STELLE (lat. sidera; fr. étoiles; sp. estrellas; ted. Stane, Gestirne; ingl. stars)
Generalità. Cenni storici sopra lo sviluppo dell'astronomia siderale. - Scopo di questo articolo è di riassumere, nella forma più breve e sintetica possibile, quanto oggi si conosce sopra le stelle. Ovviamente dovremo limitarci ai soli caposaldi fondamentali, omettendo forzatamente molti particolari che pure sarebbero assai utili ed istruttivi e rimandando per più larghe notizie - anche sulla immensa letteratura scientifica che esiste sull'argomento - alle opere citate nella bibliografia, e in modo speciale al Trattato di astronomia siderale di G. Armellini.
L'astronomia siderale, e cioè quella parte dell'astronomia che si occupa delle stelle, ha un'origine relativamente assai recente. Infatti, sino alla fine del sec. XVIII, l'astronomia si era limitata quasi esclusivamente al sistema planetario, o meglio allo studio del moto dei pianeti intorno al Sole e dei satelliti intorno ai pianeti. Delle stelle si sapeva soltanto che erano giganteschi globi incandescenti, simili al nostro Sole e immensamente distanti da noi.
Tale era lo stato delle cognizioni, quando F. W. Herschel (1738-1822), come ben dice l'epigrafe posta sul suo sepolcro, coeli aperuit claustra, gettando le basi della moderna astronomia siderale.
Dopo aver trovato (1781) un nuovo pianeta, Urano, il Herschel, ritiratosi nel suo osservatorio di Slough, continuò indefessamente ad osservare il cielo con grandi riflettori che egli stesso costruiva. In tal modo scoprì circa duemila nebulose, esaminò i movimenti delle stelle doppie, trovò che il sistema solare si sposta tra gli astri dirigendosi verso la costellazione di Ercole; infine, con pazientissimi "scandagli stellari", studiò la distribuzione apparente delle stelle sopra la sfera celeste, ricavandone le prime nozioni sulla forma dell'universo sidereo. Nacque così l'astronomia siderale, aprendo agli studiosi un nuovo e immenso campo da esplorare, dove le scoperte si moltiplicarono con grande rapidità.
Infatti, pochi anni dopo la morte del Herschel, F. W. Bessel, F. W. Struve e Th. Henderson riuscirono a risolvere il difficile problema della "parallasse" stellare (v. parallasse) misurandone il valore per la 61 Cygni, per α Lyrae e per α Centauri, che furono così le prime stelle di cui si conobbe la distanza. Ma, soprattutto verso la metà del sec. XIX, G. B. Donati (1826-1873), A. Secchi (1818-1878), L. Respighi (1824-1889), W. Huggins (1824-1910), N. Lockyer (1836-1920), sviluppando le prime ricerche del Fraunhofer (1787-1826), applicarono l'analisi spettroscopica alla luce stellare (v. spettroscopia: Spettroscopia astronomica). Si inaugurò così quella grande via per la quale l'astronomia siderale poté raggiungere le sue migliori conquiste: vale a dire poté determinare la natura chimica delle sostanze contenute nell'atmosfera delle stelle, la loro temperatura, la velocità radiale degli astri e - secondo le ultime scoperte - anche la distanza delle stelle lontanissime.
Un poco più tardi, verso la fine del sec. XIX, per opera specialmente di E. C. Pickering (1846-1919), sorse la moderna fotometria stellare di precisione, con le sue numerose applicazioni allo studio delle stelle variabili e - come per coronare questi magnifici successi - i progressi della chimica crearono le lastre secche ultrasensibili al bromuro d'argento, permettendo così alla fotografia di venire in aiuto alla spettroscopia e alla fotometria.
Né basta: lo studio delle stelle doppie e multiple (v. fig. 1), iniziato dal grande Herschel, trovò valorosi continuatori in F. W. Struve, in A. Secchi, in E. Dembowski (1812-1881), ecc., mentre le prime ricerche herscheliane sulla distribuzione delle stelle venivano proseguite dallo stesso Struve, da G. V. Schiaparelli (1835-1910), da K. Schwarzschild (1873-1916) e specialmente da J. C. Kapteyn (1851-1922) e dalla sua scuola, dando origine alla moderna statistica stellare, che tanta luce ha portato sopra la costituzione dell'universo sidereo.
Veniamo ora a studiare più particolarmente le varie questioni che abbiamo accennato, avvertendo per altro che qui le stelle saranno considerate isolatamente (p. es., nella loro massa, nelle loro dimensioni, ecc.), mentre si rimanda alla voce universo per tutto ciò che concerne la statistica stellare e cioè le stelle considerate nel loro complesso (p. es. nella loro distribuzione nello spazio, ecc.). Divideremo il nostro studio in tre parti, dedicate rispettivamente alla uranografia (o descrizione del cielo stellato), alla uronometria (o esame dei metodi di ricerca e dei risultati che ne discendono) e alle teorie stellari (costituzione interna delle stelle, ipotesi sopra la loro evoluzione, sopra l'origine dell'energia irradiata, ecc.). Termineremo poi la nostra trattazione con due capitoli, i quali saranno dedicati rispettivamente alle stelle variabili e alle stelle binarie e multiple.
Uranografia.
1. Costellazioni. - I primi osservatori del cielo s'accorsero che le stelle - a differenza dei pianeti - sembravano fisse sopra la sfera celeste; vale a dire s'accorsero che le stelle nascevano a oriente, s'innalzavano sopra l'orizzonte fino ad una certa altezza e quindi tramontavano a occidente, conservando sempre la stessa posizione reciproca. In una parola, mentre i pianeti erravano per il cielo (πλανήτης = "astro errante"), le stelle si comportavano come tanti punti luminosi fissati sopra un'immensa sfera che rotasse con moto uniforme intorno a noi.
Questo fenomeno (v. astronomia), è dovuto a due cause e cioè: 1. al fatto che la velocità con cui le stelle si muovono nello spazio è estremamente piccola rispetto alla loro distanza, onde occorrerebbe un intervallo di molti secoli perché l'occhio umano - non aiutato da strumenti - potesse percepire un qualche spostamento reciproco delle stelle tra loro; 2. al fatto che le dimensioni dell'orbita che la Terra descrive annualmente intorno al Sole, sono estremamente piccole rispetto alla distanza delle stelle, onde l'effetto di proiezione è assolutamente insensibile ad occhio nudo. Quanto alla rotazione della sfera celeste, essa è una pura apparenza prodotta dal moto di rotazione della Terra.
Questa fissità apparente delle stelle sopra la sfera celeste, permise ai primi osservatori di unire mentalmente le stelle vicine, formando tanti gruppi che vennero chiamati costellazioni, o asterismi (v. costellazioni), e la cui descrizione costituisce l'oggetto dell'uranografia.
Ovviamente i singoli gruppi, e i nomi ad essi dati, differivano da popolo a popolo; ad es. Orione, nel quale l'antichità classica vedeva un gigante, rappresentava per i Bakairi, antico popolo brasiliano, un telaio per asciugare la pasta; analogamente l'Orsa Minore rappresentava presso i Maya, dell'America centrale, una scimmia che tiene la stella polare all'estremità della coda, ecc.
Tralasciando per brevità ogni altro cenno sopra la storia delle costellazioni, diremo qui soltanto che le costellazioni attuali del cielo boreale e della parte visibile del cielo australe, ci sono state tramandate dall'antichità classica e sono essenzialmente dovute alla Grecia, la quale - come scriveva Ovidio - "stellis numeros et nomina fecit". È dimostrato però che la Grecia antica attinse in parte le sue conoscenze astronomiche dalla Mesopotamia e, forse anche, dall'Egitto.
Per quanto riguarda l'età, è stato osservato che il cielo greco magnifica la spedizione degli Argonauti, mentre tace completamente degli eroi della guerra di Troia. Partendo da questo fatto e tenendo presente varie citazioni contenute in Omero e in Esiodo, sembra logico ammettere che nel sec. X a. C. gran parte delle costellazioni avessero già ricevuto il loro nome attuale.
Nel sec. II d. C., Claudio Tolomeo di Alessandria, nel suo Grande compendio di tutta l'astronomia, tramandatoci dagli Arabi col nome di Almagesto, enumerava 48 costellazioni, di cui 21 a nord dello Zodiaco, 12 nello Zodiaco e 15 a sud dello Zodiaco. Oggi, i moderni fanno uso di 88 costellazioni, di cui 28 a nord dello Zodiaco, 12 zodiacali e 48 a sud dello Zodiaco, molte delle quali introdotte da N.-L. de Lacaille; notiamo però che le tre costellazioni Curina, Puppis e Vela sono sostanzialmente tre parti dell'antica costellazione Navis, rappresentante la nave Argo.
Nella tabella della p. 677 diamo i nomi delle singole costellazioni, insieme con i simboli triletterali latini, secondo le convenzioni recentemente stabilite dall'Unione astronomica internazionale (cfr. Delporte, Délimitations scientifiques des Constellations, Cambridge 1930).
2. Nomenclatura delle stelle. - Insieme con lo studio e la descrizione delle costellazioni, l'uranografia si occupa anche della nomenclatura delle. stelle. A tale scopo ricordiamo che gli antichi astronomi, per indicare le singole stelle, si servivano generalmente della posizione che esse occupano nelle costellazioni a cui appartengono: p. es. la stella della spalla destra di orione. Solo nel sec. XVII, J. Bayer - riprendendo un'idea già avanzata sostanzialmente da A. Piccolomini - propose di indicare gli astri di ogni singola costellazione con le lettere dell'alfabeto greco, seguendo sempre il disegno della costellazione (dalla testa ai piedi) e, subordinatamente, l'ordine di luminosità: così p. es. la stella della spalla destra di Orione, venne indicata col simbolo "Orionis (Betelgeuse). Poco dopo J. Flamsteed proponeva, più semplicemente, d'indicare le stelle di ogni singola costellazione con numeri arabi, procedendo secondo le ascensioni rette crescenti e cioè da ponente a levante.
Evidentemente però, quando il telescopio permise di scoprire le stelle a milioni, i metodi di Bayer e Flamsteed divennero inapplicabili. Al giorno d'oggi quindi essi rimangono in uso soltanto per le stelle visibili a occhio nudo (stelle lucide), mentre per le altre s'indica il catalogo stellare (v.) in cui sono contenute e il numero d'ordine (ad es. Campidoglio: 3607), oppure si dànno le coordinate (ascensione retta e declinazione, riferite a un dato equinozio), aggiungendo generalmente il simbolo della costellazione che le contiene.
In particolare per le stelle variabili (v. sotto), F. W. A. Argelander propose d'indicare con la lettera R la prima di esse che venga scoperta in una costellazione, con S la seconda e così di seguito fino alla nona che viene indicata con Z; per la decima si adopera il simbolo RR, per l'undecima RS ecc.; es. R Ursae Maioris. Aumentando però continuamente il numero delle variabili conosciute, si preferisce ora la notazione di Pickering, il quale si serve di un numero di sei cifre (di cui le prime quattro dànno l'ascensione retta in ore e minuti e le due ultime la declinazione in gradi), seguito dal simbolo della costellazione. Se la declinazione è negativa, il numero si scrive in corsivo.
Analogamente per le stelle nuove (Novae), si adopera la lettera N seguita dal nome della costellazione in genitivo latino e da un numero che indica l'ordine della scoperta, o meglio - secondo la proposta di P. J. Hagen e di H. N. Russell - la data della scoperta. Così p. esempio N Cygni 1, oppure - secondo Hagen - N Cygni 1600, indica la prima stella nuova apparsa nella costellazione del Cigno, apparizione che avvenne nell'anno 1600.
Infine le stelle molto brillanti (specialmente di prima e seconda grandezza) ritengono ancora l'antico nome proprio, nella maggior parte dei casi di origine greca o araba, tramandatoci da un antico catalogo composto nel sec. X dall'astronomo persiano ‛Abd ar-Raḥmān aṣ-Sūfī. Diamo i nomi più usati e il loro significato etimologico nella tabella qui accanto riportata.
Uranometria.
3. Caratteristiche stellari. - Gli antichi astronomi chiamavano uranometria (dal gr. οὐρανός "cielo" e μέτρον "misura") quella parte dell'astronomia, che insegnava a misurare lo splendore apparente degli astri. Ma oggi si può estendere il significato della parola, usandola più generalmente a designare tutta quella parte dell'astronomia siderale che si occupa delle misure stellari.
