwin segna una vera e propria rivoluzione nel pensiero scientifico: in essa infatti l'uomo, come un qualsiasi animale, è visto come un prodotto dell'evoluzione i cui lontani antenati non sono più da considerarsi Adamo ed Eva, ma forme comparse in tempi molto più antichi dei 6000 anni calcolabili prendendo alla lettera la narrazione biblica. Con Darwin, nella classificazione entra la filogenesi: le differenze e le somiglianze fisiche esteriori non sono più sufficienti per stabilire rapporti di vicinanza con le specie più simili; è invece necessario confrontare tra loro le omologie strutturali, al fine di identificare i possibili antenati comuni all'uomo e ai primati che più gli assomigliano. A tal fine, è indispensabile l'analisi del materiale scheletrico fossile appartenente alle forme ancestrali umane. Tale studio è oggi di pertinenza di una disciplina scientifica detta paleoantropologia, la quale, avvalendosi anche di sofisticate tecniche di biologia molecolare, ha permesso di ampliare le conoscenze sui legami filogenetici esistenti tra l'uomo e gli altri primati. Sulla base delle conoscenze così acquisite, le origini degli Ominidi, la famiglia cui l'uomo appartiene, sono state rintracciate nel ventaglio di forme ancestrali (Ominoidi del periodo compreso tra Miocene e Pliocene, tra 15 e 5 milioni di anni fa), da cui sono emerse anche le linee evolutive delle scimmie antropomorfe, lo scimpanzé e il gorilla africani e l'orango e il gibbone asiatici. Queste forme sono infatti strutturalmente molto simili all'uomo, dal quale si differenziano essenzialmente per alcuni caratteri specializzati. Lo scimpanzé e il gorilla, pur essendo di aspetto così diverso dall'uomo, entrano a pieno titolo nella nostra stessa famiglia. La misura della differenza, o distanza genetica, effettuata mediante analisi del DNA o dei suoi diretti prodotti, le proteine, indica infatti una distanza tra gorilla e uomo e tra gorilla e scimpanzé dell'ordine di appena l'1%. La unicità biologica, oltre che culturale, della specie umana, è tuttavia mantenuta e accresciuta nel tempo dai meccanismi di isolamento riproduttivo.
Le caratteristiche biologiche fissate dal pool genico umano, apparentemente, non conferiscono alla nostra specie alcuna caratteristica peculiare: l'uomo nasce nudo e inerme, non sviluppa particolarità anatomiche che invece contraddistinguono molte altre specie, come canini e artigli per difendersi dai predatori e attaccare la preda, o molari da erbivoro, o ancora alluci opponibili per arrampicarsi sugli alberi. Inoltre, per raggiungere la maturità l'uomo ha tipicamente bisogno di un lungo periodo di tempo. Tutto ciò, comunque, invece di costituire uno svantaggio, è stato il motivo per cui la specie umana è rimasta evolutivamente plastica, tanto da potersi adattare a tutti gli ambienti. Il successo evolutivo dell'uomo, infatti, si può ben dire collegato alla sua capacità di adattarsi all'ambiente, non tanto per le sue caratteristiche fisiche, ma soprattutto grazie alla cultura, che gli consente di mettere in comune con gli altri membri della società le conoscenze acquisite attraverso l'esperienza: questo spiega anche il significato del prolungato periodo di cure parentali, che permettono al cervello di sviluppare e arricchire tutte le sue potenzialità. La storia naturale dell'uomo risulta così indissolubilmente legata alla sua storia culturale, tanto che è solo per semplificare che si parla di evoluzione biologica e di evoluzione culturale, quasi che i due processi siano stati indipendenti l'uno dall'altro. Al contrario, essi hanno cominciato a interagire assai presto nella storia dell'uomo, una volta che le strutture biologiche (circuiti nervosi, manualità e capacità di comunicare attraverso il linguaggio articolato) si sono adeguate a produrre cultura. Da quel momento, il processo evolutivo ha corso molto più in fretta rispetto a quanto si era verificato per acquisire lo status biologico grezzo di Homo sapiens.
