PORCARI, Stefano
PORCARI (de Porcariis, Porcius), Stefano. – Figlio di Paluzzo di Giovanni di Nardo e di una Caterina, nacque a Roma nei primissimi anni del Quattrocento.
Ebbe un fratello minore, Mariano, del quale si perdono le tracce alla fine degli anni Trenta, e tre sorelle, variamente coinvolte nelle vicende della congiura del 1453.
I Porcari appartenevano all’aristocrazia municipale romana – o patriziato – e il loro radicamento nel rione Pigna è attestato già dal Duecento con le lapidi di Giuliano Porcari del 1282, di Nicola di Eramo Porcari del 1362 e di suo figlio Giovanni del 1363, tuttora conservate nella chiesa di S. Giovanni della Pigna, al centro dell’insediamento dei vari rami della famiglia. Giovanni, nonno di Stefano, notaio della Curia di Campidoglio nel 1384 e banchiere, fu spesso arbitro nelle controversie sorte tra gli abitanti del rione Pigna, come poi anche suo figlio Petruccio, zio di Stefano, che nel 1403 – definito «nobilis vir» – fu nominato podestà di Sutri da Bonifacio IX. Appalti e cariche comunali caratterizzarono l’attività di Giovanni e dei suoi tre figli. Con i fratelli Petruccio e Nardo, Paluzzo, il padre di Stefano, acquistò nel 1398 una casa con torre nel rione Pigna, segno del raggiungimento di un livello economico e di un prestigio sociale più elevato. Paluzzo fu conservatore di Roma nel 1416 e nel 1423; nello stesso anno e ancora nel 1426 fu il rappresentante del rione Pigna tra i 13 boni viri. Morto Petruccio nel 1441 e Paluzzo tra il 1442 e il 1445, suo figlio Stefano compare negli atti notarili come amministratore dei beni familiari insieme allo zio Nardo. Le cronache cittadine, le fonti letterarie e gli stessi documenti attualmente conservati tacciono l’esatto grado di parentela del ramo di Stefano con gli altri rami della famiglia, probabilmente allo scopo di distanziare nella memoria cittadina colui che si era macchiato dell’onta della congiura contro Niccolò V nel 1453 da tutti gli altri Porcari fedeli ai pontefici.
Molto più documentate sono le vicende e i rapporti di parentela dell’altro ramo dei Porcari, sempre residenti nel rione Pigna, a partire da Nicola di Francesco, notaio e personaggio di un certo rilievo durante il governo popolare del secondo Trecento, legato alla famiglia Colonna dalla quale ebbe diverse procure. Tra i suoi discendenti, impegnati per lo più nell’allevamento del bestiame, nell’attività bancaria, mercantile e imprenditoriale, nell’esercizio delle magistrature comunali o più tardi nelle carriere curiali, si possono ricordare Paolo di Nicola (fautore dei Colonna, che ebbe il ruolo di governatore nella Repubblica Romana del 1434 nata dopo la fuga di Eugenio IV dalla città), Francesco di Giuliano (collezionista di antichità, promotore di un circolo di umanisti e maestro delle strade durante il pontificato di Sisto IV), Girolamo di Domenico (particolarmente legato ai Borgia e ad Alessandro VI, lettore di diritto canonico presso lo Studium Urbis, governatore della Romagna, uditore di Rota e vescovo di Andria); infine Paolo di Filippo di Bartelluccio (poeta, ricordato da Gaspare da Verona nella biografia di Paolo II e unico tra i Porcari, nel panorama di totale silenzio tenuto dal resto della famiglia dopo i fatti del 1453, a esaltare Stefano per le sue virtù letterarie e retoriche).
Stefano Porcari nacque, dunque, da una famiglia caratterizzata dall’appartenenza – soprattutto nella prima metà del XV secolo – alla fazione colonnese, dall’affezione alle tradizioni e alle prerogative municipali e dalle simpatie repubblicane.
È in una Roma municipale che ancora inseguiva il sogno di un’autonomia, rappresentata da un Comune già schiacciato dal potere pontificio dopo l’atto di forza di Bonifacio IX (1398) e dopo il rientro dei papi a Roma con Martino V (1420), che si colloca la sua formazione politica e culturale.