Per indicarne l'oggetto, cominciamo ad osservare che le stelle sono così lontane da noi, che, anche con i più potenti cannocchiali moderni, appariscono come semplici punti luminosi. È quindi impossibile, nello stato attuale della scienza, di scorgere qualsiasi dettaglio (ad es. macchie, facole, flocculi, ecc.) sopra la loro superficie, all'opposto di quanto facciamo per il Sole, la Luna e i pianeti. Per ora tutto ciò che possiamo proporci nello studio delle stelle consiste nella conoscenza di alcuni dati, che G. Armellini chiama caratteristiche stellari e che sono i seguenti:
a) Tre caratteristiche geometriche, e cioè le tre coordinate necessarie per individuare la posizione della stella nello spazio. In generale, nell'astronomia, si usano coordinate sferiche e cioè l'ascensione retta α, la declinazione δ e la distanza d (v. astronomia). Come unità di distanza, si adoperava in passato l'anno di luce e cioè lo spazio che la luce percorre in un anno; spazio equivalente a 947•1010 chilometri. Oggi si adopera più comunemente il parsec, di cui vedremo tra breve la definizione e che è equivalente a 3,26 anni di luce, o a 206.264 volte la distanza media della Terra dal Sole (distanza detta unità astronomica, abbr. U. A. = 149.500.000 km.).
b) Tre caratteristiche cinematiche, e cioè le tre componenti della velocità stellare, secondo tre assi cartesiani ortogonali, necessarie per individuare la velocità stessa in grandezza, senso e direzione. Ovviamente si possono anche dare quantità equivalenti alle componenti predette, onde gli astronomi dànno generalmente i due moti proprî dell'astro in ascensione e declinazione (μα e μδ) e la componente V della stessa velocità lungo il raggio vettore; componente che si valuta generalmente in chilometri per minuto secondo e si chiama velocità radiale.
c) Tre caratteristiche della radiazione e cioè: l'intensità luminosa (indicata, come vedremo dalla grandezza assoluta M dell'astro); il colore (indicato generalmente da un numero detto indice di colore); il tipo spettrale.
d) Tre caratteristiche fisiche dell'astro e cioè: la massa dell'astro (che si deduce, come vedremo, dalla legge di attrazione newtoniana, quando si tratti di stelle binarie, ma che può essere anche calcolata direttamente, valendosi della grandezza assoluta M); il diametro (che, per alcune stelle giganti si può misurare direttamente con l'interferometro, ma che più spesso si calcola valendosi della grandezza assoluta e della temperatura effettiva; ovviamente, conoscendo la massa e il diametro, risulta nota anche la densità media dell'astro); la temperatura effettiva (la quale si può calcolare, come vedremo in seguito sia per mezzo dell'indice di colore, sia partendo dal tipo spettrale).
Terminando, notiamo che, fino ad ora, queste caratteristiche sono conosciute, e spesso anche imperfettamente, solo per poche migliaia di stelle; vale a dire per una percentuale presso che infinitesima del totale. Aggiungiamo pure che le specole astronomiche, che hanno per compito tali ricerche, tendono a specializzarsi dividendosi il lavoro, onde ottenere il massimo effetto con economia di tempo e di mezzi. E cioè gli osservatorî astronomici propriamente detti, o osservatorî di astronomia sferica o di astronomia classica - i cui strumenti fondamentali sono l'orologio, il cerchio meridiano e il rifrattore equatoriale - si dedicano principalmente alla ricerca delle caratteristiche geometriche e cinematiche. Altri invece, e cioè gli osservatorî astrofisici - i cui strumenti fondamentali sono lo spettrografo e il grande riflettore equatoriale con specchio parabolico - si occupano principalmente dell'esame della radiazione stellare e delle caratteristiche fisiche. E, dopo matura elaborazione, i risultati degli uni e degli altri vengono a costituire i cataloghi stellari (v. stellare, catalogo) che formano, per così dire, il frutto dell'opera paziente delle specole e costituiscono la base di tutte le ricerche teoriche.
Passiamo ora ad esaminare i metodi di cui la scienza dispone per lo studio delle caratteristiche stellari, cominciando, per maggior chiarezza, dalle ricerche sopra la radiazione.
4. Grandezze visuali e fotovisuali. Costante fotometrica. - Rimandando per maggiori notizie, alla voce luminosità dei corpi celesti, ricordiamo che Tolomeo, nel catalogo di 1028 stelle annesso all'Almagesto, divise le stelle, secondo il loro splendore, in sei classi o grandezze, che indicò con le lettere greche α, β, γ, δ, ε, ζ. Le stelle di prima grandezza erano le più luminose del cielo; le stelle di sesta, quelle appena visibili all'occhio umano in una notte molto serena. Nel sec. XVII, Flamsteed sostituì alle lettere greche i numeri arabi 1, 2, 3, 4, 5, 6, mentre la scoperta del cannocchiale - che permise di vedere stelle inaccessibili all'occhio nudo - condusse ovviamente a prolungare la scala al di là della sesta grandezza. Fino alla metà del secolo passato, le grandezze stellari (che s'indicano per convenzione con la lettera m, dal latino magnitudo "grandezza") venivano assegnate a stima. Ma poi furono precisate, adottando la proposta di N. R. Pogson, secondo la quale una stella si dice di grandezza m + 1, quando la sua intensità luminosa appare 2,512 volte minore di quella di una stella di grandezza m. Il rapporto 2,512 si chiama costante fotometrica, o rapporto di luminosità light-ratio degli astronomi anglo-americani).
Ne segue che, crescendo le grandezze in progressione aritmetica, l'intensità luminosa diminuisce in progressione geometrica. Onde, per una legge scoperta da G. T. Fechner nel 1851 e detta legge psicofisica, l'occhio percepisce sempre lo stesso decremento di sensazione passando dalla grandezza m alla grandezza m + 1, qualunque sia il numero m. Il rapporto della progressione venne poi assunto eguale a 2,512, perché si ha 2,5125 = 100, onde una stella di sesta grandezza risulta cento volte meno luminosa di una di prima; una di undecima, cento volte meno luminosa di una di sesta, ecc. Ovviamente una stella si dirà di grandezza o, di grandezza −1, ecc., quando appare 2,512 volte, 2,5122 = 6,31 volte, ecc., più luminosa di una stella di prima grandezza.
In simboli, se indichiamo con I l'intensità luminosa apparente di una stella di grandezza m e con I0 quella di una stella di grandezza m0, si ha la relazione
da cui ricaviamo, prendendo i logaritmi decimali
che costituisce appunto la formula di Pogson.
L'origine della scala è stata poi scelta in modo da far coincidere in media le grandezze così calcolate, con quelle già date a stima da Argelander nella Bonner Durchmusterung (v. stellare, catalogo). E ciò conduce a porre la Stella Polare di grandezza 2,12. In pratica le grandezze stellari possono essere determinate visualmente per mezzo dei fotometri (di cui vi sono parecchi tipi, come fotometri a cuneo di vetro bigio assorbente, fotometri a luce polarizzata, ecc.) e gli astronomi prendono come campioni alcune stelle contenute nella Nort Polar Sequence, le cui grandezze sono state esattamente determinate.
Per stelline debolissime si può usare la fotografia, servendosi di lastre pancromatiche, con filtri di colore giallo, onde mettere la lastra nelle stesse condizioni dell'occhio umano, che ha appunto la massima sensibilità nel giallo. Le grandezze vengono determinate servendosi dei diametri, o dell'annerimento delle immagini e si dicono fotovisuali. I risultati delle osservazioni si debbono però, in tutti i casi, correggere per tener conto della quantità di luce assorbita dall'atmosfera terrestre; ciò che gli astronomi fanno riducendoli allo zenit, vale a dire calcolando lo splendore che avrebbe la stella, se essa si trovasse allo zenit.
Diamo nella seguente tabella la grandezza delle stelle più splendenti del cielo:
Notiamo poi che il Sole ha grandezza m = −26,7; la Luna piena m = −12,1; Venere, al massimo splendore, m = −4,6; Giove m = −2,2, Marte m = −1,8, ecc., e aggiungiamo, per i confronti, che una candela internazionale alla distanza di un chilometro, appare come una stella di grandezza m = +0,8. Ricordiamo pure che, fino ad oggi, il più importante catalogo fotometrico è la Revised Harvard Photometry, dove sono riportate le grandezze di 45.792 stelle.
Ad occhio nudo si veggono le stelle fino alla sesta grandezza; con un binocolo da teatro si veggono quelle di settima; con un piccolo cannocchiale, con lente obiettiva di otto centimetri, si arriva alla decima grandezza; con il cannocchiale equatoriale dell'osservatorio dell'università di Chicago, cannocchiale che ha la massima lente obiettiva del mondo (diametro: m. 1,04), si giunge a vedere le stelle di sedicesima grandezza. Per stelle più deboli occorre necessariamente servirsi della fotografia, prolungando l'esposizione per alcune ore. In tal modo, col massimo riflettore oggi esistente nel mondo, quello dell'osservatorio di Monte Wilson (diametro dello specchio: m. 2,50), si giunge a fotografare stelline di ventunesima grandezza; stelline che costituiscono, per così dire, le colonne d'Ercole dell'astronomia siderale moderna. In futuro, non appena potrà essere inaugurato il nuovo riflettore americano di duecento pollici (5 m.) si potrà forse arrivare alla ventitreesima grandezza.
5. Grandezze fotografiche. Indice del colore. - Abbiamo detto che le grandezze stellari si possono anche determinare fotograficamente, servendosi di lastre pancromatiche con filtro giallo di luce, misurando i diametri o il grado di annerimento delle immagini e adoperando, per confronto, stelle di grandezza nota. Se invece si usano lastre fotografiche ordinarie e si tralascia il filtro di luce, la durata di esposizione risulta più breve, giacché non vi è perdita di luce e le lastre ordinarie sono più sensibili delle pancromatiche. Però, in questo caso, i risultati non sono più confrontabili con quelli ottenuti visualmente per mezzo dei fotometri, giacché mentre l'occhio ha la massima sensibilità per il giallo, la lastra fotografica ordinaria ha la massima sensibilità per l'azzurro (secondo Russell le lunghezze d'onda "effettive" sarebbero rispettivamente 5290 e 4250 Angstrom). Si ottengono quindi per le grandezze stellari dei valori un po' diversi, che gli astronomi chiamano grandezze fotografiche e che si possono definire con la stessa formola di Pogson già usata per le grandezze visuali, sostituendo al posto dell'intensità luminosa I, l'intensità fotografica o chimica If. Lo zero della scala viene fissato convenzionalmente supponendo che le stelle bianche (tipo spettrale A 0) abbiano grandezza fotografica uguale alla grandezza visuale; e ciò permette praticamente di ottenere sopra la lastra immagini di confronto di grandezza nota.
Ciò posto, supponiamo di fotografare una stella rossa. Poiché la lastra è debolmente sensibile al rosso, la stella apparirà, relativamente alle stelle bianche, meno splendente di quanto l'occhio la giudichi; in altre parole, la sua grandezza fotografica sarà maggiore della grandezza visuale. Viceversa, se fotografiamo una stella azzurra, la grandezza fotografica risulterà minore della grandezza visuale.
Ne segue che la differenza c tra la grandezza fotografica mf e la grandezza visuale o fotovisuale (c = mf − m) misura il colore dell'astro; per questa ragione, viene chiamata indice del colore e, come vedremo, ha grande importanza per la determinazione della temperatura stellare. Per stelle azzurre, c è negativa, discendendo fino a −0,3 per quelle di tipo spettrale B (esempio: la Spiga); per stelle bianche, c è eguale a zero (Sirio, Deneb, ecc.); per stelle gialle rossastre, c è positiva, e può salire anche a + 2 per stelle di color rosso rubino (tipo spettrale N). Approssimativamente, l'indice di colore si può determinare anche visualmente, esaminando il colore dell'astro e paragonandolo con altri d'indice noto (v. sotto).
6. Grandezze assolute. Luminosità delle stelle. - Lo splendore apparente delle stelle dipende ovviamente non solo dalla quantità di luce che esse emettono, ma anche dalla loro distanza da noi. Per poter quindi procedere a confronti, gli astronomi hanno immaginato di riportare tutte le stelle ad un'unica distanza, che convenzionalmente si assume eguale a dieci parsec (32,6 anni di luce). E, in conseguenza, si chiama grandezza assoluta di un astro - e s'indica col simbolo M - la grandezza che avrebbe l'astro se si trovasse alla distanza di dieci parsec da noi. La differenza m − M si chiama modulo.
Per calcolare M, basta ricordare che l'intensità luminosa è inversamente proporzionale al quadrato della distanza. Se quindi un astro, invece di distare d parsec, ne distasse soltanto 10, la sua intensità luminosa I verrebbe moltiplicata per (d/10)2 e cioè - essendo come vedremo, d = 1/p, dove p indica la parallasse dell'astro - per (1/10p)2. Sostituendo nella formula (2) di Pogson, si ha immediatamente
Così per il Sole - essendo m = −26,7 e d = 1/206.264 - risulta p = 206264 e quindi M = 4,85: vale a dire il Sole, alla distanza di dieci parsec, cioè circa 33 anni di luce, apparirebbe come una stellina di quinta grandezza.
