TICOZZI, Stefano
Nacque il 10 maggio 1762 a Pasturo (villaggio della Valsassina, nelle Prealpi lecchesi), da Ambrogio, di professione medico, e da Giovanna Fondre, entrambi provenienti da famiglie benestanti. Ebbe un fratello maggiore, Cesare Francesco (per il quale v. oltre), e una sorella minore, Gioconda (1763-1836), che fu monaca presso il monastero del Cantello, presso Lecco.
Sin da ragazzo si appassionò alla letteratura, alle scienze e alle arti, soprattutto grazie alla frequentazione del poeta Gaspare Cassola e del musicologo Giovenale Sacchi, che erano soliti villeggiare nella vicina Barzio. Studiò prima a Milano, presso il Regio ginnasio di Brera, oggi Liceo classico Giuseppe Parini – dove ebbe come professore di eloquenza e di belle lettere quel celebre abate poeta – e poi, dal 1782, all’Università di Pavia. Nei suoi anni universitari – durante i quali fu borsista nel collegio Ghislieri – fu influenzato in particolare da due dei suoi insegnanti, Angelo Teodoro Villa (eloquenza e storia patria) e Gregorio Fontana (matematica pura e fisica teoretica). Tuttavia, su pressione dei genitori – che lo spingevano a seguire la carriera ecclesiastica – nel 1786 si laureò presso la facoltà di teologia, che a Pavia era in parte influenzata dal giansenismo.
Grazie a suo fratello – che tramite matrimonio si era imparentato con una delle più eminenti famiglie del Lecchese – nel giugno 1787 ottenne la nomina a parroco della chiesa di S. Giovanni Evangelista a S. Giovanni alla Castagna, presso Lecco. Nel gennaio 1788 fu ordinato sacerdote, e s’insediò nella sua parrocchia.
Negli anni seguenti si trovò spesso in contrasto con le autorità ecclesiastiche – per le sue idee liberali ma anche per il suo scarso impegno nella gestione parrocchiale (Consonni, s.d., p. 13) – tanto che nel giugno 1794 dovette subire una visita ‘di controllo’ dell’arcivescovo di Milano, Filippo Maria Visconti.
Assieme al fratello, accolse con entusiasmo l’ingresso a Lecco delle truppe francesi (16 maggio 1796). In tale occasione, davanti alla chiesa di S. Giovanni innalzò un ‘albero della libertà’, e al cospetto di una grande folla pronunciò un discorso in cui esortava i suoi concittadini ad accettare, proprio perché cristiani, il nuovo corso politico: «Ama la religione che ti annuncia dappertutto la libertà, segui i precetti del Vangelo che sono i precetti dell’uomo libero, dell’onesto cittadino, e non ascoltare più quei vili impostori […] che ti facevano riguardare il regno della libertà come il regno dell’irreligione e della licenza» (cit. in Possenti, 2016, p. 19; v. anche Consonni, s.d., p. 15).
In seguito, i due fratelli Ticozzi aderirono prima alla Repubblica Transpadana e poi a quella Cisalpina, le due formazioni statuali in cui confluì il Ducato di Milano tra la primavera del 1796 e quella del 1797.
Nel 1796 Stefano venne nominato segretario della nuova municipalità di Lecco. Impegnato in questa attività, negli anni successivi trascurò ancor più di prima l’incarico di parroco, fino a che, nel marzo 1799, si dimise, rinunciando anche allo stato sacerdotale. Il mese successivo, in seguito al rientro delle truppe austriache, temendo di essere arrestato fuggì in Francia, dove rimase quasi due anni, legandosi di amicizia con altri fuoriusciti italiani, in particolare il poeta Vincenzo Monti e il matematico Lorenzo Mascheroni. Verso la fine di quel periodo sposò Domenica Giannone, nipote dello storico e filosofo Pietro, che gli avrebbe dato una figlia, Albina, e un figlio (di cui si ignora il nome), futuro pittore (Cantù, 1837, p. 274).
