INFESSURA, Stefano
Nacque a Roma verso il 1440 da Giovanpaolo, di ragguardevole famiglia romana del rione Trevi.
Il nonno paterno, Lello di Lorenzo, è spesso nominato nei protocolli notarili come carpentarius o magisteretexpertusin arte murandi; nel 1398 era submagister nella curia dei magistri aedificiorum Urbis; nel 1400 fu incaricato da Bonifacio IX di procurarsi sulla costa dalmata, con un salvacondotto veneziano, travi per il restauro di S. Paolo fuori le Mura, poiché nell'Italia centrale non era possibile trovare "lignamina ita longa". Era membro della Confraternita del Ss. Salvatore ad Sancta Sanctorum; fu chiamato come arbitro in vertenze anche da famiglie di rango (ma non era certo dottore di legge come presumeva il Tommasini, basandosi su questo dato); nel 1408 fu testimone al testamento della moglie di Fabrizio Colonna (nipote di Martino V); possedeva case nella parrocchia dei Ss. Dodici Apostoli. Il padre dell'I., Giovanpaolo, era aromatarius o speziale, nel 1428 "caporione" di Trevi, e possedeva case a Monte Cavallo; morì nel 1483. Dei suoi sei figli maschi - tra i quali l'I. - due erano a loro volta speziali, uno giunse a essere console della corporazione nel 1470. La figlia sposò un esponente della famiglia de Fredis che diverrà poi nota per il ritrovamento del Laocoonte su un suo terreno; la figlia di costei sposò a sua volta un discendente di quel Galeotto dei Normandi che, "cavaliere della libertà", nel 1409 era stato giustiziato dalla fazione papale e degli Orsini. Tutti questi dati sono importanti per la collocazione politica e sociale di questo che è il più romano di tutti i cronisti.
L'I. era legum doctor ed è indicato come iuris peritissimus da Gaspare da Verona già nel 1471. Nel 1467 fu nominato da Paolo II giudice delle province di Campagna e Marittima. Era lettore in diritto civile nello Studium Urbis; i pagamenti degli stipendi lo ricordano tra il 1473 e il 1494 (nel 1473 come ordinario, poi come straordinario di mattina). La sua opera perduta, De communiter accidentibus, fu presumibilmente un trattato giuridico. Nel 1478, come egli stesso ci informa, era podestà di Orte. Nel Comune di Roma fu uno dei due scribae senatus (come tale è ricordato nel 1487) e rientrava quindi nelle sue competenze stendere i verbali dei Consigli generali delle cui riunioni ci informa il suo diario. Era membro della Confraternita del Gonfalone, di cui diventò guardiano. Tra le famiglie importanti egli ebbe rapporti, per esempio, con i Porcari (come emerge dalle lettere di Agapito Porcari). È sporadicamente documentata la sua attività in affari e investimenti: nel 1474 egli cedette un deposito di 800 ducati a Massimo dei Massimi; nello stesso anno compare come importatore di vino "a grosso"; nel 1481 come venditore di grano al camerlengo del Gonfalone.
Si sposò con Francesca, vedova di un Paparoni, e lasciò due figli, Marcello e Matteo; quest'ultimo sposò una Cenci.
Il suo Diario della città di Roma è, per la seconda metà del Quattrocento romano, la più importante fonte narrativa scritta nella prospettiva della Roma dei Romani, meno documentata di quella della corte papale. Coprendo un periodo che va dal 1294 al 1494, l'esposizione appare inizialmente discontinua, una compilazione che si basa ampiamente sulla tradizione orale romana, ma si infittisce sempre di più nell'arco della vita dell'autore e assume, con il pontificato di Sisto IV, un andamento quasi diaristico. Come gran parte dei cronisti romani del Quattrocento l'I. è connotato da una cultura giuridico-notarile.