La grandezza assoluta di un astro ci permette di calcolare la sua luminosità L, che si può definire come il rapporto tra la quantità di luce emessa dall'astro e quella emessa dal Sole. Infatti, se l'astro ha grandezza assoluta M, avremo dalla formula di Pogson, ricordando che la grandezza assoluta del Sole è uguale a 4,85,
La stella più luminosa che si conosca sarebbe la S della costellazione del Dorado, che avrebbe una luminosità eguale a trecentomila volte quella del Sole; la stella meno luminosa sarebbe una stellina scoperta da A. Van Maanen, che è dotata di fortissimo moto proprio e ha una luminosità che è appena la decimillesima parte di quella del Sole.
Riportiamo nella seguente tabella la grandezza assoluta M e la luminosità L di alcune stelle più importanti.
Ovviamente insieme alla grandezza assoluta visuale M, si può definire anche la grandezza assoluta fotografica Mf, sostituendo nella (3), al posto di m, la grandezza fotografica mf.
Termineremo con due osservazioni di fondamentale importanza; e cioè:
A) La (3) mostra che conoscendo la distanza (o la parallasse) di un astro, si può calcolare immediatamente la sua grandezza assoluta. Ma - come ha mostrato per primo J. C. Adams - la grandezza assoluta si può spesso dedurre direttamente da osservazioni spettroscopiche, confrontando tra loro - come diremo - le intensità di alcune righe spettrali (calcio, titanio, stronzio). E allora la (3) ci dà la parallasse p e quindi la distanza d = 1/p dell'astro. È questo anzi il principio del metodo delle parallassi spettroscopiche, che ha tanta importanza nell'astronomia moderna e ha permesso di determinare la distanza di alcune migliaia di stelle.
B) Un gran numero di ricerche spettroscopiche e colorimetriche ha mostrato che il Sole e le stelle irradiano energia, presso a poco, come radiatori perfetti, o "corpi neri" dei fisici (v. corpo nero). Ora una formula fisica, scoperta da M. Planck, insegna a calcolare la quantità d'energia che un corpo nero, a temperatura assoluta T, emette per unità di superficie in corrispondenza ad ogni lunghezza d'onda λ. In conseguenza, conoscendo la temperatura assoluta superficiale T e il raggio R di un astro, potremo calcolare l'energia emessa in corrispondenza alle lunghezze d'onda "effettive" per l'occhio e la lastra fotografica (λ = 5290 e λ = 4250 unità Angstrom) e quindi la grandezza assoluta visuale M e la grandezza assoluta fotografica Mf. Si hanno così le due formule approssimate:
dove il raggio R viene misurato prendendo per unità quello del Sole (ricordiamo che il raggio solare è eguale a 695.000 km.), e i logaritmi sono a base decimale.
Eliminando R tra (5) e (6) e ricordando che si ha Mf − M = mf − m = c, otteniamo la formula:
la quale ci dà la temperatura assoluta di un astro conoscendo l'indice di colore c.
7. Classificazione spettrale delle stelle. - Le ricerche spettroscopiche stellari (v. spettroscopia: Spettroscopia astronomica) furono inaugurate da G. B. Donati (1860) con prismi oculari a visione diretta, subito dopo che G. R. Kirchhoff aveva mostrato come la scoperta delle righe del Fraunhofer aprisse la via all'analisi chimica dei corpi celesti (1859). Più tardi L. Respighi inaugurava, al Campidoglio, l'uso del prisma obiettivo (v. fig. 2); e quindi servendosi dell'uno e dell'altro metodo il padre Secchi, con impareggiabile attività, esaminava circa quattromila spettri stellari. Egli si aspettava di trovare per ogni stella uno spettro differente; ma presto si accorse che invece tutti gli spettri potevano classificarsi in pochi tipi e che inoltre ogni tipo appariva strettamente connesso col colore della stella. Diciamo subito che questo fenomeno è oggi completamente spiegato, giacché la fisica insegna (v. spettroscopia) che lo spettro di ogni elemento dipende principalmente dallo stato di eccitazione dell'atomo e quindi dalla temperatura; temperatura che, nel caso delle stelle, è in stretta relazione col colore, come mostra la formula (7).
Ma, per tornare alla classificazione, si deve anzitutto notare che gli spettri delle stelle si presentano generalmente analoghi allo spettro del Sole (v. sole), e cioè sono costituiti da un fondo luminoso, il quale è tinto da un estremo all'altro dei colori dell'iride, dal rosso al violetto, ed è inoltre intersecato da numerose righe oscure, ora larghe, ora sottili, ora nette, ora sfumate (v. figure 3, 4). Come è noto dai lavori del Kirchhoff (v. spettroscopia), il fondo luminoso continuo è dovuto alla luce emanata dalla fotosfera dell'astro, mentre le righe oscure sono prodotte dall'assorbimento selettivo, operato dall'atmosfera stellare, che circonda la fotosfera stessa. Solo in casi eccezionali compaiono nello spettro stellare alcune righe lucide, che sembrano dovute a un forte stato di eccitazione dell'alta atmosfera, o cromosfera, dell'astro.
Paragonando le righe spettrali di un astro con quelle di uno spettro di confronto che viene fotografato nello spettrogramma, si può misurare esattamente la loro lunghezza d'onda λ (per cui gli astronomi adoperano di regola l'unità Angstrom, equivalente al decimilionesimo di millimetro). È quindi possibile individuare l'elemento chimico da cui è prodotta ogni riga, come pure è possibile misurare esattamente l'eventuale spostamento (di cui vedremo l'importanza) che ogni riga può avere rispetto alla sua posizione normale.
Ora, come si è detto, il fondo continuo si presenta presso a poco identico in tutte le stelle (solo in alcune stelle di color rosso rubino apparisce assai debole nel violetto), mentre le righe spettrali variano in connessione col colore dell'astro. Prendendo quindi come base le righe stesse, il padre Secchi divise gli spettri stellari in quattro classi nel modo seguente:
Classe I: stelle bianche (esempio Sirio). Lo spettro è caratterizzato dall'intensità delle righe dell'idrogeno.
Classe II: stelle gialle (es. il Sole). Lo spettro è caratterizzato dall'intensità delle righe del calcio e dalla presenza di numerose righe metalliche.
Classe III: stelle aranciate (es. Betelgeuse). Lo spettro è caratterizzato da bande oscure dovute all'ossido di titanio e che appaiono sfumate verso il rosso, mentre hanno uno spigolo netto (testa) verso il violetto, a somiglianza di una fila di colonne.
Classe IV: stelle rosse (es. 19 Piscium). Lo spettro è caratterizzato da bande oscure dovute al carbonio ed ha ancora l'aspetto di una fila di colonne; ma le sfumature sono rivolte verso il violetto e gli spigoli netti (teste) verso il rosso.
Più tardi il Secchi aggiunse una quinta classe di stelle, il cui spettro è caratterizzato dalla comparsa di righe e bande lucide. La stella più luminosa di questo tipo è γ Navis, le cui bande lucide furono scoperte dal Respighi, nel 1871, in occasione di un suo viaggio alle Indie.
Modernamente la classificazione del Secchi è stata sostituita con quella più completa dell'Osservatorio di Harvard (v. fig. 4), dovuta specialmente a H. Draper e a Miss A. Cannon e che divide le stelle in dieci tipi, i quali vengono indicati con lettere maiuscole, secondo l'ordine seguente: O, B, A, F, G, K, M, S, R, N. I quattro tipi O, S, R, N, possono però considerarsi come eccezionali, giacché il 99% delle stelle appartiene ai sei tipi fondamentali: B, A, F, G, K, M. Questi sei tipi hanno la proprietà importantissima di formare una successione continua, nel senso che si passa dall'uno all'altro per gradi insensibili. Praticamente gli astronomi dividono in dieci parti, o sottotipi, l'intervallo compreso tra un tipo e il tipo successivo: così, per es., il tipo A si divide nei sottotipi A0, A1, A2, ecc., fino ad A9, a cui segue F0, F1, F2, ecc.
Riassumiamo nella seguente tabella le caratteristiche dei sei tipi fondamentali, notando che la temperatura è massima nel tipo B e va continuamente decrescendo fino al tipo M.
Per quanto riguarda i tipi eccezionali, notiamo che il tipo O è caratterizzato dalle righe dell'elio ionizzato e spesso anche da larghe righe lucide (stelle di Wolf-Rayet) come, ad es., in γ Navis; la sua temperatura fotosferica si ritiene altissima (20000-25000 gradi), onde questo tipo viene posto innanzi al tipo B.
All'estremo inferiore della scala appartengono invece i tipi S, R, N, nei quali la temperatura è quasi identica o un poco più bassa del tipo M, onde gli astronomi li considerano come tipi collaterali, dovuti a una specie di diramazione. Notiamo che tra le stelle di questi tipi (come pure del tipo M) sono numerose le variabili; che i tipi R ed N sono caratterizzati dalle bande del carbonio (il tipo N ha temperatura ancora più bassa di R e colore rosso rubino: es. 19 Piscium); che infine il tipo S - introdotto dal Congresso astronomico di Roma del 1922 - è caratterizzato da bande di zirconio.
Notiamo che, grossolanamente, i tipi B e A di Harvard formano la prima classe di Secchi; i tipi F, G, K, la seconda; i tipi M ed S la terza; i tipi R ed N la quarta e il tipo O la quinta. Terminando avvertiamo che lo studio degli spettri stellari ha immensa importanza, poiché: 1. ci mostra la composizione chimica dell'atmosfera stellare; 2. c'indica la temperatura e la pressione dell'atmosfera stessa 3. ci fa conoscere la grandezza assoluta delle stelle e quindi la loro parallasse e la loro distanza; 4. ci fa conoscere la velocità radiale delle stelle; 5. serve infine di base allo studio dell'evoluzione stellare.
Tratteremo brevemente di tutti questi argomenti.
8. Composizione chimica dell'atmosfera stellare. - Come fu detto le righe spettrali provengono dall'assorbimento di luce operato dai gas contenuti nell'atmosfera delle stelle; individuando dunque le singole righe - per mezzo delle loro lunghezze d'onda A - e confrontandole con quelle ottenute nei laboratorî, è facile trovare l'elemento chimico che le produce. In tal modo, tra i 90 elementi chimici conosciuti, sono stati ritrovati nell'atmosfera del Sole e delle stelle i 47 elementi che diamo, nella tabella alla pagina seguente, accompagnati dai loro numeri atomici.
Aggiungiamo che, oltre agli elementi semplici, sono stati rinvenuti pure alcuni composti e cioè: ossidi di titanio, di zirconio e di carbonio, ammoniaca, cianogeno e la molecola frammentaria OH (idrossile). Quanto agli elementi non ancora trovati (oro, radio, ecc.), la loro assenza apparente viene spiegata considerando che si tratta o di elementi molto rari, o di elementi pesanti (e quindi situati probabilmente nelle regioni centrali degli astri), o di elementi le cui righe spettrali cadono nell'ultravioletto e non sono quindi accessibili alle nostre osservazioni, poiché l'atmosfera terrestre è opaca per lunghezze d'onda inferiori a 2900 unità Angstrom.
Dobbiamo pure osservare che, esaminando la larghezza e il grado di annerimento delle singole righe, l'apparizione di righe subordinate (v. spettroscopia), ecc., si riesce pure a determinare - almeno grossolanamente - l'abbondanza con cui i singoli elementi entrano nell'atmosfera degli astri. Si sono così stabilite le seguenti leggi:
I. L'atmosfera stellare ha, presso a poco, composizione uniforme; cioè presenta grossolanamente la stessa composizione chimica, qualunque sia l'astro esaminato.
II. Generalmente gli elementi più abbondanti sono il silicio, il calcio, il ferro, il sodio, il magnesio, l'alluminio, oltre all'ossigeno e all'idrogeno.
III. La composizione dell'atmosfera stellare è analoga a quella della crosta terrestre (litosfera, idrosfera e atmosfera).
Probabilmente questa uniforme composizione dell'atmosfera stellare è dovuta a proprietà ancora ignote sopra la formazione dell'atomo; in ogni modo il fatto costituisce uno dei più importanti risultati a cui sia giunta la moderna astronomia siderale.
