Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’astronomia dell’Ottocento, rispetto al secolo precedente, si caratterizza per una più sistematica esplorazione dei corpi celesti che si trovano oltre i domini del sistema solare. Le indagini sulle stelle e sulle nebulose aprono campi di ricerca completamente nuovi e pongono le basi dell’astrofisica moderna.
L’eredità settecentesca
Nell’Ottocento le ricerche in campo astronomico registrano importanti progressi su nuovi e promettenti filoni di ricerca, aperti nel secolo precedente da abilissimi osservatori, quali Charles Messier e William Herschel.
A Messier si deve la prima sistematica esplorazione e catalogazione degli ammassi stellari e delle nebulose osservabili al telescopio, mentre Herschel compie numerose scoperte e gli si devono intuizioni fondamentali in campo astrofisico. I suoi studi sui moti relativi delle stelle doppie, oltre a fornire un’ulteriore conferma della generale validità della legge di gravitazione universale, aprono la strada al calcolo delle masse stellari. Infaticabile osservatore di nebulose e ammassi stellari, Herschel avanza l’ipotesi che le stelle derivino dalla condensazione delle nebulose, ma la sua ricerca più importante riguarda la distribuzione spaziale delle stelle nella galassia ed è con una felice intuizione che egli arriva a concepire il sistema galattico come un disco appiattito, con la dimensione maggiore nel piano della via Lattea e uno spessore pari a circa un quinto di questa dimensione.
Le indagini sul cielo profondo lasciano però completamente irrisolta, alle soglie del XIX secolo, la questione delle distanze stellari: il cielo notturno rimane una volta punteggiata di astri, di cui si ignorano le reali profondità.
Le distanze stellari
La prima misurazione della distanza di una stella ha luogo tra il 1837 e il 1838, a opera di Friedrich Wilhelm Bessel (1784-1846), direttore dell’osservatorio di Königsberg. Egli osserva che la stella 61 Cygni, rispetto ad altre stelle di riferimento, va mutando la propria posizione nel corso di un anno terrestre. Rispetto ad altre stelle di riferimento, la traiettoria descritta è una piccolissima ellisse che viene percorsa in un periodo di 365 giorni. Questo movimento non appartiene alla stella, ma è un effetto generato dal moto di rivoluzione della Terra; infatti, se una stella relativamente vicina al nostro sistema solare viene osservata dalla Terra nel corso di dodici mesi, la sua posizione apparirà sempre diversa per effetto della mutevole posizione dell’osservatore. Questo moto apparente – detto “parallasse stellare” – era stato cercato per oltre due secoli, per provare il moto copernicano della Terra intorno al Sole, ma gli sforzi non erano stati coronati da alcun successo, perché l’entità del fenomeno era rimasta al di sotto delle possibilità strumentali del XVII e del XVIII secolo. Bessel riesce invece a rilevare un effetto parallattico, grazie a un tipo di telescopio particolarmente adatto a questa indagine che presenta caratteristiche decisamente superiori agli strumenti ottici impiegati in precedenza per svolgere analoghe ricerche.
Il successo di Bessel è legato, inoltre, alla scelta oculata della stella, dato che 61 Cygni presenta il più veloce moto proprio. Già dai primi del Settecento era noto che tutte le stelle si muovono nello spazio, seguendo ciascuna la propria traiettoria; questo movimento, reale – e perciò detto “proprio” –, può essere osservato dalla Terra in maniera tanto più evidente quanto più vicina è la stella. Per Bessel, il moto veloce proprio di 61 Cygni ne denuncia la relativa vicinanza al Sole e pertanto egli valuta (correttamente) che questa stella è la migliore candidata per cercare e trovare un sensibile effetto parallattico.
Le misurazioni ottenute da Bessel consentono di accertare che 61 Cygni dista dalla Terra circa 10,9 anni luce. Nel 1839, un anno dopo le misurazioni di Bessel, Otto Struve ricava la distanza di Vega (11,2 anni luce), mentre all’osservatorio del Capo di Buona Speranza Thomas Henderson (1798-1844) stima la distanza di Alpha Centauri (4,3 anni luce).