La lingua del testo è inizialmente il volgare (con un inserto in latino già nel 1482), poi, con la morte di Sisto IV, nel 1484, si trasforma in latino (solo le frasi conclusive sono nuovamente in volgare). Questo cambiamento si riscontra anche in altri cronisti romani del tempo, ma nel testo dell'I. le due lingue si presentano per grandi blocchi; probabilmente l'uso del latino è stata la scelta originaria. Il suo latino lascia trasparire il volgare parlato ed è molto distante dal latino degli umanisti del suo tempo a Roma: "l'onda classica lo lambisce ma non lo vivifica" ebbe a giudicare il Tommasini (1888). A ciò corrisponde l'assenza quasi totale di citazioni da autori antichi (sono citati una volta Ovidio e una volta Giovenale). Per contro l'I. abbonda in profezie (non solo quelle di Gioacchino da Fiore, espressamente citato) nelle quali la sua mentalità, nella Roma caotica dei suoi giorni, poteva trovare consolazione e speranza.
Il testo ci è stato tramandato da più di 50 manoscritti dei secoli XVI-XVIII e fu pubblicato per la prima volta da J.G. Eckhart (collaboratore di Leibniz; in Corpus historicum Medii Aevi, II, Lipsiae 1723, pp. 1863-2016) e poi dal Muratori (in Rer. Ital. Script., III, 2, Mediolani 1734, coll. 1111-1252; ma con omissioni). L'edizione critica ancora oggi fondamentale è quella a cura di O. Tommasini, Diario della città di Roma di Stefano Infessura scribasenato (in Fonti per la storia d'Italia [Medio Evo], V, Roma 1890), che nei suoi importanti studi preparatori ha illustrato anche il contesto. Una particolarità della tradizione manoscritta di questo testo è il fatto insolito che, accanto alle consuete varianti tra un manoscritto e l'altro, si trovano anche lezioni diametralmente opposte di modo che nella medesima circostanza un gruppo di manoscritti dichiara vincitori i Colonna, gli altri, al contrario, gli Orsini (per esempio: "et furo sconfitti li Ursini" diventa: "et furono sconfitti li Colonnesi" e simili, anche più sottili, alterazioni determinate da partigianeria: Tommasini, 1888, pp. 525-535). Perciò, in considerazione della inequivocabile fede politica dell'autore, quasi la metà dei manoscritti, quelli cioè di fede orsiniana, non possono portare la versione autentica.
L'ampio passo indietro nel Trecento è inusuale per i cronisti romani del Quattrocento, ma anche questa parte è certamente dell'autore (e non una parte di ricordanze familiari poi continuate da lui). L'opera ci è giunta mutila del principio (l'integrazione dell'inizio contenuta in molti manoscritti è un completamento di altra mano), ma il racconto iniziava comunque con Bonifacio VIII, forse a causa del suo conflitto con i Colonna e della punizione per questo ricevuta da Dio. Sebbene per il Trecento il Diario non abbia valore di fonte, fornisce però un dettaglio in più rispetto alle altre fonti sulla sottomissione del Comune romano da parte di Bonifacio IX nel 1398, ancorché condensato in forma aneddotica. Solo Martino V, papa Colonna, appunto, ha portato al popolo pace, giustizia e benessere, mentre gli altri papi non avevano realmente adempiuto a questo compito; essi però non vengono trattati in modo così polemico (anzi, vengono anche lodati per singoli fatti) come poi Sisto IV. All'interno di questo pontificato spiccano i capitoli sulla guerra di Sisto IV contro Ferdinando di Napoli e sul procedimento contro il protonotario Lorenzo Colonna per la relativa compiutezza e la personale partecipazione, tanto che essi potrebbero essere il punto di partenza di tutta l'opera, mentre solo in seguito sarebbe stata aggiunta la descrizione del periodo precedente. Il Diario si interrompe al 1494 prima della discesa di Carlo VIII di Francia, al cui fianco si sarebbero schierati i Colonna.
L'autore e la sua opera sono pervasi dalla "nostalgia della Roma municipale" (Miglio). Egli deplora la fine del libero Comune di Roma, non la fine della Roma antica, come gli umanisti del suo tempo, ma la sottomissione della Roma municipale da parte del Papato a partire da Bonifacio IX, registrando da allora in avanti con speciale attenzione ogni pur minima sollevazione contro il dominio papale: lo "stato dello popolo" del 1434 temporaneamente vincente contro Eugenio IV, sino a che la "libertà de Roma" fu nuovamente sottratta dal diabolico cardinal legato Giovanni Vitelleschi; o il tentativo rivoluzionario di Stefano Porcari del 1453 che l'I. descrive con partecipazione personale ("e veddilo io […] pennere quell'huomo da bene amatore dello bene et libertà di Roma", ed. Tommasini, p. 54). Infatti l'I. vede agire nel Porcari non solo una vaga idea di libertà, ma anche un pratico senso politico che vuol porre il rapporto tra il Comune e il papa su una base contrattuale, "vivere ad capitulo colla Ecclesia" (ibid., p. 45; mentre la sollevazione di Tiburzio del 1460 viene raccontata senza evidente emozione).