9. Temperatura delle stelle. - Tra tutti gli elementi, l'elio e l'idrogeno hanno il massimo potenziale di ionizzazione (24,4 volt per l'elio; 13,5 volt per l'idrogeno), onde è facile comprendere perché nello spettro delle stelle ad alta temperatura (tipi O, B, A) appariscano quasi unicamente le righe di questi due elementi. Si dimostra infatti (e i calcoli furono eseguiti per primo dal fisico indiano Meg Nada Saha) che, a temperatura sufficientemente elevata, tutti gli elementi - eccettuati l'idrogeno e l'elio - sono fortemente ionizzati (e cioè gran parte dei loro atomi hanno perduto gli elettroni esterni), onde le loro righe spettrali cadono generalmente nella parte ultravioletta dello spettro, inaccessibile alle nostre misure per λ 〈 2900 Angstrom.
Abbassandosi la temperatura (tipi F, G, K), gli atomi si ricompongono, o almeno diminuisce il grado di ionizzazione, e compaiono quindi le righe metalliche nello spettro visivo. A temperatura ancora più bassa, si formano le molecole e quindi nello spettro appaiono le bande, che (v. spettroscopia) indicano appunto la presenza di molecole nel gas che le produce.
Come si vede, il comportamento degli spettri stellari dipende principalmente dalla temperatura dell'atmosfera delle stelle; si comprende quindi, senza entrare in dettagli, la possibilità di dedurre dall'esame dello spettro la temperatura dell'atmosfera stessa. Si è trovato in tal modo che questa temperatura varia da un massimo di circa 25.000° per le stelle del tipo spettrale O, fino a un minimo di circa 3000° per quelle del tipo N; per alcune stelle eccezionali, che si trovano nel centro delle nebulose planetarie (nuclei), sembra però che si possa giungere anche a 150.000°.
Un secondo metodo per la ricerca della temperatura stellare si fonda sopra l'indice del colore, come mostra la formula (7). Notiamo però che la temperatura così ottenuta (e che gli astronomi chiamano spesso temperatura di colore) corrisponde alla temperatura della fotosfera, giacché il fondo continuo dello spettro stellare - da cui dipende appunto il colore dell'astro - proviene dalla luce emessa dalla fotosfera. La "temperatura di colore risulta generalmente maggiore della temperatura atmosferica, ed è facile comprenderne la ragione quando si pensi che la fotosfera si trova al disotto dell'atmosfera.
Ma non basta; conoscendo la temperatura superficiale di un astro (atmosfera e fotosfera) e la quantità di calore che esso irradia, la fisica insegna a calcolare la temperatura centrale dell'astro stesso. Si trova in tal modo che nelle stelle giganti (stelle di debolissima densità media e di colossali dimensioni: per esempio, Betelgeuse) la temperatura centrale raggiunge i dieci milioni di gradi; nelle stelle nane (stelle di densità più elevata e di minori dimensioni: es. il Sole) arriva fino a cinquanta milioni di gradi e in alcune stelle speciali di altissima densità (nane bianche) raggiunge valori ancora più alti.
10. Pressione dell'atmosfera stellare. - La spettroscopia insegna che la temperatura, a cui una riga spettrale raggiunge la massima intensità, dipende dalla pressione del gas che la genera. Ne segue che, conoscendo la temperatura dell'atmosfera di una stella ed esaminando l'intensità relativa delle righe di un elemento contenuto nell'atmosfera stessa, è possibile dedurre la pressione. I calcoli sono stati eseguiti principalmente da E. A. Milne e A. Fowler, e si è trovato che la pressione dell'atmosfera delle stelle è generalmente debolissima, raggiungendo al livello della fotosfera (e cioè alla base dell'atmosfera stessa) appena la decimillesima parte della pressione dell'atmosfera terrestre al livello del mare.
Notiamo, di passaggio, che questo importante risultato moderno ha costretto gli astronomi ad abbandonare completamente la teoria classica della fotosfera del Sole, teoria secondo cui la iotosfera stessa sarebbe formata da giganteschi nembi contenenti in sospensione particelle solide di calcio, silicio, carbonio, ecc. Tale teoria spiegava facilmente il grande splendore della fotosfera, il suo spettro continuo (perché proveniente da corpi solidi), come pure le numerose "granulazioni" che appaiono sopra la fotosfera stessa (v. sole). Ma essa risulta oggi insostenibile, poiché alla temperatura di circa 6000° e ad una pressione estremamente bassa, nessun elemento conosciuto può conservarsi allo stato solido.
11. Distanza delle stelle. - Dopo aver esaminato le caratteristiche della radiazione stellare, passiamo allo studio delle caratteristiche geometriche, cominciando dalla distanza delle stelle. Per determinarla, l'astronomia dispone di varî metodi.
Accenniamo i più importanti.
A) Metodo delle parallassi trigonometriche. - Rimandando per altre notizie alla voce parallasse, ne diamo qui un breve cenno e a tal fine cominciamo dal ricordare che la Terra descrive annualmente intorno al Sole un'ellisse, assai prossima alla forma circolare, il cui semiasse maggiore a è uguale a 149.500.000 km., e che, come già si accennò, viene spesso chiamato "unità astronomica".
Ora, per ovvie ragioni di moto relativo, l'osservatore terrestre crederà di essere immobile e crederà invece che tutte le stelle descrivano annualmente un'orbita eguale alla terrestre, la quale si proietterà sopra la sfera celeste sotto forma di un'ellisse molto piccola, data la grande distanza degli astri. Il semiasse maggiore di questa ellisse - che indicheremo con p - si chiama parallasse annua, o semplicemente parallasse, dell'astro; avremo quindi misurando p in radianti:
dove D indica la distanza dell'astro. Notiamo che la (8) mostra che p è eguale all'angolo sotto cui un osservatore, situato sull'astro, vedrebbe il raggio dell'orbita terrestre perpendicolare alla congiungente l'astro col Sole, secondo la definizione ordinaria di parallasse.
Ciò posto, invece di misurare p in radianti, valutiamolo - come fanno sempre gli astronomi - in secondi di arco (p″), ricordando che un radiante è eguale a 206.265 secondi. Inoltre prendiamo come unità di lunghezza una distanza eguale a 206.265 a (e cioè 30,9•1012 km. = 3,26 anni di luce), distanza a cui gli astronomi - secondo la proposta di H. H. Turner dànno il nome di parsec, perché una stella distante un parsec avrebbe appunto la parallasse di un secondo di arco. La (8) diviene allora:
la quale mostra che la distanza di una stella, valutata in parsec, è eguale all'inverso della parallasse misurata in secondi.
La determinazione della distanza di una stella si riduce quindi alla ricerca della sua parallasse. E, a tale scopo, basta determinare più volte, nel corso dell'anno, la posizione esatta della stella in cielo, prendendo come termini di confronto stelline vicine e di debolissimo splendore e cioè stelline che - a cagione appunto della loro debolissima luminosità - si possono ragionevolmente ritenere come assai distanti da noi e aventi quindi una parallasse eguale a zero. Tali misure si eseguivano in passato con l'equatoriale munito di micrometro filare, o con l'eliometro, collegando la posizione della stella, di cui si cerca la parallasse, con le più deboli stelline visibili nel campo del cannocchiale. Ma oggi si usa quasi esclusivamente il metodo fotografico, più rapido e più preciso, e per cui basta eseguire almeno due fotografie (a sei mesi di distanza) e compiere le misure sopra le lastre ottenute.
Notiamo che le parallassi sono sempre assai piccole (la massima conosciuta sembra quella della stella Proxima Centauri, per cui si ha p = 0″,76) e aggiungiamo che la prima determinazione di parallasse fu eseguita dal Bessel, nel 1837, all'osservatorio di Königsberg, per la stella 61 Cygni, ottenendo p = 0″,31.
B) Metodo delle parallassi spettroscopiche. - Il metodo ora esposto presenta l'inconveniente di potersi applicare praticamente solo per stelle la cui distanza non superi tre secoli di luce, e cioè per stelle relativamente vicine a noi. Basta infatti considerare che, quando la distanza di un astro supera i tre secoli di luce (circa 100 parsec), la sua parallasse diviene inferiore al centesimo di secondo di arco e cioè al minimo misurabile, con qualche sicurezza, con i nostri mezzi. S'applica allora il metodo delle parallassi spettroscopiche, dovuto in gran parte a W. S. Adams e A. Kohlschutter (1913). Per darne un cenno, ricordiamo che - a parità di temperatura e quindi di tipo spettrale - l'intensità delle righe spettrali dipende dalla pressione dell'atmosfera stellare e quindi dall'intensità della gravità sopra la superficie dell'astro. Ma la gravità superficiale è determinata dal raggio dell'astro e dalla sua massa, che - come diremo tra breve - è connessa con la sua luminosità intrinseca. Si comprende dunque che - a parità di tipo spettrale - lo spettro di un astro sarà connesso con la sua luminosità e quindi con la grandezza assoluta M. Ora l'osservazione conferma queste previsioni teoriche, giacché mostra, per es., che la riga λ = 4215 dello stronzio è molto forte nelle stelle di grande luminosità assoluta, come pure sono molto forti le bande del cianogeno; invece, p. es., la riga del calcio λ = 4454 e quella del titanio λ = 4535 sono assai forti nelle stelle di debole luminosità assoluta.
Ciò posto, immaginiamo di fotografare lo spettro di più stelle di cui si conosca la parallasse trigonometrica e quindi anche - per la formula (3) - la grandezza assoluta M. Potremo allora, per ogni tipo spettrale, costruire un diagramma grafico, prendendo, p. es., come ordinata M e come ascissa il rapporto d'intensità delle righe ora nominate. E una volta costruito questo grafico, è evidente che, confrontandolo con lo spettro di una stella dello stesso tipo, potremo dedurne immediatamente M e quindi, con l'equazione (3), la parallasse p.
Tale metodo non è molto esatto (gli errori si valutano del 20%), ma ha altissima importanza, non solo per la sua facilità, ma specialmente perché è applicabile qualunque sia la distanza della stella che si studia, purché l'astro sia sufficientemente luminoso per poterne fotografare lo spettro. In tal modo, con l'aiuto del grande specchio riflettore dell'osservatorio del Monte Wilson (specchio che ha 2,50 m. di apertura ed è utilissimo per fotografie spettrali), si sono oggi determinate le parallassi (e quindi le distanze) di oltre settemila stelle, riportate nel General Catalogue of Parallaxes di H. Schlesinger.
C) Metodo delle parallassi dinamiche. - Ci limitiamo ora soltanto a nominarlo, riserbandoci di darne un breve cenno, trattando delle stelle binarie, alle quali si applica.
D) Metodo delle Cefeidi. - Le Cefeidi (come diremo tra poco) sono stelle variabili di colore bianco, di breve periodo e di grande regolarità (v. figg. 5-6-7), che traggono il loro nome dalla più importante tra esse δ Cephei. Ora un gran numero di ricerche astronomiche, inaugurate da Miss H. Leavitt e proseguite specialmente da H. Shapley, ha dimostrato che la grandezza-media assoluta M delle Cefeidi è connessa col loro periodo P dalla relazione approssimata:
dove il periodo P è valutato in giorni e i logaritmi sono a base 10. Ne segue che, dopo aver determinato il periodo di una Cefeide (ciò che può farsi facilmente con osservazioni fotometriche; v. luminosità dei corpi celesti), risulta conosciuta la sua grandezza assoluta M e quindi, per l'equazione (3), anche la parallasse p.
Questo metodo ha altissima importanza, giacché le Cefeidi sono largamente diffuse non solo nelle estreme regioni della Via Lattea, ma anche negli ammassi globulari di stelle e nelle nebulose spirali. Forse esso è il metodo più potente che noi abbiamo per valutare le grandi distanze; e anzi, secondo l'espressione di Shapley, si può dire che le nostre conoscenze sopra le dimensioni dell'universo sono in gran parte fondate sopra le Cefeidi (v. universo).
Notiamo ancora che, oltre ai metodi esposti, esistono alcuni metodi statistici, i quali possono dare non già la distanza di una stella, ma la distanza media di una determinata classe di stelle e per i quali rimandiamo alla statistica stellare (v. universo).
Per una tabella delle parallassi e delle distanze di alcune fra le stelle più importanti rimandiamo alla voce parallasse; qui ci limitiamo a notare che la stella più vicina che si conosca (Proxima Centauri) dista quattro anni e quattro mesi di luce, vale a dire oltre quaranta trilioni di chilometri.
12. Coordinate, moti propri e velocità trasversali. - Fu già accennato che la posizione di una stella nello spazio è data da tre coordinate e cioè, praticamente, dalla sua ascensione retta α, dalla sua declinazione δ e dalla sua distanza d; e si è or ora visto come si determina la distanza, mentre per l'ascensione e la declinazione - la cui determinazione appartiene all'astronomia sferica - rimandiamo a quest'ultima voce, limitandoci qui a ricordare che tale determinazione si esegue con l'aiuto simultaneo di pendoli astronomici di alta precisione e del cannocchiale meridiano, munito di un micrometro impersonale e di un cronografo.
