TIRABOSCHI, Stefano
– Questo monaco, che firmò la prima Vita in volgare di papa Celestino V («Ego frater Stephanus de Tirabuschis ordinis Celestinorum scripsi»,Vita..., III, 51, in P. Herde, Cölestin V..., 1981, p. 336), fiorì nella prima metà del Quattrocento, ma si ignorano le date di nascita e di morte.
Il patronimico permette di ricollegarlo a un casato originario della Val Serina, ma sin dalla fine del XIV secolo ormai ben radicato a Bergamo. Qui i Tiraboschi svolgevano la professione di notai, prima di diventare, anche per la loro operosità intellettuale, una delle famiglie più ragguardevoli della città lombarda (Belotti, 1989).
Gli unici elementi biografici sicuri su Tiraboschi sono dunque l’origine bergamasca e l’appartenenza alla Congregazione dei celestini. Si presume quindi che dovesse abitare nel piccolo monastero dell’Ordine, il San Nicolò, sito nel borgo suburbano di Plorzano (attualmente di S. Caterina), la cui fondazione risaliva al 1310.
Come l’insediamento milanese di Porta Orientale, il monastero era sorto per volontà di Guglielmo Longhi, l’insigne prelato bergamasco che nel 1294 aveva ricevuto la porpora cardinalizia da Celestino V. Legato al partito filofrancese del cardinale Napoleone Orsini, Longhi era però un uomo pratico e avveduto, che riuscì a mantenere una posizione di equidistanza tra gli opposti schieramenti. Ebbe buoni rapporti con Bonifacio VIII, che gli confermò tutti i privilegi e i benefici ottenuti dal predecessore, e al tempo stesso rimase fedele alla memoria di Celestino V, adoperandosi fattivamente per la canonizzazione e la diffusione del culto. Le fondazioni lombarde promosse da Longhi erano nell’area di influenza dei monasteri d’Oltralpe, posti sotto la protezione regia. Gelosi difensori della propria autonomia, questi intrattenevano rapporti assai complessi con i celestini italiani, rimasti legati all’originaria estrazione eremitica e montagnarda (Cicerchia, 2013). Il ramo francese era invece culturalmente più attivo e dinamico, e nel monastero di Parigi gravitavano le migliori intelligenze dell’epoca, come Philippe de Mézières e Pierre d’Ailly, un intellettuale che, con Jean Gerson, avrebbe svolto un ruolo politico di primo piano al Concilio di Costanza. Nel 1408 il cancelliere dell’Università e futuro cardinale scrisse una nuova, importante biografia di Celestino V, la cui vicenda offriva all’agiografo l’occasione per una severa denuncia dei mali della Chiesa, e al tempo stesso un supporto all’ipotesi della cessione, che per d’Ailly era l’unica via di uscita possibile per risolvere la frattura dello scisma. Pietro del Morrone veniva rappresentato nel testo come modello di perfezione monastica, ma anche quale esempio per gli ecclesiastici del tempo, a causa del suo assoluto disinteresse e dell’indifferenza mostrata nei confronti del potere.
L’opera di Tiraboschi si inscrive dunque in un clima di rilancio della memoria celestiniana, da porsi in relazione con la grave crisi dello scisma, anche se le ambizioni del monaco bergamasco erano sicuramente più limitate e modeste di quelle di d’Ailly, autore di un’agiografia dalle forti inflessioni politiche e militanti. La Vita sanctissimi Petri Celestini pape quinti patris nostri era invece destinata a un pubblico ristretto e a un consumo locale. Infatti, nonostante la titolazione latina – curiosamente mantenuta anche nelle rubriche dei 51 capitoli in cui la Vita era articolata –, si trattava di un volgarizzamento in dialetto bergamasco (P. Herde, Cölestin V. (1294)..., cit., pp. 296 s.), anche se, come rilevato da Luigi Pellegrini (1982), la facies linguistica del testo andrebbe più opportunamente riferita a una generica area norditalica.
La traduzione era stata commissionata a Tiraboschi da suor Mansueta, badessa delle benedettine di Santa Grata, illustre monastero che poteva vantare antiche tradizioni e che sin dal 1186 era stato posto da papa Urbano III sotto la protezione apostolica.