Determinante, per l'evoluzione umana, è stato l'ambiente geografico; esso ha favorito l'affermazione di alcune morfologie adattative e, nello stesso tempo, ha indirizzato l'uomo nelle sue scelte culturali: basti pensare alle abitudini di vita, in particolare al tipo di alimentazione, strettamente legate, almeno nelle popolazioni non ancora avanzate tecnologicamente, al clima e alla natura del suolo. Per la ricostruzione della storia biologica dell'uomo sono pertanto essenziali le conoscenze sulla paleogeografia e sulla paleoclimatologia delle regioni in cui sono comparse le forme di Ominidi che hanno preceduto l'Homo sapiens. Ricostruire significa così non soltanto osservare e descrivere i reperti scheletrici fossili, per confrontarne i caratteri con quelli attuali ai fini sistematici, ma anche cercare di capire come l'evoluzione del paleoambiente abbia potuto influire sul comportamento e sulle modificazioni anatomiche a esso legate. L'evoluzione dell'apparato locomotore negli Ominidi ha comportato una serie di modificazioni che hanno interessato sia il cranio sia lo scheletro postcraniale. Nel cranio il cambiamento più significativo per l'acquisizione della postura eretta (ortograda), e di conseguenza per la locomozione bipede, è stato l'espansione della squama dell'occipitale e il suo 'scivolamento' in avanti. Ciò ha comportato l'anteriorizzazione della base cranica, cosicché il foro occipitale si è venuto a trovare in linea con la colonna vertebrale. La conseguente verticalizzazione del tronco, che ha portato a un perfetto bilanciamento della testa sul busto, ha reso inutile il potentissimo sviluppo dei muscoli nucali, che nelle scimmie antropomorfe, in particolare nel gorilla, sono necessari per mantenere la testa in tale posizione. La colonna vertebrale, invece di essere uniformemente ricurva come nelle scimmie antropomorfe (postura clinograda), negli Ominidi si arricchisce di curvature sia sul piano frontale sia sul piano sagittale; di queste ultime le più marcate sono la cifosi toracica, a concavità ventrale, e la lordosi lombare, a concavità dorsale. Le curve ‒ che nell'uomo si definiscono compiutamente a partire dall'età infantile ‒, insieme con il gioco muscolare, contribuiscono notevolmente a mantenere il busto eretto sia in posizione di riposo sia durante la locomozione. Nel bacino, le ali dell'ileo subiscono un processo di espansione verso l'alto e all'indietro, cosicché sull'ampia superficie alare si inseriscono dorsalmente i potenti muscoli glutei (natiche), che contribuiscono a mantenere eretto il tronco sugli arti inferiori e danno la spinta necessaria per l'estensione della coscia durante le fasi dinamiche della locomozione. Nel suo complesso, il bacino diviene più basso e largo (maggiormente nella donna che nell'uomo, in relazione alla gestazione). Rispetto alle scimmie antropomorfe, negli Ominidi il femore (coscia) si allunga nei confronti dell'omero (braccio); nel piede, che si è dovuto adattare alla locomozione abituale sul terreno, l'alluce ha mantenuto la condizione ancestrale dell'allineamento rispetto alle altre dita, e si è formato l'arco plantare: il piede dell'uomo poggia infatti solo su tre punti, tallone, alluce e metatarso, che costituiscono nel loro insieme il cosiddetto 'tripode plantare'. L'evoluzione dell'apparato masticatorio si è manifestata attraverso la progressiva riduzione e l'alleggerimento del massiccio facciale (splancnocranio) in relazione ai cambiamenti della dieta. Nelle scimmie antropomorfe le ossa mascellari e i denti deputati alla masticazione (premolari e molari) sono invece molto sviluppati, come è necessario per una dieta prevalentemente (o esclusivamente) vegetariana a base di semi, frutti, foglie, ma anche radici, bacche e germogli; nel gorilla, specializzato a una dieta foglivora, il massiccio facciale è straordinariamente sviluppato, con muscoli della masticazione che richiedono un'area d'inserzione tanto ampia che nel cranio si è venuta a sviluppare una cresta sagittale di rinforzo tra i due parietali. Il canino, il cui grande sviluppo nel maschio ha solo funzione sociale, quale possibile minaccia contro i predatori, negli Ominidi si riduce e, di conseguenza, si verifica la perdita del diastema, cioè dello spazio nell'arcata inferiore necessario per alloggiarlo. Per quanto riguarda il neurocranio, il processo di ominazione ha comportato in primo luogo un aumento di volume e poi un riarrangiamento dell'architettura cranica, conseguente alla riorganizzazione dei centri cerebrali. La capacità cranica nello scimpanzé e nel gorilla è compresa tra circa 380 ml e 500 ml; nel suo insieme il cranio è basso (platicefalo) e stretto e termina posteriormente a cuneo; nell'uomo è invece molto più voluminoso (circa 1350 ml), più espanso in alto, dando origine alla fronte, di lato, a livello delle ossa parietali, e posteriormente, in corrispondenza della squama dell'occipitale, fino a dare nel suo complesso una struttura globosa.
