storia della lingua
L’italiano di oggi ha ancora in gran parte la stessa grammatica e usa ancora lo stesso lessico del fiorentino letterario del Trecento. Nella Divina Commedia, a cominciare dal I canto dell’Inferno, un italiano pur sprovvisto di cultura letteraria può leggere molti versi prima di trovare una parola che non capisce: la loro forma è quasi sempre quella attualmente in uso e quando non lo è, come esta del v. 5 o intrai del v. 10, l’equivalente moderno è facilmente ricostruibile. Per trovare una parola quasi del tutto irriconoscibile bisogna arrivare all’ei («ebbi») del v. 28; ma Dante, già due canti dopo (III, 58), usa anche ebbi, forma minoritaria rispetto all’altra più antica, ma comunque ben attestata. De Mauro (2005) ha calcolato che l’88% del lessico fondamentale, l’86% di quello di alto uso e, insomma, tutti «gli elementi grammaticali sono già in gran parte in funzione dai primi secoli, dal Due e Trecento».
Nondimeno, gli elementi di continuità, che non hanno eguali tra le lingue europee, non debbono far dimenticare quelli di discontinuità, le perdite, i cambiamenti, le innovazioni che segnano la distanza tra l’italiano di oggi e il fiorentino del XIV secolo (➔ italiano antico).
Quando, nel Trecento, i grandi scrittori toscani diedero forma letteraria alta alla lingua che molto più tardi la società italiana, dalle Alpi alla Sicilia, avrebbe fatto propria, sono già parecchi secoli che, anche in Italia, come nelle altre nazioni europee romanizzate, il latino aveva fatto posto negli usi quotidiani ai cosiddetti volgari, cioè a lingue parlate che da esso discendono, molto diversificandosi specialmente tra il Nord e il Centro-Sud della penisola (➔ volgari medievali), come ancor oggi si vede dalla gamma dei ➔ dialetti italiani.
Le differenze non escludono molte somiglianze, dovute alla comune lingua madre, il latino appunto (➔ latino e italiano), o alla circolazione estesa di apporti di lingue straniere alla Penisola. Ma la carta linguistica italiana all’altezza del IX secolo è un mosaico di lingue diverse, a volte trapiantate le une dentro le altre (le comunità alloglotte, come quelle greche del Salento e della Calabria; ➔ minoranze linguistiche). Queste lingue premono alle spalle del latino, lingua degli usi scritti e di quelli ufficiali dei vari stati che formano la convulsa geografia politica italiana (Sabatini 1997).
Occorre tempo perché i volgari emergano alla scrittura, per secoli e secoli saldamente in mano al latino. Ma qua e là e poi sempre di più, per ragioni diverse, i documenti scritti recano tracce dei diversi volgari. L’emersione dei volgari avviene in documenti di tipo notarile (➔ notai e lingua) e in testi pratici, giuridici, mercantili (➔ mercanti e lingua), religiosi (➔ Chiesa e lingua; ➔ cristianesimo e lingua), che si faranno via via più numerosi dal XII secolo e specialmente dal XIII, con lo sviluppo dei comuni toscani.
Da un muro della catacomba di Commodilla a Roma, ai primi del IX secolo, giunge una scritta («Non dicere ille secrita a bboce») che attesta i tratti meridionali del romanesco medievale. Dai margini di un codice della Biblioteca capitolare di Verona, contenente un orazionale mozarabico, giunge l’altrettanto antico (c’è anche chi lo suppone ancora più antico e non veronese ma pisano) Indovinello veronese, la cui lingua è a confine tra latino e volgare (Castellani Pollidori 1997). Indubitabilmente volgare meridionale, pur con persistenti residui formulari e grafici del latino, è quello delle testimonianze rese a Capua nel 960 e nei dintorni, nel 963, in cause di usucapione (Castellani 1973): «Sao ko kelle terre per kelle fini que ki contene trenta anni le possette parti Sancti Benedicti» (➔ origini, lingua delle).
Deve comunque passare del tempo prima che un volgare lasci segni più consistenti ed elaborati in testi scritti, al di là dei casi in cui compare in mezzo al latino. Uno dei luoghi più preparati ad accoglierlo è l’ambiente religioso, da cui, per es., verso la fine dell’XI secolo, arriva una Formula di confessione, elaborata in Umbria. Al XII secolo inoltrato risalgono i Ritmi laurenziano (area di Volterra), cassinese e su sant’Alessio, di area mediana e ambiente di Montecassino.
Soprattutto dalla Toscana e dall’Umbria arrivano ampie quantità di lettere commerciali e registri contabili. Sono terre in cui più forte è il successo della nuova classe sociale borghese, dove c’è una precoce domanda di alfabetizzazione. Parallelamente, mentre dalla Toscana giungono moltissimi documenti pratici di elaborazione laica e privata (Schiaffini 1926; Castellani 1952), da altre regioni i documenti in volgare sono frutto solo o quasi della mano pubblica, laica o religiosa (per es., gli statuti delle confraternite). Del resto, la produzione di documenti in volgare è più frequente e intensa nelle istituzioni comunali (Toscana, Umbria e Nord Italia), gestite dalla borghesia, necessitate a far conoscere le proprie disposizioni ai cittadini e a comunicare con interlocutori omologhi.
Le scritture private sono meno elaborate di quelle pubbliche, che cercano di regolarsi sul modello del latino, nascondendo, almeno a livello di grafia, i tratti molto locali della lingua. I mercanti, invece, non solo registrano, da un certo punto in poi, in volgare le loro attività e i loro bilanci nei libri dei conti, ma si scrivono da un capo all’altro della Penisola, in una lingua che deve, pur a fatica, evitare le trappole dell’incomprensione.
La storia sociale e politica d’Italia è fin da subito decisiva ai fini della lingua. Come la crescita di una nuova classe sociale apre spazi alle varie lingue materne, così ne autorizza ufficialmente l’uso la nascita di nuove realtà istituzionali. Allo stesso modo, vasti cambiamenti politici, come la conquista normanna del Mezzogiorno (secc. XI-XII), influiscono sulla natura stessa delle lingue, per es. importandovi molti gallicismi (➔ francesismi) da allora stabilmente in uso nelle parlate italiane, come mangiare, leggero, cugino, giardino, gioia, panettiere, barbiere.
Il primato del fiorentino e del toscano è prima di tutto dovuto allo sviluppo economico-sociale delle città toscane dal XII secolo in poi. Ma anche realtà diverse, più di tipo signorile e nobiliare, hanno contribuito all’affermazione dei volgari, conferendo ad essi fin da subito una patina colta e letteraria, come accade in Sicilia dal XIII secolo, con un volgare scritto a corte, assai lontano dalle instabilità della lingua di uso pratico.
La variabilità interna, specie in veste di accentuato polimorfismo, è una caratteristica costante dei volgari antichi, lingue allo stato nascente, non normate, rese ancor più mutevoli da casuali o non organiche oscillazioni dell’incerta grafia che le registrava. Questa instabilità è certo enfatizzata dalla prospettiva odierna da cui la si guarda, che induce a cogliere come coeve manifestazioni linguistiche distribuite in ravvicinata diacronia o conviventi in varietà diatopicamente diverse, anche se contigue. Per es., dalla fine del XIII secolo in poi la prima persona del congiuntivo imperfetto tende a uscire in -i (credessi), ma a lungo restano tracce della precedente uscita etimologica in -e (che io andasse), mentre -i non si è affermato alla terza persona, dove pure si è introdotto e poi rimasto come tratto diastraticamente connotato in basso (se uno facessi, sedessi, ecc.) (Castellani 1952: 156-159). Naturalmente, quello che qui (e in seguito) si dice per la morfologia verbale può essere detto di molti altri fenomeni anche fonetici, come l’alternanza tra forme con dittongo e forme non dittongate (luogo, foco) o tra forme in velare e forme con n palatale (del tipo vengo / vegno), che convivono in Toscana dal Duecento. Insomma: concorrenza di forme, tipico segnale di instabilità (e di crescita) di una lingua e di latitanza della norma; pluralità di esiti, esaltata dal fatto che oggi non si colgono le ragioni diacroniche e diastratiche (e diatopiche) di una così singolare convivenza di forme concorrenti.
Le scritture pratiche o comunque senza ambizione stilistica sono fondamentali per documentare lo stato della lingua. Ma per la sua storia è essenziale il momento dei suoi primi impieghi con consapevolezza letteraria di una certa maturità, che comportano, da un lato, un complesso processo di selezione fonomorfologica, dall’altro, una crescita lessicale e sintattica considerevole (➔ Duecento e Trecento, lingua del). Il celebre Cantico di Frate Sole attribuito a san ➔ Francesco d’Assisi presenta tratti umbri prevedibili, ma con riduzioni toscane (oscillazione tra altissimu e altissimo), calchi latini e francesismi (come mentovare «menzionare»).
Proprio i gallicismi (dal francese antico e dal provenzale) sono gli elementi che entrano in massa nella prima produzione poetica laica in un volgare d’Italia, quella della cosiddetta ➔ Scuola poetica siciliana. I poeti siciliani scrissero in un siciliano ‘illustre’, cioè in una lingua grammaticalmente siciliana, ma con aggiustamenti e prelievi dal latino e molti prestiti dal provenzale, lingua della prima poesia volgare europea. I loro testi ci sono quasi tutti giunti in redazioni toscanizzate da copisti toscani (così li conobbe già Dante), ma i pochi brani residui delle primitive redazioni consentono di cogliere bene la grammatica siciliana originaria, impreziosita da forti quantitativi di provenzalismi. Una canzone di Stefano Protonotaro, pervenuta in redazione attendibilmente non lontana dalla veste originale, comincia così (testo in Di Girolamo 2008):
Pir meu cori allegrari,
ki multu longiamenti
senza alligranza e ioi d’amuri è statu,
mi riturno in cantari,
ca forsi levimenti
la dimuranza turniria in usatu
di lu troppu taciri
È immediatamente percepibile la fonetica siciliana, ma lo sono anche i provenzalismi, come ioi d’amuri o la palatale invece della velare in longiamenti, o i suffissati in -anza (ma anche in -enza), che da allora e per parecchi decenni, fino a Dante, avrebbero imperversato nella poesia italiana duecentesca (Schiaffini 1957).
Quando risale la Penisola, verso un Centro-Nord da cui oggi ci giungono tracce assai antiche di poesia locale con linguaggio ibrido (Stussi 1999), questa poesia accresce la propensione all’assorbimento lessicale dal francese e dal provenzale, nonché dal latino. Ci sono forme, di discendenza provenzale, come gli astratti in -ore (in parte anche in -ura), che si moltiplicano nella lingua (Chiaro Davanzati: losura, portatura, fortura), a far massa con altri suffissati, anch’essi spesso di derivazione d’oltralpe, con effetti di vistosità fonica e di ibridismo linguistico considerevoli (ancora Davanzati: segnoraggio, dannaggio, visaggio, leanza, soverchianza, umilianza; cfr. Corti 2005). A volte addirittura sono, con preciso calco del provenzale, usati come sostantivi femminili (Guittone: la freddore, nova valore), ma soprattutto sono tanti e ripetuti, anche se molti di loro poi sono scomparsi, filtrati dal vaglio severo della successiva poesia stilnovistica.
L’impegno laboratoriale sulle nuove lingue scatenò lo sfruttamento non solo dei prestiti accessibili da lingue vicine o dal latino, ma anche delle possibilità derivative più correnti, con una produzione di sostantivi astratti (molto richiesti dall’ideologia medievale) variamente suffissati (o transcategorizzati da verbi corrispondenti), solo in minima parte sopravvissuti alla selezione trecentesca. Questa è una serie di sostantivi da participi passati, di cui alcuni come partito o partita, ornato o perdita ancora in uso (ancorché con significati in parte mutati), e i più scomparsi (come questi in Davanzati: dimorata «lontananza», redita «ritorno», tardato «ritardo», donato «dono», ecc.); alcuni sono sopravvissuti solo in sottocodici o locuzioni speciali, come dipartita (negli annunci funebri), o in giudicato (in diritto). Stessa cosa si può dire dei sostantivi deverbali agentivi in -tore: avanzatore, serbatore, comandatore, fallatore, ecc. La lingua dei poeti è ricca di materiali lessicali oggi scomparsi, ma prodotti con procedure formative ancora adesso funzionanti, come gli aggettivi in -oso (abondosa, vertudiosa) o i sostantivi in -mento (dimoramento, servimento).