Nel codice della Biblioteca nazionale Marciana di Venezia Cl. V 68, che la tramanda alle cc. 31r-58v, la Vita di Pietro del Morrone è inserita in un leggendario di dodici santi, monaci ma soprattutto ascete e vergini. Né poteva mancare, nel santorale della Marciana, anche una Vita di sancta Grata venerabile matrona Bergomascha, cui il monastero era intitolato (Canova - Cortesi, 2002). Era infatti intento della superiora proporre alla meditazione delle monache dei modelli di santità adatti alla condizione claustrale. Ma era altresì necessario procurare loro testi comprensibili, data la cultura modesta e la conoscenza assai scarsa del latino della maggioranza delle suore. L’opera di Tiraboschi va quindi inserita nella grande fioritura quattrocentesca di letteratura religiosa in volgare promossa dagli ambienti claustrali femminili. Fu proprio la rete dei monasteri a favorire la diffusione e circolazione di traduzioni specificamente pensate per la formazione ed educazione delle religiose.
Per il suo volgarizzamento Tiraboschi utilizzò come base la Vita et obitus beati Petri confessoris, Celestini pape quinti tradita dal codice BAV, Vat. lat. 8883. Databile tra il 1327 e il 1340, questa Vita era di un autore anonimo, ma proveniva sicuramente dalla fucina agiografica dei monaci morronesi e rispondeva a una finalità organizzativa di riordinamento e sistemazione complessiva della memoria del fondatore. Anche per questo suo carattere ‘ufficiale’, Tiraboschi ne eseguì una traduzione sostanzialmente fedele. Lo dichiara egli stesso a chiusura della legenda, quando declina le fonti di riferimento dell’opera e conferma implicitamente la propria provenienza da una famiglia di notai: «Ora restava de haverla in stilo vulgare, però mi cum la povera facultà del mio inteleto a modo de fidel nodaro, non addando, non minuendo, l’ò transcripta in questo stilo, azoché anche quelli che non san latino, possano saver, a che modo lo glorioso Celestino pervegnisse alla beada gloria» (Vita, III, 51, cit., p. 336).
In realtà, Tiraboschi approntò alcune modifiche rispetto al modello. Tralasciò, per esempio, il resoconto della translatio, che nel codice originale era stato inserito come appendice alla Vita. Si trattava dell’episodio, assai poco edificante, del trafugamento del corpo del santo da Ferentino all’Aquila, organizzato dai monaci dell’abbazia madre della congregazione. Ma introdusse anche qualche particolare inedito, mai registrato nelle agiografie precedenti, come quello della nascita di Pietro del Morrone a S. Angelo Limosano: «In la provintia de terra de noe (sic), sotto al regnamo de Napoli, in uno castello, che se chiama Sancto Angelo, nasce lo gratioso Celestin» (Vita, I, 1, cit., p. 302).
Questa notizia è forse la ragione principale per cui si suole menzionare il volgarizzamento di Tiraboschi. Essa avrebbe infatti alimentato una vera e propria querelle storiografica che ancora oggi non si è affatto sopita (Palumbo, 2012). Mentre è certa la provenienza di Pietro dalla contea del Molise, che in quel tempo, insieme alla Terra di Lavoro, era una provincia del Regno di Sicilia, il luogo esatto della nascita resta uno dei punti oscuri della sua biografia. A contendersi l’onore di aver dato i natali al santo sono tuttora la città di Isernia, sulla base di due documenti di dubbia autenticità, e S. Angelo Limosano, piccolo borgo in provincia di Campobasso, che si fa forte proprio della testimonianza di Tiraboschi. Se la domanda non è di quelle che cambiano il quadro storiografico, la disputa appassionata intorno all’appartenenza è molto indicativa della vitalità locale del culto.