Rientrò a Lecco nel febbraio 1801, quando, in seguito al Trattato di Lunéville, le truppe austriache si ritirarono. Riebbe il posto di segretario comunale, e iniziò una carriera di funzionario pubblico. Nel 1802, nata la Repubblica Italiana, venne nominato commissario di governo per la Garfagnana e la Lunigiana; nel 1803 divenne segretario della prefettura nel dipartimento del Crostolo (che comprendeva il Reggiano, la Lunigiana e la zona di di Massa e Carrara) e nel 1805 – dopo la creazione del Regno d’Italia – viceprefetto dello stesso dipartimento; nel 1806 fu nominato viceprefetto del dipartimento della Piave (zona di Belluno) e alcuni anni dopo prefetto (sui suoi anni bellunesi, v. Protti, 1934).
Nel 1814, caduto Napoleone, tornarono le truppe austriache, e il Regno d’Italia fu sostituito da quello Lombardo-Veneto (in unione personale con l’imperatore d’Austria). Stefano dovette abbandonare la vita pubblica, e da Belluno si trasferì a Milano. Lì iniziò una carriera di letterato – la terza della sua vita, dopo quelle di sacerdote e di funzionario – e in particolare di storico della letteratura e dell’arte.
A Belluno aveva pubblicato – oltre a una breve opera legata al suo incarico, Degli istituti claustrali considerati nelle loro relazioni verso la Chiesa e verso lo Stato (1810) – una Storia dei letterati e degli artisti del dipartimento della Piave (1813), ma le sue prime vere opere di storia dell’arte le scrisse dopo il trasferimento a Milano: Relazioni di due quadri di Tiziano Vecellio (1816) e, di ben maggiore importanza, Vite dei pittori Vecellj di Cadore (1817). Quest’ultimo libro, che gli diede un certa notorietà, è giudicato oggi una tappa di rilievo nella storia degli studi tizianeschi, ma all’epoca fu occasione di una polemica in cui venne messa in discussione – per la prima ma non certo l’ultima volta – la deontologia di Ticozzi.
Infatti, lo storico veneziano Andrea Majer accusò Ticozzi (nel libro Della imitazione pittorica, della eccellenza delle opere di Tiziano e della vita di Tiziano scritta da Stefano Ticozzi, 1819) di aver «approfitta[to] delle altrui fatiche» (cit. in Lonzi, 2017, p. 124 nota 402), perché avrebbe utilizzato largamente, citandoli poi solo di sfuggita, i materiali che lo storico cadorino Tadddeo Jacobi aveva riunito per una Storia del Cadore che non vide mai la luce (sulla questione v. L. Puppi, Su/per Tiziano, Milano 2004, pp. 15-24 e 122 s.).
Ticozzi, per arrotondare il suo reddito ormai esiguo – «da questo tempo cominciò ad essergli compagna inseparabile la miseria» (Arrigoni, 1837, p. 496) – nel 1818 iniziò anche a ‘tradurre’ dal francese opere storiche; in realtà si trattava di compendi oppure di ‘libere traduzioni’ (come veniva talvolta esplicitato nei titoli), a cui egli aggiungeva annotazioni o aggiornamenti. Tra gli autori da lui ‘tradotti’, vanno ricordati Jean Simonde de Sismondi, François Pouqueville, Jean-Louis Alibert, Étienne Huard, Isidore Bourdon, Jean-Baptiste Seroux d’Agincourt, Juan Antonio Llorente, Salomon Gessner. Per questi lavori, peraltro, gli editori gli pagavano compensi bassissimi; per esempio, la traduzione (1820) dell’Histoire critique de l’Inquisition d’Espagne […] (1817-1818) di Llorente, comprendente un aggiornamento (l’originale arrivava al 1815), «fruttò l. 30.000 allo stampatore [la Tipografia di Commercio al Bocchetto], al Ticozzi l. 200» (Arrigoni, 1837, p. 496 nota 1).
Le opinioni liberali e democratiche espresse da Ticozzi nelle ‘aggiunte’ a queste traduzioni gli procurarono difficoltà sempre maggiori con la censura del Lombardo-Veneto, tanto che, temendo di essere arrestato, nel 1822 giudicò prudente trasferirsi con la famiglia nel Granducato di Toscana – governato dal ben più tollerante Ferdinando III d’Asburgo-Lorena – pur continuando a tenere contatti con le case editrici milanesi per cui lavorava. Rimase in Toscana fino al 1828, dimorando prima a Prato e poi a Firenze.