Questa sovrabbondanza derivativa era caratteristica anche di certa poesia religiosa, come quella di Jacopone da Todi, solo apparentemente più popolare. Jacopone usa provenzalismi in -ore come amarore, grossore, ecc., e astratti da participio passato come adoperato «comportamento», abracciata «abbraccio», delettato «piacere», fallita «colpa», ecc. Jacopone adopera anche latinismi, come cogitato «pensiero» e decetto «delusione», e idiomatismi umbri, come enquina «diabolica», esciucco «asciutto». L’insieme compone un quadro molto mosso, con una spiccata polimorfia (si veda la serie fallura / fallemento / fallenza o vilezza / vilanza / vilitate), che è una caratteristica della lingua antica, molto e a lungo sfruttata dalla ➔ lingua poetica.
L’esuberanza derivativa e l’ospitalità a proventi da lingue diverse sono quasi costitutive della lingua poetica e in generale di quella letteraria antica. Ma il contatto di un volgare con altri volgari non riguarda solo il lessico. Per es., certa morfologia siciliana è penetrata e rimasta nella morfosintassi poetica italiana anche una volta arrivata in Toscana e poi nel resto d’Italia. È quello che è successo con l’imperfetto (dei verbi in -ere) e il condizionale (di tutte le classi) in -ia, sicilianismi morfologici di grande fortuna anche in Toscana, dove pure devono subire la concorrenza delle forme indigene in -e(v)a e in -ei e restano per secoli come marchi poetici (Serianni 2009).
La lingua della poesia, specie quella d’amore, è un mosaico di lingue sorelle, farcita di prestiti e lavorazioni colte e alla moda. Anche in testi più prossimi alla realtà linguistica di partenza, lo sfruttamento delle possibilità aperte in uno stato della lingua che non ha ancora subito la selezione di una norma è diffuso, specie in forma di recupero di ➔ latinismi e ➔ prestiti dal francese e dal provenzale.
La varietà di lingue è più ricca in poesia che in prosa, a parte i casi di prose molto sostenute retoricamente, come le Lettere di Guittone d’Arezzo, o di prose per la loro storia a contatto con altre lingue, come lo sono col francese le prose dei romanzi arturiani, che ospitano numerosi e poi dispersi gallicismi, come aunire «disonorare», difalta «colpa», diservire «meritare», vengianza «vendetta», ecc. (Casapullo 1999). In testi di tipo tecnico-scientifico o enciclopedico la lingua locale è più evidente, ma è comunque impegnata al confronto col latino scientifico. Ristoro d’Arezzo, nella sua enciclopedia scientifica volgare, immette parole come gibosità, siccità, equatore, latitudine, cartillagine, orizzonte, ecc., che si allontano inevitabilmente dall’aretino di base.
Tuttavia anche in prosa le lingue volgari mostrano la primitiva abbondante polimorfia interna, con soluzioni concorrenti per la stessa forma. Per es., nel Novellino, racconti toscani del Duecento, si trovano fossero e fossoro, andò e andoe, il o el come articolo, ecc. (cfr. Dardano 1992).
Ma per la prosa il problema, più che lessicale, è sintattico e rivela la difficoltà di gestione della frase nella lingua delle origini, dove dilatati rapporti di coordinazione denunciano la problematicità della successione logica («Uno della marca andoe a studiare a Bologna. Vennerli meno le spese. Piangea. Un altro il vide, e seppe perché piangea; disseli così»: Novellino LVI), mentre quelli di subordinazione praticano incerte soluzioni intermedie, come nei costrutti paraipotattici (Dardano 1969): «Madonna Agnesina di Bologna, istando un giorno in una corte da sollazzo, ed era donna de l’altre» (Novellino VII). Indizio di questa ambiguità sintattica è anche l’oscillazione nome / verbo, con forme come certe perifrasi di essere col participio presente (esser soffrente, como sì stata osante, così fu l’uom perdente; cfr. Corti 2005) e i caratteristici usi del gerundio in luogo dell’infinito preposizionale (Dante, Vita nova: «quelle parole che tu hai detto in notificando la tua condizione») o del gerundio assoluto, sul modello latino dell’ablativo assoluto (Tristano: «E dimorando la notte lo re Marco in sul pino, e messere Tristano venne alla fontana»).
Le scritture antiche documentano bene anche un altro punto spesso poi variato nella sintassi dell’italiano: la ➔ reggenza dei verbi (Brambilla Ageno 1964); domandare può essere costruito con l’oggetto diretto della persona (Novellino LXXVII: «e domandassela che ella li contasse»), innamorarsi o dilettarsi possono presentarsi in forma non pronominale (ibid.: «e innamoròvi d’una Sarda»; Guittone, Lettere: «frate, non delettate el mondo»), offendere avere il complemento indiretto («e più Tholomeo à offeso a me ke non fea Pompeio», Conti di antichi cavalieri). Tratto tipico della sintassi antica è poi la tendenza a realizzare in forma enclitica il verbo pronominale in inizio assoluto di frase o in quello della reggente (anche coordinata asindeticamente, oppure con e o ma), rifiutando l’attacco di frase con forme atone (la cosiddetta ➔ legge Tobler-Mussafia).
Dalla fine del Duecento e per i primi decenni del XIV secolo la vivacità politico-economica di Firenze e delle altre città toscane e il successo letterario degli scrittori di quella regione fanno sì che uno dei volgari, il toscano di Firenze, cominci a primeggiare per poi affermarsi anche fuori dai confini nativi, segnalandosi quale campione delle lingue materne, vuoi per gli impieghi letterari, vuoi per quelli pratici. Parallelamente, si effettua una prima, ampia selezione di materiali, che riduce parecchio la polimorfia delle origini, almeno nel settore dei doppioni lessicali e comincia a variare, anche se non sistematicamente, alcune tipologie di costrutti sintattici, come la sequenza accusativo + dativo del doppio pronome personale o l’enclisi pronominale obbligatoria appena accennata.
La prima grande opera di normazione del volgare toscano è svolta da ➔ Dante, che la teorizza ai primi del Trecento nel suo De vulgari eloquentia (➔ storia della linguistica italiana). Dante parte dalla ricognizione della varietà di lingue dell’Italia medievale per celebrare nel lavoro di scarto, fissazione e arricchimento della lingua da parte dei poeti lo stru-
mento migliore per passare da un volgare rustico a uno illustre, alla «decentiorem atque illustrem Ytalie loquelam». Il trattato di Dante coglie il nesso tra lingua di cultura e ruolo delle istituzioni pubbliche, intravvedendo, con lucida preveggenza, nella lingua della letteratura un veicolo di unità tanto più prezioso quanto meno operanti sono, nella Penisola, i vettori sociopolitici unificanti.
Il lavoro di selezione sulla lingua è stato avviato da Dante stesso e dai poeti dello Stilnovo, che cominciarono a scartare alcuni eccessi della poesia precedente, per es. nel dominio dei derivati dal francese e dal provenzale. Nella Commedia ricorrono varie forme in -anza, -enza, ma non così numerose come nella poesia toscana precedente e sfruttate in rima solo una decina di volte (la disponibilità alla rima rendeva graditi questi sostantivi: fallanza : sembianza : possanza; onranza : nominanza; credenza : temenza : coscienza; parvenza : intenza). È significativo che nel poema per 2 dilettanza ci siano 15 diletto, per 3 disianza 50 disio, per un fallanza 9 fallo. Anche i sostantivi da participio passato, maschili e femminili, rimasti in Dante dopo l’abbondante afflusso duecentesco, sono pochi e quasi tutti ancora vivi oggi. D’altra parte, Dante sembra preferire i deverbali a suffisso zero (➔ deverbali, nomi; ➔ deaggettivali, nomi), anche nell’opzione tra questi e gli astratti suffissati in -zione: 8 affezione contro 23 affetto, un solo dubitazione contro 9 dubbio, e sono pochi gli allotropi come salvazione / salvamento.
Molto selezionati anche i sostantivi in -ore di derivazione provenzale, come i residui dolzore e riccore delle Rime e lucore della Commedia, e quelli che restano (ma spesso sono latinismi, come fulgore, candore, valore, splendore, e non provenzalismi) sono ancor oggi normalissimi. Lo stesso si dica degli agentivi in -tore, -sore, un po’ più abbondanti nel Convivio, ma molto ridotti nel poema, e quelli rimasti quasi tutti in uso ancora oggi (➔ agente, nomi di). Non sempre però Dante pota; a volte mantiene e sfrutta, come accade in vari casi di polimorfia: basti pensare ai sostantivi dal latino -tatem, -tutem che possono esitare, in fiorentino, il tronco -tà, -tù (in prosa o fuori rima) o l’allotropo -tade, -tude e, in letteratura, il latineggiante -tate, -tute (specie in versi e in rima), come vertù / virtute / vertude, età / etade / etate, ecc.: una molteplicità di esiti particolarmente utile in poesia. Nella Commedia virtù conta 63 e virtute/-tude 27, pietà 13 e pietate/-tade 6, ecc.
Meno selettivo è Dante nel dominio della morfologia verbale e della morfosintassi. Per es., nel poema, le seconde persone singolare del presente indicativo escono in -i, ma, specie in rima, anche in -e, esito tipico della generazione di Dante e attestato nella Commedia una quarantina di volte, con oscillazioni del tipo pense / pensi, guarde / guardi; alla prima persona plurale i verbi in -e- alternano forme in -emo, abituali nel fiorentino del Duecento, a forme analogiche in -iamo (semo / siamo, avemo, volgiam, poniam) di più recente impiego. Le terze persone singolari del passato remoto con epitesi vocalica popolaresca (numerose nel Novellino duecentesco) alternano con quelle ossitone (aprio / aprì, udie / udì) e la terza persona plurale dei verbi in -a- per un quarto accoglie il tipo -aron(o) e per il resto -aro, più antico, mentre, nei verbi in -e-, prevalgono gli esiti in -ero (credettero, volsero, caddero). Il condizionale prevalente è quello toscano in -ei, che ha la meglio su quello in -ia, pur resistentissimo. Nella Commedia si trovano dovrebbe e dovria, sarebbe e saria, avrebbe e avria, con oscillazioni che la lingua poetica italiana avrebbe sfruttato per secoli.
In Dante l’oscillazione fonomorfologica è dovuta alla compresenza di livelli generazionali diversi e di spinte diatopiche concorrenti dentro lo stesso volgare fiorentino, ma anche all’uso espressivo dei diversi livelli sociolinguistici della sua lingua (➔ monolinguismo): alcuni versi famosi traggono il materiale da livelli diastratici bassi e in altri casi sono forme vernacole locali a situare un personaggio nella sua geografia linguistica originaria.
Il poema resta dentro una grammatica fiorentina ripulita dagli eccessi neologici della poesia precedente ed espone un alto numero di parole in precedenza non ancora emerse alla scrittura. Alcune, peraltro, sono invenzioni d’autore, come i celebri verbi paransintetici che poi avranno significativa fortuna letteraria (i famosi intuarsi, immiarsi, indiarsi, ingigliarsi; ➔ hapax), o gli adattamenti originali dei latinismi (rui di Inf. XX, 33, liqua di Par. XV, 1).
Ancora più decisive di quelle dantesche sono le selezioni di ➔ Francesco Petrarca nel Canzoniere. I Rerum vulgarium fragmenta constano di 3275 parole per un totale di 57.625 occorrenze (in varia forma), laddove Davanzati ne contava 5016 per un insieme di circa 35.500 e le Rime di Dante 3550 per un totale di circa 18.200.
Vitale (1996) ha registrato la definitiva potatura degli astratti provenzaleggianti in -anza, -enza, ridotti ai pochi testimoni di uso poi fortunato (baldanza, rimembranza, sembianza, col solo temenza a essere oggi fuori ruolo), in generale dei gallicismi, di cui restano quelli ormai pienamente acclimatati (dolzore, noioso, speglio, sovenire), dei suffissati in -mento e in -ezza, anch’essi già ampiamente ridimensionati dallo Stilnovo, sicché, anche quando abbonda in vecchi suffissati, come gli aggettivi in -oso, le scelte di Petrarca cadono sempre su dati poi consolidatisi (tolti forse aventuroso, doglioso, dilectoso). Petrarca tende anche a chiudere il dittongo dopo consonante + r (prova, trova, preghi), anticipando un comportamento che sarebbe diventato norma assai dopo. Dove lascia aperte certe oscillazioni (etate / età, vertute / vertù), queste restano per secoli in poesia.
