POZZI, Stefano
POZZI, Stefano. – Nacque a Roma il 9 novembre 1699 da Giovanni e da Maria Agata Sichmiller (Roma, Archivio storico del Vicariato, Ss. XII Apostoli, Liber baptizatorum, 1686-1706, c. 112r). Appena giunto all’età dell’apprendistato, fu inviato a bottega da Andrea Procaccini, artista di successo nella Roma d’inizio secolo e allievo di Carlo Maratta, completando poi gli studi nella bottega di Agostino Masucci, altro pittore di formazione marattesca (Michel, 1996, p. 23).
Tra i primi lavori noti, dopo il disegno della statua di Urania nella Collezione capitolina (I premiati dell’Accademia 1682-1754, a cura di A. Cipriani, Roma 1989, p. 122), con cui ottenne il primo premio della terza classe al concorso indetto dall’Accademia di S. Luca nel 1717, si annoverano le tele con l’Apparizione della Madonna a s. Ermanno Giuseppe e i Beati Adriano e Giacomo, eseguite nel 1727 per l’oratorio di S. Norberto del Collegio dei premostratensi a Roma, opere di una qualche incertezza compositiva e in cui si rimarca la persistenza di modelli pittorici seicenteschi, assunti attraverso la lezione marattesca (Pacia - Susinno, 1996, pp. 141 s.).
La successiva commissione per la chiesa romana di S. Francesco di Paola dei padri minimi (1732) già certifica una diversa sicurezza di mano e un’indiscussa bravura di mestiere. Si tratta di un ciclo di dipinti a fresco e su tela per l’oratorio del Crocefisso e per le cappelle dell’Immacolata e di S. Giuseppe.
Le tele con il Sogno di Giuseppe e la Fuga in Egitto rivelano, in particolare, la conquista di un più moderno linguaggio pittorico, in senso arcadico e ormai pienamente settecentesco, che si palesa nel carattere aggraziato delle invenzioni, nella tavolozza schiarita e nei luminosi effetti chiaroscurali (Pacia - Susinno, 1996, pp. 134-136).
A partire da questo incarico avviò una carriera fortunata, svoltasi quasi interamente a Roma. Le prove più significative furono realizzate per edifici sacri ubicati nella zona in prossimità dell’insula dei Colonna in cui viveva e lavorava, come dimostra già la committenza dei teatini di S. Silvestro al Quirinale per sei tele raffiguranti la Sacra Famiglia con s. Giovannino, la Ss. Trinità con Cristo morto sostenuto da un Angelo e gli ovali con S. Pietro, S. Paolo, l’Angelo custode e l’Arcangelo Michele che atterra il demonio, conclusi entro il 1736 (Pascoli, 1736, II, p. 407).
La presenza nella medesima chiesa di esempi pittorici del manierismo romano sembra aver condizionato lo stile di Pozzi in direzione di una più severa e solenne eleganza compositiva e nell’elaborazione di modelli costantemente ripetuti nella successiva produzione sacra. Lo dimostrano le maestose immagini, scorciate in leggero sottinsù di S. Pietro e di S. Paolo, le cui fisionomie, non potendo prescindere dai prototipi raffaelleschi, se ne distinguono per l’interpretazione nobile, eppure aggraziata, del tipo maschile.
A questa stessa data si fa risalire la pala nella chiesa di S. Ignazio della Compagnia di Gesù con Maria giovinetta offerta a Dio da suo padre Gioacchino, soggetto decisamente inusuale. Dell’opera esistono molti disegni preparatori, oggi sparsi in vari musei, che mostrano le varianti di una primitiva elaborazione più barocca. La versione definitiva, di misurato equilibrio compositivo, si svolge su un doppio registro, familiare e domestico nella zona inferiore, soprannaturale in quello superiore, due piani raccordati dallo scambio di sguardi e di gesti tra Maria e Dio. Per gli stessi gesuiti, Pozzi avrebbe eseguito circa trent’anni dopo, nel 1763, la pala con la Madonna tra s. Stanislao Kostka, s. Francesco Regis e il Bambin Gesù, opera di pacata e serena compostezza nell’intimo colloquio tra i santi e la Madonna, che segna una spontanea adesione a un più rigoroso classicismo, tratto distintivo dell’ultima produzione del pittore.
