STEFANO II
Figlio di un Costantino, apparteneva ad una famiglia nobile romana che aveva le case nella regione della via Lata (via del Corso). Non se ne conosce la data di nascita. Rimasto orfano in giovane età fu allevato nei collegi del patriarchio lateranense, ricevendo gli ordini ecclesiastici fino al diaconato, che gli fu conferito da papa Zaccaria. Come diacono sottoscrisse insieme al fratello Paolo, anch'egli diacono, gli atti di un concilio romano nel 744. Alla morte di Zaccaria venne eletto papa un presbitero Stefano, che morì quattro giorni più tardi senza aver ricevuto la consacrazione (poiché anch'egli è stato talvolta conteggiato nella serie degli Stefani, i papi di questo nome possono risultare contrassegnati con un doppio ordinale e in questo caso S. appare non come il secondo ma come il terzo a chiamarsi così). Allora fu eletto S., che venne consacrato il 26 marzo 752, dodici giorni dopo la morte di Zaccaria. La tempestività di queste elezioni si spiega con le circostanze politiche: Roma con tutto il Ducato romano, corrispondente press'a poco all'attuale Lazio, era minacciata dal re longobardo Astolfo, che l'anno precedente aveva conquistato Ravenna, ponendo fine al governo dell'Impero bizantino nell'Italia centrale. Le due province dell'Esarcato (Romagna) e della Pentapoli (Marche settentrionali) erano infatti passate sotto il dominio diretto del re; il Ducato romano, anch'esso provincia bizantina, era rimasto per il momento indenne, ma era oggetto delle minacciose pressioni di Astolfo che intendeva sottomettere gli abitanti alla sua sovranità. I predecessori di S. avevano già dovuto fronteggiare più volte i re longobardi che da tempo miravano ad eliminare la sovranità bizantina in Italia. I papi, che svolgevano ormai un ruolo di primo piano nel sistema di governo imperiale, ne difendevano la sopravvivenza, non solo per fedeltà alla tradizione che voleva la Chiesa romana strettamente legata all'Impero romano-bizantino, ma perché vedevano in esso una condizione essenziale per l'autonomia della Sede papale. Sfruttando il prestigio di successori e vicari dell'apostolo Pietro, cui gli stessi re longobardi erano devoti, papi come Gregorio III e soprattutto Zaccaria erano perfino riusciti ad ottenere la restituzione all'Impero di terre e castelli occupati dai Longobardi. La situazione era però cambiata dopo l'avvento al potere di Astolfo, che si mostrava determinato a sottomettere tutte le province imperiali dell'Italia centrale. S. tentò sulle prime quelle trattative che erano riuscite ai suoi predecessori, inviando dal re, nel giugno 752, il fratello Paolo, allora diacono, ed il primicerio della Sede apostolica Ambrogio con molti doni; sembra che essi ottenessero da Astolfo una promessa di pace addirittura quarantennale per i territori romani. Ma dopo soli quattro mesi Astolfo tornò a minacciare il territorio romano, pretendendo che Roma e gli altri centri abitati si sottomettessero alla sua giurisdizione e che ogni abitante del Ducato gli pagasse un tributo annuo di un soldo d'oro. In quell'occasione Astolfo non occupò territori, probabilmente per non assumere il ruolo di aggressore del papato, dato che almeno dal tempo di Zaccaria il Ducato romano era considerato dai papi come area di loro influenza diretta; cercò tuttavia di forzare gli abitanti e lo stesso papa a riconoscere la sua sovranità, forse offrendo al papato garanzie di onore e sicurezza, che S. non dovette considerare accettabili né certe. Egli insisté nel chiedere libertà e pace per il Ducato romano, inviando da Astolfo, nell'ottobre del 752, una nuova ambasciata costituita dagli abati di Montecassino e di S. Vincenzo al Volturno, monasteri siti in territorio longobardo, ma legati da stretti vincoli al papato. Il re rifiutò però ogni accordo, imponendo anzi ai due abati di tornare nei monasteri di appartenenza senza passare per Roma. È probabile che contemporaneamente S. invitasse l'imperatore bizantino Costantino V a riprendere l'iniziativa in Italia. Probabilmente