Nei primi Ominidi, ancora mancanti di fronte, è presente una platicefalia più o meno accentuata e una sorta di visiera sopraorbitaria dovuta al forte aggetto del frontale lungo una linea continua sulle due orbite. I cambiamenti anatomici a livello cerebrale indicativi del processo di ominazione si riflettono in una differente organizzazione rispetto a quella delle scimmie antropomorfe: la rete interneuronica (aree associative), straordinariamente ricca, specificamente presente nel cervello umano, permette il perfetto coordinamento tra nuclei centrali, corteccia cerebrale (neopallio) e strutture anatomiche periferiche, dando modo all'individuo di rispondere agli stimoli ambientali in modo del tutto personale, ciò che rappresenta una caratteristica propria dell'uomo.
Il primo indicatore dello status di Ominide in un primate è la postura eretta. Il primo ad assumerla è stato un antenato della specie umana chiamato Australopithecus: comparso in Africa nel Pliocene, intorno a 4 milioni di anni fa, pur con un cervello di dimensioni ridotte (circa 450 ml), esso è stato il primo antenato dell'uomo a sperimentare con successo un modo abituale di spostarsi sul terreno 'a passi alterni', in maniera sostanzialmente diversa da quella impiegata occasionalmente dai 'cugini' antropomorfi, anche se con un'andatura meno spedita di quella dell'uomo attuale. L'arco plantare è già presente nell'australopiteco, come si è dedotto analizzando le famose orme scoperte presso Laeotoli (Tanzania), impresse nettamente nelle ceneri vulcaniche di più di tre milioni di anni fa. I resti scheletrici di un piede sinistro rinvenuti in Sudafrica (Sterkfontein) e risalenti a 3,5 milioni di anni fa evidenziano nelle forme più antiche di australopiteco una commistione di caratteri scimmieschi (la parziale divergenza dell'alluce) e di caratteri umani (la presenza dell'arco plantare), a dimostrazione che questa specie aveva conservato buone capacità di adattamento arboricolo. Secondo la definizione data dal paleoantropologo sudafricano P. Tobias, che ha studiato tale reperto, i più antichi australopitechi erano 'bipedi facoltativi e arrampicatori'. In base alla morfologia più o meno robusta a livello dell'apparato masticatorio e alla sua diversa collocazione geografica, l'australopiteco viene distinto in due gruppi: tra le forme gracili si trovano l'Australopithecus afarensis (scoperto in Etiopia), la specie più antica e morfologicamente più primitiva, l'Australopithecus africanus e l'Australopithecus anamensis, i cui resti sono stati rinvenuti in Sudafrica e in Africa orientale. Tra le forme robuste, che alcuni paleoantropologi attribuiscono tutte al genere Paranthropus, si trovano l'Australopithecus robustus, con un possente apparato masticatorio, l'aethiopicus e il boisei (Tanzania), specie iperrobusta, che, a causa della dieta costituita da bacche, radici e noci, è stata soprannominata nutcracker. Oltre a queste sei specie, sono venuti alla luce nel 1993 i resti di una forma di Ominide risalente a circa 4,4 milioni di anni fa, attribuita ora al genere Ardipithecus e alla specie ramidus; tale forma è risultata ancora tipicamente adattata alla vita nella foresta, a conferma che l'acquisizione del bipedismo ha preceduto la fase di definitiva colonizzazione della savana da parte dell'australopiteco.