Il 19 novembre 1736 si unì in matrimonio con Lucia, figlia dell’incisore Girolamo Frezza (Michel, 1996, p. 25), che gli diede cinque figli, quattro dei quali sopravvissero all’infanzia: Geltrude (1741), Antonia (1752), Francesco (1742), che divenne incisore, e Giovanni (1754) «pittore a guazzo» (Michel, 1996, p. 25).
Alla fine del medesimo anno, Pozzi fece il suo ingresso nell’Accademia di S. Luca, prendendo possesso del titolo il 13 gennaio 1737. Nonostante gli obblighi puntualmente assolti negli anni accademici, non fu mai nominato ‘principe’, perdendo ogni volta la sfida con artisti anche di minore fama, come Francisco Preziadio, che lo superò di ben sette voti nell’elezione del 1763 (Michel, 1996, p. 28).
Di tutt’altro tenore fu invece l’incarico di primo direttore dell’Accademia del nudo, fondata da papa Benedetto XIV nel 1754, che gli fu conferito dal pittore tedesco Lambert Krahe, già allievo di Pierre Subleyras e grande estimatore dell’opera di Pozzi, di cui collezionò un cospicuo numero di disegni, pervenuti poi al Museum Kunstpalast di Düsseldorf.
Personaggio in vista nella cerchia degli artisti della sua città, Pozzi fu anche membro della Confraternita di S. Giuseppe di Terra Santa, i cui iscritti erano noti con il nome di Virtuosi del Pantheon. Questo titolo onorifico comportava incombenze poco gravose, come l’organizzazione di mostre temporanee di dipinti nella piazza del Pantheon cui erano invitati nobili, cardinali e alti prelati della Chiesa, occasione preziosa per instaurare rapporti privilegiati e diretti con una potenziale classe di ricchi committenti.
Pozzi, assai richiesto in commissioni pubbliche e private della città, lo fu molto meno in lavori per chiese extra urbane.
Nella cattedrale di S. Liberatore a Magliano Sabina (Rieti) eseguì tre pale d’altare, già assegnate al citato Masucci (V. Casale, in Giovanni V di Portogallo (1707-1750) e la cultura romana del suo tempo, a cura di S. Vasco Rocca - G. Borghini, Roma 1995, pp. 351-356): S. Liberatore in adorazione della Sacra Famiglia, di cui esiste un disegno preparatorio (Windsor, Royal Library, inv. RCIN 906736), i Ss. Lorenzo e Rocco e la Crocefissione con la Vergine, s. Giovanni e una scena di martirio (1735).
Nella Crocefissione Cristo è posto di scorcio e sulla destra, in una posizione cioè inusuale rispetto a quella preferita dalla tradizione barocca, mentre la figura di s. Giovanni, sulla sinistra, offre il pretesto per un sapiente gioco chiaroscurale, che tocca il suo vertice nel nobile volto doloroso di Cristo (Pacia - Susinno, 1996, p. 127).
Ancora in provincia di Rieti, nella parrocchiale di Roccantica, gli sono state riferite un’Assunta, di schietta e semplificata matrice marattesca, e una Madonna col Bambino e i ss. Domenico e Caterina da Siena, datata al 1743, già attribuita a Sebastiano Conca (S. Vasco, Due pale d’altare inedite: Sebastiano Conca e Stefano Pozzi a Roccantica, in Commentari, n. s., XXIV (1973), pp. 114-119).