Parallelamente alle traduzioni, redasse i due dizionari di storia dell’arte cui il suo nome è soprattutto legato: prima il Dizionario dei pittori, dal rinnovamento delle arti fino al 1800 (I-II, 1818), e poi, dopo molti anni di lavoro, il suo magnum opus, l’imponente Dizionario degli architetti, scultori, pittori, intagliatori in rame ed in pietra, coniatori di medaglie, musaicisti, niellatori, intarsiatori d’ogni età e d’ogni nazione (I-IV, 1831-1833). Le voci dei due dizionari non si basavano su ricerche originali, ma assemblavano notizie prese dalle più varie fonti, riportate spesso con approssimazione (già i critici dell’epoca segnalarono questi limiti: «[Ticozzi] fu scorretto nelle date», Arrigoni, 1837, p. 496; «chi volesse lodare esattezza e precisione in queste opere farebbe un’offesa alla verità», Cantù, 1837, p. 276).
Oltre a essere in molti casi imprecise, le due opere erano legate a una visione dell’arte ancora settecentesca. Si veda, per esempio, quanto dice di Caravaggio il Dizionario degli architetti […]: «Con grande tumulto di ombre e di lumi, con quei tratti a macchia che non lasciano distinguere i contorni, con quelle sue ignobili minacciose figure, sorprese il pubblico […]. Questo mal seme di nuovo dipingere infettò tutte le scuole» (I, 1831, p. 48).
In tema di arte, Stefano pubblicò anche alcuni brevi opuscoli (per lo più in forma epistolare) su singoli quadri di celebri pittori (oltre che su Tiziano, scrisse su Leonardo da Vinci e sul Canaletto). Lasciò invece incompiute due opere di maggiori dimensioni, Del modo di distinguere in pittura le copie dagli originali e Vita di Correggio.
Un’altra attività cui Stefano si dedicò fu la stesura di ‘continuazioni’ di opere altrui. Mise infatti insieme la seconda metà del VII volume e tutto l'VIII di una vasta antologia curata da Giovanni Bottari, Raccolta di lettere sulla pittura, scultura ed architettura, scritte da’ più celebri personaggi dei secoli XV, XVI e XVII (1822-1825). Inoltre scrisse: la seconda metà (con 274 biografie) del II volume (1833) di un dizionario di Giovanni Battista Corniani, I secoli della letteratura italiana dopo il suo risorgimento; il XVI e ultimo volume (che riguardava l’Europa) del manuale di Luigi Bossi Quadro geografico-fisico-politico-storico di tutti i paesi e popoli del mondo (1835); tre volumi che intendevano completare la grande Storia di Milano di Pietro Verri (Storia di Milano del conte Pietro Verri dai suoi più rimoti tempi fino al 1525, continuata fino alla presente età, 1836).
In almeno una di queste ‘continuazioni’, quella relativa all’antologia curata da Bottari, Ticozzi peccò nuovamente di scarsa correttezza: pubblicò infatti quattro lettere del pittore Federico Zuccari, affermando che erano state scritte nel 1604; erano invece del 1563-65, e, com’è stato provato, Ticozzi ne modificò in modo sostanziale il testo (la questione è trattata in Pierguidi, 2012).
Si cimentò anche, seppure senza grande fortuna, nella finzione letteraria, e in particolare nel romanzo storico. Tra il 1822 e il 1827 pubblicò Memorie storiche, una serie di romanzi che, secondo il costume dell’epoca, pretendevano di essere memorie di personaggi realmente vissuti. Allo stato attuale della documentazione, per alcuni di essi non è noto l’anno di pubblicazione. Si tratta di: Memorie di Stefania Crescenzio, patrizia romana, ossia la Vendetta coniugale (1822); Sordello mantovano, ossia il Trovatore italiano; La virtù sventurata, ossia Manfredi principe di Calabria; Il ritorno in patria di Farinata degli Uberti; Avventure di Attendolo Sforza di Cotignola; Viaggi di messer Francesco Novello da Carrara, signore di Padova, e di Taddea d’Este sua consorte in diverse parti d’Europa (I-II, 1823-1824); Memorie di Bianca Cappello granduchessa di Toscana (1827).