Più di un milione di anni dopo l'apparizione dell'australopiteco, comparve, ancora in Africa, il primo rappresentante del nostro stesso genere, l'Homo habilis. Le differenze anatomiche rispetto all'australopiteco sono notevoli, soprattutto a livello dello sviluppo encefalico (circa 700 ml) e dell'architettura del cranio, per la riduzione del massiccio facciale e il suo arretramento rispetto al neurocranio, relativamente molto più espanso. L'Homo habilis, considerato il primo faber nella storia dell'uomo, ha anche lasciato i resti di un'industria litica rudimentale, l'industria olduvaiana, così chiamata dal sito di ritrovamento, la gola di Olduvai in Tanzania: si tratta principalmente di ciottoli, detti chopper, scheggiati da un lato così da ottenere un margine tagliente. Non sappiamo evidentemente come fosse organizzato il cervello dell'habilis, ma i chopper, sebbene grezzi, testimoniano buone capacità di coordinamento cervello-mano. Non è nemmeno noto se l'habilis avesse cominciato a utilizzare il linguaggio articolato, l'espressione più compiuta ed efficace di comunicazione sociale nel mondo animale. Tuttavia, lo studio morfologico e morfometrico della superficie endocranica dimostrerebbe, secondo Tobias, che nel cervello dell'habilis era già sviluppata l'area di Broca, l'area motrice che non è presente nelle scimmie antropomorfe e che è indispensabile per poter articolare le parole a livello dell'organo della fonazione. Un'altra serie di trasformazioni, comprendenti principalmente aggiustamenti anatomici, portò all'affermazione, ancora una volta in Africa (Kenya), intorno a 1,6 milioni di anni fa, della specie Homo ergaster (ovvero di una forma più antica del successivo Homo erectus africano). Lo scheletro postcraniale di questo rappresentante del genere Homo è del tutto simile a quello dell'Homo sapiens, ma permangono alcune differenze a livello cranico, come la presenza di una visiera sopraorbitaria e lo scarso sviluppo in altezza della volta.
A partire dall'Africa, intorno a un milione di anni fa, il diretto discendente di tale forma umana, l'Homo erectus, cominciò a migrare verso i territori europei e asiatici, nello stesso periodo in cui l'australopiteco scompariva dalla scena, forse perché troppo ancorato al suo ambiente, e quindi anatomicamente inadeguato e intellettivamente sprovveduto. Le popolazioni di Homo erectus, favorite verosimilmente dalla scoperta casuale del fuoco, forse per un incendio provocato da un fulmine o per fenomeni di autocombustione, si spinsero così in aree fredde ben diverse dall'originaria sede africana e la specie si propagò verso nuovi confini. Le dimensioni dell'encefalo, che nell'Homo erectus è compreso tra circa 900 e 1200 ml, rientrano nel campo di variabilità che caratterizza l'uomo attuale. A tale sviluppo encefalico sono legate notevoli innovazioni culturali, testimoniate dalla sua industria litica, detta acheuleana, dal sito Saint-Acheul, in Francia. I manufatti appartenenti a questa tipologia (raschiatoi, bifacciali, denticolati) hanno una morfologia più diversificata rispetto ai precedenti, frutto di una buona capacità inventiva del loro artefice. In epoca posteriore, nel periodo compreso tra circa 250.000 e 35.000 anni fa, si sviluppò, in Europa e in Asia sudoccidentale, un tipo arcaico di Homo sapiens detto uomo di Neanderthal, dai primi resti scheletrici rinvenuti nella valle di Neander, presso Düsseldorf, nel 1856. Riguardo al ruolo giocato da questa nuova forma umana nel corso dell'evoluzione, due sono le possibili interpretazioni: secondo il cosiddetto modello multiregionale del paleantropologo americano M. Wolpoff, il processo di diversificazione dell'umanità ha coinciso con la prima migrazione dell'Homo erectus dall'Africa. Da questa forma di Homo si sarebbe evoluto in Europa il tipo neandertaliano, che rappresenterebbe una forma di transizione fossile tra questi (Homo sapiens neanderthalensis) e l'Homo sapiens moderno (Homo sapiens sapiens). Secondo il paleoantropologo inglese