Con i risultati ottenuti si costruisce un catalogo stellare (vedi stellare, catalogo), lavoro che richiede lunghi anni di fatica e grandissima pazienza (il Catalogo dell'osservatorio del Campidoglio, che lo Schiaparelli definì "il più importante lavoro del genere, compiuto in Italia, da Santini in poi" costò oltre trent'anni di lavoro, dal 1875 al 1910, a L. Respighi, A. Di Legge e F. Giacomelli), ma ha un'importanza veramente fondamentale nell'astronomia, poiché rappresenta lo stato del cielo in una data epoca.
Immaginiamo ora di confrontare due cataloghi, eseguiti in epoche differenti, dopo averli ridotti ambedue ad un medesimo equinozio, onde tener conto degli spostamenti apparenti dovuti al noto fenomeno della precessione degli equinozî (vedi equinozî); potremo allora constatare che le coordinate, α e δ, di ogni stella sono lievemente variate. Se dividiamo queste variazioni per il numero di anni in cui si sono verificate; otterremo evidentemente le variazioni annuali delle due coordinate dell'astro che si considera variazioni che gli astronomi chiamano moti proprî e indicano con i simboli μα e μδ.
Ovviamente (vedi astronomia: Astronomia sferica) lo spostamento in declinazione μδ ha luogo lungo un cerchio orario (cerchio massimo), mentre lo spostamento in ascensione μα ha luogo secondo il parallelo (cerchio minore) di declinazione δ e quindi ha una lunghezza eguale a μα cos δ. In conseguenza, essendo sempre μα e μδ molto piccoli e potendosi quindi supporre che lo spostamento totale avvenga sul piano tangente alla sfera, avremo per il teorema di Pitagora:
dove μ indica il moto proprio totale dell'astro in un anno; moto che è prodotto dalla composizione del moto peculiare dell'astro e del moto parallattico dovuto al movimento del Sole tra le stelle. Qui ci limiteremo solo a notare che il moto proprio μ è sempre debolissimo, arrivando al massimo a 10″,3 l'anno per la "stella freccia" di E. E. Barnard, mentre si conoscono appena 50 stelle per cui μ supera i 2″ l'anno e appena 200 stelle per cui μ supera 1″ l'anno.
Ciò posto, indichiamo con v la velocità di un astro qualsiasi rispetto al Sole (o meglio, rispetto a un sistema di assi di direzione invariabile aventi per origine il Sole) e decomponiamo il vettore v in due componenti: una v diretta lungo il raggio vettore che unisce il Sole (o la Terra che possiamo considerare come coincidente col Sole stesso) con l'astro considerato e l'altra vt normale al raggio vettore e cioè giacente sul piano tangente alla sfera celeste nel punto occupato dall'astro. In conformità alla nomenclatura adottata in cinematica, chiameremo queste due componenti con i nomi di velocità radiale e velocità trasversale (malamente detta anche tangenziale) dell'astro e osserveremo che il moto proprio - e cioè lo spostamento dell'astro sul piano tangente alla sfera celeste - è dovuto soltanto alla sua velocità trasversale.
Ora uno spostamento eguale all'unità astronomica (149.500.000 chilometri) sul piano tangente alla distanza dell'astro, è visto da noi sotto un angolo eguale alla parallasse p. In conseguenza, se μ è il moto proprio, lo spostamento trasversale annuo dell'astro sarà eguale a 149.500.000 μ/p; e quindi, poiché in un anno si comprendono 31.556.926 minuti secondi, la velocità trasversale dell'astro, espressa in chilometri al secondo, sarà:
Si trova in tal modo che, in media, la velocità trasversale delle stelle è di circa 22 km./sec. con moderata dispersione; nel senso, cioè, che più di tre quarti delle stelle esaminate hanno velocità trasversale compresa tra la metà e il doppio di questo valore. Una delle stelle che ha grandissima velocità trasversale è Arturo, per cui si ha vt = 135 km./sec.; per la binaria Washington 5583-5584, si ha vt = 510 km./sec.
Ovviamente se nella (12), al posto di μ, poniamo μδ oppure μα cos δ otteniamo le componenti di vt lungo le tangenti al cerchio orario e al parallelo.
13. Velocità radiali delle stelle. - Per completare le caratteristiche cinematiche delle stelle, resta a determinare la loro velocità radiale, e ciò si può fare facilmente con osservazioni spettroscopiche, servendosi di un fenomeno conosciuto in fisica col nome di principio di Doppler, in onore del suo scopritore (v.). Esso insegna che, quando una sorgente luminosa ha velocità radiale vr, la lunghezza d'onda λ della luce che ci manda appare incrementata di una quantità Δλ data dall'equazione:
dove c indica la velocità della luce (c = 299.800 km./sec.) e vr si valuta positivamente quando la sorgente si allontana da noi e negativamente quando si avvicina. Ne segue che, per determinare la velocità radiale di una stella, basta misurare la lunghezza d'onda di una sua riga spettrale (in pratica, per maggiore esattezza, si esaminano varie righe, scelte tra le più nette) e paragonarla con quella dello spettro di confronto; se ne ricavano immediatamente λ e Δλ, e quindi la (13) dà vr.
I risultati vengono poi - per adoperare la fraseologia degli astronomi - ridotti al Sole e cioè corretti della velocità dovuta al moto della Terra intorno al Sole.
Notiamo che le velocità radiali delle stelle sono generalmente piccole e di rado sorpassano i 30 km./sec.; una delle maggiori osservate è quella della variabile RZ Lyrae, per cui si ha vr = 385 km./sec. Aggiungiamo che, al contrario di quanto avviene per le stelle, le velocità radiali delle nebulose extragalattiche sono invece elevatissime (anche decine di migliaia di chilometri al secondo) e crescono anzi con la distanza, sebbene forse non proporzionalmente come si era creduto dapprima. Molti astronomi ritengono che tale fenomeno sia dovuto all'espansione dell'universo (v. universo), ma oggi alcuni dubbî sono sorti in proposito.
14. Diametri delle stelle. - Per determinare il diametro delle stelle, abbiamo due metodi: quello diretto, o interferometrico, e quello indiretto. Il metodo indiretto, che è il più generalmente usato, si fonda sopra le equazioni (5) e (6). Basta infatti conoscere la grandezza assoluta fotografica e quella visuale - date dall'equazione (3), quando si conosca la parallasse - per avere immediatamente la temperatura fotosferica e il raggio R dell'astro. I diametri così ottenuti sono spesso chiamati dagli astronomi diametri equivalenti, giacché la (5) e la (6) si fondano sopra l'ipotesi, assai prossima al vero, che la radiazione stellare sia equivalente a quella di un corpo nero.
Il metodo diretto, o interferometrico, è certamente preferibile, ma praticamente si può applicare soltanto a stelle giganti e relativamente vicine. A tale scopo notiamo che se si copre l'obiettivo di un cannocchiale con un diaframma avente due fori simmetrici rispetto al centro, e se si osserva una stella adoperando un forte oculare, si vede (v. figure 8-9) un piccolissimo disco (disco d'interferenza, da non confondersi col disco reale dell'astro) solcato da righe oscure, normali alla congiungente i due fori (v. interferenza e diffrazione). Se facciamo variare la distanza Δ tra i due fori e indichiamo con λ la lunghezza d'onda effettiva della luce dell'astro, si osserva che le righe oscure, o frange, scompaiono quando si ha:
dove d è il diametro angolare dell'astro espresso in radianti (per averlo in secondi di arco, basta ricordare che il radiante equivale a 206264″,8). Conoscendo il diametro angolare Δ″ di un astro in secondi di arco e sapendosi la sua distanza (o la sua parallasse p), si ha poi immediatamente il diametro lineare D espresso in unità astronomiche con la formula D = Δ″/p e quindi, essendo l'unità astronomica eguale a 149.900.000 km., si ha subito D in chilometri. Concettualmente quindi la misura dei diametri non presenta difficoltà: basta far variare la distanza Δ dei due fori del diaframma nominato fino a che le frange spariscano, ed applicare quindi la formula.
In pratica non occorre porre il diaframma innanzi all'obiettivo, potendosi collocare assai più comodamente nell'interno del cannocchiale, tra l'obiettivo e il fuoco. In tal caso, però, come valore di Δ si deve prendere la distanza dei fori proiettata dal fuoco sull'obiettivo, o, meglio, occorre tarare lo strumento misurando qualche diametro già noto. Se il diametro angolare d da misurarsi è molto piccolo, la (14) mostra che Δ dovrà essere grande; in tal caso, invece del diaframma, si possono usare due piccoli specchi posti all'estremità di una lunga sbarra, che si colloca trasversalmente all'obiettivo stesso (v. figg. 10-11) prendendo per Δ la distanza tra gli specchietti. Termineremo aggiungendo che l'interferometro fu suggerito da A. H. L. Fizeau; ma in pratica venne applicato da F. G. Pease, che il 13 dicembre 1920 misurò, a Monte Wilson, il diametro di Betelgeuse; fu questo il primo diametro ottenuto con l'interferometro.
Passando ora all'esame dei risultati, dobbiamo dire che i diametri stellari hanno dimensioni diversissime, da centinaia di milioni di chilometri per alcune stelle supergiganti (v. fig. 12) fino a meno di diecimila chilometri per qualche stella nana bianca. Riportiamo nella seguente tabella i diametri di alcune stelle, misurati prendendo come unità il diametro del Sole la cui lunghezza è data da 1.390.000 km.:
15. Massa e densità delle stelle. - L'astronomia possiede due metodi fondamentali per la determinazione della massa delle stelle e cioè: a) Metodo delle stelle binarie. Come vedremo tra breve, le stelle binarie (p. es., Castore, Albireo, Rigel, ecc.) sono stelle che, ad occhio nudo appariscono semplici; ma, osservate con buoni cannocchiali o con metodi spettroscopici, risultano composte di due astri vicini, i quali si muovono sotto l'influenza della loro mutua attrazione. Più precisamente, se esaminiamo il loro moto relativo prendendo come origine uno qualsiasi dei due astri (e generalmente gli astronomi scelgono il più luminoso, che chiamano stella principale) si trova che l'altro descrive un'orbita ellittica avente per fuoco il primo. Indichiamo ora con a il semiasse maggiore di questa ellisse, con T il tempo di rivoluzione e con &out;m1 ed &out;m2 le masse dei due astri, prendendo rispettivamente come unità di lunghezza, di tempo e di massa, la distanza media della Terra dal Sole (149.500.000 chilometri), l'anno e la massa solare. La meccanica celeste ci dà allora l'equazione seguente, che sostanzialmente coincide con la terza legge di Keplero (v. kepler):
E quindi, poiché le osservazioni ci permettono di calcolare T e a, risulta nota la quantità &out;m1 + &out;m2 e cioè la massa totale del sistema binario. Dopo ciò, per determinare le singole masse&out; m1 e &out;m2 basta determinare il loro rapporto&out; m1/&out;m2; e vi si perviene sia determinando la posizione del baricentro, che - come è noto - divide la distanza tra i due astri in parti inversamente proporzionali alle loro masse; sia, più semplicemente ma meno esattamente, ricorrendo a stime fondate sopra la luminosità relativa dei due astri, il loro tipo spettrale, ecc.
b) Metodo fotometrico. Questo metodo è meno rigoroso del primo (dando errori spesso superiori al 20%), ma in compenso è assai più generale. Per darne un rapido cenno, ricordiamo che le stelle sono giganteschi globi gassosi che irradiano energia, in dipendenza della quantità di materia che contengono (e cioè della loro massa) e della temperatura effettiva. Si comprende quindi l'esistenza di una relazione tra la luminosità (o la grandezza assoluta M) di un astro, la sua temperatura e la sua massa (v. fig. 13).
Il Doig ha dato a tale scopo la formula semplicissima:
dove i logaritmi sono a base decimale e dove si prende come unità di massa quella del Sole; e tale formula è stata controllata applicandola a numerose stelle binarie, di cui si era determinata precedentemente la massa col metodo precedente. Altre formule, più complicate, sono state pure date da A.S. Eddington, come diremo tra poco. Ciò posto, immaginiamo di aver misurato la grandezza apparente m di un astro e di conoscerne la parallasse p; la (3) ci darà allora la grandezza assoluta M e quindi la (16) ci farà conoscere la massa &out;m.
Oggi, con l'applicazione dei due metodi esposti, gli astronomi sono venuti a conoscenza di un gran numero di masse stellari e il loro esame ha mostrato che esse variano generalmente tra limiti abbastanza ristretti e cioè, nella grande maggioranza dei casi, tra la decima parte e dieci volte la massa del Sole; soltanto in casi eccezionalissimi (p. es., nella BD+6° 1309) si arriverebbe a masse circa cento volte superiori a quella del Sole. E tale risultato è pienamente conforme alle previsioni teoriche, giacché se la stella ha massa troppo piccola, il suo splendore è così debole da sfuggire alle nostre ricerche; se invece la massa è molto grande, anche la pressione dell'energia raggiante diviene (come diremo) grandissima e tale da produrre facilmente la rottura dell'astro.