Per la rinnovata chiesa degli Olivetani del convento di Montemorcino a Perugia, in occasione del nuovo progetto del convento dovuto a Luigi Vanvitelli, realizzò una serie di opere, disperse agli inizi del XIX secolo, tra cui un’Annunciazione per l’altare maggiore, un Riposo durante la fuga in Egitto, un ovale con una Concezione per la cappella del padre abate. L’unico dipinto a salvarsi fu il Beato Tolomei in mezzo agli appestati (1744-45), trasportato nella chiesa di S. Francesca Romana, raro esempio, nel suo catalogo, di pittura eminentemente storica e profana, intessuta di più episodi e personaggi attorno alla figura centrale del beato, che perse la vita durante la grave pestilenza del 1346-48. Ancora per gli olivetani eseguì la tela con Il Beato Tolomei assiste un’appestata (1748 ca., Fabriano, chiesa di S. Caterina), di cui esiste un modello preparatorio, sempre su tela ma di dimensioni minori (Roma, chiesa di S. Croce in Gerusalemme), e nel 1763 redasse Il Beato Bernardo Tolomei in adorazione del Crocefisso (Chiusure, abbazia di Monte Oliveto Maggiore, cappella della Grotta del beato Bernardo), tradotto subito dal figlio Francesco in incisione e funzionale alla promozione del processo avviato dagli olivetani per la canonizzazione del fondatore dell’Ordine.
Tra le opere della piena maturità, il dipinto con la Morte di s. Giuseppe per la chiesa del Ss. Nome di Maria rivela il pieno superamento di quel «rococò arcadico» (Pacia - Susinno, 1996, p. 139) rappresentato a Roma dal veneto romanizzato Francesco Trevisani, nel segno di un rinnovato equilibrio narrativo, non privo di una realistica attenzione alla resa anatomica delle figure, in obbedienza a una collaudata prassi accademica.
Fuori da Roma, Pozzi è inoltre documentato nel 1744 a Napoli, dove dipinse a fresco un Coro di angeli musicanti nella volta dell’abside del Duomo, in occasione dei rifacimenti seguiti al terremoto del 1732, e realizzando sempre per l’abside un grande telero raffigurante I ss. Gennaro e Agrippino liberano Napoli dai saraceni, concepito con insolita foga espressiva, forse in omaggio alla tradizione seicentesca napoletana.
A questa produzione sacra affiancò un’intensa attività di decoratore al servizio dei massimi esponenti della nobiltà romana. Per il principe Paolo Borghese dipinse, nelle volte dell’alcova e di una camera da letto del palazzo di Fontanella Borghese, un’Aurora e Le quattro parti della notte (1746-47), temi di un sentito gusto rococò d’intonazione francese (Fumagalli, 1994, pp. 121 s., nota 77), che replicò circa un decennio più tardi in palazzo Colonna. Quasi negli stessi anni (1743-47) intervenne nella decorazione del Gabinetto degli specchi nel palazzo del cardinale Prospero Sciarra Colonna in via del Corso, ammodernato da Luigi Vanvitelli, dipingendo estrose favole esotiche e fantasiose figurine di acrobati e musici sui pannelli lignei e le lesene della sala. Nella volta dell’adiacente Libraria domestica, a lui si devono la tela con l’Allegoria della Giustizia, della Fortezza e della Carità e le Allegorie dei quattro elementi e delle stagioni dipinte a fresco, eleganti prove di un gusto arcadico affatto differente da quello del dipinto del soffitto, condotte con virtuosistica bravura miniaturistica, a conferma delle doti di esperto disegnatore possedute dall’artista. Sugli sportelli lignei degli armadi raffigurò i Dodici segni zodiacali che, animati da una linea fluttuante e dinamica, costituiscono l’ennesima rivelazione di una cultura rocaille sempre sottaciuta e frenata da Pozzi nella produzione sacra (Pacia, 1992).
L’acme della pittura profana fu raggiunto nei cicli pittorici di palazzo Colonna, ampliato per iniziativa del cardinale Gerolamo (1708-1763) intorno alla metà del secolo, su un progetto affidato all’architetto senese Paolo Posi (Pacia - Susinno, 1996, p. 146). Si tratta dell’unica impresa in cui è accertata la presenza del più giovane fratello Giuseppe (1723-1765), senza poterne però stabilire l’apporto (Catalogo dei quadri e pitture esistenti nel palazzo dell’Eccellentissima Casa Colonna in Roma, Roma 1783, passim).
