stoicismo
Accanto alle informazioni esplicite sui filosofi e la dottrina dello s., in D. ci sono anche temi stoici che sono sviluppati senza che l'autore sia cosciente della loro vera origine: sono delle dottrine arrivate a lui indirettamente, per l'intermediario di scrittori antichi o medievali che avevano assimilato nelle loro opere delle idee improntate alla filosofia stoica.
Tra questi autori occorre citare innanzitutto Cicerone che ha introdotto nelle sue opere filosofiche molte dottrine stoiche: la fonte principale del De Finibus (libro III) sembra essere Antipatro di Tarso, mentre il libro IV s'ispira soprattutto ad Antioco d'Ascalone. Per quanto riguarda il De Officiis, Cicerone si richiama esplicitamente a Panezio, che è uno dei più grandi rappresentanti del medio stoicismo. Le Tusculanae (libro II) sembrano riprodurre la dottrina di Panezio sul dolore, mentre i libri III e IV s'ispirano piuttosto al pensiero di Crisippo. Le fonti del De Republica e del De Legibus sono diverse, ma qui ancora la fonte principale sembra essere Panezio. Per ciò che concerne il De Divinatione si sa che molte idee del libro I sono state attinte da Posidonio. D. menziona anche i Paradoxa Stoicorum (Cv IV XII 6).
Sicché è possibile affermare che gli scritti filosofici di Cicerone hanno permesso a D. di attingere certi temi autenticamente stoici. Né si può dimenticare che la cultura filosofica di D. cominciò con la lettura del De Amicizia di Cicerone e del De Consolatione philosophiae di Boezio: altra opera tramite cui D. è venuto alle prese con le dottrine stoiche. Basti segnalare la dottrina di D. sulle ricchezze (Cv IV XII 7-8), ove egli non s'ispira unicamente a Seneca, ma anche a Boezio (II m. V 27 ss.; III III). Inoltre, D. ha trovato dottrine stoiche nella Farsaglia di Lucano: il ritratto di Catone (II 380 ss.), qual è tracciato dal poeta romano, è l'immagine di un saggio stoico. Accanto agli autori più antichi, anche i pensatori del XII e XIII secolo hanno ripreso elementi stoici, sovente senza esserne coscienti.
L'influenza di Seneca nel XII sec. è stata studiata da K.D. Nothdurft; e per quanto riguarda il XIII sec., elementi stoici sono evidenti nell'opera di Alberto Magno e di Tommaso d'Aquino (cfr. G. Verbeke, pp. 48-68).
Ecco alcuni temi stoici sviluppati nell'opera di D.; essi possono dividersi in due gruppi:
Temi psicologici: innanzitutto la maniera in cui D. spiega la percezione visiva che - quali che siano le fonti intermediarie (Alcher de Clairvaux, Alberto Magno) - corrisponde alla dottrina stoica. Essa avviene per la mediazione di uno ‛ spirito visivo ' che assicura il collegamento tra l'occhio e il cervello. Parlando del suo incontro con la donna gentile D. dice che li spiriti de li occhi suoi a lei si fero massimamente amici (Cv II II 2); infatti, secondo D., le forme visibili giungono intenzionalmente all'interno dell'occhio attraverso il mezzo diafano; la trasmissione della forma visibile si ferma alla pupilla, da dove lo spirito visivo trasferisce l'immagine alla parte anteriore del cervello, ove risiede la facoltà sensitiva (III IX 9). Questi spiriti sono vapori del cuore (II XIII 24), e possono quindi indebolirsi e disgregarsi (III IX 14-15). All'inizio della Vita Nuova (II 4-6) D. peraltro distingue tre spiriti: lo spirito della vita che risiede nel cuore, lo spirito animale che è localizzato nel cervello e lo spirito naturale che dimora nella parte del corpo dove il cibo è assimilato dal sangue. In questa interpretazione è importante soprattutto rilevare, come elemento stoico, la ‛ corrente pneumatica ' che trasmette il suo messaggio al cervello partendo dall'organo sensitivo. Notiamo che secondo il De Anima di Avicenna ugualmente il cuore è centro dello spiritus, che da esso si dirige verso il cervello: il ventricolo anteriore del cervello, che riceve i messaggi dei diversi sensi, è considerato come la sede del senso comune (V 8).