È da queste prime tre misurazioni che gli astronomi ottocenteschi iniziano a comprendere le reali dimensioni dello spazio siderale. La stima delle parallassi stellari, infatti, assumerà ben presto una notevole rilevanza per lo sviluppo degli studi di fisica stellare, poiché la conoscenza delle distanze consentirà agli astronomi di farsi un’idea sempre più precisa delle dimensioni e della luminosità reale delle stelle.
La spettroscopia applicata agli astri
Il progresso più rilevante per gli studi di astrofisica è rappresentato dall’inizio delle osservazioni spettroscopiche. Nel 1815 l’ottico e astronomo tedesco Joseph von Fraunhofer osserva delle righe oscure nello spettro solare che ancora oggi portano il suo nome. Si tratta in realtà di una riscoperta, perché queste righe erano già state osservate nel 1802 dal chimico e fisico inglese William Hyde Wollaston, ma grazie a potenti spettroscopi Fraunhofer può svolgere studi molto più accurati del fenomeno, sebbene non sia in grado di spiegarne la causa. Egli è comunque convinto che le righe siano dovute alla natura della luce solare e che non dipendano da imperfezioni delle ottiche impiegate.
Sino alla metà del secolo, malgrado la giusta intuizione di Fraunhofer, si continua a discutere sull’origine di tali righe, senza raggiungere un generale accordo tra fisici, astronomi e chimici. Molti studiosi propendono anche per un’origine non solare del fenomeno, suggerendo che tutte le righe si formano quando la luce della nostra stella attraversa l’atmosfera terrestre.
Dopo anni di dibattiti, tra il 1859 e il 1861 la natura delle righe spettrali viene definitivamente chiarita da due scienziati tedeschi, Gustav Robert Kirchhoff e Robert Wilhelm von Bunsen. Con celebri esperienze di laboratorio, Kirchhoff e Von Bunsen dimostrano che le righe di Fraunhofer si formano in maggioranza negli involucri esterni della nostra stella, e che un confronto fra le righe ottenute da vari elementi in laboratorio e le righe nello spettro solare permette un’analisi chimica di questi involucri. Come il Sole, inoltre, anche le stelle, le nebulose, i pianeti e le comete mostrano tali righe, cosicché gli stessi metodi d’indagine trovano applicazione in tutti gli altri settori dell’indagine astrofisica. Queste ricerche mostrano quindi che sugli altri corpi celesti – sebbene in percentuali diverse – sono individuabili gli stessi elementi chimici presenti sulla Terra, e provano l’ipotesi, già avanzata dai tempi della rivoluzione astronomica del XVI e XVII secolo, che la materia è chimicamente omogenea in tutto l’universo.
Tra i pionieri della spettroscopia astronomica in Italia si ricordano il gesuita Angelo Secchi, che scopre e classifica i “tipi spettrali” delle stelle, e Giovanni Battista Donati che scopre la natura prevalentemente gassosa delle comete.
In Inghilterra si dedicano alla spettroscopia Joseph Norman Lockyer (1836-1920) e William Huggins (1824-1910): nel 1868, il primo osserva nello spettro delle protuberanze solari una riga che attribuisce a un nuovo elemento, per il quale propone il nome di elio, ritrovato poi sulla Terra solo nel 1895; nel 1864, invece, Huggins scopre la natura gassosa delle nebulose diffuse e planetarie, accertando che esse non sono formate da stelle e di conseguenza che non sono ammassi irrisolti, come generalmente ritenuto.