L'I. registra con sensibilità tutte le azioni che sono violazioni della Curia "contra libertatem romanam" e portano quindi a uno svuotamento ulteriore dei diritti tradizionali, tra cui il fatto, per esempio, che gli uffici comunali vengono affidati non più per elezione o per sorteggio sul Campidoglio, ma venduti e assegnati a discrezione del papa e addirittura distribuiti tra i cardinali del conclave come i benefici. Oppure: la promessa giurata del papa di assegnare uffici e benefici romani solo a cittadini romani viene semplicemente aggirata col conferimento, per ordine del papa, della cittadinanza romana ai candidati papali; i casi giudiziari di competenza del senatore vengono avocati a sé dalla Curia, ecc. L'I. biasima i Conservatori del suo tempo perché essi - tutti del partito degli Orsini e creature del papa - non protestano più vivacemente contro questo sopruso. Egli polemizza anche aspramente contro l'ingerenza dirigistica del Papato nell'economia romana (in particolare l'ingerenza di Sisto IV nella locale produzione dei grani e nel loro mercato, a favore di imprenditori genovesi), perché egli vede che il ceto dirigente romano in questo modo avrebbe perso, dopo il potere politico, anche la sua base economica.
È indicativo che l'I. percepisca l'incombente emarginazione del Campidoglio persino nelle sfumature: egli si rammarica che il ruolo e il rango del Campidoglio vengano diminuiti dal trasferimento delle esecuzioni capitali a Tor di Nona (mentre il trasferimento del mercato a piazza Navona era generalmente auspicato), e disapprova il modo in cui i curiali si appropriano dell'Agone (per il carnevale romano). L'intervento che in quegli anni balzava maggiormente agli occhi, la trasformazione urbanistica dell'Urbe, non era un'iniziativa dei Romani stessi (i quali non avevano sviluppato idee del genere), ma del Papato. Anche i magistri aedificiorum Urbis erano divenuti destinatari di ordini papali. La renovatio Urbis non era rifiutata dall'I. e dai Romani, ma il rinnovamento non era certo una loro propria iniziativa.
In tutto questo l'I. è "senza dubbio il cronista romano quattrocentesco di parte più nettamente municipale e anti-papale" (Modigliani, 1994). È significativo il fatto che nella società romana - nella quale egli, come componente importante, colloca anche gli alienigenae (i forestieri e stranieri, particolarmente numerosi a Roma e in alcuni settori dominanti) - egli scorga ancora una contrapposizione tra Romani e cortigiani (diminuita de facto nella seconda metà del Quattrocento, dopo la definitiva vittoria del Papato sul Comune perché la carriera municipale non rappresenta più una reale alternativa): questa sua percezione è, per così dire, diventata un'ideologia. Lo interessa vivamente come la Roma municipale venga considerata dal papa, dall'imperatore (l'esagerata reverenza di Federico III davanti al senatore fu però piuttosto la gaffe di un malinformato) e dalle altre potenze, e soprattutto come il popolo se la cavi nella sua vita quotidiana.
Scritto con l'acume del giurista e il cuore del romano, il Diario avvince per la sua specifica mescolanza di informazione precisa e spontanea passionalità. L'I. è volentieri citato dalla storiografia non solo perché non esistono quasi altre opere paragonabili, ma perché gli specifici aspetti e problemi della Roma di allora vengono acutamente focalizzati e illustrati con episodi precisi che ben si prestano a essere citati. Per esempio: l'allevamento del bestiame su grande scala come base economica delle classi dirigenti (con la corrispondente vulnerabilità); la precaria sicurezza delle strade di accesso e l'impotenza davanti alle ruberie dei baroni; la stessa condotta dei baroni del tutto incurante, non influenzabile in alcun modo dal governo municipale (che dicevano anche al papa che doveva lasciare che risolvessero tra loro - Colonna e Orsini - le loro questioni senza immischiarsi: "che lasciasse fare a loro", ed. cit., p. 126); il ruolo dei munitissimi palazzi dei cardinali nella contesa per la strada ("domus sua est fortior castro S. Angeli", ibid., p. 170) e altro ancora.