Nel 1830 pubblicò una seconda serie di romanzi, sotto il titolo generale di Raccolta di novelle morali, storie, racconti e favole, accomodati all’istruzione dell’italiana gioventù. Alcuni di questi libri erano scritti da Stefano oppure dalla figlia Albina – non è però dato sapere con precisione il ruolo svolto dai due nella stesura –, altri erano tradotti da opere straniere (quasi sempre senza che se ne facesse menzione); si tratta di: Agnese, ossia La straniera di Karensì; Paolino di Dunkerque; La forza dell’amicizia; Matteo Visconti in esilio; Il solitario del Bosforo (sicuramente scritto da Albina); Gli arabi nelle Gallie; Gli amori pastorali di Dafne e Cloe.
Di tutti quei romanzi, è quello su Bianca Cappello l’unico ad aver conosciuto ristampe (1966).
Stefano fu sempre molto legato al fratello, e dopo la morte di lui (1821) al nipote Gracco. Era nel palazzo Arrigoni Socca di Castello di Lecco, dal 1818 residenza prima del fratello e poi del nipote, che risiedeva sempre in estate, quando si recava a Barzio per far visita alla sorella monaca. A Gracco dedicò, nel 1833, la sua continuazione de I secoli della letteratura italiana […]: «A voi, mio caro nipote, che ai dolci studj delle lettere e delle arti consacrate i brevi ozj rapiti ai fastidj forensi […], addirizzo la Continuazione dei secoli dell’italiana letteratura» (p. 300).
Il 2 settembre 1836 Stefano lasciò Milano per Castello. Lì, dopo aver saputo (il giorno 25) del decesso della sorella, venne colpito da un grave attacco d’asma, malattia di cui soffriva in maniera cronica, e il 3 ottobre morì.
Suo fratello Cesare Francesco (chiamato, a seconda delle fonti, Cesare o Francesco) nacque il 1° maggio 1760 a Pasturo. Benché i genitori gli chiedessero di intraprendere la carriera ecclesiastica, quando s’iscrisse all’Università di Pavia (1778) volle frequentare la facoltà di giurisprudenza, e nel 1782 si laureò in utroque iure, cioè in diritto civile ed ecclesiastico. Nell’aprile dello stesso anno fu ammesso nel collegio di Milano dei notai e dei causidici.
Trasferito il proprio studio professionale a Lecco, nel 1786 si stabilì nella vicina S. Giovanni alla Castagna (dove due anni dopo sarebbe stato raggiunto dal fratello). Nello stesso 1786 sposò Margherita Arrigoni Socca – una ragazza di Castello di Lecco appartenente a una nota famiglia di industriali metallurgici – che in seguito gli avrebbe dato un figlio, Caio detto Gracco.
Nel 1796 aderì insieme al fratello, come detto, alla Repubblica Transpadana, e l’anno successivo iniziò una lunga carriera di funzionario pubblico (simile a quella di Stefano ma a livelli gerarchici più alti), che vide però anche, tra il 1799 e il 1801, una drammatica interruzione.
Nel luglio 1797 – pochi mesi dopo la creazione della Repubblica Cisalpina – divenne alto funzionario della prefettura nell’appena costituito dipartimento della Montagna (di cui Lecco era capoluogo). In novembre, poco dopo la creazione del dipartimento del Serio, ne divenne commissario di governo, e si trasferì nel suo capoluogo, Bergamo.
Rientrato l’esercito austriaco a Bergamo (aprile 1799), fu arrestato, e rimase detenuto per quasi due anni, prima a Lecco e poi in una fortezza austriaca della costa orientale dell’Adriatico, quella di Cattaro/Kotor. Venne liberato nel febbraio 1801, quando Bergamo ritornò alla Repubblica Cisalpina.
Appena di ritorno a Bergamo, fu di nuovo nominato commissario di governo, carica che tenne finché nel giugno 1802 (dopo la nascita della Repubblica Italiana) gli fu conferita la presidenza del tribunale criminale della città. Nel dicembre dello stesso anno divenne capo della terza divisione del ministero dell’Interno, e si trasferì nella capitale, Milano.
Costituitosi il Regno d’Italia, dal settembre 1805 al luglio 1807 ricoprì la carica di segretario generale del ministero dell’Interno. Fu poi prefetto del dipartimento dell’Adda (ex provincia di Sondrio) e dall’ottobre 1809 al febbraio 1814 del dipartimento dell’Alto Po (ex provincia di Cremona e parte di quella di Mantova). L’imperatore Napoleone lo aveva nominato nel 1809 cavaliere dell’Ordine della Corona ferrea e nel 1811 barone.