C. Stringer, l'umanità attuale sarebbe invece emersa intorno a 100.000 anni fa da una popolazione di sapiens 'anatomicamente moderni', così chiamati perché alla modernità dei caratteri anatomici non corrisponde un'industria litica altrettanto evoluta in senso moderno. Comparsi in Africa, questi ultimi sarebbero poi migrati verso l'Europa e l'Oriente, andando a sostituire i neandertaliani, evolutisi indipendentemente. In base a questo modello, infatti, i neandertaliani sarebbero da considerarsi come una specie a sé stante, l'Homo neanderthalensis. Il biologo molecolare S. Pääbo dell'Università di Monaco è riuscito ad analizzare la sequenza di un tratto di DNA ottenuto da un frammento osseo appartenente all'uomo di Neanderthal scoperto a Düsseldorf, concludendo che la sequenza della regione di DNA esaminata è molto diversa da quella dell'uomo attuale, tanto da avvalorare la tesi dell'esistenza di due specie, Homo neanderthalensis e Homo sapiens. Questa interpretazione pone il problema del perché i neandertaliani siano scomparsi: si dimostrarono forse fisicamente meno duttili rispetto alla nuova specie di Homo sapiens? O, piuttosto, si trovarono inadeguati di fronte alle innovazioni culturali di questi ultimi e alla loro capacità di rispondere in maniera più selettiva all'ambiente? Per rispondere, occorre prendere in esame quest'umanità arcaica, che può essere considerata un paradigma del processo evolutivo umano.
In Europa, intorno a 70.000 anni fa, l'ambiente non è certo ospitale; siamo nel pieno dell'ultima glaciazione, e le bande di neandertaliani si aggirano per le lande cacciando e raccogliendo tuberi e radici. Per ripararsi dal freddo essi si rifugiano in grotte e in ripari sotto la roccia e accendono il fuoco, che dà loro la possibilità non solo di scaldarsi e di tenere lontani i grandi predatori, ma anche di cuocere il cibo, di illuminare le lunghe notti e di creare un punto di ritrovo utile alla socializzazione. Riguardo alle caratteristiche fisiche di questa umanità preistorica, sono state proposte, negli anni, interpretazioni assai diverse: agli inizi del secolo, la ricostruzione anatomica eseguita sulla base dell'analisi dei resti fossili condotta dal paleontologo francese P.-M. Boule ha reso l'uomo e la donna di Neanderthal dei veri bruti, esseri quasi scimmieschi che camminavano ricurvi e barcollanti. In realtà, Boule si era basato su uno scheletro di un uomo anziano e affetto da artrite, mentre le attuali ricostruzioni, ottenute anche grazie all'uso della grafica computerizzata, dimostrerebbero che questa umanità non era nient'altro che una variante dell'Homo sapiens. L'analisi morfofunzionale ha messo in evidenza che il tipo neandertaliano era principalmente strutturato per sviluppare potenza e resistenza alla fatica, e adattato a camminare su un terreno accidentato e al freddo. Proprio nei confronti del clima rigido la morfologia corporea dell'uomo di Neanderthal appare particolarmente adeguata, con un corpo tozzo, statura bassa e arti relativamente corti rispetto al busto, in modo da sviluppare un grande volume in rapporto alla superficie corporea, così da limitare la dispersione di calore. Poiché è proprio al termine della glaciazione di Würm (30-35.000 anni fa) che i neandertaliani si sono estinti, è stato ipotizzato che, con l'instaurarsi di condizioni climatiche più favorevoli, il loro modello anatomico abbia cessato di costituire una sorta di garanzia conservativa. Essi infatti, pur avendo una capacità cranica pari a circa 1500 ml, dunque ai limiti superiori del campo di variabilità dell'uomo attuale, erano probabilmente caratterizzati da un'inferiore ricchezza e organizzazione dei circuiti interneuronici della corteccia cerebrale. Inoltre, non sappiamo se avessero acquisito un linguaggio articolato, il mezzo di comunicazione certamente più efficace ai fini della socializzazione e quindi della cultura. In caso negativo, questo potrebbe spiegare perché i neandertaliani siano risultati perdenti di fronte ai sapiens moderni; non