nello stesso ottobre 752 giunse a Roma un alto funzionario della corte bizantina, il silenziario Giovanni, che da parte dell'imperatore incaricò il papa di ottenere da Astolfo la restituzione all'Impero delle province occupate. Il silenziario portava anche una lettera dello stesso tenore per Astolfo. S. lo mandò a Ravenna, dove Astolfo risiedeva, facendolo accompagnare dal fratello Paolo. Sembra che il re longobardo tentasse di accordarsi con l'inviato imperiale, forse a danno del papa; dopo la conquista egli aveva infatti stabilito intese con l'arcivescovo di Ravenna Sergio, che non vedeva di buon occhio la crescente influenza papale nella sua provincia ecclesiastica. Astolfo designò un suo fiduciario che avrebbe dovuto recarsi a Costantinopoli insieme al silenziario per trattare direttamente con l'imperatore. I legati del papa tornarono a Roma senza risultati, e S., avuta conferma della determinazione del re longobardo, inviò anch'egli messi a Costantinopoli, scongiurando l'imperatore di intervenire in Italia per liberare Roma e tutti i territori imperiali dall'invasore. Contemporaneamente gli chiedeva di ristabilire il culto delle immagini sacre, la cui abolizione, decretata dal padre di Costantino, Leone III, era da decenni causa di conflitto tra l'Impero e il papato. Intanto Astolfo, probabilmente preoccupato per le iniziative bizantine, intensificava la pressione su Roma e sul suo territorio, minacciando violenze se i Romani non gli si fossero sottomessi. Il castello di Ceccano a sud di Roma, abitato da coloni della Chiesa romana, venne occupato dai Longobardi. S. promosse grandi liturgie deprecatorie in Roma, portando in processione l'immagine acheropita del Salvatore, imponendo riti penitenziali alla popolazione e facendo celebrare tutti i sabati la litania nelle principali basiliche apostoliche, per impetrare la salvezza della provincia romana e dei suoi abitanti. Esortò inoltre il clero a perseverare nelle orazioni e nelle lezioni spirituali ed il popolo ad emendare i propri costumi. Inviava intanto ad Astolfo nuove ambasciate con ricchissimi doni chiedendo non solo la pace per gli abitanti del territorio romano, ma anche la liberazione delle popolazioni dell'Esarcato. Nei documenti redatti nel patriarchio lateranense, l'interessamento del papa per queste ultime non veniva però motivato con la rappresentanza degli interessi imperiali, ma, riprendendo spunti ideologici già espressi sotto il predecessore Zaccaria, come effetto di una sollecitudine pastorale per le pecorelle smarrite di un gregge specialmente affidato alle cure papali, che coincideva esattamente con le popolazioni di tutte le province bizantine dell'Italia centrale. Ciò dipendeva almeno in parte dalla constatazione che l'Impero non poteva più fronteggiare efficacemente l'espansione longobarda in Italia. Questa stessa convinzione indusse S. a cercare aiuto presso il re dei Franchi Pipino, che pochi anni prima era giunto al potere deponendo il sovrano merovingio Childerico III, con il consenso e l'avallo morale del papa Zaccaria. Agli inizi del 753, S. fece pervenire a Pipino la richiesta di mandare a Roma qualcuno che lo conducesse in Francia. Pipino spedì a Roma l'abate di Jumièges Droctegang per stabilire un contatto e forse avviare una trattativa. Giunto da poco al potere regale, egli doveva fare i conti con l'aristocrazia franca che probabilmente non vedeva di buon occhio il consolidamento di un'intesa fra il re e il papato, tanto più se essa si rivolgeva contro i Longobardi, fino a quel momento amici e alleati dei Franchi. S. rinviò il messo in Francia, accompagnato dal chierico romano Giovanni, con istruzioni verbali e con due lettere, indirizzate una a Pipino, per invitarlo a perseverare nelle sue buone disposizioni, l'altra ai "duchi" dei Franchi, cioè ai capi militari e politici del popolo franco, per esortarli a collaborare con Pipino nella difesa della "utilitas" di s. Pietro, illustrando i grandi vantaggi spirituali che avrebbero tratto dalla