Petrarca va ben oltre Dante, riducendo anche le oscillazioni fonomorfologiche, per quanto, come si è visto, alcune restino, anche se in rapporti numerici spesso nettamente sbilanciati a favore degli esiti poi grammaticalizzati dalla lingua: per es., mio è usato 385 volte e meo 5, pietà 48 e pietate 22 (Manni 2003). Le scelte di Petrarca sarebbero diventate legge; e anche le sue non scelte.
Le oscillazioni nel fiorentino del Decameron di ➔ Giovanni Boccaccio sono state ben documentate da Stussi (1995), che segnala la compresenza di tratti arcaici con «i segni di un incipiente sviluppo» legato alla dimensione sempre più regionale del volgare fiorentino.
Pertanto si ha ancora quasi sempre pruova (e i dittonghi dopo consonante + r), ma una volta prova, nego ma anche niega (al contrario di Petrarca), sofferire (più antico) e soffrir (più recente), seguìo (più antico) ma per lo più seguì, con casi ravvicinati di polimorfia come nel gerundio di vedere: «andando da torno veggendo e molti mercatanti [...] vedendovi» (Dec. II, 9, 47) o nella terza persona plurale del congiuntivo imperfetto: «Quanto questi gentili uomini m’onorassono e lietamente mi ricevessero» (II, 7, 113); o della stessa persona del passato remoto: andaro / andarono, dissero (prevalente) / dissono, risposero / risposono e del condizionale avrebbero / avrebbono, potrebbero / potrebbono, anche se tendono a prevalere i tipi poi assunti a norma.
Anche un fenomeno sintattico tipico della lingua antica, l’enclisi del pronome nel verbo ai sensi della suaccennata legge Tobler-Mussafia, sembra meno sistematico, ancorché ben attestato: «E quantunque queste ciance non ti stean bene, dicolti io di lei» (Dec. III, 3, 19), specie quando la reggente segue la dipendente: «Gabriotto udendo questo, se ne rise» (Dec. IV, 6, 13). Si equivalgono i casi con doppio pronome nell’ordine antico, accusativo + dativo (la mi, dalmi), e casi, come nell’italiano moderno, in ordine inverso (me lo, datemelo).
La sintassi è il luogo di maggior stacco della lingua antica e soprattutto di quella molto elaborata del Decameron dall’italiano contemporaneo. Per es., ci sono costrutti col dativo con verbi causativi («la feci a [= da] un mio famigliare uccidere»: Dec. II, 9, 62) e persino col doppio dativo disambiguati dalla lingua moderna con da («io feci fare alla [= dalla] mia donna a colei che l’aspettava questa risposta»: Dec. III, 6, 19). C’è nel Decameron anche un uso quasi pleonastico dei verbi modali (➔ modali, verbi), specie dovere («gli entrò nel capo non dover potere essere che essi dovessero così lietamente vivere»: Dec. VIII, 9, 8). Notevole è anche una più libera coordinazione tra elementi sintatticamente e semanticamente non omogenei o con replica della preposizione in dittologie: «con bella e con gran gente» (Dec. II, 7, 63); o con abbinamento di un costrutto con verbo di modo infinito e uno di modo finito («avendo disposto di fare una notabile e maravigliosa festa in Verona, e a quella molta gente e di varie parti fosse venuta [...] subito [...] da ciò si ritrasse»: Dec. I, 7, 6). Resiste l’antica ➔ paraipotassi: «se voi non gli avete, e voi andate per essi» (Dec. VIII, 2, 30). La forma pronominale del verbo (➔ pronominali, verbi) è spesso preferita in vari tipi di subordinate, specie interrogative indirette («quello che il mio corpo si divenisse io non so»: Dec. IV, 2, 35; «elle non sanno [...] quello che elle si vogliono»: Dec. III, 1, 11).
La sintassi del Decameron non presenta solo tratti antichi, desueti, come la paraipotassi o il gerundio preposizionale, ma anche forme oggi vivissime nel parlato (D’Achille 1990) come la dislocazione («Quel cuore, il quale la lieta fortuna di Girolamo non aveva potuto aprire, la misera l’aperse»: Dec. IV, 8, 32; ➔ dislocazioni) o l’➔anacoluto («Il Saladino [...] gli venne a memoria un ricco giudeo»: Dec. I, 3, 6).
Ma più che per le libertà sintattiche dell’autore e della sua lingua, che presenta spesso successioni più di senso che di logica e procedure coesive non sempre perspicue (Dardano 1992), Boccaccio dettò legge all’italiano letterario per il suo frequente ricorso a un ordo artificialis di discendenza latina, che imbottisce il periodo di subordinate e sposta il verbo principale in fondo (➔ ordine degli elementi). Come rilevato da Manni (2003), sono molti i procedimenti di inversione (participio-ausiliare, verbo modale-verbo principale: «fatto aveva guardare se partito fosse»: Dec. I, 7, 22; «se io far lo potessi»: Dec. I, 9, 6), le coppie di aggettivi distanziati tra loro («un valente uomo di corte e costumato»: I, 87), i costrutti latineggianti (per es., le oggettive sullo schema latino di accusativo e infinito), i gerundi assoluti («avvenne che egli si trovò un giorno, desinando messer Cane, davanti da lui»: Dec. I, 7, 10), i participi presenti di valore gerundiale («il quale, sì come savio, mai, vivente il re, non la scoperse»: Dec. III, 2, 32), l’ampia tmesi, cioè l’intromissione di numerosi elementi tra i membri di un sintagma o addirittura di una stessa forma («avendo l’abate per fama molto tempo davante per valente uom conosciuto»: Dec. I, 7, 25).
Nel lessico, le novelle di Boccaccio non hanno le ambizioni selettive del Canzoniere, sono più ospitali e mosse e coprono, anche per ragioni di mimetismo linguistico, le aree di più diversa provenienza. Il vocabolario del Decameron giunge ad attestare vari livelli sociolinguistici e persino ambiti dialettali diversi, abilitando alla scrittura forme popolaresche, non solo fonomorfologiche, ma anche lessicali, termini di cose, oggetti, aspetti della vita quotidiana (nelle novelle di Calandrino o della Belcolore: ribeba «strumento musicale a corde», codolo «ciottolo», ceteratoio, gnaffé), senza che manchino quelle colte, della tradizione letteraria precedente, come i sostantivi poetici gallicizzanti in -anza o -aggio, come perdonanza o maritaggio, o i latinismi vistosi, come pecunia, olire, capere (Maraschio 1992).
In poco più di un secolo, durante il quale diversi volgari italiani superarono la soglia della comunicazione scritta e colta, letteraria e pratica, uno di essi, il fiorentino, sperimentò, in rapida successione, la crescita esuberante del lessico e la caotica polimorfia, e mise in moto un meccanismo di selezione che ricondusse a misure maneggiabili la polluzione lessicale e attenuò (anche se meno) la variabilità fonomorfologica della prima lingua.
Dante, Petrarca e Boccaccio, le cosiddette Tre Corone, contennero e regolarizzarono un lessico letterario che tendeva alla moltiplicazione e all’importazione incontrollata e legittimarono parole nuove, anche di estrazione popolare, restando fedeli alla grammatica nativa. Grazie a loro, alla loro rapida fortuna e alla potenza economica e politica di Firenze, il fiorentino divenne un modello di riferimento per il resto dell’Italia che scrisse (lo riconobbe già ai primi del Trecento il padovano Antonio da Tempo). Insomma, cominciò a produrre una sua norma e a diventare norma.
Le Tre Corone sono determinanti per la storia dell’italiano e per questo hanno richiesto tanto spazio. È soprattutto a loro che si debbono, perlomeno in poesia, la rapida diffusione e l’immediato prestigio del fiorentino, osservabile già nelle scritture letterarie non toscane del Trecento.
La desinenza -iamo della prima persona plurale del presente indicativo, tipicamente fiorentina, comincia ad apparire in testi non toscani, dall’Umbria al Veneto a Napoli; lo stesso si dica dell’➔anafonesi (chiusura di é e di ó, rispettivamente da i e u latine, in parole come famiglia, lingua, fungo, punto), altro tratto molto esclusivo del fiorentino e da allora via via sempre più italiano (Manni 2003). Il toscano comincia a fornire un modello linguistico, almeno in poesia, transregionale, anche se sarebbe passato ancora del tempo prima che lo potesse diventare in maniera sistematica e ovunque. Dove non arriva il toscano è spesso il latino, che resta ovviamente una riserva sempre disponibile, a fornire materiali accettabili in qualsivoglia dominio linguistico italiano che ambisca a una comunicazione meno vernacolare.
All’inizio del Trecento, Dante aveva intuito, con la sua ben nota lucidità, le grandi possibilità delle lingue naturali, proclamando il volgare, proprio per la sua naturalezza, persino più nobile del latino (➔ Duecento e Trecento, lingua del). Nel corso del secolo il volgare guadagna spazi sempre nuovi, dalla storiografia (Compagni, Villani, l’Anonimo Romano), alla narrativa (non solo in Toscana, ma anche a Roma e a Napoli), alla prosa scientifica (volgarizzamenti; ➔ volgarizzamenti, lingua dei, di trattati di religione, medicina, geometria, ecc.; non solo in Toscana ma in tutta l’Italia del Nord), per non dire dell’autorevolezza che acquista anche in ambito clericale, con l’impegno dei predicatori a comporre sermoni nei diversi volgari (celebri quelli toscani di Giordano da Pisa ai primissimi del secolo; ➔ predicazione e lingua).
Una cinquantina d’anni dopo Dante, Boccaccio afferma (Trattatello in laude di Dante) ancora l’eccellenza e il valore sociale dell’impiego del volgare in scritture colte e celebra col poeta della Commedia la lingua fiorentina e la sua regolamentazione: «per costui la chiarezza del fiorentino idioma è dimostrata; per costui ogni bellezza di volgar parlare sotto debiti numeri è regolata».
Ma nubi si affacciano all’orizzonte della nuova lingua. Il latino, che pareva avviato alla sconfitta, rialza il capo e recupera terreno. Già Petrarca, pur grande poeta volgare, si reputava e si augurava di essere uno scrittore soprattutto in latino, lingua che aveva cominciato a ripulire dalla vernice medievale e a recuperare nella sua originaria veste classica, e che usava per le sue opere più ponderose e a suo giudizio importanti. Boccaccio stesso dedicava la seconda parte della sua vita, dopo il Decameron, soprattutto a opere erudite in latino. Il latino tornava alla ribalta della cultura, da cui, per altro, non era mai uscito.
L’effervescenza socioeconomica e politica che aveva fatto decollare i volgari in Italia e in particolare in Toscana si attenua nel corso del XIV secolo, si riduce la vitalità dei comuni e di quelle corti che avevano con tanta convinzione sostenuto e praticato il volgare come lingua anche per usi colti. Di questo mutamento approfitta il latino per tornare al centro della vita intellettuale; la lingua classica, ora meglio conosciuta e padroneggiata, è sempre pronta a rioccupare i territori ceduti al volgare.
Gli intellettuali riprendono a puntare sul latino, col risultato che l’uso del volgare tra secondo Trecento e primi Quattrocento è o affrontato con riluttanza o lasciato a scrittori meno ambiziosi e moderni. Se ne vedono bene le conseguenze a Firenze, dove il fiorentino argenteo, con tratti che lo differenziano già nettamente da quello delle Tre Corone, circola in testi soprattutto narrativi minori ed espone una grammatica che ancor oggi sembra più regionale e meno nazionale di quella rappresentata dal fiorentino dei grandi del Trecento.
Come è stato osservato da Manni (2003), le novità, sia le intrinseche che le indotte dagli accresciuti contatti con i volgari di campagna e di altre città toscane, differenziando il fiorentino post- trecentesco da quello delle Tre Corone, distinguono quello che poi sarebbe stato, in buona sostanza, l’italiano da quello che sarebbero restati il fiorentino o il toscano, in un processo di divaricazione tra lingua viva, parlata e locale, e lingua scritta, normalizzata e nazionale, caratteristico del seguito della storia dell’italiano fino all’Unità.