Della povertà dei suoi genitori, riferita da alcune fonti letterarie, è lecito dubitare, perché strumentale alla tesi – preponderante nella storiografia pontificia e nella pubblicistica di ambiente curiale – che egli abbia organizzato la congiura per soddisfare la brama di denaro; tesi costruita con evidenti richiami alla figura di Catilina. È possibile che il ramo di Stefano avesse attraversato un periodo più difficile rispetto agli altri Porcari nella prima metà del Quattrocento, ma non si trattava comunque di una famiglia indigente, come dimostrano anche la carriera di Stefano Porcari e l’educazione data a lui e al fratello Mariano testimoniata da alcune lettere di Ambrogio Traversari.
Porcari ottenne fin da giovane, soprattutto grazie ai pontefici, diversi incarichi pubblici di un certo rilievo e di notevole responsabilità. Fu capitano del popolo a Firenze nel secondo semestre del 1427 e nel primo del 1428, con un importante ruolo di mediatore tra il governo fiorentino e Martino V. Dell’incarico fiorentino resta la preziosa testimonianza delle orazioni da lui pronunciate. L’affezione alla libertà di Firenze, il dolente ma implicito contrasto con la situazione di soggezione in cui si trovava Roma, sono temi che non possono non essere messi in relazione con le insofferenze di Stefano Porcari nei confronti della signoria pontificia e con il loro tragico epilogo nella congiura del 1453.
Il 10 agosto 1427, nella cappella di palazzo Colonna ai Ss. Apostoli e alla presenza di Martino V, fu celebrato l’addobbamento cavalleresco di Stefano Porcari.
Andrea Santacroce riferisce l’evento a una contingenza particolare: il giovane Porcari avrebbe passato la prima adolescenza a Firenze presso il mercante Matteo Bardi, che avrebbe abituato il ragazzo a una vita lussuosa e corrotta, giungendo perfino ad abusare di lui. Il cavalierato, i cui costi sarebbero stati sostenuti dallo stesso mercante, sarebbe stato una sorta di risarcimento per tali abusi.
Questa versione dei fatti si lega – nel racconto di Santacroce – al tema della povertà dei genitori di Porcari. Trattandosi dell’unica fonte a riferire queste notizie, non si può fare altro che sospendere il giudizio sulla sua aderenza alla realtà. Occorre tuttavia tener conto del fatto che le altre fonti danno scarso spazio all’adolescenza di Stefano Porcari e che diverse notizie riferite dal solo Santacroce trovano un preciso riscontro nei documenti d’archivio.
Dopo il periodo fiorentino Stefano e il fratello Mariano (che aveva studiato a Firenze, probabilmente dal 1429-30, con Ambrogio Traversari, e che con Stefano godeva dell’amicizia e dell’apprezzamento di Poggio Bracciolini) fecero un viaggio in Francia e in Germania con Gaspare da Verona, conclusosi nelle prime settimane del 1432. Probabilmente per studiare diritto, l’adulescentulus Mariano accompagnò Stefano anche nella podesteria bolognese (1433), affidatagli dal nuovo papa Eugenio IV (che pure era favorevole agli Orsini), e successivamente a Siena (1434); fu inoltre suo vicario quando Porcari fu governatore a Orvieto (tra il 1435 e il 1436).
Racconta infatti Traversari che i due fratelli erano molto interessati alle sue ricerche erudite e che Stefano – nonostante l’impegno degli incarichi politici – aveva raggiunto risultati notevoli negli studia humanitatis.
Porcari fu in seguito governatore di Trani e passò un periodo di prigionia durante la sollevazione della città. Forse il ruolo più importante – e il più interessante in relazione ai rapporti tra romani e pontefici – che Porcari svolse ai tempi di Eugenio IV riguarda la mediazione di cui si fece carico in occasione del breve esperimento della Repubblica Romana del 1434. Da una lettera di Traversari si apprende che Stefano agì nella fase in cui si cercò di raggiungere un accordo tra le parti, prima che il papa riuscisse a sconfiggere la Repubblica e a riportare la città all’obbedienza (27 ottobre). La trattativa non ebbe successo perché il papa non volle affidare Castel Sant’Angelo ad alcun cittadino romano.
A questi anni appartiene la notizia del matrimonio di Porcari con una ricca vedova e della successiva separazione, riferita da Santacroce (con una forte sottolineatura della povertà di Stefano e della sua brama di ricchezza) e confermata da un atto notarile del 3 aprile 1437, dove si racconta che Porcari aveva sposato Rita di Tuccio Caranzoni.