protezione dell'apostolo che custodiva le chiavi dei cieli. A seguito di questa missione, Pipino spedì a Roma il vescovo Chrodegang di Metz ed il duca Autchar, con l'incarico di condurre il papa in Francia. Era intanto tornato a Roma il silenziario imperiale Giovanni, con i messi che il papa aveva inviato a Costantinopoli e con l'ambasciatore dello stesso re Astolfo; essi portavano a S. l'ordine di recarsi dal re longobardo per ricevere la riconsegna di Ravenna e delle altre città dell'Esarcato; evidentemente l'imperatore considerava ancora il papa come rappresentante degli interessi bizantini in Italia. Quando dunque gli inviati di Pipino giunsero a Roma, trovarono che il papa aveva già ricevuto un salvacondotto dal re longobardo e si accingeva a recarsi da lui, "per recuperare tutte le pecorelle smarrite". Il 14 ottobre 753, S. lasciò Roma per Pavia, capitale del Regno longobardo, accompagnato da alcuni esponenti del clero e della nobiltà militare romani, dal silenziario imperiale e dagli inviati franchi di Pipino. Astolfo gli fece pervenire l'ingiunzione di non intavolare discussioni riguardanti Ravenna e le altre terre imperiali già occupate dai Longobardi; evidentemente egli era disposto a trattare solo per il territorio romano. S. eseguì egualmente il mandato imperiale, ma furono inutili tanto le sue richieste quanto quelle presentate dal silenziario Giovanni. I messi di Pipino chiesero allora ad Astolfo di consentire che il papa proseguisse il viaggio verso la Francia. Sembra che il re fosse sorpreso dalla richiesta. Cercò di indurre in ogni modo S. a rinunziare, ma questi confermò in presenza dei legati franchi l'intenzione di recarsi da Pipino a meno che non fosse stato trattenuto da Astolfo, il quale dovette lasciarlo andare. Il papa partì per la Francia il 15 novembre 753, accompagnato da un piccolo gruppo di ecclesiastici e funzionari romani; valicate in fretta le Alpi per sfuggire alle insidie di Astolfo, riparò nel monastero di St-Maurice nel Vallese, dove fu raggiunto da altri inviati di Pipino, l'abate Fulrado di St-Denis ed il duca Rothard, che lo accompagnarono a Ponthion, dove giunse il 6 gennaio 754, accolto con grande solennità da Pipino con la famiglia e la corte. S. non perse tempo nel manifestare lo scopo del viaggio. Secondo una cronaca franca, il giorno dopo il suo arrivo si presentò al re indossando il cilicio, col capo cosparso di cenere, e gettandosi a terra chiese al re e ai Franchi aiuto contro Astolfo e i Longobardi, né si alzò finché non venne sollevato dal re, dai suoi figli e da alcuni grandi della corte. È comunque difficile determinare che cosa esattamente il papa volesse ottenere dai Franchi. Secondo un'altra cronaca franca, S. avrebbe semplicemente chiesto di essere liberato dalla persecuzione di Astolfo e dai tributi che questi estorceva illegalmente ai Romani. La biografia papale, che presenta l'incontro tra S. e la corte in modo assai più dignitoso, accredita piuttosto una richiesta fatta a Pipino di promuovere accordi di pace che regolassero e salvaguardassero gli interessi "di san Pietro e dello stato romano" senza però ulteriormente specificare in cosa tali accordi consistessero. D'altra parte Pipino doveva agire con prudenza, non essendo sicuro del consenso dei Franchi. Durante l'inverno, mentre S. soggiornava nel monastero di St-Denis presso Parigi, debilitato dal viaggio e dai rigori del clima, Pipino inviò alcune ambasciate ad Astolfo per chiedergli di desistere dall'opprimere il papa e i Romani e di fare alcune cessioni territoriali per le quali offriva un risarcimento monetario. Non ebbe però successo; anzi Astolfo mandò in Francia il fratello di Pipino, Carlomanno, che pochi anni prima si era fatto monaco a Montecassino, con l'incarico di vanificare gli accordi tra S. e Pipino, forse influenzando i grandi franchi ancora riluttanti a soccorrere militarmente il papa contro i Longobardi. Probabilmente quest'iniziativa ebbe però l'effetto opposto di decidere Pipino all'intervento. Egli