Sulla base di Manni (1979 e 2003) si indicano alcuni tratti che cominciano ad affacciarsi nel fiorentino dei testi letterari tra Trecento e Quattrocento e che si trovano in scrittori toscani almeno fino al Cinquecento e spesso anche molto oltre, ma che non sono mai stati pacificamente accolti nella norma dell’italiano: uscita in -ono delle terze persone plurali del presente indicativo dei verbi di prima classe (lavono); uscita in -i della prima e terza persona singolare e in -ino della terza persona plurale del congiuntivo presente dei verbi di seconda, terza e quarta classe (che io, egli abbi, che essi abbino); terza persona singolare e plurale dell’imperfetto congiuntivo in -i e -ino (che egli avessi, che essi avessino); terza persona plurale del passato remoto dei verbi di prima in -oro e -orono (lavoro, lavorono), e, per i verbi di terza con passato remoto forte, in -eno (disseno); seconde persone plurali di passato remoto, imperfetto congiuntivo e condizionale analogiche sulla seconda singolare (voi lavasti, che voi lavassi, voi laveresti); articolo determinativo el, e, unica regola davvero accolta dalla norma, ma molto tardi (nell’Ottocento), la prima persona singolare dell’imperfetto indicativo in -o invece che in -a.
I toscani, per più ragioni, sono i più tenaci nel difendere dignità e spazi del volgare e uno di loro, ➔ Leon Battista Alberti, propugna a metà Quattrocento il significato socioculturale dell’uso delle lingue materne, fissando un nesso tra lingua e nazione destinato a diventare via via più forte in tutta Italia. Nel Proemio ai Libri della famiglia Alberti difende l’uso del volgare, la cui prosperità dipenderebbe da quanto e come lo adoperano i migliori scrittori e giunge a stendere la prima grammatica del toscano, primizia metalinguistica non solo italiana ma anche europea. Nella sua Grammatichetta (Alberti 1996) prevede, in linea col fiorentino del suo tempo, lui pronome soggetto, el articolo determinativo, coniuga voi sete, che voi havessi, che tu habbi, che essi habbino, io amavo, proponendo soluzioni solo in parte e comunque molto tardi accolte dalla norma nazionale.
Intanto, nonostante il prestigio culturale del latino, il volgare anche fuori della Toscana trova impiego in usi ufficiali come quello delle cancellerie (➔ cancellerie, lingua delle) e cerca nel riferimento al toscano un modello per superare una dimensione troppo locale.
Tuttavia, la crisi di quella specie di classe media che aveva favorito l’affermazione culturale dei volgari e la scomparsa di vecchie istituzioni cittadine come i comuni fanno sì che il volgare segni il passo ovunque. A Firenze, ovviamente, meno che altrove. Grazie a una precoce consapevolezza del nesso tra successo politico e splendore linguistico, l’attenzione al volgare a Firenze non viene mai davvero meno e presto la lingua materna si presenta come strumento di identità e rivendicazione politica del nuovo stato mediceo. Altrove il processo è più lento, ma si mette in moto quasi ovunque con gli stessi meccanismi: forte posizionamento grammaticale della lingua locale sul fiorentino trecentesco di Dante, Petrarca e Boccaccio, soccorso del latino, conservazione di non molti tratti fonomorfologici del volgare nativo. Ne nasce un italiano a forte base comune, ma variamente mescidato, persino in sede poetica, dove l’azione regolarizzatrice e omogeneizzante di Petrarca è comunque fortissima. Via via si sviluppano quelle che sono state dette le lingue di ➔ koinè, cioè gli italiani di macroregioni culturali che fanno riferimento a importanti sedi istituzionali e politiche (Milano, Ferrara, Napoli).
Nel secondo Quattrocento il ritorno dell’alta cultura al volgare (➔ Umanesimo e Rinascimento, lingua dell’) avviene sotto la spinta delle nuove o riaffermate istituzioni signorili locali (Visconti, Sforza, Medici, Estensi, Aragonesi, ecc.), che cercano legittimazione e consenso nel mondo popolare più che in quello altoborghese o seminobiliare, affezionato al latino. Il volgare diventa la lingua che unisce il signore al popolo e i dotti debbono riprendere a impegnarvisi. A Milano, Ludovico Maria Sforza fa tradurre dal latino il racconto delle gesta di Francesco Sforza da Cristoforo Landino, che scrive: «fu prudentissimo [...] consiglio [...] che le medesime cose fussino celebrate nella fiorentina lingua, la quale è comune [...] a tutte le genti italiche» (Vitale 1988). Ad ogni modo, sia pure per impulso politico più che per trazione culturale, il volgare torna alla letteratura di primo piano, che, non a caso, si realizza non solo nei modi canonici della lirica (petrarchesca), ma anche in quelli più nazional-popolari dei poemi cavallereschi e addirittura in quelli popolareschi del teatro rusticale e del poema contadino.
La sponsorizzazione politica del ritorno al volgare spiega anche le ragioni dell’ultima (per secoli) significativa ➔ variazione diatopica dentro l’italiano colto e scritto. I tratti locali, spesso della lingua stessa della corte, non possono né vogliono essere del tutto cancellati, specie quando coincidono, più del fiorentino, col latino (il caso delle forme monottongate di core o foco, per es., rispetto a quelle con dittongo) o più del fiorentino coevo con quello poetico di un secolo prima.
Ne nasce perciò una lingua complessivamente unitaria ma diversificata, con lo stesso toscano teso ad autenticare letterariamente quelle forme della sua età argentea, diverse da quelle del periodo aureo delle Tre Corone. Succede così che persino il levigatissimo volgare dell’iperdotto ➔ Poliziano, nelle Stanze per la Giostra, non nasconda tratti del fiorentino quattrocentesco differenti da quelli due-trecenteschi e pertanto infine scartati dall’italiano: per es., come ha mostrato Tavoni (1992), l’articolo è ora il ora el, la terza persona singolare del congiuntivo imperfetto è in -i (che egli lasciassi). Questi tratti, insieme con un lessico più popolaresco ed espressivo, possono essere ritrovati nel Morgante di Luigi Pulci (dove si trova -ano o -an per -iamo alla prima persona plurale del presente indicativo o che voi campassi per voi campaste) o nella rusticale Nencia da Barberino di Lorenzo il Magnifico (dove l’antica velare di origine popolare prende estensivamente il posto della palatale comunque prodottasi, come in migghiaio «migliaio» e begghi «begli»).
Fuori della Toscana la mescidanza non è solo o tanto tra fiorentino d’annata e quello attuale, quanto tra fiorentino letterario, latino e volgare locale, in quei prodotti misti e variegati che sono stati chiamati lingue di ➔ koinè. Per es., come ha mostrato Mengaldo (1963), il ferrarese ➔ Matteo Maria Boiardo, nelle sue poesie, alterna fedeltà al toscano del Trecento e fedeltà al volgare locale, a volte coincidenti. Dunque, -iamo della prima persona plurale del presente indicativo prevale sulle concorrenti non toscane, mentre alla terza persona plurale la maggioranza regolare in -ono dei verbi di seconda ammette qualche deroga a un più vernacolare -eno. Peraltro, non c’è quasi traccia della sonorizzazione settentrionale delle sorde intervocaliche; i tratti più vistosamente vernacolari sono ridotti o del tutto eliminati.
Allo stesso modo i poeti napoletani colti occultano il dittongamento metafonetico meridionale, molto visibile invece in autori più popolareggianti (Corti 1956) ed esibiscono quello toscano anche oltre i suoi limiti (per es., sono ancora numerosi i dittonghi dopo consonante + r). Ma a Napoli la seconda generazione di poeti, quella di Cariteo e soprattutto di Sannazaro, riduce ulteriormente i segni regionali e si attesta sul toscano trecentesco, che sta per diventare la norma nazionale.
L’attrazione del fiorentino letterario di Petrarca (soprattutto) è più forte nella poesia lirica e meno nella poesia narrativa e in prosa. La lirica è all’avanguardia nel processo di normalizzazione del toscano letterario. La poesia narrativa, dei cantari e dei poemi, invece, è più legata alle culture locali e quindi si attarda di più a conservarne, sia pure in piccola parte, i tratti. Per es., l’Orlando innamorato di Boiardo presenta una veste linguistica assai più regionale degli Amorum libri dello stesso autore: presenza di forme non anafonetiche come ponto, lengue, monottongo su dittongo toscano, -ar- atono su -er (maraviglia, andarò), sibilante per affricata palatale (faza), prima persona singolare del passato remoto in -e (io disse); ma significativamente molti di questi e altri simili fenomeni di koinè sono già ridotti in un ramo della tradizione (tormentata) del testo dello stesso poema.
L’ultimo tentativo di affermarsi delle lingue di koinè si ha nel Cinquecento con la proposta di un italiano capace di accettare le variabili regionali: si tratta della teoria cortigiana della ➔ questione della lingua (➔ cortigiana, lingua) e della proposta cosiddetta italiana di una grammatica.
Soprattutto nell’Italia settentrionale (Grignani 1990), dal Piemonte (Cornagliotti 1990) alla Lombardia (Sanga 1990b), si afferma una dimensione linguistica in cui i tratti fonomorfologici (e anche lessicali) locali hanno un loro spazio, con esiti di considerevole polimorfia interna a ognuna e trasversale tra le diverse lingue di koinè. Queste lingue, sostenute dalle buone prove letterarie della lirica cortigiana e della poesia narrativa quattro-cinquecentesca, arrivano a produrre ipotesi grammaticali di una certa importanza e a trovare giustificazioni teoriche di grande autorevolezza nella questione della lingua, come quelle esposte nel Cortegiano da ➔ Baldassarre Castiglione.
Il vicentino ➔ Gian Giorgio Trissino nella sua grammatica (Trissino 1986) autorizza variabili padane accanto alla norma toscana trecentesca. Per es., nella morfologia verbale, resistono le desinenze etimologiche della prima persona plurale del presente indicativo (noi leggemo, noi sentimo), le uscite in -eno (leggeno, senteno) invece delle toscane in -ono alla terza persona plurale, le desinenze in -e della prima e terza persona singolare dei verbi di prima classe al congiuntivo presente (che io, che egli honore), la prima e la terza persona plurale del congiuntivo imperfetto in -essemo e -asseno (hornaressemo, honorasseno, sentissemo, sentisseno) non fiorentini, la terza persona plurale del passato remoto dei verbi di seconda in -eno (lesseno), la prima persona plurale del condizionale analogica sull’imperfetto congiuntivo (per cui honoraressimo, seressimo, leggeressimo).
Bastano questi casi per misurare come la lingua della più autorevole e diffusa koinè, quella settentrionale, abbia elaborato (senza successo, peraltro) dei modelli grammaticali in vistosa concorrenza con le forme del toscano antico e anche coevo e abbia avanzato proposte certamente praticate nell’Italia del Nord, ma poi non ricevute dalla ➔ norma linguistica.
La grammatica finì per essere stabilita da un intellettuale dell’Italia del Nord, ma convinto, da una idea letteraria e umanistica della lingua, che i migliori scrittori e non i luoghi o i tempi dovessero essere i modelli su cui regolarla. ➔ Pietro Bembo, veneziano, nelle Prose della volgar lingua del 1525 fissò le ragioni ideologiche, culturali e letterarie della ricerca nelle Tre Corone dei comportamenti linguistici ideali, puntando la norma su un fiorentino accertato dai testi, superato nella realtà dal suo discendente vivo e contemporaneo (quello argenteo), ma accreditato di maggiore autorevolezza dall’opera degli scrittori più importanti. Nacque così la grammatica dell’italiano.