È Gaspare da Verona, in qualità di procuratore di Porcari, a narrare gli eventi trascorsi: Rita si era allontanata dalla casa di Stefano contro la volontà di lui ed era tornata ad abitare nella casa del primo marito già morto, Mattia Astalli, insieme ai figli nati da quel matrimonio. Tramite il suo procuratore, Stefano la invitava a tornare a vivere con sé.
La presenza di Porcari a Roma è ancora attestata nel novembre del 1442, quando veniva nominato arbitro in una lite che coinvolse quel Francesco Gabbadio che dieci anni più tardi partecipò con lui alla congiura. Per il decennio 1437-47 le notizie su Porcari sono invece molto scarse. La brillante carriera iniziata con Martino V e proseguita nei primi anni di Eugenio IV sembra aver subito uno stallo.
Durante la sede vacante seguita alla morte di Eugenio IV (23 febbraio 1447) i romani si riunirono in consiglio nella chiesa di S. Maria in Aracoeli per concordare le richieste da rivolgere al collegio dei cardinali. Porcari prese la parola e – racconta Stefano Infessura – «disse alcune cose utili per la nostra repubblica, tra le quali disse che si dovesse vivere ad capitulo colla Ecclesia et collo sommo pontefice, attento che una trista et piccola terra de quelle che erano subiette alla Ecclesia viveva ad capitulo con dare un tanto alla Ecclesia, et Roma no» (Diario della città di Roma, a cura di O. Tommasini, 1890, p. 45). Diverse fonti considerano questo episodio il preludio della congiura del 1453. Il neoeletto Niccolò V non volle punire Porcari. La maggior parte degli autori insiste sulla clemenza del papa, che avrebbe scelto di passare sotto silenzio l’accaduto e di provare a moderare l’animo di Porcari attraverso il conferimento di cariche. Stefano fu nominato rettore della provincia di Campagna e Marittima: un incarico importante, ma Santacroce osserva che Porcari non ne era soddisfatto perché l’ufficio era mal remunerato.
Nell’ottobre del 1450 Porcari sposò a Perugia Anna Boncambi, figlia di Boncambio. Questi, esponente di spicco della corrente popolare a Perugia e più volte colpito dalla repressione nobiliare, anche con l’esilio, era stato senatore di Roma nel 1449 e a questo periodo si deve verisimilmente attribuire il rapporto con Porcari.
Eletto capo dei priori di Perugia nel 1452, Boncambi fu costretto a dimettersi in conseguenza della congiura del 1453. Il matrimonio è quasi certamente connesso con le alleanze fuori di Roma che Porcari andava tessendo in vista di future azioni eversive e tale ipotesi risulta avvalorata da un particolare curioso e inquietante: nel contratto stipulato dai due milites Boncambi prometteva una dote di 1000 fiorini, di cui 150 o 200 sarebbero stati dati in armature e attrezzature militari, oltre che in vestiti e ornamenti.
Più grave del discorso tenuto in S. Maria in Aracoeli fu quanto accadde in piazza Navona in occasione del carnevale del 1451. Durante i giochi Porcari incitò i romani alla rivolta armata contro il governo papale. Dopo questa ennesima provocazione Niccolò V non poteva più continuare a ignorare il problema. Decise dunque di punire Stefano con il confino a Bologna, sotto la sorveglianza del legato pontificio, il cardinale Bessarione.
Le fonti descrivono la decisione di Niccolò V ancora come un atto di moderazione: Porcari riceveva dalla Camera apostolica una sovvenzione di trecento ducati l’anno, ai quali il cardinal legato volle aggiungerne altri cento. Resta da chiedersi se tale moderazione non sia derivata dal timore di connivenze di Porcari con il re di Napoli o altri signori nello scacchiere politico italiano, come suggeriscono Infessura e molte altre fonti. L’ipotesi che alle spalle dei congiurati ci fosse un disegno che coinvolgeva Stati e signori italiani nuoceva tuttavia all’immagine e alle strategie politiche di Niccolò V: per questo una voce ‘ufficiale’ come quella di Pietro Godi si fece carico di confutarla e di ricondurre il complotto entro un ambito esclusivamente cittadino.