arrestò il fratello e, col consenso del papa, lo rinchiuse in un monastero a Vienne. Il 1° marzo 754 nell'assemblea annuale dell'esercito franco, a Berny, cercò di ottenere il consenso alla spedizione in Italia. Il 14 aprile 754 S., ormai ristabilito, incontrò nuovamente Pipino a Quierzy-sur-Oise, durante le festività di Pasqua, e ricevette dal re, dai suoi figli e dai grandi franchi la promessa dell'intervento militare contro Astolfo, probabilmente insieme all'impegno di riorganizzare l'assetto politico dell'Italia. In realtà, neanche di questa promessa sono noti i termini. Il biografo papale ne tace completamente. Solo nella più tarda biografia del papa Adriano I si dice che Pipino avrebbe promesso di consegnare al papa tutti i territori italiani a sud di una linea che correva da Luni, alla foce della Magra, fino a Monselice, comprese le Venezie, la Corsica e i Ducati longobardi di Spoleto e Benevento. Sebbene alcuni studiosi abbiano dato credito a questa notizia, essa appare in contrasto con la situazione politica del 754 e con quanto realmente accadde in seguito alle spedizioni di Pipino in Italia. Dati gli orientamenti della nobiltà franca, è poco probabile che Pipino progettasse di mutilare gravemente il Regno longobardo, riducendolo alla sola pianura padana a nord del Po; la materia del contendere tra S. e i Longobardi erano le province bizantine dell'Italia centrale, e in effetti ad esse si limitarono le disposizioni prese da Pipino dopo la vittoria. Diversa sarebbe stata la situazione al tempo di Adriano I, quando il figlio di Pipino, Carlomagno, abolì effettivamente la sovranità longobarda in Italia, rendendo così possibile un sovvertimento radicale dei quadri politici all'interno della penisola; del resto tale sovvertimento non ebbe luogo nemmeno al tempo di Carlomagno. È perciò probabile che la notizia sulla promessa di Quierzy contenuta nella vita di Adriano I sia prodotto di una mistificazione tentata da quel papa a danno di Carlomagno; ciò spiegherebbe anche la scomparsa del documento originale degli accordi di Quierzy, che al tempo di questo papa era conservato nell'archivio lateranense, ed anche la soppressione di ogni riferimento al suo contenuto nella biografia di Stefano. A giudicare dal racconto delle fonti coeve, sembra probabile che l'accordo di Quierzy prevedesse che i Franchi avrebbero fatto una spedizione militare in Italia per liberare il vicario di s. Pietro e le popolazioni a lui specialmente affidate dalla persecuzione dell'iniquo re longobardo e far sì che recuperassero "quello che era giusto". Le terre già bizantine, occupate dai Longobardi, non sarebbero state dunque restituite all'Impero, ma cedute a s. Pietro e per lui al papa, che da tempo esercitava la tutela sui loro abitanti e aveva già dimostrato di saperli difendere con le risorse dello zelo pastorale e dell'iniziativa politica. Da parte papale veniva intanto elaborata una dottrina, tanto audace quanto ambigua nella concezione e nei termini, circa la condizione giuridica delle terre che dovevano essere "restituite" a s. Pietro: esse non sarebbero divenute semplicemente una proprietà della Chiesa romana, ma avrebbero conservato fisionomia di "respublica", cioè di organismo statale, nella tradizione imperiale. Però non avrebbero più fatto parte dell'Impero bizantino, cui erano state tolte, ma di una nuova realtà istituzionale, una "respublica Romanorum" che avrebbe avuto il suo centro nella città di Roma e sarebbe stata soggetta alla tutela religiosa e politica del papa. Entro certi limiti, questa formulazione poteva assicurare legittimità al concetto di "restituzione", in quanto il papa appariva agire in difesa di una distinta entità istituzionale, subentrata all'Impero bizantino, ma almeno in parte affine ad esso. D'altra parte la nuova "respublica Romanorum" avrebbe costituito un'area di autonomia territoriale per la Chiesa romana e per il papato, che sarebbe stato così al sicuro dai Longobardi e dallo stesso Impero, in cui l'imperatore