Di quest’ultimo si conoscono ben poche opere, come le copie dei quadri di Pierre Subleyras raffiguranti il ritratto di padre Leonardo da Porto Maurizio e il ritratto della beata Battistina Vernazza (1739-40), tradotte in incisioni, rispettivamente, da Antonio Baldi e Girolamo Frezza; il disegno di un nudo maschile (1754; Roma, Accademia di S. Luca, B02); il disegno della statua di Flora, che era stata appena scoperta in Villa Adriana a Tivoli, poi inciso dal fratello Rocco. Il nome di Giuseppe resta legato anche alle incisioni degli apparati effimeri, realizzati su progetto di Paolo Posi tra il 1756 e il 1758 per la festa della Chinea, che si celebrava annualmente in occasione dell’offerta di un cavallo bianco da parte del re di Napoli al pontefice in segno di omaggio feudale. Le macchine, che venivano incendiate tra fuochi d’artificio, rappresentavano archi trionfali, bellezze naturalistiche, architetture antiche, come gli idealizzati portici di Atene, gli alberi della cuccagna, ma anche l’originale Torre delle porcellane di Nanchino, a testimonianza dell’interesse di Posi per l’esotismo (Della Chinea e di altre ‘macchine di gioia’, 1994, pp. 130-134).
Al piano nobile di palazzo Colonna i due fratelli affrescarono la ‘Galleriola’ dei Paesi, in cui le vedute di scorci del giardino Colonna, animate da figurine in costumi orientali, si sposano a citazioni classiche, a festosi motivi di putti in volo e di inserti floreali, a straordinari monocromi con coppie di sirene dalle spiritose e aguzze fisionomie, quasi neoparmigianesche, a imitazione di duttili ornati in stucco (Pacia, 1987, pp. 138-144). Nella volta della sala detta di Maria Mancini o dei Primitivi e in quella della Sala Rossa, le raffinate quadrature di Giovanni Angeloni fanno da cornice alle lunette ornate da vasi di fiori entro cui sono incastonati, come preziosi cammei intagliati, ovali monocromi di mano dei Pozzi con Cerere, Ercole che mozza la testa dell’Idra, il Ratto d’Europa e la Nascita di Venere, ispirati alle incisioni di Giovan Pietro Bellori e di Leonardo Agostini della fine del XVII secolo.
Il Salone turco, recante la data del 1758, da considerarsi l’apogeo del gusto esotico settecentesco a Roma, si deve anche alla predilezione dell’architetto Paolo Posi per i temi dell’esotismo e della cineseria.
Nei riquadri del salone, a parete intera, scanditi da coppie di colonne in finto marmo, si susseguono scene con personaggi maschili e femminili in costumi orientali, che mimano azioni come in una parata o in una festa teatrale, su sfondi paesaggistici con rovine classicheggianti, archi e pini svettanti, eseguiti con pennellate sfumate di colore per far risaltare le figure affacciate a balconate e a parapetti, in un suggestivo trompe-l’oeil (Pacia, 1987, pp. 125-138; Pacia - Susinno, 1996, pp. 148-150).
I fratelli Pozzi sono pure documentati in due ambienti del secondo piano del palazzo: nella volta della stanza denominata dell’Aurora, l’immagine del Crepuscolo del mattino è di una bellezza ferma e quasi marmorea, che rasenta un ideale estetico già ormai protoneoclassico. Nel soffitto dell’adiacente anticamera, la più accattivante figura femminile del Crepuscolo della sera è incastonata in una fitta trama di racemi, viticci e serti fioriti, con agli angoli quattro tondi monocromi raffiguranti temi esotici e rituali di vita orientale. Nei quattordici pannelli di una boiserie, di spiccato gusto francese, i Pozzi dipinsero a tempera ventotto figurine abbigliate in costumi di diverse nazioni e continenti, di cui ben sette riprese dal testo Degli habiti antichi et moderni di diverse parti del mondo di Cesare Vecellio (Venezia 1590), variopinta sfilata di personaggi esotici descritti con vivace e a tratti spiritoso senso realistico, svuotato di intenti allegorici e celebrativi.