La grammatica di Bembo (Bembo 1989), basata sui testi letterari, non elimina le oscillazioni che caratterizzavano la lingua dei grandi del Trecento e quindi fornisce una norma in cui gli scarti sono quelli stessi già operati dai modelli, e che mantiene tutte le varianti della polimorfia trecentesca che le Tre Corone non avevano eliminato. In parte, però, le razionalizza, ora addebitandole a non troppo apprezzati apporti non fiorentini (da ricevere dunque con cautela), cui sarebbero state sensibili le Tre Corone: la prima persona plurale del presente indicativo sempre in -iamo e «se semo e avemo» usarono Petrarca e Boccaccio, non sono però della lingua, ma straniere ancorché «già naturate»; lo stesso le terze persone plurali del passato remoto in -eno («non sono toscane») o quelle dell’imperfetto congiuntivo in -eno e -ono rispetto a quelle in -ero (amassero, amassono, amasseno), i futuri in -aggio («da altre lingue tuttavia pigliandoli»), ora attribuendole a particolari libertà della poesia (i condizionali in -ia accanto a quelli toscani in -ei, i congiuntivo presente dei verbi di prima classe in -e invece che regolarmente in -i). Restano a ogni modo accettate polimorfie che a lungo sarebbero rimaste nell’italiano letterario, per cui l’uscita della seconda persona singolare del presente indicativo dei verbi di prima classe è in -i ma «eziandio nella -e, sì come fe’ il Petrarca», la prima e seconda persona plurale dell’imperfetto indicativo dei verbi in -ere escono tanto in -evamo -evate quanto in -avamo -avate (leggevamo, leggiavamo, leggevate, leggiavate); la terza persona plurale del condizionale presente è tanto amerebbono quanto ameriano.
Molte regole sono però fissate univocamente: le persone singolari del congiuntivo presente in -a dei verbi di seconda e terza classe, da lodare di più che quelle in -i specie alla seconda persona (dica / dichi); il congiuntivo imperfetto coniugato come ancora oggi si usa; la stessa sempre molto oscillante terza persona plurale del passato remoto, in cui è fissato il tipo -arono -irono -ero; relegata nell’arcaismo la terza persona singolare dello stesso tempo con ➔ epitesi vocalica dopo ossitono (sentio, poteo); rifiutata alla seconda persona plurale l’uscita in -i (amaste e non amasti), pur molto usata a Firenze nel Quattrocento; in generale, censura della maggior parte dei fenomeni del fiorentino argenteo e vivo all’epoca (addirittura ignorata l’uscita in -o della prima persona singolare dell’imperfetto indicativo, che dovrà aspettare secoli per essere ricevuta dalla norma).
Va detto che una «discriminata selezione» era supportata e in fondo anche richiesta dal nuovo potente e omogeneo strumento di diffusione della cultura: la stampa. La stampa richiede normalizzazione grafica, anche se la ottiene solo col tempo, mentre più rapida è la scomparsa dell’antica scrittura mercantesca a favore dell’italica (Maraschio 1993), che trova poco spazio nelle stampe ed esce anche dai manoscritti.
La tendenza alla normalizzazione promossa dalle prime grammatiche cinquecentesche si può misurare nel processo di revisione cui ➔ Ludovico Ariosto sottopose, soprattutto nella terza redazione, il suo Orlando Furioso, correggendo (Trovato 1994; Boco 1997-2005) monottonghi in dittonghi fiorentini (rivera → riviera, om → uom, socero → suocero), variando le prima persona plurale del presente indicativo da -amo -emo -imo a un prevalente e unico -iamo, ritoccando il vocalismo atono (suspetto → sospetto, reuscire → riuscire, intrare → entrare, modificando la morfologia dell’articolo (il scudo → lo scudo, el → il, dil → del); a volte, però, più che a Bembo attenendosi al fiorentino quattrocentesco, per es. con la chiusura (peraltro non sistematica) dei dittonghi dopo consonante + r (ritruova → ritrova). La tendenza alla norma non è però univoca e Ariosto presenta casi di regressione per ragioni di rima, come quando introduce una terza persona singolare del congiuntivo imperfetto in -i (prestasse → prestassi), o muta le terze persone del congiuntivo presente di verbi di seconda classe dalla forma classica e bembiana in -a a quella argentea in -i (abbia → abbi, abbiano → abbino). La norma è stabilita, ma le oscillazioni letterarie restano.
Il successo delle Prose, che mettevano a frutto l’opera di selezione già condotta, tanto tempo prima, da Dante e Petrarca, allarma gli intellettuali toscani e fiorentini. Particolarmente dura è l’opposizione toscana contro la tendenza a detoscanizzare l’italiano insita nell’opzione cortigiana e italiana, di cui era stato il fautore più attivo Trissino, alle cui proposte arrise un certo successo anche per una proposta di riforma ortografica, cui si deve la distinzione moderna tra ‹u› e ‹v›.
Contro il pericolo di essere spossessati delle tradizionali prerogative linguistiche, a vantaggio di un apporto concorde di tutte le regioni all’italiano, i toscani scendono in campo, anche perché le tesi italianiste potevano far perno nientemeno che sul ritrovato De vulgari eloquentia di Dante, letto come proposta di un archetipo di volgare più interregionale che (come invece voleva l’Alighieri) sovraregionale. Di particolare intelligenza le argomentazioni filofiorentine consegnate da ➔ Niccolò Machiavelli al Discorso intorno alla nostra lingua del 1524, che mette a fuoco la differenza che c’è tra la struttura grammaticale di una lingua e la sua disponibilità ad accogliere (restando però sé stessa) modi e prestiti da altre e solleva il problema della compatibilità di una lingua non materna e viva con scritture di tipo realistico o comico, cogliendo acutamente difetti di espressività nelle commedie dell’Ariosto.
Un problema, questo di disporre di uno strumento linguistico adeguato al realismo letterario, che restò a lungo caratteristico della letteratura italiana, in cui solo i toscani o gli scrittori dialettali (basti pensare a Ruzante o più tardi a ➔ Carlo Goldoni) seppero maneggiare bene la lingua delle scene comiche e in genere delle scritture realistiche.
La prima grammatica del fiorentino data alle stampe, quella di Giambullari (Giambullari 1986), pur non indulgendo certo verso l’uso popolare vivo, prevede tuttavia forme demotiche come fratelmo, sirocchiata, che Bembo riprovava, ammette accanto ad amarono il moderno toscano amorono e così amarebbono accanto ad amerebbero, accanto all’uscita antica in -a quella moderna in -o della prima persona singolare dell’imperfetto indicativo; propone che tu abbi e non che tu abbia (preferito da Bembo), accetta le prime persone plurali del presente indicativo in -emo -imo, accanto alle più fiorentine in -iamo: insomma, accoglie tutta una serie di tratti che la norma stava scartando o correggendo e che indicano la parziale perifericità di Firenze nella fissazione della norma dell’italiano.
La definizione della norma (➔ norma linguistica; ➔ questione della lingua) occupa tutto il Cinquecento e si conclude all’inizio del XVII secolo, quando si trova un accordo tra l’opzione toscano-letteraria di Bembo e le rivendicazioni della lingua nativa e viva dei fiorentini. Il terreno è offerto dal ➔ lessico, fascia di per sé poco docile alla norma.
I fiorentini dell’Accademia della Crusca (➔ accademie nella storia della lingua), avviando una ricerca sul lessico che sfocia nel loro celebre Vocabolario del 1612, coniugano l’umanesimo metatemporale e per grandi autori di Bembo con la loro sensibilità per la lingua popolare. Accettando il rinvio al Trecento, non solo per la grandezza delle sue Tre Corone, ma anche per la freschezza nativa del toscano di allora, rilanciano la loro lingua in tutte le sue dimensioni (letteraria e pratica), salvaguardando contemporaneamente il primato degli scrittori e della parlata.
Ne deriva una grammatica arcaizzante ma anche popolare, che trova la norma nella lingua più che nello stile di alcuni autori eccelsi. Naturalmente, è una grammatica più orientata all’antico che al moderno, con conseguenze pratiche non piccole per gli usi nuovi della lingua, ma comunque capace di restituire al toscano in sé quel primato che Bembo gli aveva concesso solo in quanto lingua dei grandi autori.
Questa soluzione (che si dovette ad alcuni intellettuali particolarmente lucidi, tra cui, in particolare, Lionardo Salviati) occupa per tutto il XVI secolo i molti partecipanti al dibattito sulla questione della lingua. Il suo successo si deve anche al fatto che, mentre era sempre più forte la spinta verso l’impiego letterario di un volgare unico per tutto il Paese, questa spinta non era altrettanto forte su altri piani della comunicazione sociale, men che mai su quello parlato e pratico.
Un impulso in tal senso sarebbe potuto venire da una ➔ politica linguistica diversa da parte dell’unica istituzione capace di coprire l’intero territorio nazionale e di occuparsi anche della lingua parlata, cioè la Chiesa di Roma. Ma la Chiesa, nel Concilio di Trento, aveva ribadito la sua diffidenza e indifferenza per le lingue materne, nel rito e persino nelle Letture, lasciando loro, come era da secoli, soltanto la predicazione (➔ Chiesa e lingua; ➔ predicazione e lingua).
Solo una lingua impegnata a mettere in contatto persone nella vita quotidiana poteva esigere una norma più calibrata sul presente. Ma di questa lingua non c’era ancora un’esigenza unitaria e diffusa, anche se nel secondo Cinquecento crescono e si ufficializzano usi della lingua italiana in numerose istituzioni laiche e politiche.
Il parlato passa in gran parte attraverso le lingue materne locali, che ora l’accoglienza generalizzata della norma bembiana e cruscante fa retrocedere al rango di dialetti, da allora in poi, per secoli, vivissimi idiomi, non solo parlati ma persino scritti, in testi teatrali, poesie, canzoni, con una vitalità senza pari in Europa. La grande letteratura dialettale italiana comincia da questo momento e resta fino a oggi un tratto caratteristico della nostra cultura (➔ dialetto, usi letterari del).
I piani bassi della società, o semplicemente quelli con intenti di comunicazione pratica, non rinunciano perciò stesso a scrivere in lingua. Atti notarili, verbali di processi, lettere private rimandano un campionario di italiano semicolto o comunque non letterario in cui via via, a seconda dei livelli socioculturali degli scriventi, si alza il tasso di non vernacolarità.
Il successo della norma proposta da Bembo, proprio soprattutto dei territori letterari, poetici in particolare (il petrarchismo), si allarga quando i toscani, portatori di un italiano vivo e parlato, si mostrano capaci (si veda l’Ercolano di ➔ Benedetto Varchi) di appropriarsene, nonostante la distanza della loro lingua da quella letteraria.
Il grande maestro della nascente Accademia della Crusca, ➔ Lionardo Salviati, aveva approntato non solo i criteri per il futuro vocabolario, ma anche una minigrammatica (Salviati 1991), in cui le eccezioni del toscano vivo rispetto a quello letterario sono ridotte moltissimo (anche rispetto a Giambullari): restano oscillazioni come tra avrò e arò, ebbero e ebbono, portassero e portassono, resta l’uscita in -i alla seconda persona singolare del congiuntivo presente dei verbi di seconda e terza classe (che tu temi, senti), ma per il resto le coniugazioni dei verbi sono uniformate al modello bembiano, anche quando confligge col fiorentino vivo (per es., uscita in -o della prima persona singolare dell’imperfetto indicativo).
La grande fortuna dell’imitazione di Petrarca e Boccaccio nella letteratura del Cinquecento spinge il toscano, ormai in grado di assicurarsi il titolo di italiano, a entrare con più autorevolezza là dove i diversi volgari si erano già timidamente spinti, per es. nelle comunicazioni delle cancellerie, negli atti degli Stati, nelle relazioni dei diplomatici. L’introduzione ufficiale della lingua materna nell’amministrazione della giustizia nei territori sabaudi dopo metà secolo (disposizioni di Emanuele Filiberto dal 1560 in poi) e l’orgoglio anche linguistico di grande potenza internazionale di Venezia (➔ Mediterraneo e lingua italiana) hanno fatto sì che il volgare locale accentuasse anche in usi pratici il processo di adeguamento alla norma letteraria, come esemplarmente si vede nelle relazioni degli ambasciatori veneti, e anche in quelle (meno elaborate) dei Rettori di Venezia (Marazzini 1993; Tomasin 2001). Più in generale, nel corso del secolo, ormai vinto di fatto il confronto col latino (che pur resta attivo in molti settori chiave della cultura), il volgare ‘italiano’ occupa sempre maggiori spazi, anche grazie alla ripresa di un’attività già antica di traduzione (➔ volgarizzamenti, lingua dei), che ora va oltre l’ambito religioso e letterario ed entra decisamente in quello filosofico.