In Francia è Pierre Jules César Janssen (1824-1907) che nel 1868 – contemporaneamente, ma indipendentemente da Lockyer – mostra la possibilità di osservare con lo spettroscopio le protuberanze solari, al di fuori delle eclissi totali. Inizia così lo studio sistematico dell’intera gamma di fenomeni legati all’attività solare, già intrapresi – ma limitatamente alla luce bianca – da Rudolf Wolf (1816-1893), che scopre la periodicità undecennale della frequenza delle macchie solari, e ancora da Richard Christopher Carrington (1826-1875) e Gustav Friedrich Wilhelm Spörer (1822-1895), che intorno a metà Ottocento scoprono le principali proprietà statistiche delle macchie. Verso la fine del secolo il francese Henri Alexandre Deslandres (1853-1948) e lo statunitense George Ellery Hale (1868-1938) costruiscono, indipendentemente l’uno dall’altro, i primi spettroeliografi, strumenti che consentono di osservare la superficie solare per mezzo di luce monocromatica, come quella corrispondente alla riga H-alpha dell’idrogeno o alle righe H e K del calcio ionizzato.
Ben presto gli astronomi, e tra questi il tedesco Hermann Carl Vogel (1841-1907), si accorgono che le osservazioni spettroscopiche offrono anche la possibilità di effettuare misurazioni rapide e precise della velocità con cui le stelle viaggiano nello spazio, poiché quando queste si muovono le righe spettrali degli elementi che le compongono si spostano leggermente verso il rosso o verso il blu. Grazie a questo fenomeno, noto come effetto Doppler-Fizeau, diventa possibile misurare la velocità di astri che, per la loro lontananza, non vediamo muoversi. Ma per ottenere tali misurazioni, che segnano l’inizio dei moderni studi di dinamica stellare, diventa necessario effettuare registrazioni molto accurate delle stesse righe spettrali. La svolta avviene nel 1875, quando William Huggins introduce per la prima volta la ripresa fotografica degli spettri: tra le decisive innovazioni strumentali dell’astronomia del XIX secolo fa la sua comparsa anche la nuova tecnica della fotografia.
La fotografia astronomica
Nella storia dell’astronomia, l’introduzione delle tecniche fotografiche, sia nella ripresa diretta dei corpi celesti sia nella registrazione dei loro spettri, ha un’importanza paragonabile all’introduzione del telescopio che dal XVII secolo ha radicalmente modificato il modo di osservare e studiare stelle e pianeti.
In effetti, l’astrofisica deve il suo grande sviluppo proprio alla fotografia astronomica che ha permesso di spingere l’esplorazione dell’universo verso astri così poco brillanti da non poter essere osservati con la visione diretta nemmeno con i più potenti telescopi. Nel caso di nebulose e galassie, il vantaggio dell’osservazione fotografica è ancora maggiore, poiché i loro finissimi dettagli strutturali sfuggono totalmente all’osservazione oculare.
Sebbene i primi tentativi di fotografare gli astri risalgano ai primi anni Quaranta, con le prime registrazioni della Luna (1840) e del Sole (1842), la prima vera fotografia celeste viene scattata la notte del primo dicembre 1849 all’Osservatorio Harvard di Cambridge negli Stati Uniti, dove G.P. Bond e J.A. Whipple ottengono un dagherrotipo della Luna in cui appaiono nitidamente molti particolari della sua superficie. E ancora Bond e Whipple, il 17 luglio 1850, con una posa di cento secondi ottengono la prima fotografia di una stella, Vega.
Tuttavia, il deciso sviluppo della fotografia astronomica avviene solo con l’invenzione delle lastre secche al bromuro d’argento (1871), con le quali si inaugurano, negli ultimi due decenni del XIX secolo, i primi sistematici lavori di registrazione fotografica delle stelle: le nuove tecniche, infatti, consentono di ottenere registrazioni fedeli delle posizioni relative e delle magnitudini di tutte le stelle che appaiono sulle lastre.
Così, verso la fine dell’Ottocento, la fotografia astronomica va gradualmente sostituendosi all’osservazione visuale dei corpi celesti, sia per il potere ingranditore delle immagini che la lastra fotografica presenta rispetto all’occhio, sia per la possibilità di raccogliere – in tempi relativamente brevi – documenti celesti che si possono studiare con comodo, archiviare e in seguito confrontare con nuove lastre. In questo modo, confrontando fotografie prese in epoche diverse, si possono riconoscere facilmente oggetti in moto molto rapido – comete, planetoidi – ma anche i minutissimi spostamenti dovuti ai moti stellari, nonché le variazioni di luce delle stelle variabili.