A Bologna Porcari trascorse quasi due anni in confino (1451-52). Secondo Stefano Caccia, Porcari, sempre irrequieto, accolse presso di sé molti che erano stati espulsi da Roma e che lo aggiornarono sul clima politico della città. Santacroce parla del malgoverno, delle minacce, delle torture, delle proscrizioni, delle tassazioni inique imposte ai romani da Giacomo Lavagnoli da Verona e da Nicola de’ Porcinari dell’Aquila, che si succedettero in quei due anni nella carica di senatore, e del conseguente terrore diffusosi tra i cittadini. A Bologna inoltre, secondo la relazione di un anonimo curtisanus, Porcari avrebbe definito e concordato (di fronte alla chiesa di S. Domenico) il proprio disegno eversivo (tractatus) con certi cittadini romani e diversi uomini di legge a Bologna.
Informato dunque dell’esistenza di molti esiliati desiderosi di novità, soprattutto tra i giovani, e della scarsa difesa armata di Roma, Porcari decise di passare all’azione. Fece avvisare del suo prossimo arrivo i principali complici in città: Angelo di Maso (marito di una sorella di Stefano), Niccolò Gallo e Battista Sciarra (suoi nipoti), Giacomo Massimi (marito di un’altra sorella) e Pietro da Monterotondo. Sciarra, che aveva militato per il re di Napoli nella campagna toscana dell’estate precedente, arruolò per la congiura delle milizie fingendo che fossero destinate all’esercito aragonese. In due o tre giorni, a tappe forzate, Porcari cavalcò da Bologna – dove finse una malattia al fine di coprire l’inadempienza dell’obbligo di presentarsi quotidianamente al cardinale – fino a Roma, dove giunse prima dell’Epifania del 1453. Approfittando delle celebrazioni che Niccolò V avrebbe fatto nella basilica di S. Pietro, sembra che Stefano intendesse realizzare un assalto armato contro il papa, i cardinali e gli uomini di Curia, con catture o uccisioni, secondo la necessità del momento.
A casa di Porcari si radunarono i capi della congiura e molti altri complici, ai quali egli rivolse un’orazione appassionata.
Bello d’aspetto, vestito di broccato d’oro, Stefano parla ai suoi complici e nessuno è capace di resistere alla sua straordinaria eloquenza, che rafforza gli animi dei congiurati, «come avenenati» dalle sue parole, e la loro determinazione a passare all’azione. Seguì un solenne banchetto (Firenze, Biblioteca nazionale, Machiavelli, 6.6, copia del XVI secolo).
Il broccato d’oro e il banchetto, ricordati da vari autori insieme al suo aspetto quasi da imperatore, sono tuttavia elementi che potrebbero essere ricondotti alla volontà di far apparire il progetto di Stefano non repubblicano – come sembra di poter affermare – ma signorile e tirannico, per screditare la memoria di Stefano presso i cittadini che lo avevano sostenuto e forse per proiettare su di lui l’ombra inquietante di Cola di Rienzo e dei suoi sogni imperiali.
L’entrata di Porcari in città non fu percepita in Curia, ma quando i congiurati diffusero ulteriormente la voce del complotto alla ricerca di nuovi seguaci, la notizia giunse alle orecchie del cardinale camerlengo Ludovico Scarampi o del cardinale Domenico Capranica e fu poi riferita al papa, che decise di passare all’attacco. La mattina del 5 gennaio la casa di Stefano Porcari fu circondata dai soldati del papa, condotti dal vicecamerlengo Niccolò Amidani. Porcari si nascose e il panico si sparse tra i congiurati intrappolati nella sua casa. Battista Sciarra affrontò le milizie papali, battendosi con coraggio insieme ad altri. Alcuni riuscirono a fuggire, altri vennero catturati, tra i quali Clemente di Angelo di Maso, nipote di Stefano. Porcari, a notte fonda, si rifugiò in casa di una sorella, ma il nascondiglio non era sicuro e Francesco Gabbadio fu mandato dal cardinale Latino Orsini per implorarlo di nascondere Stefano nel suo palazzo per qualche giorno. Il cardinale ascoltò la richiesta, ma lo tradì. Porcari fu preso la notte tra il 5 e il 6 gennaio e condotto al palazzo papale. La mattina seguente fu interrogato dal commissario papale Nello da Bologna, al quale confessò il suo intento di uccidere il papa e i cardinali. Dopo i primi arresti «Roma stava tutta in tribulatione granne» (Diario della città di Roma, cit., p. 54).