Determinata la massa di un astro, di cui si conosca il diametro, un facile calcolo permette di dedurne immediatamente la densità media. Si trova in tal modo che la densità media degli astri varia dentro limiti larghissimi e cioè da valori inferiori al decimillesimo della densità dell'atmosfera terrestre al livello del mare, fino a valori cinquanta o centomila volte superiori alla densità dell'acqua. Secondo Eddington, queste densità altissime che si verificano in alcune stelle speciali (stelle "nane bianche"), si potrebbero spiegare con l'ipotesi che tali stelle siano costituite da atomi quasi completamente ionizzati.
Nella tabella in fine alla p. 685 si trovano riportate la densità ρ e la massa &out;m di alcune stelle, prendendo come unità la densità dell'acqua e la massa del Sole e disponendole in ordine di densità crescenti. Nel caso di stelle binarie, i dati si riferiscono all'astro principale.
16. Numero delle stelle. - Rimandando per ulteriori notizie sulla statistica stellare alla voce universo, ci limitiamo alla seguente tabella che è dovuta a F. H. Seares e P. J. Van Rhijn e che ci dà il numero N delle stelle più brillanti della grandezza visuale m.
Come appare da questa tabella, vi sono in cielo circa 5000 stelle più brillanti della sesta grandezza e quindi visibili a occhio nudo. Inoltre, aumentando di un'unità la grandezza stellare, il numero delle stelle cresce in proporzione sempre minore; e cioè dapprima si triplica o quadruplica, poi si raddoppia e infine aumenta soltanto del 60 o 70 per cento. La statistica stellare mostra che ciò è dovuto al fatto che le stelle del sistema galattico, a cui appartiene il nostro Sole, si vanno sempre più rarefacendo a mano a mano che ci avviciniamo ai limiti del sistema stesso. Inoltre la statistica stellare mostra che il numero delle stelle per grado quadrato della sfera celeste è massimo nei dintorni della Via Lattea e diminuisce a mano a mano che ci avviciniamo ai poli galattici; ciò che è conseguenza della forma assai schiacciata del nostro stesso sistema galattico.
Ovviamente quando sarà inaugurato il nuovo riflettore americano di duecento pollici, che permetterà di fotografare le stelle fino alla 23ª grandezza, si avranno ulteriori importanti notizie e forse si potrà calcolare approssimativamente - con estrapolazioni - il numero totale delle stelle del sistema galattico; numero che oggi si crede aggirarsi sui cento miliardi. Ma occorre ricordare che, oltre al sistema galattico, vi sono nell'universo centinaia di milioni di sistemi simili, ciascuno dei quali racchiude molti miliardi di stelle, delle quali non sappiamo nulla per ora e che forse sfuggiranno sempre alle nostre ricerche. Possiamo quindi ben ripetere l'espressione di Herschel, di trovarci innanzi ad un abisso senza fondo, che la nostra scienza cerca invano di sondare!
Teorie stellari.
17. Origine del calore stellare. - Le stelle sono oggi considerate come giganteschi globi gassosi, prodotti forse dalla condensazione di un gas che riempiva tutto lo spazio e del quale rimane ancora qualche traccia. Nell'interno di questi globi si produce gran copia di energia, che le stelle irradiano nello spazio sotto forma di onde eteree, luminose e calorifiche; e il primo problema che si pone ai teorici, consiste appunto nel ricercare l'origine di questa immensa quantità di energia.
A tale scopo notiamo che - come indicano le misure piroeliometriche - il Sole manda in un minuto primo, sopra un cmq. di superficie normalmente esposta, alla distanza della Terra, una quantità di calore equivalente a 1,937 calorie-grammi (costante solare). Un facile calcolo mostra allora che il Sole irradia in un anno 2,88•1033 calorie-grammi e quindi (essendo la massa solare eguale a circa 1,9•1033 grammi) si conclude che in media, ogni grammo di materia solare produce circa una caloria e mezzo all'anno. Ma, come risulta da note ricerche geologiche, la comparsa delle prime tracce di vita vegetale e animale sopra la Terra rimonta a circa uno o due miliardi di anni fa, onde ogni grammo di materia solare ha erogato fin ad ora almeno due miliardi di calorie. Si tratta dunque di ricercare la sorgente di tanta energia e, a tal fine, sono state fatte varie ipotesi che qui riassumiamo:
a) Ipotesi della combustione. - È l'ipotesi più antica e si deve ritenere oggi completamente insufficiente. Basta pensare che ogni grammo di carbone bruciando produce circa ottomila calorie, onde il Sole basterebbe appena per quattromila anni.
Analogamente si dica delle vecchie ipotesi fondate sopra combinazioni chimiche.
b) Ipotesi di Helmholtz. - Secondo questa ipotesi, che ebbe gran successo nella seconda metà del secolo passato, il calore del Sole sarebbe prodotto dal lavoro effettuato dalla forza d'attrazione durante la lieve ma continua contrazione del globo solare. Si dimostra però che, nella migliore ipotesi (e cioè supponendo anche che originariamente il globo del Sole avesse avuto dimensioni immensamente grandi) l'energia prodotta sarebbe bastata, al più, per alcune decine di milioni di anni.
Infatti, se supponiamo che il Sole avesse avuto originariamente un raggio infinitamente grande e che si sia contratto fino alle dimensioni attuali, l'energia prodotta - per noti teoremi di meccanica - sarebbe eguale all'autopotenziale del Sole e cioè alla quantità 3 m2f/5 R, dove m, R, f indicano la massa, il raggio attuale del Sole e il coefficiente attrattivo. Eseguendo il calcolo si trova 5•1040 calorie, sufficienti (al tasso di oltre 2•1033 calorie all'anno) per venti milioni di anni. Questo valore si può però aumentare un poco supponendo l'astro non omogeneo.
Ne segue che l'ipotesi di Helmholtz si deve ritenere, anch'essa, come insufficiente e lo stesso si può dire di quella di R. Mayer, che supponeva il calore solare generato dalla caduta di meteoriti.
c) Ipotesi della radioattività. - Dopo la scoperta del radio, fu avanzata l'ipotesi che il calore del Sole e delle stelle fosse dovuto al radio contenuto in questi corpi celesti. Ma, per giungere a una durata di qualche miliardo di anni, occorrerebbe supporre che il Sole e le stelle fossero in gran parte costituite di radio, mentre invece il radio è probabilmente un corpo assai raro non solo sopra la Terra, ma anche negli astri, tanto che non è stato ancora rinvenuto con certezza negli spettri stellari.
d) Ipotesi della disintegrazione o trasformazione della materia. - Escluse così le altre ipotesi, si è dovuto far ricorso a processi subatomici e, più particolarmente, alla disintegrazione e alla trasformazione della materia. E questa spiegazione, proposta dapprima dal Jeans nel 1904, ritrovata nel 1905 da A. Einstein come conseguenza della teoria della relatività, sostenuta poi da J. Perrin e dall'Eddington, confermata più tardi da numerosi fenomeni di fisica atomica, costituisce ora la base delle moderne teorie stellari.
Per riassumerla in poche parole, diciamo che, secondo i concetti moderni, la materia si può considerare grossolanamente come energia condensata; o, meglio, che la materia ponderabile si può trasformare in imponderabile (secondo alcuni in etere cosmico), o praticamente si può disintegrare, liberando un'enorme quantità di energia. Secondo i fisici, per ogni massa m di materia che si disintegra, la quantità di energia liberata è eguale ad mc2 (dove c indica la velocità della luce), onde un grammo di materia, disintegrandosi, produce 9•1020 erg e cioè 2•1013 calorie.
Si vede subito che il Sole, disintegrandosi, può fornire calore (al tasso attuale) per parecchi trilioni di anni; tempo più che sufficiente per tutti i fenomeni geologici. E anzi non v'è nemmeno bisogno di ricorrere alla disintegrazione, giacché è stato osservato che quando atomi semplici si uniscono trasformandosi in atomi più complessi, si perde una piccola quantità di materia (circa 1/130), con produzione di energia. Così, p. es., l'idrogeno ha peso atomico 1,008; l'elio ha peso atomico 4,000; quando dunque quattro atomi d'idrogeno si uniscono trasformandosi in uno di elio, abbiamo una perdita di materia di otto milligrammi per ogni grammo di idrogeno trasformato. Basta quindi supporre che, nell'interno degli astri, abbiano luogo tali processi di trasformazione e disintegrazione, per poter spiegare completamente perché le stelle irradiano calore in tanta quantità e perché tale irradiazione possa prolungarsi per miliardi e miliardi di anni. Ma i particolari sono ancora quasi completamente sconosciuti, come pure le possibili relazioni tra i processi ora indicati e l'origine dei raggi cosmici (v. radiazione: Radiazione cosmica).
18. Costituzione interna delle stelle. - Con molta approssimazione le stelle si possono supporre come globi gassosi di forma sferica, composti di strati sferici, omogenei e concentrici, onde in ogni punto A, la pressione totale P, la densità ρ e la temperatura assoluta T, dipendono soltanto dalla distanza x dal centro. Abbiamo dunque tre incognite da determinare in funzione di x e in conseguenza occorreranno tre equazioni. Ora:
a) una prima equazione è la nota equazione barometrica, data dalla meccanica
dove g indica la gravità nel punto considerato;
b) una seconda equazione è l'equazione fondamentale dei gas perfetti, data dalla fisica. Notiamo in proposito che, a causa dell'altissima temperatura e quindi dell'alto grado di ionizzazione, si dimostra che i gas interstellari si possono generalmente considerare (almeno escludendo alcune stelle eccezionalmente dense) come gas perfetti, con peso molecolare eguale circa a 2,1. Avremo dunque:
dove pe indica la pressione elastica del gas ed R la costante dei gas perfetti (R = 8,315•107, nel sistema C. G. S. valutando T in centigradi).
D'altra parte la pressione totale P (o, in altre parole, il peso della colonna gassosa che gravita sul punto A) è equilibrata in parte dalla pressione elastica del gas e in parte dalla pressione pr dell'energia raggiante; pressione che, per la legge di Bartoli, sappiamo essere proporzionale alla quarta potenza della temperatura assoluta. Avremo dunque, in definitiva:
dove b indica la costante di Bartoli (b = 2,54•10-15 nel sistema C. G. S., valutando T in centigradi).
Per risolvere il problema, resta quindi a trovare una terza equazione e a tale scopo si adotta modernamente l'ipotesi, suggerita da K. Schwarzschild, che il calore si propaghi nell'interno dell'astro principalmente per irradiazione. In via approssimata, Eddington suppone che il flusso totale di energia uscente da una sfera S, di raggio x, interna e concentrica con l'astro, sia proporzionale alla quantità di materia m contenuta in S. Ne segue che il flusso unitario di energia (flusso per cmq.) sarà proporzionale ad m/x2 e cioè al valore della gravità nel punto considerato A. Ma la pressione esercitata dall'energia è proporzionale all'energia assorbita e cioè al flusso unitario, moltiplicato per la densità della materia attraversata e per il coefficiente di assorbimento; se quindi si suppone che questo coefficiente si conservi costante dentro l'astro, ne risulta che l'incremento dpr della pressione di radiazione, quando x aumenta di dx, sarà proporzionale al prodotto gρdx e cioè, per la (17), a dP. E quindi, poiché P e pr si annullano sopra la superficie esterna, vediamo subito che pr è proporzionale a P e quindi anche a pe. Eddington pone dunque:
dove β è un coefficiente costante, compreso tra 0 ed 1, che si tratta di determinare. Con alcuni calcoli si trova poi che β è dato dall'equazione:
la quale ha una radice, ed una sola, compresa tra o ed 1; la &out;m indica, al solito, la massa totale dell'astro, misurata prendendo come unità quella del Sole. Notiamo che se &out;m è molto grande, β risulta prossimo a zero e quindi la pressione dell'energia raggiante eguaglia quasi la pressione totale, onde l'astro può facilmente disgregarsi o esplodere.
Calcolando la quantità totale di energia che esce dalla superficie esterna, Eddington trova poi l'equazione:
dove M indica la grandezza assoluta dell'astro. Ne segue che, conoscendo M, la (21) e la (22) dànno β e la massa &out;m.