A cavallo tra Cinquecento e Seicento, l’italiano si confronta direttamente (e non solo attraverso le traduzioni) col linguaggio scientifico. In questo settore spicca l’operato di ➔ Galileo Galilei, che va, in direzione della lingua materna, persino oltre analoghe opzioni verso le loro lingue madri di scienziati come Keplero, Cartesio, Bacone. Toscanista convinto, Galilei fondò l’italiano della fisica e dell’astronomia con scelte per terminologie facili, trasparenti, «evitando di introdurre terminologia inusitata o troppo colta» (Marazzini 1993). La grande rivincita della cultura toscana, parzialmente emarginata dalla letteratura a norma bembiana, avviene proprio nel campo scientifico, in cui gli scienziati toscani, spesso anche appassionati linguisti o lessicografi (basti pensare a Magalotti e a Redi), mettono a frutto la loro familiarità con la lingua viva dotando l’italiano di un lessico specialistico efficiente.
La prima e la seconda edizione del Vocabolario della Crusca erano state accompagnate da polemiche che, in sostanza, contestavano la preminenza degli antichi sui moderni in fatto di lingua, mettevano in discussione la mancata accoglienza di autori nuovi come ➔ Torquato Tasso, ponevano il problema della compatibilità della nuova cultura con una lingua vecchia (Tassoni segnalava l’assenza di eroe, esagerare, floscio, lindo, tabacco; Tesi 2005). Era facile polemizzare con scelte che giungevano a lemmatizzare la forma antica e a trattare come pura variante quella moderna di una stessa parola (per cui da accarezzare si rimandava a careggiare, da imbestialire a imbestiare). Il rifiuto del nuovo, la ricerca costante negli antichi dell’autenticazione delle parole e delle forme scatenavano polemiche in cui fu coinvolto anche il testo capitale del barocco, l’Adone del Marino (Baldelli 1988). La stessa sintassi cominciava ad essere ripensata in direzione di un periodare più sciolto (Tesi 2005: 28).
Il compromesso tra antico e nuovo, che a livello lessicografico fu raggiunto nella terza edizione del Vocabolario della Crusca (1691), a livello grammaticale fu realizzato nella grammatica di un cruscante, il fiorentino Benedetto Buonmattei (Buonmattei 2007), «in Italia il codice più rispettato» (Trabalza 1908). Tolti pochi casi (mantenimento in tonica del dittongo dopo consonante + r, seconda persona singolare del congiuntivo presente in -i anche per i verbi di seconda e terza classe), vi si trovano le regole che per secoli hanno poi caratterizzato l’italiano. Se si pensa che, a parte il caso accennato del congiuntivo presente e della prima persona singolare dell’imperfetto in -a (ma l’uscita in -o non è proibita), allora di norma in letteratura, tutte le coniugazioni verbali proposte dal Buonmattei sono esattamente le stesse di oggi, si coglierà la misura del successo di questa grammatica (ultima redazione edita nel 1643), punto di riferimento stabile della norma italiana.
La grammatica di Buonmattei è un compromesso avanzato anche in campo ortografico, una zona della lingua già molto innovata dalla Crusca e in genere dai toscani. Si assimilano, come nella pronuncia, certi nessi graficamente latineggianti (facto → fatto); si rarefà la h etimologica (hora, dishonorare), -ti- è scritto sempre più -zi- (si vanno riducendo i tipi delitie, detrattioni), si abbandona et per e, ed; la punteggiatura viene sottoposta a progressivi ritocchi in direzione di quella moderna (Marazzini 1993).
Intanto l’italiano conosce, dopo quella delle origini duecentesche, la prima vera ondata di ➔ forestierismi. Entrano dallo spagnolo (➔ ispanismi) brio, etichetta, cioccolato, risacca, complimento, sfarzo, vigliacco, flotta; attraverso le lingue iberiche giungono le novità dalle Americhe: caimano, ananas, cacao, patata, amaca, ecc.; dal francese (➔ francesismi) arrivano parrucca, equipaggio, reggimento, gendarme, lacchè, petardo. Nonostante gli scarsi risultati in letteratura, la cultura barocca spinge la lingua a fare i primi veri conti con il moderno (➔ età barocca, lingua dell’). Gabriello Chiabrera recupera i rapporti col greco promuovendo composti, specie aggettivali (oricrinito, vitichiomato), il cui stampo ebbe successo anche fuori dalla letteratura, in ambito scientifico e saggistico, dove i ➔ grecismi presero, specie dal Settecento, sempre più piede.
Il latino regredisce anche da ambiti in cui era ancora, fino al XVII secolo, solido. L’uso dell’italiano si allarga ulteriormente negli atti amministrativi degli stati, nella legislazione e perfino nel diritto. Ma, soprattutto, comincia a diventare lingua insegnata a scuola, accanto al latino, come chiede a inizio Settecento ➔ Ludovico Antonio Muratori (Matarrese 1993). Un suo discepolo, Girolamo Tagliazucchi, fu il primo professore universitario di «eloquenza italiana» a Torino e, sempre in Piemonte, particolarmente avanzato in questa materia, dal 1772 si costituiscono classi per l’insegnamento dell’italiano (Marazzini 1984).
Tra il Cinquecento e il Settecento gli scambi linguistici e di cultura in Europa si vanno intensificando. Mentre il francese entra sempre più ampiamente in italiano, l’italiano si afferma come lingua europea del canto (➔ musica e lingua), in particolare a Vienna, dove, per cinquant’anni, nel XVIII secolo, detta legge al melodramma un artista come Pietro Metastasio (➔ melodramma, lingua del).
Ma la forte spinta all’innovazione (per la prima volta anche da fuori della letteratura) accentua reazioni linguisticamente nazionaliste e populiste, come quelle del ➔ classicismo e poi del cosiddetto ➔ purismo, a lungo stella polare di parte non piccola, in fatto di lingua, della cultura italiana (➔ questione della lingua). Che questi atteggiamenti si siano rivelati particolarmente accesi in aree linguisticamente di confine o periferiche (Triveneto, Piemonte prima del Napoletano) è una dimostrazione della motivazione nazionalista che fu fino al fascismo una componente importante dell’ideologia linguistica dominante.
Un’altra fonte di cambiamento linguistico nasce dalle scienze, che, ormai ampiamente riversate nelle lingue materne nazionali, si accrescono di nuovo lessico, specie di origine e modello greco (microscopio, barometro, telescopio), non di rado mediato dalle altre grandi lingue europee e destinato al successo che la lingua di oggi ancora attesta. Le facoltà di produzione di parole nuove, spesso su calco di forme francesi, moltiplica il lessico dotandolo di materiale adatto alla comunicazione tecnico-scientifica (entrano alcol, carbonio, enfisema, fosforo, isteria, ecc.: Matarrese 1993; ➔ scienza, lingua della). Si organizza il lessico dell’economia (commercio, produzione, cambiale, azionista) e persino gli studi giuridici, i più legati al latino, passano all’italiano (➔ economia, lingua dell’). Entrano in italiano anagrafe, autografo, burocrazia, censimento, diplomazia, funzionario, ecc., vettori di una neolingua della pubblica amministrazione destinata a grande successo (➔ burocratese).
Le novità non si manifestano solo nel lessico, ma, per la prima volta in modo consapevole e sistematico, anche nella sintassi, il cui problema entra nella questione della lingua, prima presa solo da fonomorfologia e lessico. Ora sono sul banco degli imputati l’architettura non progressiva, fortemente ipotattica del periodo, i nessi subordinativi arcaici (conciossiacosaché), il costrutto inverso, con verbo in fondo, e si propugna il costrutto diretto alla francese, un periodare progressivo, breve, paratattico. Anche se la lingua scientifica resta ancora in difficoltà su questo punto, la prosa degli intellettuali più avanzati adotta un modello di sintassi destinato a imporsi nella comunicazione scritta media. Il più fortunato grammatico del Settecento, Francesco Soave, nella sua Grammatica ragionata (Soave 2001), invita all’«ordine più naturale» soggetto-verbo-complemento; si affermano costrutti di provenienza francese (avere la cortesia di + verbo all’infinito; frasi scisse: è a lui che; siccome diventa congiunzione causale, senza correlativo nella principale; Dardi 1992).
La rivoluzione linguistica del secolo (➔ Settecento, lingua del) è quella della sintassi, che si avvia verso il periodare moderno. I lunghi periodi boccacciani col verbo in fondo cadono in disuso, ma restano vive
altre collocazioni di derivazione trecentesca [...] l’anteposizione al sostantivo di alcuni tipi di aggettivo, la tmesi (cioè la frapposizione di materiali tra elementi di un unico sintagma, come tra ausiliare e verbo) e l’inversione del sostantivo seguito dal complemento di specificazione, dell’ausiliare seguito dal participio, del verbo servile seguito dall’infinito (Patota 1987: 54)
fino a quando anche questi non furono in gran parte ridotti o eliminati dalla nuova letteratura romantica, di cui l’Ortis di ➔ Ugo Foscolo è un celebre preannuncio.
Ma tanto la prosa di ricerca e saggistica si modernizza, altrettanto la lingua della poesia, dopo un’iniziale convergenza nel processo di semplificazione, riprende e anzi accresce il suo esibito classicismo, con recuperi stilistici dell’arcaico e gusto di una lingua a volte anticata ad arte. L’illuminismo modernizza la prosa, con forti polemiche, ma finisce per rassegnarsi a una lingua poetica ad arcaismo programmato.
C’è chi afferma che il ‘genio’ dell’italiano stia proprio nel suo passato e nel suo procedere sintatticamente a rovescio (➔ immagine dell’italiano). Spesso a sostenerlo sono intellettuali di grande prestigio e sorprendente modernità culturale, come Giuseppe Parini o ➔ Vittorio Alfieri, che rifiutano però polemicamente il modernismo linguistico. Il piglio arcaizzante di Alfieri è tanto un gesto teatrale in linea con la speciale drammaturgia dell’astigiano, quanto un impegno patriottico contro la minaccia francese. L’accentuato neoclassicismo di Parini costruisce una vistosa intelaiatura arcaizzante affinché risulti più paradossale e meglio ironizzata la misera modernità di cui parla il Giorno.
La lingua della poesia presenta un modello di italiano letterariamente molto marcato, con inversione della sequenza determinato + determinante (di Filippo il figlio), posposizione del soggetto pronominale nelle interrogative (per quanto di lunga e ampia consuetudine), la proclisi del pronome nel cosiddetto imperativo tragico (t’arresta, m’ascolta) (➔ imperativo). Il neoclassicismo poetico di fine secolo (quello di ➔ Vincenzo Monti, su tutti) riabilita addirittura la superata uscita in -e nelle persone singolari di presente indicativo e congiuntivo dei verbi di prima classe, il passato remoto con epitesi vocalica (poteo), l’ordine accusativo-dativo dei clitici (la ti rende) (Serianni 1998).
Questo artificioso ritorno indietro in letteratura è contestuale e polemico con le forti spinte in avanti di lessico e sintassi altrove, e anche espressione di una esigenza di identità nazionalista nella lingua minacciata dal francese.
Le dinamiche dell’italiano sono ancora, all’inizio dell’Ottocento, fortemente condizionate dalla lingua letteraria, che domina dal Cinquecento il processo di fissazione della norma e perfino delle sue eccezioni (➔ Ottocento, lingua dell’).
Nondimeno, come si è già detto, c’è anche un livello di lingua in apparenza meno disponibile o, meglio, meno attrezzato ad accogliere la normazione letteraria: quello pratico e quotidiano di una società che parlando usa i dialetti, ma ricorre all’italiano nelle comunicazioni interpersonali a distanza, scritte o tra estranei. Questa lingua esisteva. Già Muratori, all’inizio del Settecento, riferiva del «comun parlare italiano [...] in ogni provincia, città e luogo d’Italia» e padre Andrea Serrao, da Napoli, attesta che nella sua regione «non vi è nessuno, per quanto rozzo e ignorante, che non è in grado di comprendere l’italiano» (D’Agostino 1989: 187).
Oggi una discreta documentazione ci restituisce questo italiano circolante, che Foscolo chiamava «itinerario» (Testa 2008). Sono lettere, diari, registri di persone colte o semicolte. In queste scritture, a parte gli sbandamenti sintattici e gli sbilanciamenti regionali dei meno colti, la tendenza ad accogliere la norma letteraria, integrata da apporti più o meno diretti delle parlate toscane, è evidente (Antonelli 2003), segno della progressiva affermazione, a ogni livello d’uso, della norma accolta in letteratura.