Altri cambiamenti risiedono in variazioni sottili e alcune amplificazioni disseminate nel corso del testo che, se non alterano nella sostanza il modello agiografico presentato nella Vita trecentesca, quello di un eremita santo e padre di monaci, lo arricchiscono di inflessioni e richiami in sintonia con il clima spirituale del tempo. Destinato a un pubblico di religiose probabilmente poco interessate ai risvolti politici e storici della vicenda celestiniana, il volgarizzamento di Tiraboschi è un elogio della condizione monastica intesa come vertice della perfezione. Il santo viene raffigurato come un maestro di vita religiosa, per il suo esemplare distacco dal mondo. Non già Pietro, ma Celestino da sempre, ancora prima di diventare papa, perché «questo confessore de Christo glorioso, bench’el fosse anche peregrin in carne nientedemen el era za a casa in la patria soa, habitava in celo et era tuto Celestin per devotion de spirito» (Vita, II, 18, cit., p. 313). Nel prologo, la chiave di lettura dell’intera sua esistenza, proposta anche come programma di vita spirituale, risiede nel combattimento vittorioso con i tre grandi nemici della perfezione cristiana: «demonio, mondo e carne» (Vita, I, 1, cit., p. 301). Celestino non aveva anteposto al valore supremo della cella nemmeno la sua funzione di pontefice, «amaro honore», se messo a paragone con la libertà che deriva dalla «honoratissima servitude» di Cristo: «O cella humele, conscia di mei secreti, celleta breve, arta, ma palasio celeste, alto e amplo, capace de quella mirabele colomba, logo za eleto da ley per habitation speciale visibile! O heremo iocundo, deserto habitabele, selva domestega e boscho sempre verdo! Vegno dal mare tempestuoso, amaro honore. Unde instabele, periculoso, profundo, afanoso regimento districtivo, mestero dilacerativo d’intimi mei!» (Vita, II, 35, cit., p. 327).
Nella Vita di Tiraboschi emergono altri aspetti tipici della spiritualità del secolo, come la presenza costante del demonio – l’infantile svogliatezza nello studio, di cui si parla anche nell’Autobiografia, viene qui spiegata come una tentazione del maligno – e, soprattutto, il richiamo all’obbedienza, virtù cardine della vita religiosa nella sua accezione osservantina e vessillo della crociata riformatrice. Nella proposta agiografica di Tiraboschi la scelta monastica veniva dunque presentata come superiore a qualunque altra e, in quanto cammino privilegiato di santità, da preferirsi persino alla tiara papale: fu proprio questa consapevolezza a spingere Celestino alla rinuncia. Destinato a un piccolo e ben individuato pubblico di lettrici, scopo precipuo del volgarizzamento era quello di rendere edotte le suore riguardo all’altissima dignità della loro condizione, mentre, nella distanza dei tempi, finivano ormai per opacizzarsi i drammatici risvolti politici ed ecclesiastici della vicenda del pontefice. Pietro del Morrone era stato santo proprio perché era rimasto fedele sino in fondo alla sua professione monastica.
Fonti e Bibl.: Per l’edizione della Vita, cfr. P. Herde, Cölestin V. (1294) (Peter vom Morrone). Der Engelpapst. Mit einem Urkundenanhang und Edition zweier Viten, Stuttgart 1981, pp. 296-336, dove si può leggere anche l’originale latino trecentesco, alle pp. 223-288 (trad. it. Celestino V, Pietro del Morrone, 1294, il papa angelico, L’Aquila 2004). In generale, per un prospetto del corpus celestiniano, con indicazione dei manoscritti e delle edizioni di riferimento, cfr. A. Bartolomei Romagnoli, Una memoria controversa. Celestino V e le sue fonti, Firenze 2013, pp. XVII-XXI.
M. Burani, Una vita inedita in volgare di Celestino V, in Misura, II (1978), pp. 99-141; L. Pellegrini, Celestino V tra agiografia e storia, in Bullettino della Deputazione abruzzese di storia patria, LXXII (1982), pp. 354-364; B. Belotti, Storia di Bergamo e dei bergamaschi, Bergamo 1989, ad ind.; R. Infantino, Pietro del Morrone nella «Vita» di S. T., in S. Pietro del Morrone: Celestino V nel medioevo monastico. Atti del Convegno storico internazionale, 1988, a cura di W. Capezzali, L’Aquila 1989, pp. 203-226; G.M. Canova - M. Cortesi, Il legendario di Santa Grata tra scrittura agiografica e arte, Bergamo 2002; C. Palumbo, Le ragioni di Isernia quale patria natale di Celestino V. Per un contributo allo status quaestionis storiografico, in ‘Hagiologica’. Studi per Réginald Grégoire, a cura di A. Bartolomei Romagnoli - U. Paoli - P. Piatti, Fabriano 2012, pp. 1187-1208; A. Cicerchia, La congregazione celestina in età moderna. Storia e nuove prospettive di ricerca, in La provincia celestina di Romagna. Indagini storiche locali e nuove prospettive di studio. Atti del Convegno di studi, Saltara... 2011, a cura di A. Cicerchia - S. Giombi - U. Paoli, Ancona 2013, pp. 39-78; A. Bartolomei Romagnoli, Agiografie celestiniane, in Ead., Una memoria controversa. Celestino V e le sue fonti, cit., pp. 3-65.