D., come si vede nell'esempio di Catone, si è interessato al problema della libertà, per lui d'importanza primaria. Secondo D. occorre distinguere tre tappe nell'attività umana: dapprima la percezione, poi il giudizio di valore e infine il moto dell'appetito (Mn I XII 3). Se il giudizio precede l'appetito in modo tale che i moti dell'appetito siano comandati dal giudizio, ci si troverà davanti a un moto libero; se invece l'appetito precede il giudizio e lo domina, come nel caso degli animali, non si potrà più parlare di libertà (§ 4); v. anche ARBITRIO. La spiegazione data da D. corrisponde allo schema stoico che ugualmente comprende tre momenti: la percezione sensibile, il consenso (συγκατάθεσις) e l'impetus.
Si sa che per gli Stoici la ragione umana è una particella della divinità immanente; il Logos, che è presente nel mondo intero e dirige il corso della storia, si trova in special modo nello spirito dell'uomo. Senza far suo il panteismo stoico, D. usa espressioni che accentuano singolarmente il carattere divino dello spirito umano: quella fine e preziosissima parte de l'anima che è deitade (Cv III II 19, XV 4). Per gli Stoici la natura universale coincide con la divinità: anche su questo punto c'è una rassomiglianza straordinaria con certe espressioni del Convivio (III IV 10 fece ciò la natura universale, cioè Iddio; IV 11, IV XXVI 3).
Temi etici: nella morale stoica la dottrina dell'οἰκείωσις gioca un ruolo molto importante; questo termine è stato tradotto in latino con conciliatio o commendatio; l'uomo è orientato sin dalla nascita verso ciò che è conforme alla natura e si allontana spontaneamente da ciò che gli è contrario (Cic. Fin. III VI 20).
Perciò ogni essere vivente tende naturalmente alla conservazione di sé e si allontana da tutto ciò che potrebbe procurargli la morte: questo suppone nel vivente una certa conoscenza e un certo amore di sé (Cic. Fin. III v 16). Le stesse idee s'incontrano in D. (Cv IV XXII 5): ogni animale, fornito o no di ragione, ama sé stesso sin dalla nascita ed evita tutto quello che gli è contrario. Lo stesso è per l'uomo: sebbene l'amore iniziale verso sé stesso sia ancora indistinto (§ 7), crescendo egli arriverà a discernere in sé delle parti più nobili, fino a soffermarsi sulla parte migliore di sé stesso (§ 8). Ciascun uomo porta dunque in sé una specie di seme divino (XXIII 3), un appetito naturale dello spirito, hormen (XXI 13, XXII 4), che bisogna far fruttificare, attraverso una condotta virtuosa, per raggiungere la vera felicità (v. anche APPETITO; SEME).
Il ‛ senso dell'altro ' è al centro della morale stoica: Seneca scriverà a Lucilio: " Homo sacra res homini " (Ep. XCV 33); tutti gli uomini sono membri dello stesso corpo; c'è dunque una parentela naturale tra loro: essi sono nati gli uni per gli altri (Ep. XCV 52). Le stesse idee sono sviluppate nel De Finibus di Cicerone: si tratta di una tendenza naturale che fa sì che un uomo, per il fatto stesso che è uomo, non può assolutamente essere straniero a un altro uomo (Fin. III XVIII 62-63).
Lo stesso concetto s'incontra nel Convivio: c'è un'amicizia naturale che lega tra loro tutti gli uomini senza eccezione (I I 8); si tratta esattamente di una naturale amistade... per la quale tutti a tutti semo amici (III XI 7). L'amore dell'altro non è una sorta di alienazione, anzi corrisponde alla tendenza fondamentale della natura umana. Notiamo infine che D. condivide il pessimismo stoico sulla vita morale degli uomini: quasi tutti si lasciano guidare dai sensi e non dalla ragione (Cv I IV 5, XI 5 9), mentre la sapienza, secondo gli Stoici, consiste nel sopprimere le passioni e nel vivere in conformità alla ragione; v. anche STOICI.
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