Chiamiamo ora con C una costante data dall'espressione:
avremo allora facilmente dalle (17), (18), (19), (20):
Ora, indicando con f il coefficiente attrattivo (f = 6,673•10-8 nel sistema C. G. S.) e con V il potenziale attrattivo nell'interno dell'astro, supposto sferico e composto di strati sferici omogenei, si ha la nota equazione di Poisson:
e inoltre:
Abbiamo quindi dalle (24)
donde risulta immediatamente:
e la (25) diviene:
la quale, ponendo:
si trasforma immediatamente in:
che è l'equazione canonica dell'equilibrio stellare, dovuta a R. Emden.
La (31) può essere integrata con metodi approssimati, dando y e quindi ρ in funzione di x; ottenuta ρ, le (24) dànno T e pe, donde - essendo conosciuta β - si ricava P.
Si è calcolato in tal modo che al centro delle stelle (x = o) la temperatura giunge a circa quaranta milioni di gradi; in particolare, al centro del Sole si avrebbe P = 36•109 atmosfere, T = 29.000.000 di gradi centigradi e ρ = 28. Secondo alcuni astronomi, queste altissime temperature e pressioni agevolano la trasformazione della materia in energia.
19. Evoluzione delle stelle. - Prendiamo un sistema di assi ortogonali e costruiamo un diagramma, scegliendo come ordinate le grandezze assolute M delle stelle in ordine decrescente e come ascisse i tipi spettrali nell'ordine di temperature decrescenti e cioè B, A, F, G, K, M; ogni stella sarà allora rappresentata da un punto, che chiameremo "punto immagine". Ora H. N. Russell, nel 1913, ha costruito, per primo, questo diagramma, fondandosi su alcune centinaia di stelle e Curtis, Adams e Joy hanno ripetuto l'esame (vedi fig. 14) su circa tremila stelle, trovando che i punti immagini non si dispongono a caso, ma si addensano lungo due rette. E precisamente la grande maggioranza dei punti si concentra lungo una retta (che Eddington chiama main sequence e cioè successione principale) inclinata rispetto all'asse delle ascisse e che va dalla grandezza assoluta −2 per il tipo B alla grandezza assoluta 12 per il tipo M; inoltre un secondo gruppo di punti si condensa lungo una retta (che noi chiamiamo retta delle giganti), quasi parallela all'asse delle ascisse, in corrispondenza, presso a poco, alla grandezza assoluta M = − 1. Inoltre l'osservazione mostra che le stelle del primo gruppo sono relativamente piccole e dense (ad es. il Sole), onde il nome di nane dato loro da E. Hertzsprung; invece le stelle del secondo gruppo (ad es. Betelgeuse) hanno diametri centinaia di volte maggiori del diametro solare, densità media estremamente bassa (assai inferiore a quella dell'atmosfera terrestre al livello del mare) e splendore elevatissimo (migliaia di volte superiore a quello del Sole) onde il nome di stelle giganti dato loro dallo stesso astronomo.
Questa grande divisione delle stelle in due classi (giganti e nane), sembra indicare chiaramente come si svolga l'evoluzione stellare. E precisamente tutto induce a credere che gli astri, appena formati, abbiano diametro estremamente grande (e quindi debolissima densità), bassa temperatura (e quindi colore rossastro) e cioè appartengano ai giganti del tipo M. In seguito, aumentano la densità e la temperatura e quindi il diametro diminuisce e il colore passa dal rossastro al giallo e al bianco o bianco azzurrognolo; vale a dire l'astro percorre tutta la "retta delle giganti", dal tipo M al tipo A, od O, dove la temperatura fotosferica è massima. Dopo di che, la densità continua ad aumentare ma la temperatura diminuisce, onde l'astro diviene sempre più piccolo e denso (v. fig. 15) e il suo colore passa di nuovo dal bianco al rossastro: vale a dire percorre tutta la main sequence dal tipo A al tipo M.
Ma, si domanda, perché - mentre l'astro si condensa - la sua temperatura effettiva aumenta in un primo tempo e poi torna di nuovo a diminuire?
Russel rispose, a tale domanda fondandosi sopra un teorema dovuto a J. H. Lane, secondo cui una sfera gassosa condensandosi si riscalda fino a che essa è composta di gas perfetto monoatomico o biatomico, mentre invece si raffredda quando la densità è giunta a tal punto che il gas non goda più delle proprietà dei gas perfetti o sia divenuto pluriatomico. Ma questa teoria, così suggestiva per la sua grande semplicità, è stata ora abbandonata dagli astronomi per due gravi difficoltà. E cioè da un lato - come ha mostrato Eddington - anche i gas, che costituiscono le stelle nane, godono della proprietà dei gas perfetti monoatomici (nonostante la notevole densità) a causa del loro alto stato di ionizzazione. D'altro lato, il calore stellare è generato da processi subatomici o dalla trasformazione della materia in energia e non già dal semplice lavoro di condensazione come credeva il Lane, poiché altrimenti - come abbiamo già visto - la vita dell'astro si ridurrebbe a pochi milioni di anni.
È stato quindi necessario di riprendere la teoria e Jeans e G. Armellini hanno dimostrato rigorosamente che, se si ammette che il calore dell'astro sia prodotto da trasformazioni della materia in energia, l'astro dapprima si riscalda e poi comincia a raffreddarsi, in accordo con le osservazioni.
Aggiungiamo che le osservazioni moderne hanno dimostrato l'esistenza di una terza classe di stelle dette nane bianche (es. satellite di Sirio), di piccole dimensioni, densità elevatissima e temperatura centrale molto alta. Non se ne conosce ancora l'origine; ma è probabile che si tratti di stelle eccezionali, la cui materia, secondo Eddington, sarebbe formata da atomi altamente ionizzati. Secondo H. Gehne, quando gli atomi si riuniscono ai loro elettroni, la stella aumenta grandemente di volume ed esplode dando origine ad una nova. Ed infatti, molti indizi, tratti dalle osservazioni, lasciano supporre che le novae, prima dell'esplosione, fossero appunto nane bianche.
Stelle variabili.
20. Generalità e classificazione. - Come indica la parola stessa, si chiamano stelle variabili quelle stelle, il cui splendore è soggetto a continue variazioni. Storicamente, la prima variabile conosciuta fu la o Ceti, scoperta nel 1596 da Fabritius, il quale ne restò talmente maravigliato da chiamarla "stella mirabile" e cioè, latinamente, Mira Ceti. Nel 1672 G. Montanari trovò la variabilità di Algol (già sospettata forse dagli Arabi); nel 1784 J. Goodricke quella di β Lyrae, ecc. Oggi si conoscono più di cinquemila variabili, scoperte in gran parte con la fotografia, che permette di ritrovarle con facilità, giaccahé basta eseguire - ad epoche differenti - due fotografie della stessa regione del cielo e paragonare poi le immagini delle stelle contenute nelle due lastre (v. fig. 16). Di regola, le variabili si indicano con la notazione del Pickering, la quale consiste in un numero di sei cifre, di cui le prime quattro indicano l'ascensione in ore e minuti e le ultime due la declinazione in gradi (avvertendo che se la declinazione è negativa, il numero si scrive in corsivo) e facendo seguire il simbolo della costellazione; così p. es. o Ceti si indica con la notazione 021403 Cet.
Dopo scoperta una variabile se ne esamina lo splendore in epoche diverse, con metodi visuali, fotografici (v. fig. 17) o fotoelettrici e si costruisce quindi un diagramma, prendendo per ascisse i tempi delle osservazioni (espressi generalmente con la data giuliana, in giorni e frazione decimale di giorno) e per ordinate le grandezze osservate. Si ottiene allora un diagramma che gli astronomi chiamano curva di luce e che generalmente presenta dei massimi e dei minimi, detti "principali" o "secondarî" secondo che essi si elevano, o si abbassano, più o meno dei massimi e minimi vicini.
Fisicamente le stelle variabili si possono suddividere in due grandi categorie e cioè:
1. Variabili ad eclisse (che Armellini chiama anche pseudovariabili), nelle quali la variazione è apparente e cioè è prodotta da eclissi dovute a un satellite che ruota intorno all'astro principale.
2. Variabili fisiche o variabili intrinseche, nelle quali la variazione di luce è reale ed è causata da alterazioni che colpiscono l'astro e che ne modificano non solo lo splendore, come si credeva anticamente, ma anche il colore, il tipo speciale, la temperatura, ecc.
Molti astronomi hanno tentato una classificazione delle variabili; ma tutte le classificazioni oggi esistenti si debbono considerare come provvisorie, poiché non conosciamo ancora con precisione le cause che producono la variabilità stellare e che possono essere moltissime, ad es. pulsazioni, esplosioni, disquilibrio fra l'energia prodotta e l'energia irradiata, ecc. Adotteremo dunque, come si fa generalmente, la classificazione di Pickering, la quale - pur essendo soltanto formale e cioè basata unicamente sul comportamento della curva di luce - presenta il vantaggio di una grande semplicità. Questa classificazione è data dal seguente specchietto:
a) Classe I. - Variabili ad eclisse (es. Algol).
b) Classe II. - Variabili regolari, o periodiche (es. δ Cephei).
c) Classe III. - Variabili semiregolari, dette anche a lungo periodo (es. Mira Ceti).
d) Classe IV. - Variabili irregolari (es. U Geminorum).
e) Classe V. - Stelle nuove, o temporanee (es. Nova Aquilae 1918).
Rimandando l'esame delle variabili a eclisse al paragrafo sulle stelle binarie, ci occuperemo ora delle altre classi, cominciando dalle stelle nuove.
21. Stelle nuove (novae). - Le stelle nuove si possono definire come stelle che improvvisamente (v. fig. 18) subiscono un fortissimo aumento di splendore (spesso diecine di migliaia di volte superiore al primitivo), per tornare poi lentamente all'antico. In generale la variazione di luce si aggira sulle dodici grandezze stellari (ciò che dà uno splendore 60.000 volte superiore al primitivo), mentre l'astro si gonfia e si cinge di una tenue nebulosità, nella quale, qualche volta, appaiono altre stelline, forse prodotte dalla rottura dell'astro principale. Lo spettro mostra (v. figg. 22-23) larghe bande brillanti e righe spettrali fortemente spostate verso il violetto; ciò che indica - secondo il principio di Doppler - che la fotosfera dell'astro si solleva con una velocità che spesso giunge ai 2000 km./sec.
È ormai fuori dubbio che il fenomeno è dovuto a un'esplosione, o almeno ad una rapida e fortissima dilatazione dell'astro; ma s'ignorano ancora le cause che la producono e che possono essere diversissime, sia endogene (rapida trasformazione di materia in energia, improvvisa riionizzazione di atomi ionizzati, fenomeni subatomici, ecc.), sia esogene (incontro dell'astro con uno sciame di meteoriti, ecc.). Oggi, l'ipotesi migliore sembra quella del Gehne, a cui abbiamo già accennato (n. 19) e che collega le novae con le nane bianche. L'antica ipotesi dell'incontro diretto fra due astri si deve invece ritenere come superata, data la debolissima probabilità di un tale incontro e il numero rilevante delle stelle nuove.
La prima nuova conosciuta sembra quella osservata da Ipparco nel 134 a. C. nella costellazione dello Scorpione; ma storicamente la prima di cui si abbia certezza assoluta è quella apparsa l'11 novembre 1572 nella costellazione di Cassiopea. L'astro, che venne studiato da Tycho Brahe, raggiunse uno splendore tanto forte da essere visibile in pieno giorno a occhio nudo e si spense nel marzo 1574. Le quattro ultime stelle nuove più importanti sono la Nova Aquilae apparsa l'8 giugno 1918 superando lo splendore di Sirio, la Nova Pictoris 1925, la quale si suddivise prima in due e poi in quattro componenti, la Nova Herculh, apparsa il 13 dicembre 1934 e che ha quasi raggiunto la 1ª grandezza, (fig. 19) e infine la Nova Lacertae apparsa il 18 giugno 1936 - e scoperta quasi simultaneamente da N. Gurjev, E. Loreta e A. Nielsen - e che toccò quasi la seconda grandezza.
22. Variabili irregolari. - Le variabili irregolari si possono suddividere in tre famiglie e cioè:
a) Le Novoidi (nome proposto dall'Armellini e ora generalmente adottato), le quali si possono definire come stelle che diventano "nuove" più volte a intervalli irregolari di tempo; l'esplosione però è meno violenta, raggiungendo al più otto grandezze stellari. Es.: T Pyxidis, P Cygni, RS Ophiuci, ecc.
b) Variabili della famiglia di U Geminorum, simili anch'esse a novoidi, ma con esplosione ancora meno violenta (tre o quattro grandezze stellari) e più frequente (generalmente ogni due o tre mesi). Esempî: U Geminorum, TZ Persei, TW Virginis, SS Cygni, la cui curva di luce è rappresentata nella fig. 20.
c) Variabili della famiglia di R Coronae Borealis, le quali sono caratterizzate dal fatto di subire, a intervalli irregolari di tempo, notevoli offuscamenti di splendore; secondo H. Ludendorff, forse perché sono eclissate dal passaggio di nubi cosmiche vicine. Es.: R Coronae Borealis, X Persei, T Tauri, ecc.