In tutto quel periodo, Cesare continuò a esercitare, seppure a tempo parziale, come notaio e causidico (dal 1807 al 1818 fu il legale della famiglia Manzoni, con la quale intratteneva rapporti anche personali, e fu lui, nel marzo 1807, a stendere il testamento di Pietro, padre di Alessandro; Marchi, 2009).
Caduto nel 1814 il Regno d’Italia, rimase a Cremona fino al 1816, riprendendo a esercitare a tempo pieno la professione; si trasferì poi a Milano, dove dopo molti anni poté riabbracciare il fratello minore.
Nel 1818, acquistato il palazzo Arrigoni Socca a Castello di Lecco, vi si ritirò. Lì morì, colpito di apoplessia, il 19 maggio 1821.
Il figlio Gracco fu prima avvocato e poi imprenditore, uno dei più importanti del Lecchese (nel 1817 rilevò l’azienda del nonno materno, Giuseppe Maria Arrigoni, e all’attività metallurgica aggiunse la filatura della seta).
Durante il Risorgimento, Gracco e i suoi due figli mantennero l’adesione alle idee democratiche che era stata propria di Stefano e di Cesare: durante i moti del 1848, Gracco fu membro del Comitato di sicurezza pubblica di Lecco (cioè del governo provvisorio della provincia), mentre i figli Cesare (notaio) e Francesco (ingegnere) si posero alla testa di due colonne di volontari armati (per un totale di 300 uomini) che si mossero verso Milano in soccorso degli insorti (Marchi, 2009; Possenti, 2016, p. 20).
Un elenco delle principali opere di Stefano Ticozzi (escluse le traduzioni) si trova in Bibliografia italiana, Foglietto d’annunci, II (1836), 10, p. 52.
G. Arrigoni, T. (S.), in Biografia degli italiani illustri […], a cura di E.A. De Tipaldo, IV, Venezia 1837, pp. 495-500 (con l’elenco completo delle opere autonome, delle traduzioni e delle ‘continuazioni’ alle pp. 498-500); I. Cantù, Le vicende della Brianza e de’ paesi circonvicini, Milano 1837, pp. 274-277; Fra’ Sigismondo da Venezia, T., S., in Id., Bibliografia universale sacra e profana, disposta in ordine cronologico con cenni sugli autori ed illustrazioni sugli scritti loro, Venezia 1842, p. 889; T. (S.), in Dizionario biografico universale […], a cura di F. Scifoni, V, Firenze 1849, p. 330; R. Protti, S. T., in Archivio storico di Belluno, Feltre e Cadore, VI (1934), 35, pp. 573 s.; A. Dell’Oro, S. T. (1762-1836): formazione e carriera di un sacerdote giacobino, in Archivi di Lecco e della provincia, XXIX (2006), 1, pp. 9-49; Id., S. T. (1762-1836): alcuni aspetti dell’opera e del pensiero, ibid., XXXII (2009), 1, pp. 9-39; S. Marchi, Tra Parini e Manzoni, S. T. letterato, in Il Grinzone, 2009, n. 27-28; Id., S. T. e la storia dell’arte, ibid., 2010, n. 33; S. Pierguidi, Le lettere di Federico Zuccari pubblicate da S. T.: un esempio di interpolazione ottocentesca, in Accademia Raffaello. Atti e studi, XI (2012), 1, pp. 57-66; M. Possenti, (Via) Fratelli Ticozzi, in Parole di vita. Giornale della Comunità parrocchiale di Castello, 2016, n. 2, pp. 19 s.; L. Lonzi, Sulle tracce dei Vecellio. La famiglia, la bottega, gli affari, i contesti; e la storiografia cadorina, tesi di dottorato, Università di Verona, Verona 2017, pp. 12 nota 4, 18, 20 nota 30, 39 e note 99-102 e 104, 43 nota 122, 69, 110 nota 343, 124 nota 402, 165, 186 nota 584, 243, 244; L. Consonni, Per una storia di San Giovanni alla Castagna, s.l. né d., pp. 13-16.