Anche i primi giornali realizzano presto un modello di italiano a norma, ancorché semplificato nella sintassi e potato dei vertici più letterari della grammatica (per es., cade il residuo dittongo dopo consonante + r, mantenuto quasi solo da cultori della lingua antica; si scioglie a favore di -ng- l’antica oscillazione toscana con -gn- in piangere / piagnere; avanza l’imperfetto in -o alla prima persona singolare; in molte delle allotropie vive per tutto l’Ottocento i rapporti si sbilanciano quasi sempre a favore della variante poi destinata a prevalere: dimanda / domanda, conchiudere / concludere, tremuoto / terremoto (Masini 1994).
La distanza tra lingua e società comincia a ridursi in un’età che proclama l’identità di lingua e nazione e impugna anche la lingua sulle barricate per il nuovo stato. Il romanticismo promuove generi letterari più sensibili alla realtà e al sociale. La lingua è sollecitata ad avvicinarsi anch’essa alla realtà, da quella dialettale (il dialetto è lo strumento di grandi poeti come Porta e Belli) a quella in italiano, che si vuole meno ostile se non più aperto al parlato, in particolare a quello toscano.
Già inserita nel dibattito linguistico del Settecento, la nazione entra nel giudizio e nelle aspettative linguistiche con una domanda di identità e di praticità, non più compatibili con una grammatica solo letteraria, in cui troppo distante era lo scritto dal parlato. Questa distanza è autorevolmente accorciata nell’ultimo grande lavoro normativo da parte degli intellettuali: la proposta di italiano fatta da ➔ Alessandro Manzoni al termine (1840) del lungo percorso di elaborazione e correzione dei suoi Promessi sposi. Manzoni perfeziona la riforma sintattica avviata nel Settecento. Patota (1987) ha mostrato che nei Promessi sposi tende a sparire l’inversione di ausiliare e participio passato, così frequente nella sintassi letteraria da Boccaccio al Settecento. La sintassi del romanzo manzoniano non è, da questo specifico punto di vista (e anche da quello della rarefazione della tmesi), diversa da quella di moderni quotidiani.
Manzoni conclude anche l’opera, da tempo iniziata, di espunzione di troppo arcaiche o deboli varianti, potando gran parte della residua polimorfia, che era di molto disturbo per la norma, specie se rivolta a una società di utenti non soltanto letterari (Ghinassi 2007). Basti pensare al segmento dei pronomi personali di terza persona (➔ personali, pronomi), in cui elimina o sostituisce gli anticheggianti desso, dessi, eglino, elleno, ma anche ella pronome soggetto, sostituito da lei, e ammette lui (del toscano parlato ma non della norma) come soggetto concorrente con egli (➔ soggetto). Le oscillazioni che restano (dittonghi in uo conservati o monottongati, esito ci → z dei tipi beneficio / artifizio) erano del fiorentino (in cui ovviamente convivevano usi diversi a seconda dei livelli sociali e generazionali dei parlanti) e in parte resistono ancora oggi (Serianni 1989; Vitale 19922). Ma soprattutto contano le polimorfie eliminate: non c’è praticamente più la prima persona singolare dell’imperfetto indicativo in -a (ne restano nel romanzo solo quattro), tutta uniformata all’uscita fiorentina parlata in -o, chiedo e vedo fanno scartare chieggo e veggo / veggio, nessuno prevale su niuno, lacrima su lagrima.
Ovviamente non tutte le scelte di Manzoni passarono a norma (per es., il futuro e condizionale non sincopati di andare: anderò, anderebbe, o giovine da lui preferito a giovane), ma per la maggior parte lo diventarono e fecero massa con le abilitazioni di costrutti sintattici del parlato tipici dell’oralità (Sabatini 1987), come, per es., la tematizzazione, quel processo di marcatura del tema, per cui, intervenendo sulla redazione precedente, Manzoni passa da «avrete pane» a «pane ne avrete», da «io mi figuro di sì» (➔ tematica, struttura) a «a me mi par di sì»; oppure gli anacoluti (➔ anacoluto): «[le monache] dal loro parlatorio, avevano ottenuto cose che le più gran dame, nelle loro sale, non c’eran potute arrivare».
Manzoni rifletté esplicitamente e a lungo su come dotare l’Italia appena unita di una lingua socialmente e geograficamente omogenea e accentuò in direzione del toscano vivo e attuale la riforma grammaticale moderata della norma avviata nel romanzo. La teoria e le proposte operative furono discusse, avversate autorevolmente, accolte in parte ai massimi livelli del Ministero della pubblica istruzione (➔ questione della lingua; ➔ manzonismi). Ma, più delle teorie, la pratica testimoniata dal romanzo fu decisiva per la storia dell’italiano, finendo per avviare il più forte riposizionamento della grammatica della nostra lingua dai tempi di Bembo. Ma neppure essa fu accolta subito, né ovunque.
Ne resta parzialmente immune per buona parte del secolo la lingua della poesia, del teatro tragico e dei melodrammi, che espone arcaismi lessicali e morfologici (ei, desso, teco, meco, seco tra pronomi personali; forme verbali come fia, fur), ipercultismi come l’➔imperativo tragico con proclisi del pronome, pur facendo via via posto a neologismi o a parole della modernità.
Il caso di ➔ Giacomo Leopardi, col suo italiano specie all’inizio molto letterario (in certe selezioni del lessico, ma anche in varietà morfologiche come l’imperfetto in -ea, -ia, le terze persone plurali del passato remoto in -aro, le forme enclitiche del verbo di modo finito ecc.), a volte (nelle prose) anche toscanista (che tu abbi, sarebbono), dimostra, con una programmatica poetica dell’antico, la vicenda completamente diversa della lingua poetica (in poesia Leopardi usa l’imperfetto indicativo in -a, e quasi tutte le forme in -o le adopera nelle lettere), nonostante via via vi si affaccino parole nuove, temi e lessico della modernità e della più umile quotidianità (➔ lingua poetica). I condizionali in -ia e forme come fia, fiano, furo arrivano in versi sino a fine secolo, anche se in minoranza netta rispetto alle concorrenti forme moderne.
La propensione alla vecchia grammatica, persino alle sue più vetuste oscillazioni morfologiche, non cessa, anche se temperata e bilanciata da modernismi realistici, con ➔ Giosuè Carducci e, anzi, torna a fine secolo in ➔ Gabriele D’Annunzio e ➔ Giovanni Pascoli sotto forma di citazione dotta e arcaismo evocativo. Come ha mostrato Serianni (2009), con l’Ottocento finisce la vecchia lingua poetica, ma essa, per tutto il secolo e sia pure per ragioni diverse, lascia abbondanti tracce nei versi della poesia e del teatro serio.
Alla norma modernizzata fanno sulle prime resistenza anche importanti luoghi di proclamazione della grammatica, a partire dalla scuola, il cui ruolo nella diffusione dell’italiano cresce esponenzialmente dopo l’Unità (➔ scuola e lingua; ➔ Risorgimento e lingua). La scuola pubblica è un vettore potente dell’italianizzazione di una popolazione che, al momento dell’Unità, conosceva poco la lingua ufficiale del nuovo Stato. Se, comunque venga fatto, il calcolo degli italofoni all’altezza dell’Unità d’Italia dà cifre piuttosto basse (un decimo della popolazione e concentrato in poche regioni), è certo che la scuola provvede ad alzare rapidamente il numero degli alfabetizzati e quindi degli utenti attivi e passivi della lingua nazionale. Basti pensare che dal 1871 al 1911 la percentuale di analfabeti passa dal 75% al 40% della popolazione: sempre molti, ma in drastica diminuzione. Di qui l’importanza degli strumenti linguistici scolastici, in primis le grammatiche (➔ analfabetismo e alfabetizzazione).
Ma la scuola continua per decenni a proporre una variante di italiano scritta e orientata verso l’antico, aspettando non poco a far propria quella più aggiornata, praticata dal pur venerato autore dei Promessi sposi. Le grammatiche della neonata scuola nazionale non sono pronte ad adeguarsi alla prassi e alla teoria del Manzoni e la maggior parte di esse, per es., continua a proporre a norma l’uscita in -a alla prima persona dell’imperfetto indicativo, pochissime accettano lui / lei / loro soggetto, al massimo accolti nello «stile familiare» (Catricalà 1995), e moltissime continuano a registrare eglino / elleno come varianti normali di essi / esse.
All’accettazione della norma unitaria modernizzata e toscanizzata da Manzoni fa da parziale e oggettivo contrasto anche la notevole interferenza dei dialetti, la cui vivacità resta forte nel parlato e comincia a trasferirsi nell’italiano orale. Avvicinandosi lo scritto al parlato (romanzi, giornali, lettere) e estendendosi (lentamente) l’uso parlato della lingua, i dialetti, mentre cominciano a retrocedere nella pratica, si insinuano fortemente nella lingua e determinano quella misura regionale dell’italiano nettissima ancora oggi (➔ italiano regionale). Le scritture private, specie se di semicolti o di colti di aree periferiche, lasciano affiorare il dialetto sottostante, in contrasto con la perdurante inclinazione alla vecchia norma letteraria e con la nuova regola unitaria toscaneggiante (e perciò antidialettale) di Manzoni.
Del resto, il retroterra dialettale diventa ben presto un obiettivo da cogliere attraverso l’italiano per gli scrittori impegnati nel romanzo, il genere a più forte motivazione realistica. La realtà popolare è dialettale e anche il romanzo in lingua deve darne idea. Basti pensare ai romanzi ‘lombardoveneti’ di Ippolito Nievo o di Antonio Fogazzaro o a quelli siciliani di ➔ Giovanni Verga. Peraltro, le novità e le deviazioni dalla norma in questi testi non riguardano tanto il tasso di dialettalismo esplicito, a volte attenuato da un’edizione all’altra, come nel Demetrio Pianelli di Emilio De Marchi (Serianni 1990), quanto l’emergenza sempre più forte di strutture dell’oralità che portano la scrittura letteraria verso quello stile medio (Testa 1997) che la caratterizza ancora oggi nel romanzo.
La rivoluzione manzoniana diventa operante (almeno nella sua sostanza) tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, in parte nelle nuove grammatiche scolastiche (dove finalmente eglino e elleno sono dati come arcaismi e sono accolti, sia pure con riserve, lui / lei soggetto, è definitivamente fissata la distribuzione di il / lo articoli in rapporto all’iniziale della parola che segue), e soprattutto nell’italiano dei più potenti veicoli di diffusione della lingua.
A imprimere un’accelerazione alla diffusione nella società della lingua nazionale e a favorire un cambiamento nella sua grammatica sono ora i vettori sociali e amministrativi dello stato unitario (➔ Novecento, lingua del): l’urbanizzazione e l’emigrazione interna, che facilitano l’uso dell’italiano come lingua di comunicazione; la scuola e l’esercito, che svolgono un ruolo di alfabetizzazione primaria essenziale; i giornali che diffondono e autorizzano un modello di lingua più agile e moderno. È questa la svolta più importante nella storia dell’italiano, dopo la normazione primocinquecentesca. Diventata lingua di un grande Stato e in procinto di essere quella di una intera società complessa, l’italiano abbandona le residue sovrabbondanze giustificate solo dalla sua gestione letteraria e riduce doppioni, polimorfie, ecc. Il parlato non può permettersi due forme della stessa parola o le accetta con riluttanza e, semmai, le rifunzionalizza. L’oscillazione fonomorfologica tradizionale è dunque molto ridotta in sedi linguisticamente popolari e autorevoli come sono i giornali, e diminuisce a mano a mano che si procede nel tempo; restano sempre meno congiunzioni anticheggianti (del tipo imperocché, acciocché, abbenché), sono sempre meno numerosi morfemi pronominali arcaici (ei, eglino, elleno), comincia a ridursi l’enclisi pronominale (propagossi); le varianti che sono accettate dai giornali sono quelle stesse che dureranno a lungo e, in taluni casi, non sono risolte neppure oggi, come giuoco / gioco, devo / debbo (Bonomi 1994).
L’italiano dei giornali è uno dei luoghi di maggior riduzione delle distanze tra scritto e parlato, accorciate poi e assai di più in molti altri usi odierni (corrispondenza elettronica, sms; ➔ posta elettronica, lingua della). Quello giornalistico è anche uno stile, con sue formule, stereotipi, preferenze stilistiche, tendenze e gusti (➔ giornali, lingua dei).