L'I. è molto preciso nell'indicare gli uffici municipali e i nomi degli eletti, degli imprigionati, degli uccisi. È caratteristica anche la precisione topografica con cui ogni episodio è localizzato: non semplicemente "inondazione", ma sino a quale strada essa è arrivata; non dice semplicemente che le colonne del Pantheon furono liberate dalle botteghe, ma indica anche i nomi dei proprietari; oppure dice dove fu poi venduto il palio d'altare che era stato rubato, su quale piazza era stata udita una voce, e così via. Interessante è il suo riferimento (in senso non estetico, ma commemorativo) a opere d'arte del suo tempo: la "memoria penta" dei ladri di reliquie nel Laterano, i nomi dei personaggi rappresentati sulla nuova porta bronzea di S. Pietro, la Madonna miracolosa subito dipinta da Antoniazzo, l'assedio di Cave nel disegno ricco di figure (poco apprezzato da Sisto IV) di un giovane pittore; Paolo II, connaisseur di pietre preziose, appare a proposito in due episodi relativi a queste (e perciò citati dagli storici dell'arte).
Anche nella resa degli stati d'animo il Diario ha passi di grande effetto: scene come l'ultima cavalcata del protonotario Colonna al papa (una rappresentazione impressionistica dell'odio di parte a Roma); l'atmosfera della inquietudine che porta sulla città già la sola attesa della morte di un papa; la violenza quotidiana). E inoltre le consuete notizie di tutte le cronache: eclissi di sole, segnali divini, cronaca nera, esecuzioni capitali (anche nei loro dettagli raccapriccianti). L'arrivo del predicatore (Bernardino da Siena), feste pubbliche (tra cui a Roma si contano anche canonizzazioni, anni santi, carnevale). Tutte queste minuzie sono raccontate non certo con la prospettiva di uno storico di rango (e in questo davvero con lo sguardo di un diarista), anzi l'I. rivela involontariamente la misera dimensione di queste battaglie "romane": il castello dalla cui porta corrono i maiali, colpiti da palle fatte con le pietre di un antico rudere (pp. 145, 147).
Il Diario, in quanto storia del proprio tempo, è scritto nel mezzo degli avvenimenti. L'I. racconta alcuni episodi esplicitamente come testimone oculare (egli vede Stefano Porcari impiccato, vede come il palazzo del Campidoglio viene precipitosamente chiuso alla notizia della morte del papa) o come testimone auricolare ("me presente respose"), e sottolinea in questo modo anche il suo personale coinvolgimento nell'accaduto; l'I. riceveva certamente molte informazioni sui retroscena dai notai nella quotidiana comunicazione sul Campidoglio e dagli atti d'ufficio che gli erano accessibili come scribasenato, anche se raramente cita tali documenti (per esempio: le promesse di Innocenzo VIII ai Romani). Non per tutte le parti del Diario vale il giudizio di Tommasini che l'I. scriveva "quando il fatto è già abbastanza remoto da lui" (1888, p. 557): talvolta certe notizie sembrano essere aggiunte successivamente per correggere o completare ("quod fuit dictum falsum fuit"); ma a volte una notizia insicura rimane anche in sospeso, là dove successivamente avrebbe potuto facilmente essere verificata ("depò si saperà la verità").
Anche se Roma occupa un posto centrale e tutto è visto da Roma, l'orizzonte si estende ripetutamente alle città dello Stato della Chiesa, talvolta anche alle grandi potenze italiane, sia pure a causa delle discordie dei baroni variamente implicate l'una con l'altra dove (come l'I. cerca di districare) la lotta per un singolo piccolo castello nella Campagna romana può coinvolgere una famiglia nobile dopo l'altra e alla fine perfino le grosse potenze. Supera i confini dell'Italia quando si tratta del pericolo turco (la caduta di Costantinopoli nel 1453, ma non le precedenti trattative per l'unione; l'assedio di Rodi nel 1480, la morte di Maometto II, ecc.).