Della decennale attività dei Pozzi per la Reverenda Fabbrica di S. Pietro (dal 1756 fino alla morte di Stefano; Guerrieri Borsoi, 1991), rimane oggi solo la decorazione della cappella del coro in basilica, di cui è stato rinvenuto l’ordine di pagamento del 1762, senza che venga specificato il ruolo spettante a Giuseppe nell’impresa (Michel, 1996, p. 53).
Il confronto tra i medaglioni monocromi con la Fortezza, la Temperanza, la Giustizia, la Prudenza, la Fede e la Religione sorretti da putti, e i pannelli decorativi con angeli in forma di erme alate, consente tuttavia di rintracciare in questi ultimi una più accostante ascendenza marattesca, unita a un insistito uso del tratteggio per definire i dettagli fisionomici, probabile indizio di una mano diversa, forse di Giuseppe (Pacia - Susinno, 1996, p. 130).
La decorazione della camera da letto di palazzo Doria Pamphilj (1765 circa), disegnata dall’architetto Francesco Nicoletti (1703-1776), può considerarsi l’ultimo capolavoro della vicenda artistica e umana di Stefano Pozzi, sempre oscillante tra sensibilità arcadica, gusto rocaille e cultura classicheggiante.
Nella volta dell’ambiente, prezioso come un boudoir di corte, la Toletta di Venere, che si rimira in uno specchio mostratole da un putto, è attorniata dalle Allegorie della Terra, dell’Aria, dell’Acqua e del Fuoco – mutuate in parte dall’Iconologia di Cesare Ripa (1593) –, cui corrispondono i Putti con i simboli degli elementi. La sottile carica erotica e la gioiosa vitalità naturalistica sprigionate dalle figure, inneggianti alla metafora dell’amore coniugale e della fecondità, raggiungono una perfezione formale ineguagliata, data dagli intensi e variati accordi cromatici e da una leggerezza di tocco, straordinaria in un artista ormai avanti negli anni.
Morì a Roma l’11 giugno 1768, senza fare testamento (Michel, 1996, p. 46).
Fonti e Bibl.: L. Pascoli, Vite de’ pittori, scultori ed architetti moderni, II, Roma 1736, p. 407.
A. Pacia, Esotismo, cultura archeologica e paesaggio negli affreschi di Palazzo Colonna, in Ville e palazzi. Illusione scenica e miti archeologici, a cura di E. Debenedetti, Roma 1987, pp. 125-179; Ead., Esotismo decorativo a Roma fra tradizione rococò e gusto neoclassico, in Temi di decorazione. Dalla cultura dell’artificio alla poetica della natura, a cura di E. Debenedetti, Roma 1990, pp. 91-156; M.B. Guerrieri Borsoi, L’attività di Stefano e Giuseppe Pozzi nella basilica di S. Pietro, in Studi Romani, 1991, n. 39, pp. 252-266; A. Pacia, S. P. decoratore a Palazzo Sciarra e Palazzo Colonna, in Bollettino d’arte, s. 6, LXXVII (1992), 76, pp. 71-94; E. Fumagalli, Palazzo Borghese. Committenza e decorazione privata, Roma 1994, pp. 11-186, n. 77; Della Chinea e di altre ‘macchine di gioia’: apparati architettonici per fuochi d’artificio a Roma nel Settecento (catal., Roma), a cura di M. Gori Sassoli, Milano 1994, pp. 130-134; G. Michel, I Pozzi, una famiglia d’artisti: da Vercurago a Roma, in I pittori bergamaschi, V, Il Settecento, 4, a cura di R. Bossaglia - G.A. Dell’Acqua, Bergamo 1996, pp. 3-58; A. Pacia, La critica, ibid., pp. 59-68; A. Pacia - S. Susinno, Le opere, ibid., pp. 123-233; L. Barroero, Disegni di S. P. pittore di storia, in Per Luigi Grassi, a cura di A. Forlani Tempesti - S. Prosperi Valenti Rodinò, Rimini 1998, pp. 436-449; M.B. Guerrieri Borsoi, Recensione a Michel, Geneviève, Pacia, Amalia, Susinno, Stefano: i Pozzi, una famiglia di artisti da Vercurago a Roma, Bergamo, 1996, in Storia dell’arte, XCIX (2000), pp. 138-140.