La Confessione di Porcari parla delle intenzioni dei congiurati e i suoi contenuti sono sostanzialmente confermati dalle altre fonti. Ma l’ipotesi che si tratti di un documento manipolato in Curia e fatto circolare subito dopo gli eventi, dunque possibile ‘archetipo’ delle notizie riferite dalle altre fonti, rende necessario dubitare della sua piena aderenza a quanto il congiurato effettivamente confessò, tenuto anche conto che fu sottoposto a tortura. Il solo Pio II, nel De Europa, nega che Porcari volesse uccidere il papa.
Il 9 gennaio 1453 all’alba Stefano Porcari fu impiccato in Castel Sant’Angelo nel torrione più alto dal lato del ponte, nel luogo più visibile dalla città, e il suo corpo fu lasciato pendere per tre giorni, affinché la durezza della giustizia papale fosse insegnamento e deterrente per i romani.
Dominava la sommità del castello la statua dell’arcangelo Michele con la spada, recentemente commissionata da Niccolò V.
Alle forche del Campidoglio, forse lo stesso giorno, furono impiccati Angelo di Maso, suo figlio Clemente e altri congiurati; il 12 gennaio furono impiccati altri complici, tra i quali Francesco Gabbadio e un dottore, forse Paolo da Alba. Seguì la ricerca in tutta Italia dei congiurati che erano fuggiti. Pietro da Monterotondo, Battista Sciarra e altri furono decapitati a Città di Castello. Niccolò Gallo, nipote di Stefano e canonico di S. Pietro, fuggì da Roma e vi rientrò solo dopo la morte di Niccolò V.
Furono gettate a terra le case di Porcari e del medico e familiare del papa Pietro da Monterotondo, affinché a tutti fosse visibile il segno della giustizia papale. Probabilmente molti cittadini, il cui coinvolgimento nella congiura non si era del tutto palesato, furono risparmiati da Niccolò V, temendo egli che un numero eccessivo di condanne potesse causare una nuova rivolta. L’atmosfera a Roma rimase molto tesa per diversi mesi, con una tangibile spaccatura tra la città e la Curia, come testimoniano soprattutto il De Porcaria coniuratione di Leon Battista Alberti e la relazione di autore ignoto contenuta in un codice di Colmar (Modigliani, 2013, fonte IV.20).
Nonostante il gran numero di fonti disponibili è difficile stabilire con certezza i reali propositi di Porcari. Certamente, in linea con una lunga tradizione repubblicana affermatasi con la nascita del Comune romano nel 1143, egli intendeva liberare Roma dal governo pontificio, accettando il papa solo come capo spirituale. Se poi intendesse farsi signore della città oppure appena possibile restituirla all’ordinamento repubblicano non è dato sapere e forse egli stesso lo avrebbe deciso, secondo le necessità contingenti, solo dopo che il suo tentativo avesse avuto successo. Pure la questione degli alleati su cui Porcari avrebbe potuto contare resta alquanto oscura, anche se sembrano accertati i contatti con Alfonso d’Aragona, attestati da varie fonti tra le quali una lettera scritta da Volterra a Giovanni de’ Medici il 4 aprile 1453 (Boschetto, 2014). La difficoltà di rispondere a queste domande è forse da attribuire al fatto che in Curia e nel più ampio quadro dei rapporti tra gli Stati della penisola gli eventi, i propositi dei congiurati e le loro connivenze furono molto presto mascherati, modificati e adattati alle esigenze del papa e dei diversi soggetti coinvolti. Il personale coinvolgimento nella Curia della maggior parte degli autori delle opere sulla congiura condiziona inoltre pesantemente i loro resoconti, segnati ora dalla prudenza, ora da un evidente intento di falsificazione, ora dalla capacità mimetica e dialettica, come nel caso di Alberti, di Orazio romano e di molti altri.
Stefano Porcari trasmise ai nipoti l’amore per le rivolte e le congiure contro i pontefici. Nel 1460, Tiburzio e Valeriano, figli di Angelo di Maso e di una sorella di Stefano, misero in atto una ribellione a Roma durante l’assenza di Pio II per la dieta di Mantova. Anche in questo caso la rivolta contava su ampie alleanze nella penisola, legandosi alla rete angioina in opposizione al filoaragonese Pio II. La strategia di Pio II Piccolomini non fu dissimile da quella già adottata da Niccolò V: non si vollero ammettere le istanze libertarie dei rivoltosi, dipinti dalla propaganda papale come semplici ladri di galline e giovani irrequieti, le cui azioni non sarebbero affatto state condivise dai genitori fedeli al governo papale.
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