Nella sua idealizzazione del passato gli sembra persino che il Comune di Roma non abbia neppure conosciuto prima di Sisto IV una seria divisione in fazioni ("mai ad mei dì fu in Roma conosciuta parte alcuna, né guelfa né ghibellina, né Ursina, né Colonnese", ed. Tommasini, p. 138). Ma lo stesso Diario è intriso da questo odio di parte feroce, nell'esperienza del presente e nello sguardo sul passato. L'I. (cosa che non vale affatto per tutti i cronisti romani) è con passione al fianco dei Colonna contro gli Orsini. Egli indica la fazione dei Colonna (o "ghibellina") anche semplicemente come "parte nostra" e fa chiaramente risaltare nel suo racconto l'intreccio delle famiglie che appartengono a queste clientele cittadine, in modo che si può seguire questo conflitto di base su tutti i piani (per esempio, Della Valle contro Santacroce) fin dentro le strutture capillari della società romana.
Il fatto che il conflitto tra i Colonna e il Papato abbia raggiunto il suo apice con Sisto IV ha conferito all'immagine di questo papa presso l'I. le tinte più fosche: questo papa che umiliava i Romani con la vendita degli uffici e li aveva messi in difficoltà con l'egoistica incetta dei grani, al quale Dio annuncia la sua collera con segnali sinistri; tutto ciò è rappresentato con amarezza, odio e sarcasmo (sino alla descrizione dell'aspetto delle sue creature). Soprattutto la cattura e l'esecuzione capitale del protonotario Lorenzo Colonna - in cui Sisto IV si dimostrò "crudelissimo Nerone" - sono descritte, sotto l'immediata impressione degli avvenimenti, drammaticamente e con insolita partecipazione ("et io Stefano scrittore con li miei occhi lo veddi, et con le mie mani lo sepelii" e l'introduzione che lo pone espressamente nel ruolo di testimone del tempo e di storico: "Faccio recordo io Stefano"; ibid., pp. 141, 107). L'assedio dei castelli dei Colonna sembra descritto giorno per giorno in modo quasi affannato. Alla morte del papa ("felicissimus dies") prorompe per intere pagine un canto d'odio su Sisto IV da parte dell'autore che, per così dire, muta genere letterario, dal diario all'invettiva (ibid., pp. 155-160) conclusa con un martellante "Hic" ("Hic officia multa […] venalia fecit" "Hic poenas omnes […] ad pecuniam reduxit" "Hic […]") e con una preghiera di ringraziamento e un "Amen".
Questo ritratto radicalmente negativo di un pontefice senza dubbio tra i grandi papi del Rinascimento ha portato necessariamente a chiedersi come sia da considerare la credibilità in generale dell'autore. Pastor ne ha in linea di massima dubitato, Gregorovius no. Effettivamente, con una conoscenza ravvicinata dei documenti del tempo e confronti mirati, come quelli accuratamente ricercati da Tommasini, si può constatare che molte delle accuse fatte - critiche concrete e puntuali e non semplicemente in generale - sono giuste (lasciando da parte l'accusa di sodomia). Che Sisto IV vendesse gli uffici è infatti vero; che egli, a pregiudizio del tribunale del senatore, avesse mutato le pene, anche per delitti, in pene pecuniarie è dimostrabile; e così anche che egli fosse pronto talvolta "in alios usus convertere" i denari riservati ai docenti dello Studium Urbis; com'è vera anche l'incetta di grani da parte dei mercanti genovesi. È vera addirittura la notizia che il papa abbia fatto utilizzare i resti di un antico ponte per farne palle da cannone (trovate infatti sul posto di fronte a S. Michele nel 1980). L'I. è quindi informato e puntuale anche quando diventa polemico. Ma è unilaterale. Egli è ingiusto nel tacere i contributi positivi del papa: connotare Sisto IV come "litteratorum inimicus" è assurdo (l'I. capiva troppo poco di arte e di cultura); non è esatto ridurre la concezione urbanistica di una renovatio Urbis al consiglio, basato su ragioni militari, dato da re Ferdinando nel 1475 di allargare i vicoli medievali per un miglior controllo della città, perché Sisto IV già prima del 1475 aveva cominciato la trasformazione urbanistica. Col successivo pontificato, che vede alleati il papa e i Colonna, cambierà il tenore del diario: da un papa cattivo a un papa debole.