Costantino V stava rilanciando con determinazione l'iconoclastia, forse proprio in risposta alle spregiudicate iniziative diplomatiche di Stefano II. Entro certi limiti, la formula della "respublica Romanorum" poteva anche venire incontro alle perplessità dei Franchi, che sapevano bene che le terre rivendicate dal papa non appartenevano alla Chiesa romana, ma alla "respublica", come era chiamato l'Impero bizantino. Per consolidare il quadro politico e istituzionale, S. si preoccupò di attribuire a Pipino e ai suoi figli una speciale autorità nella "respublica Romanorum", una funzione di patronato e di protezione espressa nel titolo di "patrizi dei romani" che egli conferì a Pipino ed ai suoi figli. Anche questo titolo si rifaceva alla tradizione dell'Impero, adattandola. Il rango di "patrizio" era infatti riservato ai più alti funzionari imperiali, tra cui lo stesso esarca d'Italia, ma non veniva conferito dai papi e non prevedeva la specificazione "dei romani". Grazie a questa invece, la dignità attribuita ai re franchi venne da S. strettamente collegata alla nuova "respublica Romanorum" che egli andava configurando. Gli accordi raggiunti furono sanzionati il 28 luglio 754 nel monastero di St-Denis, dove S. conferì a Pipino e ai suoi due figli l'unzione regia, ripetendo e confermando con l'autorità papale la consacrazione che già nel 751 era stata impartita a Pipino dall'arcivescovo Bonifacio; vietò inoltre che per l'avvenire i Franchi eleggessero re che non fossero discendenti di Pipino. Con quest'ultimo strinse un legame di "comparaggio", motivato da un'adozione dei figli del re, che così divennero anche suoi figli spirituali, mentre Pipino condivideva col papa il ruolo di padre. Tutta la famiglia del re godette da allora di una speciale vicinanza al papa, espressa anche nelle preghiere liturgiche. In quella occasione, probabilmente S. aveva conferito a Pipino e figli il titolo di "patrizi dei romani". Negli accordi dovettero rientrare anche aspetti legati all'organizzazione della Chiesa in Gallia, giacché S. durante il soggiorno in Francia ordinò arcivescovo Chrodegang di Metz, conferendogli il pallio. Con ciò un collaboratore fidato del re acquistava l'autorità di conferire l'unzione ai vescovi della sua provincia ecclesiastica, e diveniva un fondamentale elemento di controllo del processo di riorganizzazione ecclesiastica in quel Regno, in luogo di Bonifacio, morto da poco. Nella tarda estate del 754 Pipino mosse finalmente con l'esercito contro i Longobardi, accompagnato dal papa, che inviò un ultimo messaggio ad Astolfo, esortandolo, ancora una volta inutilmente, a venire a patti per evitare spargimento di sangue. L'esercito longobardo schierato alle Chiuse di Susa fu sbaragliato senza difficoltà da Pipino, che si spinse fino a Pavia, dove Astolfo si era rinchiuso, e dopo un breve assedio ottenne la resa del re. Pipino si limitò peraltro ad imporre ad Astolfo un patto di pace tra Longobardi, Franchi e papato, impegnandolo a desistere dalle aggressioni al papato, a consegnare ostaggi e pagare un tributo ai Franchi e a cedere al papa Ravenna ed altri territori di cui non si conosce l'elenco. Di essi Pipino fece formale donazione a s. Pietro, il che introduce un ulteriore elemento di complicazione nel problema del trasferimento al papato delle terre già bizantine, in quanto lascia intravedere una intermediazione franca nel passaggio della sovranità. Per comprendere la complessità della situazione giuridica e politica, si può ancora osservare che la principale fonte franca su questi avvenimenti non parla della cessione di città, ma solo della sottomissione di Astolfo ai Franchi e dell'impegno da lui assunto di riparare le ingiustizie che aveva compiuto contro la Chiesa romana. Sembra inoltre che l'esecuzione delle cessioni territoriali venisse rimessa alla buona fede del re longobardo, giacché Pipino tornò rapidamente in Francia portando con sé ostaggi longobardi, mentre S. veniva accompagnato a Roma dall'abate Fulrado di St-Denis e