potendo comunicare tra loro con immediatezza, la loro eredità sociale potrebbe essere rimasta povera, incapace di fronteggiare adeguatamente i mutamenti ambientali. In sostanza, il neandertaliano, sebbene seppellisse già i suoi morti, apparirebbe ancora un 'uomo di natura': questo sembrerebbe confermato anche dal fatto che non esiste traccia di sue manifestazioni artistiche: ogni manufatto litico, infatti, risulta destinato a funzionare esclusivamente come utensile per raschiare, scuoiare, incidere, tagliare, affilare. L'industria mousteriana (dal sito di Le Moustier, nella Francia meridionale) dell'uomo di Neanderthal presenta inoltre una certa ripetitività dei modelli di raschiatoi, lame, punte, tra l'altro non del tutto idonei a effettuare lavori di alta precisione. Del resto, la mano che utilizzava questi strumenti era una mano tozza, con dita corte, più adatta a impugnare con una presa di forza, che non a lavorare di fino, sfruttando la presa di precisione. Così, è molto probabile che la mancanza di duttilità delle risposte alle pressioni ambientali e la povertà del linguaggio siano state le cause principali dell'estinzione di questo tipo umano, quando arrivò in Europa l'Homo sapiens 'moderno', dotato di un modello anatomico più generalizzato, ma caratterizzato da grandi capacità inventive, che lo mettevano in grado di agire sull'ambiente attraverso il moltiplicarsi di innovazioni culturali.
Alla fine del Pleistocene superiore, i sapiens moderni cominciano a disperdersi su tutta la terra e a diversificarsi. Due fenomeni incidono in maniera determinante sul processo di diversificazione seguito alle migrazioni: il ventaglio di opportunità ambientali si allarga straordinariamente, esigendo risposte sempre più variegate e, contemporaneamente, le opportunità di incontro tra i colonizzatori si allentano in aree marginali, mentre si rinforzano nelle aree di contiguità. Le prime bande, unità sociali elementari formatesi per frammentazione di un nucleo originario presumibilmente africano, prendono vie diverse; quelle che incontrano condizioni più favorevoli si espandono e, dandosi un'organizzazione sociale, costituiscono le prime comunità di pastori nomadi. Il maggior incremento demografico, conseguenza più diretta del successo evolutivo, viene tuttavia raggiunto dalle comunità che scelgono la sedentarizzazione e fondano villaggi stabili, dopo aver sperimentato i grandi vantaggi che possono offrire lo sfruttamento agricolo del suolo e l'allevamento degli animali domestici. Tra 12.000 e 5000 anni a.C. (Mesolitico-Neolitico) il decollo dell'agricoltura e l'incremento del tasso di fertilità, conseguente alla sedentarizzazione, portano all'aumento della densità di popolazione. Si ha così una spinta per ulteriori espansioni e dunque anche per nuove opportunità di diversificazione: di conseguenza, si producono cambiamenti riguardanti le abitudini di vita e le norme sociali, le lingue si diversificano e nuove culture emergono e si consolidano; nello stesso tempo si vanno affermando modelli sempre più variegati dell'aspetto fisico. Naturalmente il fenomeno non si verifica dappertutto con la stessa velocità e con gli stessi ritmi. Determinanti a questo riguardo sono le condizioni geografiche, che influiscono sul successo dell'attività agricola e, nello stesso tempo, sulla possibilità di scambi genetici e culturali tra un centro di dispersione e l'altro; infatti, nei nuclei rimasti ai margini dei grandi circuiti di comunicazione il processo di diversificazione appare molto più contenuto e la tendenza è quella di mantenere i primitivi modelli fisico-culturali. La diversificazione avvenuta tra le popolazioni, dunque, è dovuta per la gran parte al fatto che gli individui hanno avuto opportunità di nascere in diverse aree geografiche, di appartenere a popolazioni con una storia e con ritmi evolutivi propri e di sviluppare le proprie caratteristiche fisiche e comportamentali in microambienti particolari.
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