Le maggiori novità del linguaggio giornalistico e in generale dell’italiano moderno si colgono nella sintassi snellita, tendente a periodi di una sola frase (in Umberto Eco ci sono molti più periodi costituiti da una sola frase che in Benedetto Croce) o comunque a una riduzione delle proposizioni per periodo e a una minore profondità di subordinazione, per cui si passa da una maggioranza di due subordinate per una principale in Croce a un rapporto uno a uno in Eco (Tesi 2005) e allo ➔ stile nominale; nel lessico, in cui i giornali diventano il principale produttore di ➔ neologismi, sia fabbricati in casa con le procedure consuete (abbondanza di derivati suffissali con suffissi molto produttivi del tipo -ismo, -izzare, -ale, composizioni verbo + nome, composti polirematici tipo auto pompa o decreto legge, composti neoclassici come telecomando, biotecnologie, riduzioni, ➔ sigle e acronimi), sia tramite esotismi importati in quantità.
I giornali (e, poi, i nuovi mezzi di comunicazione di massa) hanno un ruolo decisivo nel più vistoso processo di crescita lessicale registrato dall’italiano in tutta la sua storia. Sono infatti i giornali a mettere in circolazione molte delle novità linguistiche che le lingue settoriali (scienza, tecnica, moda, politica, economia, trasporti, ecc.) producono a tutto spiano, con effetti sempre più importanti sulla stessa fisionomia grammaticale della lingua.
Fra Ottocento e Novecento il lessico dell’italiano raddoppia; in particolare, nell’ultimo quarto del XX secolo, cresce non meno di quanto abbia fatto in tutto l’aurorale e attivissimo Trecento. Come dire: circa la metà delle parole registrate da un moderno dizionario è nata nell’Ottocento o nel Novecento. Più precisamente, stante il vasto corpus del GRADIT, la metà del lessico è costituita quasi da parole del solo Novecento, per cui, se il lessico di base e grammaticalmente funzionale (preposizioni, articoli, ecc.) è al 90% già definito dal XIV secolo, tutto il lessico oggi registrato è per oltre la metà di acquisizione recente.
Ora, una quota significativa, non tanto (o non solo) quantitativamente, quanto per frequenza e prestigio d’uso, di queste nuove immissioni è costituita da parole straniere (➔ prestiti), buona parte delle quali (specie quando di origine inglese) ospitata in italiano senza adattamenti grafici e con semplici acclimatazioni spontanee di pronuncia. I ➔ forestierismi non adattati sono una grande novità del lessico italiano dall’Ottocento e soprattutto dal Novecento in poi.
La nuova familiarità con i forestierismi non adattati intacca, sia pur minimamente, la fonetica e la morfologia della lingua, facilitando l’accoglienza di parole a finale consonantica e anche biconsonantica (sport), di nessi consonantici non nativi dell’italiano e di provenienza soprattutto greca (eczema, pneumatico), di forme nominali invariabili: le parole invariabili sono in crescita nell’italiano contemporaneo (➔ lingua d’oggi) e molto importanti (basti pensare a euro).
La forza delle parole straniere, pur troppo enfatizzata, è notevole e non è valsa a contenerne l’invadenza la politica linguistica purista e nazionalista del fascismo (➔ fascismo, lingua del), che aveva cercato di frenare gli esotismi e di debellare i dialetti, mancando l’uno e l’altro obiettivo. Più in generale, dopo essere stata per secoli una lingua a direzione autoritaria (sia pur affidata alla largheggiante letteratura), l’italiano ha preso a rifiutare politiche linguistiche di qualsiasi tipo, specie se affidate o pretese da istituzioni pubbliche. O meglio: è stata riconosciuta l’autorità capace di autorizzare le novità (televisione, giornali, politica), ma respinta quella abilitata a rifiutarle o regolamentarle. In fondo, neppure la scuola è in grado di fare da riferimento per la norma nazionale.
La progressiva contrazione dell’uso dei dialetti (particolarmente forte dal secondo dopoguerra, ancorché disomogeneamente distribuita nelle diverse regioni e non del tutto irreversibile) non ne ha però attenuato la forza di incidenza dentro l’italiano parlato, che ha ovunque, grazie al retroterra dialettale, più o meno forti caratteristiche regionali.
La crescita di una alfabetizzazione perlomeno primaria ha portato all’italiano scritto anche i semicolti con esiti substandard (errori di ortografia, coniugazioni analogiche dissimo, potiamo, ➔ periodo ipotetico col doppio condizionale o col doppio congiuntivo imperfetto, ci per a lui, a lei, ecc.), tipici di un ➔ italiano popolare assai evidente all’inizio del XX secolo ma oggi in via di attenuazione per la riduzione dei casi di alfabetismo minimale e l’affermarsi di un registro medio, descritto da Sabatini (1985), coincidente con lo standard attuale.
Lo standard rispetta la grammatica tradizionale, da cui ha espunto arcaismi morfologici e potato quasi tutte le ultime oscillazioni. A livello fonetico si notano: scomparsa o riduzione dei fenomeni di eufonia, dalla i prostetica alla ► deufonica ; ritrazione dell’accento in trisillabi o polisillabi piani (èdile invece del corretto edìle, guàina invece di guaìna); perdita del valore fonematico dell’opposizione tra s sorda e s sonora (che resta come puro indizio dell’anagrafe geolinguistica dei parlanti); eliminazione dei residui doppioni, per cui artifizio cede ad artificio, pronunzia a pronuncia (➔ allotropi); sostituzione di serie omologhe a paradigmi disomogenei con ➔ dittongo mobile, dando la preferenza alle soluzioni dittongate: nuoto nuotiamo, lievito lievitiamo, tuona tuonò. Nella morfologia è in atto una semplificazione del sistema dei pronomi personali di terza, con ampliamento dei valori di gli, valido per il complemento indiretto singolare maschile e femminile e per il plurale ambigenere; rarefazione di forme alternative come esso, essa; impiego di lui / lei / loro in tutte le necessità sintattiche, ecc. Si impongono forme rafforzate della negazione («non c’è mica Piero?») e verbi polirematici come i sintagmatici (metter su, buttar giù, portare via; ➔ sintagmatici, verbi) o complessi come i procomplementari, cioè quelli con pronomi complemento incorporati (farcela, fregarsene; ➔ pronominali, verbi). Avanzano forme e costrutti prima ignorati o respinti dalla norma, come il che indeclinato, che occupa tutti i diversi casi del relativo, e quello polivalente, con più funzioni congiuntive, il ci attualizzante, le frasi segmentate, i periodi ipotetici col doppio imperfetto indicativo. Non sono novità dell’ultima ora, ma procedure disponibili da sempre (D’Achille 1990), adesso però più visibili e meglio accettate dalla norma (➔ norma linguistica).
Questa inedita (riguardo alla storia linguistica nazionale) tolleranza si deve al ruolo di scritture (autorevoli e prestigiose come romanzi e giornali) e di parlati autorevoli (radio e televisione) che hanno definitivamente sdoganato certi costrutti, rendendoli familiari e accettabili, almeno fino a un dato livello diastratico (continuano ad essere avvertiti come errori casi di ridondanza pronominale ravvicinata del genere a me mi, il mancato controllo dell’opposizione di gli / le, ci per il dativo personale, il che indeclinato disambiguato da un pronome: *la persona che te ne ho parlato), fino a quando cioè non si arriva troppo al di sotto della norma corrente (➔ che polivalente).
Ma la norma è complessivamente solida e condivisa. Persino il ➔ congiuntivo, nonostante molti allarmi, è ancora assai vitale nelle dipendenti e traballa solo in alcune frasi che dipendono da verbi di opinione (➔ completive, frasi). Nella sintassi del periodo si notano: una drastica riduzione della complicazione ipotattica, la crescita delle frasi semplici, l’ampia autorizzazione all’ellissi del verbo. Basti pensare all’evoluzione del parco congiunzioni (Dardano 1994a), che si riduce (prevalgono che, perché, se, quando) o muta funzioni (valore causale di siccome, consecutivo di allora), prediligendo forme perifrastiche (dato che, visto che).
Ma il fenomeno più vistoso dell’italiano contemporaneo è rappresentato dall’ampliamento del ➔ lessico e dalla sua specializzazione, con crescita vertiginosa del vocabolario di molte branche del sapere (economia, medicina, informatica) e della vita sociale (politica, amministrazione).
Una stessa grammatica si articola non solo (a livello fonoprosodico) in diverse varietà regionali, ma anche in settori diversi, a forte specializzazione lessicale, a volte anche dotati di proprietà testuali particolari (si pensi alla differenza tra un testo di legge e un articolo di cronaca).
La storia dell’italiano appare sempre più quella di una lingua normata unitariamente e diversificata per vari aspetti lessical-sintattici a seconda dei settori di competenza e degli stili individuali o di gruppo. D’altra parte, questi settori sono spesso intercomunicanti e tratti dei linguaggi scientifici possono diventare comuni o passare dall’uno all’altro (paralisi del traffico, collasso gravitazionale). La lingua è ormai ampiamente composita e il suo vocabolario è la somma (e in parte anche l’integrazione) di molti vocabolari settoriali (Beccaria 1973) e di lessici speciali (Dardano 1994b).
La lingua letteraria ha perso la sua antica aureola e il vecchio ruolo guida; è una delle lingue, senza più alcun particolare tratto specifico, con poco prestigio e ridotta funzione innovatrice o regolatrice, passata ai mass media. La lingua degli scrittori può ancora essere più ricca e varia di quella comune (specie quella di alcuni poeti come ➔ Montale o Luzi), più precisa e meno stereotipata (➔ Calvino, Levi), ma è piuttosto alle spalle o a lato che davanti al processo di innovazione e normazione dell’italiano (➔ lingua letteraria). La si vede spesso inseguire quella della realtà, dai dialetti alle varietà regionali ai linguaggi settoriali, magari in ironiche mescolanze come in ➔ Gadda.
La lingua della poesia, da parte sua, non si differenzia più da quella della prosa e solo in alcuni grandi autori continua a esplorare particolari segmenti lessicali (Montale, Luzi, Zanzotto) e non frequentate proprietà sintattiche (le interrogative in Luzi, le incidentali e parentetiche in Caproni); in certi casi giunge addirittura a intaccare la punteggiatura (Sanguineti; ➔ lingua poetica). Semmai, è la lingua della pubblicità (➔ pubblicità e lingua) a sfruttare sistematicamente le risorse formali della lingua, coniando parole nuove (digestimola), usando rime, assonanze, parallelismi. Se sono ancora registrabili dei tratti costanti sul breve e medio periodo (per es., la cancellazioni degli articoli e i plurali assoluti, l’uso abnorme della reggenza con a nella poesia ermetica, i composti bimembri, specie di tipo cromatico, come rossegialle, nel primo Novecento, i dialettismi nella narrativa del secondo dopoguerra), questi non ricadono mai (o quasi mai o solo indirettamente; i doppi colori diventano comuni per via delle divise delle squadre di calcio: la squadra nerazzurra, i rosanero) sulla lingua comune e restano alternative stilistiche all’interno della speciale storia della poesia o del romanzo (Mengaldo 1990).
Nel corso del XX secolo, lo spazio linguistico italiano si è decisamente ristretto per i dialetti, anche se non chiuso, né nella società, dove (perlomeno in certe regioni) i dialetti resistono, né in letteratura, massime in poesia, dove, addirittura, idiomi molto locali trovano nuova vitalità (Marin, Guerra). Ma, anche in questo caso, si osserva la marginalizzazione dell’iniziativa linguistica della letteratura, che lascia sopravvivere o magari recupera certi dialetti per programmatica disattualizzazione della realtà dominante.
Perduto il ruolo di norma, la lingua letteraria si è data a inseguire ed esplorare il nuovo dominio dello standard, il parlato, le varietà regionali, i lessici speciali. Se gli scrittori parlano di lingua (come hanno fatto ➔ Pasolini e Calvino), non è di quella dei loro romanzi che si preoccupano, quanto di quella della società (➔ questione della lingua).
Come ovunque nel mondo, la guida o l’iniziativa linguistica sono passate ad altri soggetti: televisioni, Internet, giornali. L’italiano trasmesso è forse la varietà di italiano più prestigiosa oggi e più ritenuta autorizzata a dettare (o a modificare) la norma. Peraltro, finora, non ha né prodotto né autorizzato cambiamenti particolarmente dirompenti.
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