dal cognato di Pipino, Gerolamo, probabilmente incaricati di sorvegliare l'operato di Astolfo. Ma questi non diede corso alle restituzioni promesse, e anzi assunse nuovamente atteggiamenti minacciosi nei confronti del papa. Già alla fine del 755 S. denunciava il suo comportamento a Pipino, affidando un resoconto dettagliato della situazione al messo franco Warneharius che faceva ritorno in Francia, e chiedendogli di costringere Astolfo a dare effetto a quanto aveva giurato. Il papa faceva riferimento agli impegni assunti da Pipino direttamente con s. Pietro e rievocava le grandi sofferenze che lui stesso aveva patito per recarsi in Francia, per il momento senza risultati. Agli inizi del gennaio 756, Astolfo mosse con l'esercito contro Roma assediandola, con l'intento di conquistarla e di costringere il papa a sottomettersi. S. inviò allora una serie di drammatiche lettere a Pipino, ai suoi figli e a tutti i grandi laici ed ecclesiastici del Regno dei Franchi, denunciando il gravissimo pericolo in cui si trovava, mentre il suo avversario sembrava aver perso ogni rispetto religioso, tanto da devastare le tombe dei martiri che si trovavano nel suburbio di Roma. Per persuadere meglio i Franchi, una delle lettere venne scritta in nome dello stesso apostolo Pietro, che rivolgendosi ai re, ai grandi ed al popolo franco, come a suoi figli adottivi, chiedeva loro di liberare il confratello popolo romano, ricordando di avergli affidato, per la loro speciale devozione, la protezione della sua Chiesa. Le lettere dovettero essere mandate per mare, poiché Astolfo sbarrava le vie di terra. Pipino preparò dunque una nuova spedizione, questa volta senza problemi interni, perché lo spergiuro di Astolfo violava l'impegno assunto coi Franchi. La campagna ebbe luogo nel maggio del 756, con andamento simile alla precedente: rotto l'esercito longobardo alle Chiuse di Susa, Pipino tornò ad assediare Pavia, ottenendo di nuovo la resa di Astolfo, che fu costretto a rinnovare gli impegni già assunti, a condizioni più pesanti. Dovette infatti consegnare a Pipino un terzo del tesoro reale, accettare che fosse ripristinato il tributo annuo che in passato i Longobardi avevano pagato ai Franchi; vennero inoltre prese misure perché le cessioni territoriali al papato avvenissero effettivamente. Rientrando in Francia, Pipino incaricò infatti l'abate Fulrado di St-Denis di ricevere dai rappresentanti del re longobardo le chiavi di tutte le città dell'Esarcato e della Pentapoli per depositarle nella confessione di s. Pietro, insieme ad un nuovo documento con cui egli faceva donazione perpetua di esse alla Chiesa romana. In totale, oltre Ravenna, furono consegnate alla Chiesa ventuno tra città e castelli con i loro territori, compresa Narni, invasa precedentemente dagli Spoletini. Non è chiaro se con ciò venissero realmente dati al papato l'Esarcato e la Pentapoli nella loro integrità territoriale. Anche questo documento di Pipino è scomparso; il biografo papale, pur affermando che esso era conservato negli archivi della Chiesa romana, non ne riporta il testo, né di esso si hanno altre notizie. È probabile che la donazione non corrispondesse del tutto alle attese oramai ben consapevoli del papato e venisse perciò fatta sparire in seguito; è un fatto che già agli inizi dell'anno seguente S. sollecitava ulteriori cessioni. Comunque questa volta Pipino aveva preso definitivamente partito sul problema della sovranità sulle terre già bizantine. Durante il secondo assedio di Pavia, era stato infatti raggiunto da un ambasciatore dell'imperatore bizantino, il "protoasecretis" Giorgio, che gli aveva chiesto di restituire all'Impero le province che avrebbe tolto ai Longobardi, secondo quella che era la concezione più ovvia di "restituzione". Pipino avrebbe però allora dichiarato che intendeva liberare città e territori solo per devozione di s. Pietro e che li avrebbe dunque consegnati alla Chiesa romana. S. poté così celebrare uno straordinario successo: non solo aveva ottenuto