23. Variabili semiregolari. - Queste variabili presentano una curva di luce grossolanamente periodica e sono inoltre caratterizzate dai fatti seguenti: a) lungo periodo (compreso generalmente fra 250 e 400 giorni); b) colore rossastro; c) tipo spettrale avanzato (generalmente M); d) notevole ampiezza di variazione, spesso tre o quattro grandezze stellari (v. fig. 21). Nella maggior parte dei casi, si tratta di stelle giganti, di temperatura bassissima (1500-2000 centigradi) e cioè di stelle ancora giovanissime poste ai primi gradi dell'evoluzione siderale. La causa più probabile della variabilità si deve ritenere nel fatto che non essendo ancora raggiunta una conformazione di equilibrio, il tasso di produzione di energia è soggetto a fluttuazioni; il che produce variazioni di splendore, di colore, di temperatura, di tipo spettrale ed anche (come ormai sembra provato) pulsazioni del diametro dell'astro. Es.: Mira Ceti, χ Cygni, X Ophiuci, R Andromedae, R Hydrae, R Trianguli, ecc.
24. Variabili regolari. - Queste variabili (dette anche Cefeidi, dalla più importante tra esse δ Cephei) hanno curva di luce quasi esattamente periodica e sono inoltre caratterizzate dai fatti seguenti: a) breve periodo, in generale di circa una settimana e spesso anche, nelle Cefeidi contenute negli ammassi stellari, inferiore a un giorno; b) colore bianco; c) tipo spettrale recente (generalmente A); d) moderata ampiezza di variazione (generalmente una o due grandezze stellari). La curva di luce presenta generalmente (v. figg. 5-6-7 a p. 683) una rapida ascesa, seguita da una discesa più lenta; qualche volta anche (ad esempio, nelle variabili degli ammassi) dopo la discesa si ha un tratto orizzontale, ciò che rende la curva simile a una sega; altre volte invece (p. es., nel caso di ζ Geminorum) la curva è molto simile ad una sinusoide. Come vedemmo, si ha poi l'importante proprietà (scoperta da Miss Leavitt) che la grandezza media assoluta M delle Cefeidi è funzione lineare del logaritmo del periodo (cfr. l'equazione [10] del n. 11).
Sembra ormai dimostrato che la causa principale della variabilità delle Cefeidi risieda nelle pulsazioni periodiche dell'astro; pulsazioni che sono probabilmente dovute a oscillazioni periodiche nell'energia prodotta. Tale ipotesi spiega completamente la legge di Leavitt, come pure tutti i fatti osservati. Come esempî notiamo δ Cephei, η Aquilae, ζ Geminorum, la Stella Polare, ecc.
Stelle doppie.
25. Generalità e classificazione. - Si chiamano stelle doppie quelle stelle che, esaminate col cannocchiale, o con metodi spettroscopici o fotometrici, risultano composte di due stelle vicine: es.: Castore, Antares, Rigel, ecc. (v. fig. 1 a p. 677). Qualche volta la vicinanza è solo apparente, risultando dal fatto che le due stelle si trovano quasi allineate con la Terra, ed allora si chiamano doppie ottiche. Nel caso opposto, in cui esiste una vera vicinanza tra i due astri; si dice che le due stelle costituiscono un sistema binario. Analogamente si hanno sistemi ternarî, quaternarî, ecc.
Storicamente, la prima stella binaria conosciuta fu Mizar, la cui duplicità venne scoperta dal padre Riccioli verso la metà del sec. XVII; in seguito (1664) Hooke trovò la duplicità di γ Arietis, Bradley (1718) quella di γ Virginis, Pound (1719) quella di Castore, ecc. Oggi si conoscono più di ventimila stelle doppie, visibili con forti equatoriali; ed anzi, secondo R.H. Aitken, i sistemi binarî sono così numerosi da costituire circa il dieci per cento di tutte le stelle del cielo.
Ma una grande scoperta ebbe luogo nel 1889, per opera di E. Pickering e della sua assistente Miss A. Maury, i quali, esaminando spettroscopicamente la stella principale del sistema di Mizar e la stella β Aurigae, si accorsero che ognuno di questi spettri era a sua volta composto di due spettri sovrapposti, le cui righe si spostavano periodicamente in un senso e nell'altro (v. fig. 24). Fu facile dedurre che, sia la stella principale di Mizar, sia Aurigae, erano a loro volta composte di due stelle che rotavano l'una intorno all'altra. E nacque così una seconda categoria di stelle binarie, dette binarie spettroscopiche; le quali sono troppo vicine tra loro per poter essere separate col cannocchiale, ma possono essere studiate per mezzo dello spettroscopio. Di tali stelle se ne conoscono più di millecinquecento.
Infine una terza categoria di stelle binarie è costituita dalle binarie fotometriche (es.: Algol, β Lyrae, ecc.), cioè da quelle stelle variabili, in cui la curva di luce mostra chiaramente l'esistenza di un satellite oscuro o semioscuro, che ruota intorno all'astro principale. Se ne conoscono alcune centinaia e molte di esse sono accessibili allo spettroscopio, vale a dire possono essere considerate simultaneamente come binarie spettroscopiche e fotometriche (sistemi spettrofotometrici). Inoltre i progressi crescenti della spettroscopia e la crescente potenzialità dei telescopî, hanno oggi permesso di sdoppiare alcune binarie spettroscopiche, come pure di confrontare gli spettri di alcune binarie visuali. Si va così formando una nuova classe di stelle binarie, dette spettrovisuali, giacché sono insieme visuali e spettroscopiche e di cui l'esempio più importante è costituito da Capella (v. figg. 29-30). Questa classe ha altissimo interesse nell'astronomia per lo studio delle parallassi e delle masse stellari.
26. Sistemi binarî visuali. - Si osservano col cannocchiale equatoriale, munito di micrometro di posizione (v. figg. 26-27), benché modernamente (specie nel caso di doppie molto strette) siano stati fatti tentativi molto promettenti (J. A. Anderson, M. Maggini) di adoperare l'interferometro. Le osservazioni dànno la distanza angolare ρ tra le due componenti (misurata generalmente in secondi di arco) e l'angolo di posizione ϑ (in gradi e decimi) e cioè l'angolo che la congiungente l'astro principale col secondario forma col cerchio orario. Cinque osservazioni (v. figg. 31-32), eseguite in epoche diverse, permettono di calcolare (v. orbita) l'orbita che la stella satellite descrive intorno all'astro principile; resta però incognito il segno dell'inclinazione, mentre il semiasse maggiore a resta determinato soltanto in secondi di arco (a″). Inoltre si deve notare che:
a) Se si conosce la parallasse p (in secondi), l'equazione:
dà a in unità astronomiche e quindi la (15) dà la massa del sistema.
b) Se il sistema è spettrovisuale, a risulta determinato tanto in secondi quanto in unità astronomiche; la (32) dà allora la parallasse e quindi la (15) la massa del sistema.
Tra i più noti osservatori di stelle binarie, ricordiamo W. Struve e O. Struve a Pulkovo, E. Dembowski a Napoli e a Gallarate, il padre A. Secchi e F. Giacomelli a Roma. G. Schiaparelli a Milano, C. Flammarion a Parigi e, specialmente, S. W. Burnham ed R. G. Aitken in America.
Tra i sistemi binarî visuali più importanti ricordiamo pure (oltre a quelli già indicati) η Cassiopeiae, γ Andromedae, ε Bootis, Albireo, σ Cassiopeiae, Castore, Sirio, Procione, ecc.
27. Sistemi binarî spettroscopici. - In questi sistemi i due astri componenti sono così vicini tra loro, che è impossibile separarli col telescopio; ma (appunto a causa di tale vicinanza) la loro velocità orbitale è così grande da potersene agevolmente determinare con osservazioni spettroscopiche la componente radiale, variabile da istante a istante.
Si costruisce allora un diagramma avente per ascissa il tempo e per ordinata la velocità radiale di uno degli astri componenti, o di ambedue se sono visibili i due spettri (v. figg. 26-27-28). Il diagramma risulta periodico con periodo P eguale a quello di rivoluzione e da esso si possono determinare la velocità radiale del biricentro e gli elementi dell'orbita, esclusione fatta del nodo; inoltre non è possibile determinare a (in km.), né l'inclinazione i, ma solo il prodotto a sen i e cioè la proiezione di a sul raggio visuale condotto dall'osservatore all'astro. Se sono osservabili i due spettri, ne risulta inoltre il rapporto dei semiassi delle due ellissi descritte dai due astri intorno al comune baricentro e quindi il rapporto delle loro masse.
Tra i sistemi spettroscopici più importanti notiamo: Capella, Spiga, Gemma, a Andromedae.
28. Sistemi binarî fotometrici, o variabili ad eclisse (pseudovariabili). - I sistemi binarî fotometrici si possono distinguere in due tipi e cioè: α) Tipo di Algol, o tipo ad eclissi parziali, in cui si ha una curva di luce (v. fig. 33) con un minimo "stretto" e cioè un minimo in cui alla diminuzione di luce segue immediatamente l'aumento; β) Tipo di U Cephei, o tipo ad eclissi anulari, o totali, in cui il minimo è "largo", vale a dire, dopo la discesa, l'astro si mantiene per qualche tempo al minimo splendore, prima di tornare ad aumentare di luce (v. fig. 34). In ambedue i casi, se il satellite non è perfettamente oscuro ma semioscuro, oltre al minimo principale si ha un minimo secondario, che ha luogo quando il satellite è, a sua volta, eclissato dall'astro principale. L'esame della curva di luce permette poi di determinare l'inclinazione del piano dell'orbita descritta dal satellite intorno all'astro principale, il rapporto tra la luminosità dei due astri, e i rapporti tra i diametri dei due astri e il semiasse maggiore dell'orbita stessa. Ne segue che se il sistema è anche spettroscopico (sistemi spettrofotometrici) è possibile determinare in km. sia il semiasse maggiore che i diametri dei due astri.
Tra i sistemi del primo tipo ricordiamo Algol, β Aurigae, SX Hydrae, Z Vulpeculae (fig. 35), ecc.; tra quelli del secondo tipo, U Cephei, V Puppis, RR Centauri, ecc. In totale se ne conoscono oltre trecento.
V. carta a colori.
Bibl.: G. Armellini, Trattato di astronomia siderale, Bologna; i primi tre volumi sono già pubblicati (1928-1936), e il quarto è in preparazione. Un altro trattato, di carattere generale, è C. André, Astronomie Stellaire (Parigi 1899), il quale è però ormai in gran parte superato.
Inoltre per l'Uranografia, cfr.: E. Delporte, Délimitations scientifiques des costellations, Cambridge 1930; T. W. Webb, Celestial Objects for Common Telescopes, Londra-New York 1917, utilissimo specialmente per gli amatori muniti di buoni cannocchiali, e desiderosi di conoscere le curiosità del cielo; J. Messer, Sternatlas für Himmelsbeobachtungen, Lipsia 1902, con ampio testo illustrativo.
Per l'Uranometria, cfr.: G. Müller, Die Photometrie der Gestirne, Lipsia 1897, che, nonostante il tempo trascorso, è ancora uno dei migliori trattati di fotometria applicata alle stelle; P. Salet, Spectroscopie Astronomique, Parigi 1909, facile manuale in cui i principî della spettroscopia stellare sono chiaramente esposti; K. Graff, Grundriss der Astrophysik, Vienna 1927; H. Russell, A Revision of Young's manual of Astronomy, New York 1927, manuale composto di due volumi, il primo dedicato al sistema planetario e il secondo alle stelle; J. Bosler, Astrophysique, Parigi 1928, dove però solo una piccola parte del volume è dedicata alle stelle; P. Doig, Outline of Astrophysics, Londra 1927, manualetto molto raccomandabile per la chiarezza e la brevità dell'esposizione; F. Henroteau, Les Étoiles Simples, Parigi 1921, esso pure notevole per la facile chiarezza e brevità di esposizione.
Per le teorie stellari, cfr. A. S. Eddington, The Internal Constitution of the Stars, Cambridge 1926; J. Jeans, Astronomy and Cosmogony, ivi 1928.
Per le stelle variabili, cfr.: C. Furness, An Introduction to the Study of variable Stars, New York 1915; K. Schiller, Einführung in das Studium der veränderlichen Sterne, Lipsia 1923; G. Müller e E. Hartwig, Geschichte und Literatur des Lichtwechsels, ivi 1918, oltre all'importantissimo, Atlas Stellarum Variabilium del padre J. Hagen.
Per le doppie, cfr. R. G. Aitken, The binary Stars, New York 1919.