Nel Diario si parla poco di quello che è stato lo specifico contributo del Rinascimento: gli manca (come a non pochi altri romani della sua generazione) una più profonda comprensione per l'arte e l'umanesimo. È ben vero che enumera sinteticamente le nuove costruzioni dei singoli papi, ma, quando ne parla dettagliatamente, lo interessano di più le reliquie portate alla luce con la demolizione della chiesa precedente con le loro relative autenticazioni, o il valore materiale delle antiche pietre ritrovate sul luogo. Eppure egli dà, dall'interno della vita della città, un'immagine di Roma nel Rinascimento che per la sua intensità è imparagonabile.
Ignoriamo la data di morte dell'I.; egli era certamente già morto nel 1500, quando i suoi figli pattuirono con il capitolo di S. Maria in via Lata un nuovo modo di compenso delle messe per i defunti nella cappella di S. Nicola il cui giuspatronato l'I. aveva acquistato per la famiglia nel 1481.
Fonti e Bibl.: Gaspar Veronensis, De gestis Pauli II, a cura di G. Zippel, in Rer. Ital. Script., 2ª ed., III, 16, p. 9; Diario della città di Roma di Stefano Infessura scribasenato, a cura di O. Tommasini, in Fonti per la storia d'Italia [Medio Evo], V, Roma 1890; O. Tommasini, Il Diario di S. I.: studio preparatorio alla nuova edizione di esso, in Arch. della Soc. romana di storia patria, XI (1888), pp. 481-640 (manoscritti: pp. 504-524), e ulteriori studi preparatori ibid., XII (1889), pp. 5-36; XIII (1890), pp. 269 s.; XV (1892), pp. 506-509; L. von Pastor, Geschichte der Päpste…, II, Freiburg 1925, pp. 640-649; F. Gregorovius, Geschichte der Stadt Rom im Mittelalter, a cura di W. Kampf, III, Darmstadt 1957, p. 286; A. Esch, Bonifaz IX. und der Kirchenstaat, Tübingen 1969, pp. 260, 338; E. Lee, Sixtus IV and men of letters, Roma 1978, pp. 129, 155 s.; M.C. Dorati da Empoli, I lettori dello Studio e i maestri di grammatica a Roma da Sisto IV ad Alessandro VI, in Rass. degli Archivi di Stato, XL (1980), p. 117; A. Esposito, La documentazione degli archivi di ospedali e confraternite come fonte per la storia sociale di Roma, in Private acts of the late Middle Ages, a cura di P. Brezzi - E. Lee, Toronto 1984, pp. 74 s.; P. Pavan, Permanenze di schemi e modelli del passato in una società in mutamento, in Un pontificato e una città. Sisto IV, a cura di M. Miglio et al., Città del Vaticano 1986, pp. 305-315; P. Cherubini, Tra violenza e crimine di Stato: la morte di Lorenzo Oddone Colonna, ibid., pp. 355-380; M. Miglio, I cronisti della storia, ibid., pp. 631-641; Id., Scritture, scrittori e storia, II, Manziana 1993, ad ind.; A. Modigliani, I Porcari, Roma 1994, ad ind.; E. Mori, L'archivio del ramo romano della famiglia Ghislieri, in Arch. della Soc. romana di storia patria, CXVIII (1995), pp. 133, 144; I. Ait, Tra scienza e mercato. Gli speziali a Roma nel tardo Medioevo, Roma 1996, p. 74; I. Lori Sanfilippo, La Roma dei Romani. Arti, mestieri e professioni nella Roma del Trecento, Roma 2001, pp. 238, 252 s.; M. Miglio, Cronisti romani del Quattrocento, in Ovidio Capitani. Quarant'anni per la storia medioevale, a cura di M.C. De Matteis, II, Bologna 2003, pp. 283-289; A. Modigliani, La lettura "storica" delle fonti in volgare: il caso di Roma. Memorie cittadine e familiari, in Atti del II Congresso della Associazioneper la storia della lingua italiana, Catania… 1999, a cura di G. Alfieri, Firenze 2003, pp. 237, 239 s., 243-245, 248-250; Repertorium fontium historiae Medii Aevi, VI, pp. 237 s.