l'affrancamento della Chiesa e della città di Roma dalle minacce di Astolfo, ma aveva portato sotto il dominio del papato un vasto complesso di territori, organizzati in forma statale, su cui il papato poteva esercitare piena autorità politica e istituzionale, sotto la protezione dei Franchi, mentre l'Impero bizantino veniva sostanzialmente eliminato dall'Italia, dove conservava solo la Sicilia e parti della Calabria, Puglia e Campania. Il successo venne consolidato dalla morte di Astolfo, avvenuta agli inizi del 757. S. poté inserirsi vantaggiosamente nel conflitto per la successione tra Ratchis - fratello di Astolfo che già era stato re prima di lui, ma aveva abdicato - e Desiderio, capo militare insediato da Astolfo in Toscana, forse con i poteri di duca. Desiderio chiese l'aiuto del papa promettendo di riconoscere l'autorità papale e di cedere alla Chiesa di Roma altre città e territori emiliani che erano stati annessi al Regno al tempo del re Liutprando. S. spedì un suo messo a Pavia per indurre Ratchis a rinunciare al Regno; intanto informava Pipino della situazione e gli presentava Desiderio in una luce favorevole. In quelle circostanze il papa si aspettava perfino di ricevere un giuramento di sottomissione a s. Pietro e ai Franchi da parte dei duchi longobardi di Spoleto e di Benevento. Effettivamente Desiderio, eletto re nel marzo 757, cedette al papa Faenza, Gavello e il Ducato di Ferrara. Tuttavia la nuova situazione determinata dai poteri di governo acquistati dal papato creò difficoltà politiche sia nell'Esarcato che nella stessa Roma. Per amministrare l'Esarcato, S. aveva inviato a Ravenna un presbitero e un duca romani, ma ciò suscitò l'opposizione dell'arcivescovo di Ravenna, Sergio, e della nobiltà cittadina. S. convocò i Ravennati a Roma e li imprigionò, trattenendo anche l'arcivescovo. L'Impero bizantino continuava intanto a fare pressioni su Pipino perché favorisse il ristabilimento della propria sovranità in Italia. Quando poi, agli inizi del 757, S. si ammalò e giunse in punto di morte, la popolazione romana si divise sulla successione, tra i sostenitori dell'arcidiacono Teofilatto, che secondo la prassi era il più probabile candidato alla successione, e un partito di cui faceva parte un buon numero di "iudices", ossia di funzionari laici ed ecclesiastici, che sostenevano la successione dello stesso fratello del papa, il diacono Paolo, che aveva svolto importanti funzioni diplomatiche sotto il fratello. S. morì il 26 aprile 757 e fu sepolto in S. Pietro. Date le gravissime preoccupazioni che contrassegnarono il suo breve pontificato, questo papa non poté sviluppare una consistente attività edilizia nella città di Roma. Tuttavia riordinò alcuni senodochi, o ospedali, destinati all'assistenza dei pellegrini e degli indigenti, e ne istituì di nuovi. Fece inoltre trasformare un antico mausoleo imperiale che si trovava vicino a S. Pietro in chiesa dedicata a s. Petronilla, supposta figlia di s. Pietro, per la quale Pipino nutriva una speciale devozione. La fondazione divenne una specie di chiesa familiare dei re franchi in Roma, soprattutto dopo che il successore di S., Paolo I, vi fece depositare le reliquie della santa. Fonti e Bibl.: Le Liber pontificalis, a cura di L. Duchesne, I, Paris 1955², pp. 440-56; Regesta Pontificum Romanorum, a cura di Ph. Jaffé-G. Wattenbach-S. Loewenfeld-F. Kaltenbrunner-P. Ewald, I, Lipsiae 1885, pp. 271-77; le lettere sono edite in Codex Carolinus, nrr. 4-11, a cura di W. Gundlach, in Epistolae Merowingici et Karolini aevi tom. I, in M.G.H., Epistolae, III, a cura di W. Gundlach-E. Dümmler, 1892, pp. 487-507; Fredegarii Continuatio, cc. 36-9, in M.G.H., Scriptores rerum Merovingicarum, II, a cura di B. Krusch, 1888, pp. 183-86; Chronicon Moissiacense, a. 741, ibid., Scriptores, I, a cura di G.H. Pertz, 1826, p. 293; Agnello, Liber pontificalis ecclesiae Ravennatis, cc. 155-59, ibid., Scriptores rerum Langobardicarum et Italicarum saec. 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